sabato 21 settembre 2013

"Di cosa parliamo" con Giorgia del Mese





Giorgia del Mese l'abbiamo scoperta tre anni fa grazie alla sua partecipazione al progetto discografico "La leva cantautorale degli anni Zero", doppio album, promosso da Club Tenco e Mei, che ha raccolto brani inediti di giovani cantautori degli anni 2000, sotto etichetta AlaBianca Records. L'anno dopo, nel 2011, Giorgia del Mese si è presentata al grande pubblico con il suo primo disco, intitolato "Sto bene", che le è valso l'invito al Premio Tenco. Pochi giorni fa, precisamente il 16 settembre, la cantautrice di origine salernitana ma fiorentina di adozione, è tornata a far parlare di sé con l'album "Di cosa parliamo". La voce energica, la scrittura incisiva e i testi carichi di pathos mettono in luce le indiscusse qualità di questa artista. Le dieci tracce dell'album catturano l'attenzione riuscendo ad appassionare sia nei momenti delicati che in quelli più rock e decisi. 
Un gran bel disco, impreziosito dalle collaborazioni con artisti protagonisti della scena indipendente italiana come Paolo Benvegnù, che ha duettato con lei nel brano "Imprescindibili" che chiude il disco, come Alessio Lega e Fausto Mesolella degli Avion Travel in "Agosto", come Alberto Mariotto di King of the Opera in "Stanchi" che apre l'album. Il disco è prodotto da Andrea Franchi, già al fianco di Benvegnù, Marco Parente e Alessandro Fiori.
A pochi giorni dall'uscita del disco, abbiamo parlato con Giorgia che ci ha raccontato come è nato "Di cosa parliamo".




Per il tuo secondo disco ti sei fatta aiutare dai tuoi fans. La raccolta fondi attraverso Musicraiser ha dato ottimi frutti superando la cifra che avevi fissato. Pensi che per i musicisti emergenti sia la soluzione migliore per poter produrre dischi?

«Sì, credo sia una possibilità, almeno per iniziare ad avviare la produzione. Inoltre ti permette di avere la restituzione dell'approvazione e dell'appoggio dei tuoi fan, ma questa è una parola assurda per una come me». 

Se non avessi raggiunto la cifre fissata avresti comunque inciso il disco?

«In qualche modo sicuramente, con grossi investimenti e sacrifici economici ma quando fare un disco diventa una priorità tutto il resto va in vacanza, tranne tu che l'hai fatto». 

In "Di cosa parliamo" hai collaborato con Paolo Benvegnù, Alessio Lega, Alberto Mariotti, Fausto Mesolella. Cosa hanno apportato al disco?

«Ho sempre avuto la voglia e la necessità di confrontarmi con altri musicisti, un po' per insicurezza e un po' per professionalizzare maggiormente il lavoro. Anche nel primo disco, "Sto bene", è stato così: uno su tutti Bruno Mariani, che è il produttore di Bersani e Carboni. Per quanto riguarda gli ospiti del nuovo disco posso dire che con alcuni ho avuto un innamoramento artistico: ci siamo conosciuti in giro, ho fatto ascoltare loro i miei provini, mi sono messa una bella faccia tosta e sono nati dei regali bellissimi. Avere questi nomi nel disco mi ha riempito di orgoglio e li ho ringraziati da fan più che da collaboratrice». 

Voce energica e dal registro basso che dà un tocco molto più rock rispetto al tuo primo lavoro, non credi?

«Sì, è stata una scelta artistica nata anche dal confronto avuto con Paolo Benvegnù. E mi riconosco molto in questo registro». 

Mi pare di scorgere in questo disco una tua urgenza di comunicare. È così?

«È un disco che nella scrittura è nato in pochissimi mesi. Non abbiamo dovuto fare una scelta perché non c'erano altri brani all'infuori di quelli poi pubblicati ma ero sicura di volermi mettere alla prova con questa sintesi». 

C'è un messaggio di fondo che lega le canzoni di questo disco?

«Questo è quasi un concept-album, molto semplicemente il funerale di un modo di essere di sinistra che prevedeva dei punti fermi: l'antimilitarismo, la solidarietà sociale, l'antirazzismo, il rigore, la serietà. Tutti riferimenti ideologici dai quali ci si è disinvoltamente licenziati smettendo di essere persone serie». 

Quanto c'è di autobiografico nelle canzoni di questo tuo ultimo lavoro?

«Tutto è autobiografico ma non autoreferenziale e solipsistico. La capacità di generalizzare e di rendere un pensiero personale condivisibile è per me una priorità, altrimenti si diventa noiosi, ci si lamenta, si scrive d'amore in modo retorico, si perde il senso del contesto». 

Nel disco riproponi "Spengo", brano che, seppur in versione differente, era stato pubblicato nella raccolta "La leva cantautorale degli anni Zero". Perché hai voluto dare nuova giovinezza a questa canzone?

«Perché quando l'ho inserito nella leva cantautorale era un brano ancora troppo giovane. Con un po' di anni in più e con la produzione fantastica di Andrea Franchi è diventata matura». 

Cosa hai voluto rappresentare con la copertina?

«Sembra ermetica e la grafica di Simone Vassallo è bellissima, ma la spiegazione è essenziale e quasi scolastica: il fondo nero della decadenza con un papavero rosso che è la rivolta, il cambiamento, la rinascita-rivoluzione». 

Secondo te cosa è rimasto della Leva cantautorale degli anni Zero?

«Abbastanza, a parte i nomi contenuti nella compilation. L'intento importante era dare dignità e luce a un cantautorato emergente che è ricchissimo, a volte esageratamente, però in alcuni casi valido, in altri veramente interessantissimo». 

Quali sono le tue fonti di ispirazione?

«Gli "anziani", Bennato, De Gregori, e poi Silvestri, Carboni, e i gruppi anni '90 come Marlene Kuntz, Almamegretta, Csi». 

Giorgia, negli ultimi anni è mancata sulla scena un cantante in grado di afferrare il testimone di artiste sbocciate negli anni novanta come Cristina Donà o Carmen Consoli. Ti senti pronta?

«Ma no! Primo perché peccherei di una presunzione senza assoluzione, e poi perché gli anni novanta erano diversi. Ora c'è una costellazione di realtà artistiche anche importanti che però si muovono in uno spazio molto più ristretto. Però grazie per avermelo chiesto!». 

Nel 2011 hai partecipato al Premio Tenco. Cosa pensi della rassegna sanremese che da alcuni anni si dibatte tra seri problemi economici, tentativi di espatrio e cambi di sede?

«Il Premio Tenco è ed è stato la meta più ambita per ogni cantautore, chi lo snobba è perché è incazzato per non essere stato invitato! Detto questo non sempre il cast è rappresentativo di quello che si agita sulla scena contemporanea. Però resta un punto di riferimento e io sono molto grata al Club Tenco, in particolare a Enrico de Angelis che mi ha seguita e sostenuta fin dagli esordi».


Titolo: Di cosa parliamo
Artista: Giorgia del Mese
Etichetta: Radici Music
Anno di pubblicazione: 2013




mercoledì 11 settembre 2013

Bobo Rondelli, "A famous local singer"





Livornese, istrionico, irriverente, cantante appassionato e un po' "cialtrone", nonché straordinario imitatore di voci e performer coinvolgente. Bobo Rondelli è tutto questo, dall'esordio negli anni Novanta con il trio Les Bijoux, ai primi successi con l'Ottavo Padiglione, fino all'inizio della carriera solista nel decennio successivo e l'esperienza nel cinema. Un percorso artistico mai scontato che ha visto Rondelli collaborare con Stefano Bollani, Dennis Bovell e Filippo Gatti in ambito musicale, con Paolo Virzì sul grande schermo. L'ultima fatica discografica, l'album "A famous local singer", è un poetico progetto brass&roll prodotto da Patrick Dillett (già produttore di David Byrne e St. Vincent, e collaboratore tra gli altri di Brian Eno, The National, Glen Hansard) e nato dall'incontro con l'Orchestrino (Dimitri Grechi Espinoza sax tenore e sax alto, Filippo Ceccarini tromba, Beppe Scardino sax baritono, Tony Cattano trombone, Daniele Paoletti e Simone Padovani percussioni,
 Fabio Marchiori tastiere), potente e coinvolgente marching band che lo accompagna nella rilettura dei classici della sua produzione e nella presentazione dei brani nuovi dell'ultimo album e di imperdibili cover. Un incontro scanzonato tra blues, jazz, swing e ritmi afro-cubani che non fa restare indifferente l'ascoltatore.
Abbiamo incontrato Bobo e ci ha spiegato come si fa a essere un "famous local singer".



Da cantautore malinconico a compagno di strada dell'Orchestrino. Una bella trasformazione artistica, non credi?

«La musica è un viaggio, un itinerario. Per me il senso è sempre stato questo: ho fatto dischi diversi a seconda degli incontri. Per esempio, con Bollani ho puntato su sonorità più jazzistiche, con Dennis Bovell sul reggae, con Filippo Gatti su uno stile più intimista e malinconico, come hai detto tu. Con l'Orchestrino c'è stata la voglia e l'intenzione di scendere in strada. È un gruppo che può suonare senza elettricità essendo formato da fiati e percussioni e quindi, anche per andare incontro alla crisi, si trova sempre il modo di esibirsi, quasi fossimo una band di New Orleans».

Hai lasciato da parte le canzoni più introspettive per puntare deciso sul divertimento. Vista la situazione politica ed economica, pensi che sia la ricetta giusta per ridare il sorriso al tuo pubblico in questi tempi bui?

«Oltre al sorriso e al divertimento mettiamoci anche un po' di ballo e di espressività del corpo. Ci può essere un po' tutto questo e soprattutto la voglia di fare baldoria. È un progetto che nasce suonando per strada e lo spettatore è anche quello che passa per caso. Può succedere che la sua vita cambi sentendoci suonare. Un ragazzino che passa e vede suonare un sax, un trombone e un tamburo può essere stimolato a suonare a sua volta, ad avvicinarsi alla musica. Suonare porta le persone ad approfondire la conoscenza della propria anima e a non vivere di cose materiali. La musica stimola a una rivoluzione interiore e comunque chi vive di parole e di musica non si metterà mai con il fucile dalla parte di chi spara».

Perché l'idea di ripescare alcuni classici di Celentano? Ti vedrei bene nel Clan…

«Nel Clan penso ci fosse questo bello spirito di condivisione, unito da questo rock'n'roll. "24.000 baci" ha una forza tutta sua, ci sono quei quattro 'ye ye', superiori secondo me a quelli dei Beatles. Poi noi l'abbiamo fatta con questo sapore un po' balcanico, ispirati dal film di Kusturica. L'idea era quella di far cantare a un ragazzo dell'est "24.000 baci". L'altra, "Bimbo sul leone", è proprio una bella canzone, un pezzo tipo Mission Impossible, uno 007, sembra quasi un'Arca di Noè che si svolge in cielo invece che in mare».

Da dove nasce il titolo "A famous local singer"?

«Un po' di anni fa ho scritto una canzone su un orso, Gigi Balla, chiuso in un gabbia dello zoo di Livorno. Ne ho fatto un quadro malinconico, poetico. Successivamente, passando davanti allo zoo ho notato che avevano messo un cartello, di quelli turistici, con scritto in italiano ‹il famoso cantautore Bobo Rondelli che ha cantato la storia dell'orso Gigi Balla...›, in inglese io sono diventato "A famous local singer" e l'orso "A famous local bear". Fa ridere, è una frase bella perché ambigua: sono un famoso cantante del luogo o un cantante famoso del luogo? Ecco, penso più a quest'ultima: sono un cantante famoso del luogo».

La soglia dei 50 anni è stata superata. Cosa possiamo aspettarci da Bobo Rondelli nei prossimi anni?

«Non lo so, non mi pongo la questione dello scorrere del tempo. Probabilmente si tende a essere più riflessivi, spero meno vanitosi... spero che la vanità sia un passaggio, un andare oltre, un cercare di sparire dentro la vita. Ti posso dire una frase che da cinquantenne ho scritto l'altro giorno e che dice: ‹il tempo che mi resta voglio morirmelo come mi pare e piace›. Voglio morirmelo non viverlo perché vivere è presuntuoso, ogni attimo si muore e dopo cinquant'anni c'è questa bella accettazione di morire il momento. Vivere alla giornata, vivere i progetti, quello che dovevi fare l'hai fatto, puoi solo regalare, far del bene con la tua esperienza e saggezza. Sicuramente c'è anche più spiritualità perché avvicinandosi la fine effettivamente il morire fa più paura».

Ritmi klezmer, una sapiente fusione tra jazz e blues. Ritmi alla Bo Diddley in "Il cielo è di tutti", chi ha contribuito a questo mix esplosivo?

«A contribuire è stato il gruppo stesso, l'Orchestrino. Sono jazzisti che sanno suonare in mezzo alla gente e hanno la capacità di intrattenere mantenendo alta la qualità. Nel disco c'è un po' di tutto, non ci siamo posti il problema del genere. È più un sound quasi da balera, c'è anche un pezzo cubano».

Non mancano le canzoni goliardiche e irriverenti come "Puccio Sterza"…

«È un rock'n'roll sulla storia di un incidente automobilistico stradale e sessuale. In città c'è questa scritta, 'Puccio sterza', che viene regolarmente cancellata ma che con il tempo ricompare. Probabilmente questo Puccio picchiò con l'auto contro il muro e così nella canzone ho pensato che fosse uno che andava a cercare incontri notturni ed essendo uno importante provano sempre a cancellare il nome. Magari è un commissario, non si sa, qualcuno di importante, un politico».

"Che gran fregatura è l'amor" è il titolo di un'altra canzone del disco. È la tua idea dell'amore?

«Alle volte sì, dipende. Sai sull'amore ne parliamo in continuazione, una volta dici una cosa poi la rinneghi il giorno dopo. A volte, in modo volgare, gli uomini dicono che le donne sono tutte troie e così anche le donne dicono che gli uomini sono tutti stronzi e bastardi. Dipende dal momento, però più che l'amore dovrei dire che gran fregatura è l'infatuazione. Poi l'amore va sempre rinnovato, l'amore non è uno scherzo di uno che vive la vita in modo dannunziano. La canzone è un po' uno scherzo, cantata con la voce impostata che ricorda un po' gli anni '30 e che, a un certo punto, recita ‹...che palle stare insieme a te...›. È un gioco surreale di epoche sbagliate, con parole ed espressioni che non si sentivano in quegli anni».

Recentemente hai suonato al Campeggio Resistente a Valloriate a Cuneo. Resistere è l'unica soluzione che ci è concessa?

«A sentire questo Papa, che francamente non mi dispiace, bisogna resistere alle tentazioni di possedere troppo, più del dovuto per certi, resistere per arrivare a fine mese, resistere dal vivere una vita troppo finta comandata da computer, internet, facebook. Bisogna riappropriarsi invece dello stare insieme, resistere meno e vivere di più. La parola resistere sembra un non vivere, un doversi sempre difendere. Bisogna incontrare persone più vere, a cominciare dagli anziani, perché solo così si può resistere al pericolo della lobotomia a cui siamo sottoposti per vivere».

Bobo, tu sei di Livorno come Piero Ciampi. Qual è il tuo rapporto con questo grande e indimenticato artista?

«Ciampi cantava le sensazioni e le emozioni allo stato puro. Le sue canzoni arrivavano a tutti, con tutto il suo dolore, senza nessun pudore. Raccontava tutto il dolore che toglie la vita ma nella sua disperazione ci sono dei momenti sublimi sia musicali che di parole. È stato un coraggioso, un poeta che si raccontava. Insomma un Don Chisciotte della canzone italiana ed europea, molto vicino forse ai francesi, però anche a Modugno per certi aspetti e per la cantabilità molto fresca di certe sue canzoni».

Che rapporto hai con la musica tradizionale italiana?

«Francamente non ho molti rapporti, a volte mi vergogno a dirlo, ma sono più un rockettaro, sono un Beatles maniaco. Poi Rolling Stones, più, certo, la canzone italiana con Celentano, Modugno che è stato l'artista più potente che l'Italia abbia avuto in quegli anni. Molto vicino alla musica tradizionale, anche con il suo modo di cantare che deriva dai venditori del mercato mischiato alla lingua italiana».

Sono convinto che l'attuale tour possa essere accolto molto bene anche oltre confine. C'è qualche progetto in piedi?

«C'è qualche richiesta che stiamo valutando. In Inghilterra potrebbe funzionare, staremo a vedere. Se capiterà bene, altrimenti nessun problema».

Qual è stato il tuo ultimo impegno nel mondo del cinema?

«Serviva la voce di Marcello Mastroianni in un film di Scola sulla storia di Fellini. E così: ‹Ogni volta che c'è bisogno di lui, tu capisci, mi chiamano per questo lavoro ormai sporco per me, finirò per diventare lui quindi se mi chiamate, per favore chiamatemi Marcello...›. Ho stretto la mano a Scola, non male, no?»


Titolo: A famous local singer
Artista: Bobo Rondelli e l'Orchestrino
Produttore: Patrick Dillett
Etichetta: Ponderosa
Anno di pubblicazione: 2013

Tracce
(testi e musiche di Bobo Rondelli, eccetto dove diversamente indicato)

01. Bimbo sul leone  [Santercole/De Luca/BerettaDel Prete]
02. Il cielo è di tutti  [Rondelli/Rodari]
03. Il palloso
04. La marmellata  [Rondelli/Marchiori/Rondelli]
05. Cuba lacrime
06. 24.000 baci  [Leoni/Celentano/Vivarelli/Fulci]
07. Puccio sterza
08. Settimo round
09. Bambina mia
10. Bobagi's blues
11. Prendimi l'anima
12. Che gran fregatura è l'amor
13. Il paradiso




lunedì 2 settembre 2013

The Cyborgs alla corte di Springsteen






Vengono dal futuro ma hanno i piedi ben saldi nella tradizione del blues. Sono The Cyborgs, un duo tra i più interessanti della scena underground italiana. Due personaggi enigmatici che si celano dietro a maschere da saldatore e a vestiti rigorosamente neri. Cyborg 0 (zero) suona la chitarra in modo molto personale e riconoscibile, questo sì, e canta attraverso un microfono fissato alla maschera. Cyborg 1 (one) si occupa invece della sezione ritmica e suona la tastiera. Nella musica dei The Cyborgs, oltre al blues più tradizionale, quello più vicino alle origini ma sviluppato con un approccio moderno a tratti roots, non mancano incursioni nel rock psichedelico e accenni a sonorità afro. Il tutto per un sound viscerale, istintivo, primordiale e allo stesso tempo esplosivo.
Due album all'attivo e il loro electro-boogie non è più un oggetto misterioso. Il duo si è imposto sulla scena internazionale con lunghi tour in Gran Bretagna, Stati Uniti e nel resto dell'Europa. In patria, dopo aver diviso il palco con Jeff Beck, Johnny Winter, Eric Sardinas e i North Mississippi All Stars, hanno avuto il privilegio, a luglio, di aprire il concerto romano di Bruce Springsteen all'Ippodromo delle Capannelle, nell'ambito della rassegna Rock in Roma. Un evento più unico che raro che ha visto The Cyborgs esibirsi di fronte a 35 mila spettatori in un coinvolgente set di una quarantina di minuti.
Abbiamo approfondito il discorso con Cyborg 1 ma questa volta è stato tutto più difficile. Da uomo del futuro, Cyborg 1 ha risposto alle domande utilizzando il codice binario e le risposte inviate attraverso internet, da una località a noi sconosciuta, sono state decodificate per renderle comprensibili. Anche questo sono The Cyborgs.



Ricordo di avervi visti aprire per i North Mississippi All Stars un paio di anni fa a Savona. Poche settimane fa siete balzati invece agli onori della cronaca per la vostra esibizione in apertura al concerto di Springsteen. Raccontaci come è andata la giornata romana…

"È stata una calda e lunga notte… Migliaia di persone hanno cantato e ballato rendendo speciale la nostra performance. Unico rammarico è stato quello di non esserci potuti trattenere fino alla fine del concerto del Boss, a causa dell'imminente partenza per dei concerti in Inghilterra. Per il resto è stata una esperienza unica".

Lo sai che per la prima volta in Italia Springsteen ha acconsentito a una band di aprire un suo concerto? Come è stato possibile?"

Si, è vero, ma c'è sempre una prima volta. Bruce e il suo entourage hanno visto il nostro show in video e ci hanno voluto. E' andata così".

Avete incontrato Springsteen o i musicisti della E Street Band?

"Purtroppo no, anche perché siamo dovuti scappare via poco dopo il nostro show. Ci aspettava un aereo per portarci a Londra".

Il set è stato molto apprezzato anche dal pubblico di Springsteen, te lo aspettavi?

"Ci aspettavamo una buona accoglienza, ma non così calorosa".

Poteva essere rischioso e invece avete conquistato gli spettatori con una esibizione trascinante. Una bella soddisfazione...

"È sempre una soddisfazione vedere ballare e cantare il pubblico, anche quando non è così numeroso".

Al termine del set mi è parso aver visto la tua tastiera un po' ammaccata...

"Certo, è così. Col tempo e i numerosi viaggi ha subito dei danni, ma un piano ha 88 tasti e non è un problema se cinque o sei si rompono. Ci sono tutti gli altri".

"Electric chair", uscito quest'anno, è il vostro secondo album. Dodici tracce che confermano quanto di buono fatto ascoltare all'esordio. Come è nato questo disco?

"È nato velocemente, mentre portavamo in tour il nostro primo disco. Alcuni brani di "Electric chair" in realtà li suonavamo dal vivo già un anno prima della pubblicazione del disco".

Da dove nasce il vostro electro-boogie?

"Nasce dall'esigenza di innovare e rinnovare il blues, per tramandarlo. In realtà è quello che i bluesman hanno sempre fatto in passato. È così che il blues continua a vivere. Muddy Waters, John Lee Hooker, R.L. Burnside erano terribilmente innovativi, e forse lo sono tuttora. Il termine electro-boogie è invece solo una etichetta perché il nostro, in fondo, è blues e basta".

Come vi è venuta l'idea di suonare con la maschera da saldatore?

"Siamo intolleranti alla luce del sole, è troppo forte, è accecante".

Quali sono i vostri prossimi impegni?

"A maggio siamo ripartiti in tour in Italia e in Europa. Ne avremo almeno per un anno".

Dopo l'esibizione romana davanti a 35 mila persone qual è il vostro prossimo sogno da realizzare? Con chi vi piacerebbe suonare?

"Nel futuro non c'è spazio per i sogni e soprattutto è bello non aspettarsi proprio nulla dalla vita. Anche questo è blues".


Titolo: Eletric chair
Artisti: The Cyborgs
Etichetta: Audioglobe
Anno di pubblicazione: 2013




mercoledì 28 agosto 2013

L'esordio di Marrone Quando Fugge






Un titolo scanzonato, "Il Pre-Fagiolismo", un nome curioso, Marrone Quando Fugge. A dare vita a questo curioso connubio di parole è stato il trentenne cantautore astigiano Massimo Lepre, nome d'arte Marrone Quando Fugge, che ha pubblicato il suo album d'esordio intitolato, appunto, "Il Pre-Fagiolismo". Un lavoro discografico che è stato bene accolto dalla critica e che ha permesso all'autore di vincere il premio "L'artista che non c'era". Il disco contiene nove canzoni che raccontano un mondo in cui i valori sono quelli più veri e importanti, in contrapposizione a quelli imposti dalla società consumistica di oggi. Un disco sincero, un inno alla povertà ma allo stesso tempo musicalmente ricco di vibrazioni positive e di idee, che vengono espresse da questo cantautore emergente, voglioso di cambiare rotta dopo anni di gavetta in diversi gruppi. Decisivo è stato l'incontro con Zibba che ha prodotto il disco e successivamente con Stefano Cecchi che lo ha registrato. Marrone Quando Fugge nel disco è stato accompagnato da Simone Fratini al contrabbasso, Sauro Ferraris alla chitarra e Alberto Silengo alla batteria.
Di "Pre-Fagiolismo" abbiamo parlato con Marrone Quando Fugge.




Prima di tutto devi spiegarci perché ti fai chiamare Marrone Quando Fugge...

"Un colore, Marrone, il colore delle radici e della casa protetta del cuore e del corpo. Un verbo, Fuggire, che contiene nel suo interno il potere creatore del significato che esprime. Un avverbio, Quando, che evidenzia la condizione di essere ancora più radice nel momento della distanza. Quell'uomo nato e legato alla terra, alla pancia e all'ombelico di chi l'ha creato e che svela il respiro primordiale del senso mistico di una nascita continua. Un essere cresciuto all'ascolto del mondo e dei suoi fatti così da rendere note musicali ogni parola ed ogni respiro. E per questo vedo un uomo che fugge, non per sfuggire, ma per conoscere nel profondo le carte che il mondo mette a disposizione con la consapevolezza della propria storia. L'uomo Marrone che è legato alla madre e alla terra ancora di più Quando Fugge, andando per il mondo e portando con sé la memoria di casa".

Nelle scorse settimane è stato pubblicato il tuo primo disco dopo tanti anni di gavetta. Quando e perché hai preso questa decisione?

"In realtà, la spinta grandiosa è stata di Zibba, che una volta scoperti i miei pezzi tra le mura di casa mia nell'inverno di due anni fa, ha deciso di prendere le redini della mia situazione, decidendo di produrre il mio primo disco. Fosse stato per me, sarebbe rimasto tutto nel cassetto perché non godo di una autostima spiccata, non credevo di poter rendere i miei sfoghi, paure, difetti e intimità alla portata di un pubblico ma mi sono fidato di qualcuno che ha creduto in me e il disco ha iniziato a concretizzarsi. Una pre-produzione con fermento, una produzione indimenticabile che inizia a febbraio e una post-produzione attenta. Sono felice".

Sei entrato a far parte della grande famiglia allargata degli Almalibre visto che Zibba ha prodotto artisticamente il disco e Stefano Cecchi ne ha curato la registrazione. Ci racconti come è successo?

"Io e Zibba eravamo al "Fagiolo", la casa nel bosco raccontata nel suo brano "Asti-Est", scritta proprio lì, in quelle sere d'inverno dove la miglior cosa per curarsi dal freddo era scrivere in compagnia, mangiando, bevendo e suonando. Stavo strimpellando la chitarra accennando il giro di accordi di "Un Principio di Alzheimer", fu piacevolmente colpito da chiedermi cosa stavo suonando e quando gli svelai che era un mio brano, fu doppiamente colpito perché non sapeva che scrivevo e suonavo musiche mie. Da quella sera, nella testa di Zibba qualcosa è rimasto delle mie parole, tanto da decidere di seguire da lontano i miei progressi fino al giorno in cui mi presentò Stefano Cecchi come il fonico del mio disco, per annunciarmi della loro scelta di produzione, per mettere in piedi il mio primo disco. Tutto inaspettato, sono esploso di gioia e paura".

Ti ricordi qualche aneddoto del tuo rapporto con Zibba?

"Eravamo a Genova per le registrazioni del pianoforte, quando ho visto lo studio, mi sono chiesto se era vero. Mi ha dato la possibilità di suonare un pianoforte magnifico, dove ogni vibrazione era una galassia profondissima, le mie dita da cuoco hanno iniziato a sudare così tanto che sembrava piangessero. Con molti silenzi e poche parole mi è stato vicino come un fratello".

Da dove nascono le canzoni del disco?

"Imprevisti, molti puntini, fissi e di sospensione. Il caso delle coincidenze, il cuore, un po' di lacrime. Incontri, appuntamenti. Una atmosfera creata dallo stare. Il presente. Essere veri nel quotidiano. Essere belli quando si è veri. Spogliarsi di ogni maschera finta. Tutto questo tra cavoli, fagioli e accordi da imparare".

Perché il titolo "Il Pre-Fagiolismo"?

"Il Pre-Fagiolismo è un nome che definisce uno stile di vita, sicuramente auto-biografico, basato sulle piccole cose, sull'abbandono delle ricchezze che ci sono state insegnate, per trovare nella povertà i valori veri che tutti vorremmo avere tra le mani. Una rivalutazione sulla comprensione di quanto siamo meravigliosi semplicemente essendo noi stessi".

L'album ha ricevuto ottimi consensi vincendo anche il premio "L'artista che non c'era". Ti aspettavi un esordio così soddisfacente?

"Assolutamente no, il mio essere distruttivo purtroppo o per fortuna non mi permette di avere certe aspettative ma nulla toglie al massimo impegno che metto in ogni cosa che faccio".

Il disco inizia con "Miseria stabile, ricchezza mobile", un titolo che riassume un certo disagio nei confronti della società attuale. Cosa ci puoi dire a riguardo?

"Una situazione attuale che fatica a cambiare da molto tempo. L'ispirazione di questo pezzo parte con la scoperta di una banconota del 1870 creata da una banda di falsari. L'intestazione era "Banca della ricchezza mobile nel Regno della miseria stabile", che sarà pagato con "Visto del Monte di Pietà in vino". Iniziai a scrivere sulle dinamiche di vita attuali per arrivare alla conclusione che tutto sarebbe più semplice se la verità facesse parte della nostra vita".

Discorso che viene poi ripreso da "La discarica di anime", una sorta di ribellione contro la società consumistica. E' un disco di denuncia o una presa di coscienza?

"La denuncia la lascio alle autorità. La presa di coscienza è un inizio alla verità. Guardiamoci dentro e intorno, quanto vogliamo raccontarcela ancora?".

La canzone "Modestino" è dedicata a tuo nonno. Ce ne parli?

"Un folle raccatta ferro, piccoletto ma fortissimo, con due mani che spaventavano a metri di distanza. Una vita passata tra povertà, famiglia numerosissima, alcool, botte e cicatrici. Colui che quando mi veniva a prendere alla scuola elementare, invece di portarmi a mangiare un gelato mi offriva la sua birra da furgone. Se qualcuno che a pelle non gli piaceva gli chiedeva un accendino, rischiava di trovarsi in bocca a tradimento uno spagnolino (peperoncino piccantissimo), che aveva sempre nel taschino dei pantaloni... Un personaggio unico nel suo stile, la legge non esisteva se non la sua".

Quali sono gli artisti con cui hai un debito, di ispirazione o di formazione?

"Non sono amante della parola "debito", ma comunque ringrazio tutte le persone che mi sono state vicino e che mi hanno passato qualcosa. Andrea Anania che ha suonato in "Cenere e Whiskey", è l'amico artista che mi ha avvicinato agli strumenti con gran sentimento, lo ringrazierò a vita. Nico, fondatore de "La cattiva strada" mi ha dato modo di credere in letture alternative alla vita, un maestro per molti. Zibba e Stefano Cecchi, i miei fedeli compagni in questa meravigliosa esperienza".

Cosa ti aspetti dalla tua carriera musicale?

"Continuare ad avere la possibilità di esprimere quello che penso. Secondo voi, è possibile? Un caloroso abbraccio a tutti i lettori".


Titolo: Il Pre-Fagiolismo
Autore: Marrone Quando Fugge
Etichetta: Volume
Anno di produzione: 2013




lunedì 19 agosto 2013

Un savonese guida i Kafka on the Shore





Si chiama Vincenzo Parisi ed è la faccia italiana dei Kafka on the Shore, band emergente che a inizio 2013 ha dato alle stampe l'ottimo album "Beautiful but empty", pubblicato dall'etichetta indipendente La Fabbrica. Diplomato in pianoforte, il musicista savonese di origini siciliane ha abbandonato ben presto la musica classica da conservatorio per mettere il proprio pianoforte al servizio del rock'n'roll. Il passo decisivo si è compiuto a Milano dove Parisi ha conosciuto, uno dopo l'altro, quelli che sono gli attuali componenti del gruppo: il cantante americano dalla voce blues Elliot Schmidt, l'impeccabile batterista tedesco Daniel Winkler e l'imprevedibile e talentuoso chitarrista Freddy Lobster.
"Beautiful but empty" è un disco che mette in mostra cuore e muscoli e non lascia indifferenti. Undici canzoni che mischiano generi e suoni passando con estrema facilità dal blues al soul, con incursioni nel rock più duro. Uno dei brani più riuscito del disco è "Bob Dylan", una ballata emozionante costruita sul suono del pianoforte e su ipnotici giri di chitarra. Altro brano importante è "Venus" che è arricchito dalla voce di Chiara Castello dei 2Pigeons. Il disco resta sempre su ottimi livelli ed è vivamente consigliato l'ascolto. 
Abbiamo incontrato Vincenzo e abbiamo parlato dei Kafka on the Shore, di "Beatiful but empty" e tanto altro.


Come nasce il nome Kafka on the Shore?

"Siamo grandi appassionati di Murakami Haruki. E poi il suo stile narrativo ci sembrava aderente alla musica che avevamo in mente di scrivere. Oltre a "Kafka On The Shore", Murakami ha scritto altri romanzi stupendi, ma non pensavamo fosse il caso di prendere a prestito titoli come "Nel segno della pecora" oppure, pensa te, "L'uccello che girava le viti del mondo"".

La vostra è una band internazionale composta da un italiano, un americano e due tedeschi. Come si vive questa multiculturalità?

"A livello creativo, è un bel miscuglio di influenze, anche musicali. A livello umano, ci si diverte. A parte i casi in cui esce fuori il tedesco, che è una lingua che conosco a malapena. Ma qualche parola la sto imparando con il tempo".

Quando e quali sono stati i motivi del tuo ingresso in questo gruppo?

"Ho conosciuto Elliot, il fratello della mia ex-ragazza, e a fine 2010 abbiamo deciso insieme di dare il via al progetto, prima solo noi due in una squallida cameretta a Milano, chitarra voce e piano, con l'intenzione, poi totalmente rinnegata, di scrivere pezzi soffici e carucci come quelli dei Belle and Sebastian. Quasi subito è entrato Daniel alla batteria, e un anno dopo Fred come chitarrista e seconda voce".

Una parte della tua giovinezza l'hai passata in Liguria, ad Albisola. Quali sono i tuoi ricordi più belli?

"A dire il vero, ogni volta che posso torno ad Albisola, dove vivono la mia famiglia e i miei migliori amici. Savona più in generale rappresenta il mio luogo di formazione. Le prime lezioni di pianoforte col mago Gentile, che mi ha trasmesso grande passione. Gli anni passati a suonare Morricone e tanta altra musica da film nell'Orchestra Giovanile del Finale diretta da Paolo Venturino. E poi le geniali lezioni di storia della musica ed analisi con Fernando Vincenzi. Il Liceo Classico Chiabrera, dove ho avuto la fortuna di incrociare professori eccezionali e ho potuto sperimentare le prime composizioni grazie all'ensemble di musica diretto da Daniela Piazza e Fulvio Bianchi. Devo molto a Savona, indubbiamente".

A livello artistico ti sei dovuto adattare a un cambiamento di genere. Sei passato dal pianoforte classico, quello da Conservatorio, al rock. Perché hai cambiato in modo così radicale?

"C'è da dire che io ho frequentato le aule del Conservatorio solo durante i miei studi di composizione a Milano. Ho studiato pianoforte in casa di Irene Schiavetta, con la quale mi sono diplomato e che, da grande didatta quale è - le sue pubblicazioni per la Carisch ne sono una prova -, mi ha sempre spinto alla più ampia apertura artistica. E poi Chopin e Rachmaninov sono molto più rock'n'roll di quanto non si pensi. In origine, pensavo semplicemente di fare rock per travasarne le influenze nelle mie composizioni per ensemble da camera e pianoforte solo - lavori che comunque riprenderò in mano un giorno -, ma praticamente da subito mi resi conto che era troppo divertente scrivere canzoni e vedere come si sarebbe evoluto il mio "pianismo" trasferito in un mondo apparentemente così lontano. E così ho portato la mia scommessa ad un livello successivo".

"Beautiful but empty" è il vostro primo album e XL di Repubblica ha da poco pubblicato online il vostro video "Bob Dylan". Un periodo fortunato per voi…

"Decisamente fortunato. In soli cinque mesi dall'uscita del disco, i concerti ad oggi programmati sono più di sessanta e le recensioni sono davvero positive. A luglio abbiamo avuto l'onore di suonare al fianco dei Marta sui Tubi, è stata una grande occasione per noi per arrivare a un pubblico ancora più ampio. In ogni caso, senza presunzione, ce l'aspettavamo. Certo dobbiamo molto anche alla nostra etichetta, La Fabbrica, di Bologna, che ci supporta e investe molte energie su di noi. E comunque non ci accontentiamo, siamo solo all'inizio".

Di cosa parla la canzone "Bob Dylan"?

"Credo che la musica si debba spiegare da sé e che ogni ascoltatore debba trovare la propria risposta a questa domanda. Quello che posso dire è che è una canzone che parla di un ragazzo che cammina nella notte in una grande città e ripete ossessivamente "I don't feel a thing". Un ritratto dei tempi che viviamo?".

Qual è l'asse portante del disco?

"La contraddizione. Il gusto di giocare con elementi musicali contrapposti fregandocene allegramente di inseguire un'etichettatura univoca come troppe band di oggi fanno. Ci siamo inventati noi stessi, il nostro genere musicale, Pirate Mexican Porn Rock, che può significare tutto e niente, così nessuno può incasellare a suo uso e consumo quello che facciamo".

Siete stati impegnati in questi mesi anche in lungo tour europeo che vi ha portato a suonare nei club di Berlino e Parigi. Cosa ti ha lasciato emotivamente e professionalmente questa esperienza?

"Abbiamo chiuso questo primo tour europeo in un locale legato all'Haldern Pop Festival, dove hanno suonato band come i Muse, i Franz Ferdinand, i Phoenix, i Mumford and Sons.... Insomma, qualcosa di importante. Prima ancora abbiamo suonato a Londra, Parigi, Bruxelles, Lubecca e Berlino. E' stato per noi un grande passo, un primo passo per farci conoscere anche all'estero. E il pubblico ha reagito alla grande, in locali bellissimi con cui abbiamo allacciato legami importanti per il futuro prossimo, oltre ad aver conosciuto una miriade di persone davvero fantastiche, aver mangiato cinquecento kebab, aver visto il sole sorgere sulla spianata di Waterloo circondati da cento turisti messicani".

Recentemente siete tornati a suonare al Beer Room di Pontinvrea, locale che in qualche modo vi ha lanciato e che vi ha fatto conoscere al pubblico savonese. Quali sono i tuoi ricordi di quelle prime esibizioni?

"Il Beer Room è un luogo speciale per me, un locale che porta grande fortuna. Tre anni fa avevamo fatto un concerto io e Nicolò Carnesi, di fronte a cinque persone e una tempesta di neve là fuori in mezzo ai cinghiali: grandi emozioni. Un anno e mezzo dopo uscì il suo primo disco e tutto il successo che ne seguì per il mio amico Nicolò. Con i Kafka abbiamo fatto non so più quanti concerti l'anno scorso al Beer Room, tra quelle mura che ti portano per forza di cose a rendere ancora più duro e rockeggiante il suono. Tra i momenti più belli, un post concerto, noi a suonare in acustico solo per pochi intimi e un francese che si improvvisa ballerino per la strada. Grandi capolavori senza tempo".

Mi pare di capire che i Kafka on the Shore siano una band che non cerca facili vetrine (leggi talent show televisivi) ma cerca il proprio spazio attraverso concerti ed esibizioni live. E' così oppure se venisse una chiamata accettereste l'invito?

"Parliamo di due mondi musicali diversi. Quello che facciamo noi è ben lontano dai canoni di Amici o X Factor. E di conseguenza non vedo che utilità ne potremmo ricavare. Dopodiché, chi è lo stupido che rifiuterebbe tanta visibilità, nel caso ci fosse un talent show sulle aspiranti star legate alla scena intergalattica del Pirate Mexican Porn Rock? Non sono contrario al format in sé. Altro discorso è invece la qualità artistica proveniente da tali programmi. Annalisa Scarrone, per esempio, trovo abbia una voce spettacolare ed una tecnica vocale altissima. Mentre ho trovato agghiacciante il tizio che ha vinto l'ultimo Sanremo Giovani, Antonio Di Maggio, uscito da X Factor qualche anno fa".

Quali sono i progetti per il futuro prossimo, facciamo due anni?

"Suonare il più possibile, portando la musica dei Kafka On The Shore a più persone possibili, in Italia e all'estero. Un tour negli Stati Uniti. Preparare il secondo disco".


Titolo: Beautiful but empty
Gruppo: Kafka on the Shore
Etichetta: La Fabbrica
Anno di pubblicazione: 2013





giovedì 8 agosto 2013

Chiara Jerì, la calda voce di "Mezzanota"





Una chitarra magistralmente suonata da Andrea Barsali e la voce ricca di malinconia di Chiara Jerì, così lontana dai format musicali televisivi, hanno dato vita a "Mezzanota", disco autoprodotto, dal sapore antico, lontano dai riflettori ma di grande bellezza e da custodire gelosamente. La cantante livornese alle sue spalle ha un disco solista, "Mobile identità", e il successo ex aequo al concorso "Un Notturno Per Faber" indetto dalla Fondazione De Andrè, con il brano "Notturno dalle parole scomposte" di cui è autrice insieme ad Eugenio Cavallo e Maurizio di Tollo. Quest'ultimo ha dato un decisivo contributo a "Mezzanota" scrivendo le musiche mentre il pisano Andrea Barsali, già turnista di Andrea Bocelli, ha curato gli arrangiamenti.
Uno dei punti artisticamente più alti del disco è rappresentato dalla canzone "Innesco e sparo", ispirata a un avvenimento realmente accaduto, ovvero l’esecuzione mafiosa di Giannino Losardo (21 giugno 1980) all’epoca dei fatti sindaco di Cetraro e che ricorda il coraggio e lo sdegno di una terra, la Calabria, a cui la Jerì è profondamente legata. Jerì-Barsali danno anche una personale lettura di canzoni di De Gregori, Piero Ciampi e Pippo Pollina.
Abbiamo parlato con Chiara Jerì di "Mezzanota" e del suo rapporto con la scuola cantautorale.




Il progetto "Mezzanota" ti vede in coppia con Andrea Barsali. Come è nato questo sodalizio?

"Dopo poco più di due anni, mi piace riconoscere ad alta voce che così doveva essere. Nell’atto concreto, come spesso abbiamo detto Andrea ed io, è stato un amico comune che ci ha messo in contatto, immaginandosi le nostre sensibilità musicali ben amalgamate. Di fatto ha avuto ragione".

Quando e cosa vi ha spinti a produrre questo disco?

"Andrea ed io abbiamo impiegato più tempo a studiarci prima di decidere di suonare insieme. E aggiungo, nel modo più divertente, naturale e senza maschere: sentendolo suonare quanto più potevo e ovunque potessi e lui, forse, ha sentito come lo facevo. Dopo questa fase ingenuamente utile, non abbiamo bruciato le tappe ma abbiamo avuto una facilità immediata, sia nel preparare il nostro primo live che, una volta proposti i miei pezzi al suo suono, a inciderli solo voce e chitarra".

Sei nata come interprete, poi il salto in avanti e la voglia di esprimere le tue emozioni scrivendo i testi. Com’è andata?

"Se devo essere onesta non lo so. Da sola ho sempre scritto come ho sempre cantato. Il primo passo, non semplice, è stato quello di salire su un palco, quello successivo, altrettanto difficile, far leggere ciò che scrivo. Unendo parole a note, nascono le canzoni; così sono nate anche le mie. Posso provare ad aggiungere solo che, tutto questo, per me, è una "cattiva abitudine" per la ricerca della felicità".

Le musiche sono invece tutte di Maurizio di Tollo. Come vi siete incontrati?

"Su un treno, andavamo entrambi a Genova. Dopo sei anni ci siamo salutati su un binario della stessa città. I nostri "bagagli a mano" pesavano un po’ di più".

Nel disco hai presenti due canzoni non tue: "La donna cannone" di De Gregori e "Fino all'ultimo minuto" di Piero Ciampi. Cosa rappresentano e quale è il tuo rapporto con De Gregori, Ciampi e la scuola cantautorale italiana?

"Se ti parlo della "Donna Cannone", di "Fino all’ultimo minuto" e "Canzone II", vorrei farlo, raccontandoti della gioia che mi regalano tutte le volte che le ascolto e le canto. La bravura e la fantasia di Andrea Barsali nell’averle dipinte per noi così, mi ha dato la possibilità di tornare a un grande amore, rivivere dentro un capolavoro e dargli tutto, ma cercando di evitare sempre il superfluo. La canzone d’autore? Non potrei vivere senza".

E poi una canzone di Pippo Pollina, cantautore poco conosciuto dal pubblico italiano…

"Dissento cortesemente. Pippo Pollina è un cantautore contemporaneo affermato; penso anche che lo sia nella dimensione e nei luoghi che lui predilige, che lo fanno sentire bene, con cosa fa e per chi lo fa. Ahimè l’oltre confine per la musica ha ancora tanto da insegnarci. La sua "Canzone II" è e rimarrà un capolavoro sempre e ovunque".

Nell'album troviamo anche "Il notturno dalle parole scomposte", canzone che vinse nel 2009 il concorso musicale "Un notturno per Faber" organizzato a Genova dalla Fondazione De André. Chi è per te Faber e perché non hai cantato una sua canzone in "Mezzanota"?

"Fabrizio De André. Tutte le volte che pronuncio o scrivo questo nome, tutto è il contrario di tutto: ne sento la grandezza e al tempo stesso, come da piccola - non con tutto ciò che ha scritto ma con quello che di lui ho scelto - sono cresciuta ed invecchio. Mi volto, oggi come allora, e lui gioca ancora con me. Non c’è un pezzo di Faber in "Mezzanota" perché c’è un canzone per Faber".

A quale tipo di pubblico è indirizzato il vostro album?

"A tutti coloro che desiderano "un instante in cui l’intenzione diventa musica"".

Perché il titolo "Mezzanota"?

"Potrebbe chiamarsi diversamente?".

Curiosa la copertina dell'album con una mela rossa divisa a metà. Mela che viene poi da voi addentata in un'altra foto che compare nel libretto. Che significato ha questa mela?

"Voglio ringraziarti perché, pur in forma di domanda, hai reso una descrizione molto "sensoriale" della copertina di "Mezzanota". Ecco, direi che di quella mela non si debba svelare un solo perché, ne ha tanti quanti sono gli occhi che ci impattano contro. La fantasia è un desiderio libero".

In queste settimane siete impegnati in tour. Oltre ai brani dell'ultimo disco cosa presentate dal vivo?

"In un nostro concerto oltre a tutti i pezzi di "Mezzanota", non potrebbe mai mancare ciò da cui ho iniziato e che è stato anche l’inizio della collaborazione live con Andrea. Portare i brani di "Mobile identità", il mio primo lavoro, con un vestito ormai Jerì-Barsali è una cosa che mi diverte sempre. Poi ogni sera è un "rac-canto" e qualche volta abbiamo voglia di una favola nuova. Venite a sentirci!".

Se avessi la possibilità di salvare dalla distruzione cinque dischi, quali sarebbero?

"Troppo pochi forse non abbandonerei la nave".

Infine vorrei sottoporti alle dieci domande secche:

- Anteriore o posteriore? Posteriore.
- Treno o vaporetto? Treno.
- Telefoni cellulari o cabine telefoniche a gettoni? Cellulare.
- Gelato alla crema o ghiacciolo? Gelato alla crema.
- Minotauro o unicorno? Unicorno.
- Angelo Barile o Eugenio Montale? Montale.
- Narciso o papavero? Papavero.
- "Totò d'Arabia" o "I quattro dell'Ave Maria"? “Totò d’Arabia”.
- Numeri o lettere? Lettere.
- Cima alla genovese o agnolotti al plin? Cima.


Titolo: Mezzanota
Artisti: Chiara Jerì e Andrea Barsali
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2013



mercoledì 31 luglio 2013

"Sarò libero!", il grido di Fabrizio Zanotti




"Sarò libero!" è il terzo album, il primo dal vivo, di Fabrizio Zanotti, quarantatreenne cantautore piemontese di Ivrea. Il disco riporta la registrazione del concerto che si è tenuto il 24 aprile 2012 al Teatro Giacosa di Ivrea e segue cronologicamente "Il ragno nella stanza", pubblicato nel 2007, e "Pensieri corti" del 2010. Nell'album vi trovano spazio canzoni che appartengono ai diversi periodi della carriera di Zanotti: brani tratti dai primi due album rivisitati con l'aggiunta del quartetto d'archi dell'Ensemble Lorenzo Perosi, gli inediti "Il mare se bagna Milano", "Bandiera" e "Se non ora quando?", questi ultimi due scritti insieme a Valentina La Barbera. Ma anche canzoni di lotta e resistenza come "Fischia il vento" e "O bella ciao", poste strategicamente in apertura e chiusura concerto, e stralci del discorso che Piero Calamandrei pronunciò nell'aprile del 1954 proprio a Ivrea per ricordare l'impresa di un gruppo di partigiani, i "poco di buono" come venivano chiamati coloro che liberarono l'Italia dall'occupazione nazifascita. E proprio la canzone "Poco di buono", scritta nel 2005 e inserita l'anno successivo da Claudio Lolli nel disco "La scoperta dell'America" e successivamente da I Gang in "La rossa primavera", è qui rafforzata dalla presenza del Coro Bajolese diretto da Amerigo Vigliermo e rappresenta uno dei punti più alti dell'album. Il disco è arricchito dalla presenza del chitarrista genovese Matteo Nahum che ha curato anche gli arrangiamenti del quartetto d'archi.
"Sarò libero!" è un album da ascoltare tutto d'un fiato e ne abbiamo parlato con Fabrizio in questa intervista.


"Sarò libero!" non è solo un disco e un concerto ma soprattutto uno spettacolo che porta con sé un messaggio. Ce lo vuoi spiegare?

«È un concerto di storie tra "Resistenze di ieri e di oggi", perché capire il passato significa rafforzare le radici che permettono a una società di crescere ed osare. "Sarò libero" è grido di resistenza, di non rassegnazione. Lottare non solo per la propria vita, ma anche per quella di chi ci sta vicino. Resistere per cambiare una società per molti aspetti ancora miope, resistere per difendere quei sacrosanti diritti che dovrebbero valere per tutti, anche per chi non è nato in questo paese. Resistere per nutrire la speranza che la nostra indolenza possa finire prima o poi».

Cosa è oggi la Resistenza?

«Oggi non si tratta di mettere a rischio la propria vita come nel caso dei partigiani che hanno combattuto contro un esercito armato, ma di lottare contro l'imbarbarimento culturale di cui è saturo il nostro paese. Un'assenza di dignità che ci impedisce di migliorare come esseri umani e che rende le nostre vite sempre più piene di cose inutili e povere di valore».

Nel disco le canzoni sono intervallate da stralci del discorso che Piero Calamandrei pronunciò a Ivrea il 4 aprile del 1954. Perché hai fatto questa scelta?

«Le bobine di quel discorso mi sono state regalate dal partigiano D'Artagnan del quale racconto nella canzone "Poco di buono". Mi ha colpito la parte non commemorativa del discorso perché sembra che parli di oggi. È impressionante pensare che da circa sessant'anni la situazione sia sempre pressappoco la stessa. Allo stesso tempo le parole di Calamandrei sono estremamente incoraggianti: il significato di resistenza, finita la guerra, si traduce nell'"intendersi col battito del cuore al di là dei muri che dividono il mondo". È meraviglioso».

In uno di questi frammenti Calamandrei invita a far ascoltare ai giovani i canti dei partigiani. Ci sono ancora giovani interessati alla storia dei loro nonni?

«Diciamo che diventa interessante quando la trovano su internet! A parte gli scherzi, ho visto che chi ha avuto dei nonni, o meglio dei bisnonni ormai, partigiani sente propria quest'eredità».

Quanto è importante il pensiero politico nella tua arte?

«Troppo».

Nei tuoi lavori e nelle tue canzoni dai voce agli oppressi, ai poveri, a chi è condannato. Così come i losers sono argomento di molta della produzione del genere Americana...

«Innegabilmente amo i folksinger americani e la loro schiettezza, ma per quanto mi riguarda non scrivo di perdenti. Più che altro sono affascinato dalla vita di chi lotta, chi non ha nulla per cui lottare o sceglie di non farlo, non è poi così interessante».

Quale compito ha il cantautore ai giorni nostri?

«Quelli di sempre: essere onesto ed emozionare».

Con il brano "Se non ora quando?" presenti un avvilente spaccato della società italiana. Il titolo è uguale allo slogan adottato dal movimento femminile che ha manifestato nei mesi passati contro il degrado delle istituzioni... Condividi quell'idea?

«Diciamo che la canzone è nata quasi contemporaneamente a "Se non ora quando?", proprio dalla stessa indignazione. È stato quindi naturale dedicarla al movimento. Ricordo che sia io che Valentina (La Barbera, ndr), con la quale collaboro ed è coautrice del brano, avevamo bisogno di sfogare la rabbia che ci creava la situazione di quel momento».

Hai da poco terminato un tour in Germania. Come ti ha accolto il pubblico e cosa ti è piaciuto?

«È stata una bella esperienza umana, i teatri erano pieni, segno che la gente è molto curiosa di ascoltare nuove voci, anche straniere. Amano tantissimo l'Italia, la nostra cultura, ma nello stesso tempo non si spiegano come sia possibile che noi italiani siamo ridotti così».

Ho saputo che tra breve inizierai la produzione del nuovo cd. Cosa ci puoi anticipare?

«Con "Sarò Libero!" è iniziata la collaborazione con Bruno Cimenti e Primigenia, ma questo sarà il primo lavoro prodotto insieme dall'inizio alla fine. Per adesso stiamo lavorando agli arrangiamenti. Quello che posso dire è che sarà un disco divertente, per lottare ci vuole allegria».

Per terminare ecco le dieci domande secche:

- Attonito o estasiato? Estasiato dopo un bel film, dopo un buon caffè, dopo un bella serata con agli amici.
- Harley Davidson o Moto Guzzi? Né l'una, né l'altra, meglio il Ciao.
- Vampiro o licantropo? Licantropo ascendente orso marsicano.
- Roma o Milano? Roma, perché ti coccola e 'se magna' bene.
- Passaggio o tiro diretto? Dipende, quando sono solo tiro diretto.
- Pecora o leone? Leone all'attacco!
- Infissi di legno o alluminio? Legno, altrimenti ti lascio.
- Caffé zuccherato o naturale? Amaro, tranne al bar.
- Ananas o kiwi? Ananasso anche d'inverno.
- Arrivo o partenza? In viaggio è meglio.


Titolo: Sarò libero
Artista: Fabrizio Zanotti
Etichetta: Fabrika Musika/Primigenia
Anno di pubblicazione: 2012

Tracce
(testi e musiche di Fabrizio Zanotti, eccetto dove diversamente indicato)


01. Fischia il vento  [Felice Cascione; Matvei Blanter e Michail Isakovskij]
02. E c'è una storia che ci piace ascoltare  [Fabrizio Zanotti e Nicola Ricco]
03. La mia divisa
04. Olive da friggere forte
05. Inclinato ad Oriente
06. Facce di fango
07. Il ponte
08. Poco di buono  [Fabrizio Zanotti e Nicola Ricco]
09. Bandiera  [Fabrizio Zanotti e Valentina La Barbera; Fabrizio Zanotti]
10. L'universo che ora dorme
11. Sarò libero
12. Matrioska
13. Il mare se bagna Milano  [Fabrizio Zanotti e Nicola Ricco]
14. I giovani
15. Chini Marco
16. Se non ora quando? (mena le mie idee)  [Fabrizio Zanotti e Valentina La Barbera; F. Zanotti]
17. Musicalenta
18. O bella ciao  [anonimo]




martedì 16 luglio 2013

Le "Testuggini" di Rocco Rosignoli




Rocco Rosignoli ha pubblicato in queste settimane il suo terzo album solista. "Testuggini" è stato preceduto da "Le farmacie di turno" del 2009 e "Uomini e bestie" del 2011, concept album dedicato all'immaginario horror. Abbandonato il tema dell'horror, Rosignoli ha scelto di pubblicare una raccolta di brani che hanno come filo conduttore il tempo, la memoria e il sogno. Il legame e l'amore per la terra, rappresentato da animali, esseri centenari, come le testuggini, la gioia e i dolori della vita, le tragedie civili e i miti di riferimento sono gli argomenti che sono stati esplorati in questi dodici brani caratterizzati da una scrittura intensa e poetica. L'artista parmense ha posto al centro del suo lavoro la parola e i testi. Racconti e storie narrate con sensibilità che fanno di Rosignoli un valido interprete della tradizione cantautorale. 
In "Testuggini" Rosignoli si è avvalso della collaborazione di pochi e fidati amici: Francesco Pelosi che ha scritto e cantato "Ode alla giovinezza" ed Enrico Fava che ha suonato il pianoforte in "Ultimo valzer per F. D.".
Forti dei moderni mezzi di comunicazione, abbiamo parlato con Rocco che ha risposto con cortesia alle domande di questa intervista.



Chi è Rocco Rosignoli?

«Forse sono l'ultima persona a cui chiederlo! Ti posso dire che Rocco Rosignoli arriva da un percorso misto di formazione letteraria e accattonaggio musicale che ha trovato il suo sfogo ideale nella forma canzone, che lo perseguita dall'infanzia. L'ha avvicinata goffamente nell'adolescenza e l'ha fatta sua nella presunta maturità. Per quel che ne so io, tutt'oggi Rocco Rosignoli è uno sprovveduto che cerca il suo posto nel mondo».

"Testuggini" è il tuo nuovo album. Ci racconti come è nato?

«"Testuggini" arriva subito dopo un concept album, che si intitola "Uomini e bestie". Era un cd dedicato a personaggi dell'orrore, una serie di canzoni unite da una tematica forte e definita. Con "Testuggini" volevo cambiare, volevo fare un disco che fosse una semplice raccolta di canzoni. Ho iniziato selezionando dei pezzi che avevo in repertorio già da tempo e che non erano mai stati incisi - per esempio "Ultimo valzer per F. D." o "Sui miei passi" -. Mano a mano che procedevo con la selezione e le registrazioni, nascevano altri pezzi, in linea con quello che è lo spirito del disco, molto improntato sui temi del tempo e del sogno».

Nella prefazione al disco scrivi: ‹Macchine da guerra, esseri centenari, liberi dal peso della memoria, del peso dei sogni: questo sono le testuggini›. Cosa ti ha spinto a dedicare un disco a questi animali?

«Nella canzone "Tamperdù" parlo di ‹enormi testuggini, vecchie di secoli, splendide e senza memoria›. Da quel verso prende il titolo il disco. La testuggine se vogliamo sono il simbolo di una natura che guarda impassibile il passaggio della vita umana, e se appena può la ignora. Una natura che c'era prima che l'uomo fosse quel che è oggi, e ci sarà quando l'umanità avrà terminato il suo ciclo. In un attimo questo animale splendido è diventato per me il simbolo del tempo. Inoltre, come ci insegnavano da bambini, la testuggine si porta la sua casa dappertutto, e questo disco nasce in un periodo in cui il mio bisogno di sentirmi "a casa" era tanto. Aggiungo che l'amico Diego Baruffini mi aveva suggerito il sottotitolo "Disfunzione rettile", che è stato cassato, ma molto a malincuore!».

Hai avuto esperienze dirette con le testuggini?

«Ne ho avute due, da bambino, più altre due tartarughe acquatiche. Una delle testuggini di terra si chiamava Birba. Oltre a essere una bestiola estremamente simpatica - e tu che ne hai tante, puoi capire come anche una testuggine possa esserlo -, faceva una cosa assolutamente incredibile. Lei nel giardino aveva un suo recinto, fatto di rete, alto una ventina di centimetri e nel recinto una casetta di legno col tetto spiovente. Un giorno la cercammo nel recinto e non c'era, non era andata lontano, la trovammo nel giardino. Controllammo il recinto e non aveva falle. Curioso, pensammo, e finì lì. Ma capitò di nuovo che scappasse, e allora volemmo vederci chiaro: la osservammo di nascosto e scoprimmo il mistero. Birba si arrampicava lungo la rete fino al tetto della casetta, e da quello si buttava giù, fuori del recinto! Certo che quella bestiola avrebbe meritato la libertà».

Qual è il messaggio del disco?

«Jacques Brel rispondeva: ‹Io non porto messaggi, lo lascio fare ai postini›. Ma ti dirò che per un trimestre io il postino l'ho fatto sul serio. A parte gli scherzi, non saprei dirti qual è il messaggio del cd. Forse un messaggio c'è, ma non riguarda solo il mio cd, ma tutta la musica che faccio - e non solo io, ma anche e soprattutto altri - e cioè che la canzone ha il diritto di rivendicare spazi che non siano di mero intrattenimento, o ancor peggio di sottofondo ma può, a pieno diritto, collocarsi nell'orizzonte delle arti e in quanto tale, chiedere attenzione. Un'attenzione che esiste ancora, anche se indebolita. Mancano luoghi d'aggregazione in cui esercitarla: per chi fa il mio mestiere oggi è difficile farsi trovare da quel pubblico che quest'attenzione non vede l'ora di spenderla».

Guccini, De André, Bubola e chi altro c'è tra i tuoi punti di riferimento?

«Bubola non molto in verità, senza nulla togliere, sia chiaro. Oltre a Guccini e De André, come riferimenti principali ho Leonard Cohen e Max Manfredi. Amo moltissimo Jacques Brel, poi c'è Bob Dylan che, lo si voglia o no - e io lo voglio - è un punto di riferimento imprescindibile. Gian Piero Alloisio, Mauro Palmas, Mauro Pagani, Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Nick Cave... quanti nomi ho a disposizione? La lista sarebbe lunga, e includerebbe anche i punti di riferimento "involontari", quelli che la mia generazione ha subito suo malgrado: per esempio, essere stati martellati da "Hanno ucciso l'uomo ragno" all'età di nove anni ha sicuramente avuto le sue ripercussioni su di me e i miei coetanei; e qui ripeto che si voglia o no, ma in questo caso forse non vorrei…».

Nel disco c'è anche un omaggio a Jacques Brel: "Le plat pays" da te tradotta in "Questa terra". Perché hai fatto questa scelta?

«Io vengo da Parma, ma da meno di un anno vivo a Milano. Mi sono allontanato dalla mia città, dai miei amici, per andare in un posto dove vivo con la ragazza che amo, ma che per il resto mi ha ancora dato poco. La lontananza mi ha fatto sentire in modo particolare il legame con la mia terra; il caso ha voluto che proprio nell'autunno stessi preparando una lezione-concerto su Brel e mi sono riconosciuto nelle parole che lui usò per raccontare il suo Belgio in "Le plat pays". Ho voluto farle mie, infatti la traduzione è molto fedele».

I testi, a volte veri e propri racconti in miniatura, sono elementi fondamentali delle tue composizioni e mi sembra che vengano prima della musica per importanza. È così?

«Forse nei risultati, ma su questi non posso essere obiettivo. Nel processo creativo mi richiede molto più lavoro la ricerca di linee melodiche e armonie, per non parlare poi della fase di arrangiamento che svolgo sempre in solitaria. Ma è chiaro che una formazione letteraria lascia i suoi segni, e sono ben visibili».

Curiosa la storia di "Il cane e la serpe". Qual è il significato?

«Questa canzone nasce da una stramba mattinata. Arrivai a casa di un mio amico, e quando lui mi aprì la porta entrò con me anche il suo cane. Zoppicava e guaiva, lo guardammo, ci parve di vedere un morso di serpente sulla coscia. Fu il panico! Il mio amico chiamò la sua ragazza urlando, saltarono in macchina e corsero dal veterinario, nel paese vicino. Io rimasi a montare la guardia alla casa. Quando tornarono, il veterinario aveva controllato la bestiola e... non aveva nulla. Da questa, che a malapena si può definire un'esperienza, nasce questo brano, che sembra descrivere un cammino iniziatico di stile esoterico; cose in cui non credo, ma che mi affascinano molto».

Come è nata la collaborazione con Francesco Pelosi, autore del brano "Ode alla giovinezza"?

«Guarda, sono proprio adesso di ritorno da un concerto di Francesco; si esibiva col suo nuovo progetto, "Merovingi", che sta sviluppando guarda caso con l'altro ospite del mio "Testuggini", il pianista Enrico Fava. "Merovingi" è un progetto che non vedo l'ora diventi disco, perché è molto valido. Francesco, oltre che un ottimo scrittore di canzoni, è un mio caro amico. Ci incontrammo in un posto di Parma che da qualche settimana non esiste più, il MateriaOff. Lui mi diede un suo demo, appena registrato. Mi piacque sì e no. Quando lo rividi, lui mi chiese del demo e io gli dissi la verità. Francesco si offese a morte e poi mi offrì da bere. Perché era sempre meglio che dirgli "carino", come qualcuno aveva appena fatto. Da lì abbiamo intrapreso mille avventure assieme, tra cui merita una menzione il "Canzoniere delle Stagioni", con cui rivisitammo il grande repertorio del canto popolare».

Come si sono svolte le sessioni di registrazione?

«Tra Parma e Milano, con in mezzo un trasloco. Ma sempre in casa. C'è chi senza andare in studio non riesce a lavorare, per me è il contrario: non riesco a lavorare coi ritmi serrati di un lavoro che va concluso nel minor numero di ore possibili, col pensiero fisso del tassametro che sale. Lavoro coi miei tempi, con la possibilità di dare sfogo alle idee nel momento in cui vengono, o di lasciare le cose a raffreddare quando non funzionano subito. Investo sulla post-produzione, è un'idea che mi dà meno ansia».

Perché hai scelto di suonare quasi tutti gli strumenti utilizzati nel disco?

«Fondamentalmente, perché mi diverto da matti. Io, oltre che un cantautore, sono un polistrumentista, amante delle corde etniche soprattutto. Negli anni ho radunato un ottimo arsenale di cordofoni, tra cui un bouzouki e un mandolino costruiti appositamente per me da mio zio Nasario (con la "s", mio zio fu una vittima dell'impiegato dell'anagrafe). Lui oggi non c'è più. Gli ho dedicato il disco, e mi piace pensare che con questo lavoro una parte di lui continuerà a raggiungere tante persone che non hanno avuto la fortuna di incontrarlo».

Quali sono i tuoi progetti futuri?

«Ho scritto un monologo di teatro-canzone dedicato alla crisi, si intitola "Sola gratia", e contiene molti pezzi inediti scritti apposta. Voglio metterlo in scena, e mi piacerebbe molto trarne un DVD. Tutto ancora in via di definizione comunque, tranne il testo, che è pronto e va solo messo in scena».

Per concludere e per scoprire chi è Rocco Rosignoli, ti sottopongo alle dieci domande secche.

- Scacchiera o labirinto? Scacchiera. Il suo potere simbolico di cammino tra luci e ombre mi emoziona, anche se non faccio parte di alcuna loggia!
- Tropicale o mediterraneo? Mediterraneo: bouzouki docet!
- Nido o alveare? Nido di rondine. Un ricordo legato alla montagna, le rondini facevano il nido sotto le grondaie di una casa lungo la via; passavamo tante sere a guardarle.
- Medioevo o Rinascimento? Rinascimento. Anche se il medioevo ha Dante dalla sua!
- Palude o bosco? Il bosco è uno degli ambienti che trovo istintivamente familiari.
- Candela o lampadina? Candela. Quando brucia è una cosa buona e non devi correre in negozio a prenderne un'altra per vedere dove fai pipì.
- "Salve!" o "Buongiorno"? Sono le 2.37, direi buonanotte... ma in generale sono del partito del "Salve", che è un bell'augurio.
- Leonard Cohen o Francesco Guccini? Barabba.
- Piegarsi o spezzarsi? Non mi piego dal lontano 1997. Non c'è scelta, se faccio l'una capita anche l'altra.
- Verde o marrone? Non so scegliere. Anche il gelato lo prendo pistacchio e cioccolato.


Titolo: Testuggini
Artista: Rocco Rosignoli
Etichetta: Rigoletto Records
Anno di pubblicazione: 2013

Tracce
(testi e musiche di Rocco Rosignoli, eccetto dove diversamente indicato)

01. Tamperdù
02. Ultimo valzer per F. D.
03. Sui miei passi
04. Sogni molto forte
05. Canto delle poiane
06. Ode alla giovinezza  [testo e musica di Francesco Pelosi]
07. Oesterheld
08. Il cane e la serpe
09. Questa terra (Le plat pays)  [testo e musica di Jacques Brel, traduzione Rocco Rosignoli]
10. L'ultimo saluto
11. Il canto dei minatori, 1919 (falso storico)
12. Raggiungimi






venerdì 5 luglio 2013

Emiliano Mazzoni, cantautore d'alta quota






È un mondo avvolto da nuvole grigie quello che Emiliano Mazzoni guarda da Piandelagotti, paese montano del modenese a 1.200 metri di altezza. Un mondo che trova spazio nel suo primo disco, "Ballo sul posto", prodotto insieme all'ex bassista degli Ustmamò Luca Rossi. Ballate, ritmi popolari, abbozzi jazz e incursioni nel territorio pop per un lavoro denso e ricco di emozioni che deve essere ascoltato e assaporato con la giusta predisposizione d'animo. Non è un disco da consumare in fretta ma da centellinare negli ascolti per apprezzare appieno la poetica e le sfumature che il pianoforte e la voce calda e profonda di Mazzoni riescono a dare alle canzoni. Mazzoni, già fondatore degli In Limine (apparizione ad Arezzo Wave nel 2004) e dei Comedi Club (3 cd autoprodotti), non si è limitato a utilizzare solo i suoni dei tasti bianchi e neri: chitarre, fisarmonica, batteria, ukulele, synth e padelle hanno lasciato un segno ben marcato costruendo un tappeto sonoro di grande effetto ma mai invasivo. "Ballo sul posto" è un progetto cantautorale classico che presenta dodici canzoni fuori dal tempo e dagli schemi e abbiamo chiesto a Emiliano di presentarlo.



"Ballo sul posto" è il tuo primo CD e arriva dopo le tue esperienze con gli In Limine e i Comedi Club. Far parte di un gruppo ti stava ormai stretto?

«No, non è per quello. Suonare in un gruppo è la cosa più bella al mondo, solo che ogni cosa ha la sua storia. L'idea del progetto solista che avevo non aveva bisogno di band almeno nella fase iniziale, penso comunque che arriverà una band a salvarmi».

Qual è stata la genesi delle canzoni del disco?

«Diciamo che io ho un quaderno dove raccolgo le versioni finali dei pezzi che faccio, da questo quaderno ho registrato un provino di venti canzoni nude che in fase di produzione e registrazione son diminuite, fino ad arrivare a dodici. Poi con Luca abbiamo trovato il vestito più adatto».

De Andrè, Leonard Cohen e Massimo Bubola, che ho ritrovato specialmente nel tuo modo di cantare "Mentre piangono le grondaie". Possono essere questi gli artisti a cui la tua musica più si avvicina?

«Non lo so, sicuramente sì per quanto riguarda vari aspetti della produzione dei primi due, Bubola confesso di non conoscerlo a fondo. Sono fra i miei ascolti, insieme ad altri della stessa barca».

Nel disco non manca un accenno a sonorità della tradizione come in "Buon per te luna". Che valore hanno per te la musica tradizionale e le nostre radici?

«Amo la figura dei cantastorie pur non essendo un cultore di musica popolare. Questo non toglie il fatto che faccia parte dell'essere collettivo, che lo si voglia o no. Sono più vicino al tradizionale, per intenderci, da osteria, ma è un'altra cosa, anzi adesso che lo dico mi rendo conto che non ci son poi così vicino, ma sicuramente certi sapori si riescono a far emergere solamente con quel tipo di approccio. Poi per avvicinarsi alle radici, bisogna scendere dall'albero». 

È sicuramente più facile mantenere il rapporto con la comunità per chi vive lontano dalle grandi metropoli. Non pensi che possa però rappresentare un limite per la tua carriera di musicista?

«Sicuramente! Però non è poi mica obbligatorio fare una vita di merda per agevolare una ipotetica carriera artistica. Io sono un montanaro per ora, poi se si presentassero delle occasioni importanti, non necessariamente artistiche, mi potrei spostare. Ma per ora non ci penso proprio. Preferisco che l'arte serva alla mia vita piuttosto che il contrario e il limite mi sembra abbastanza sottile».

Tu vivi in un paese di montagna, a Piandelagotti, ma tra "Meglio sparire" e "Il dissoluto" si sente il rumore del mare e l'urlo di un gabbiano. Il mare torna anche nel testo di "Il dissoluto". Qual è il rapporto con questo elemento e quale significato ha nell'album?

«Il mare nel disco viene usato in chiave simbolica. Amo il mare, lo amano tutti, anche chi crede di no. A pensarci bene saranno due anni che non lo vedo, ma son convinto che sia ancora là. Ogni volta che penso al mare è come se ci fossi già stato, e questo è bello!».

Come è nata la collaborazione con Luca A. Rossi che ha prodotto il disco?

«Da quel provino di prima. Ci conoscevamo già ed avevamo registrato nel suo studio (U.R.S. Recording Station) con le band. In più non abitiamo lontani e questo ci ha permesso di registrare a casa mia senza fretta. Sono molto soddisfatto di quello che abbiamo fatto, lui ha molta esperienza e mi ha fatto capire parecchie cose. Ormai abbiamo finito di registrare il secondo disco tra le altre cose».

Nel disco suoni piano, chitarra, batteria, fisarmonica e... padelle. La musica allora si può fare con qualsiasi strumento?

«Con tutti gli strumenti di sicuro. Beh, diciamo che penso di sì ma che non è che io lo faccia. Ho suonato in fase di registrazione queste cose ma non sono un fisarmonicista e con la chitarra forse so suonare tre accordi e con la batteria ho suonato piccole cose, in generale non mi ritengo un musicista, mi accompagno. Con le padelle sono un po' più esperto».

"Stronzi tutti" ha quasi il sapore di una filastrocca di altri tempi ma con un testo incisivo che invita a dubitare e a scoprire. E soprattutto mette sotto accusa la politica descritta come ‹il mondo dei più brutti›. Cosa ci puoi dire di questa canzone?

«Che è successa davvero, come è scritto nella canzone ed ero a Lucca. Il lancio me lo ha dato la frase ‹dubita e girovaga› che trovo straordinaria. Comunque non l'ho scritta io ma era scritta su un muro. Poi guardando un film con Tomas Milian ho visto che su un muro c'era scritto ‹Stronzi tutti›. Da lì mi sono ispirato alla colonna sonora del film e prima della fine avevo il pezzo. Non l'ho quasi mai più suonata, però mi sta molto simpatica anche per via di queste vicende coincidenti».

"Ballo sul posto" è un disco a tratti doloroso che si chiude con il brano "Canzone di speranza" che lascia aperta la porta verso il futuro ma con un occhio al passato. È così?

«La porta verso il futuro non si può chiudere finché c'è vita, anche se sarà un brutto futuro. Ma la speranza è un'altra cosa, è più un conforto che un programma».

I testi delle canzoni sono molto interessanti ma perché non li hai inseriti nel booklet?

«Perché ho fatto tutto da solo e lì ho avuto un cedimento di forze che mi ha portato a decidere di andare in stampa senza i testi. Poi mi stava simpatica la cosa in quel momento. Comunque i miei testi hanno senso cantati, non mi piace leggere i testi, l'ho fatto sempre comunque, ma le parole cantate che scappano e che tu non riesci a vedere ti obbligano a immaginarle e ti seducono. Come scusa questa non è male».

La copertina raffigura una persona nuda seduta su una sedia che guarda le montagne. Qual è il significato?

«La persona nuda sono io. Sono seduto sul crinale dell'alpe su una sedia con un berretto, il tempo è nuvoloso. Il significato è questo e tutto quello che a ognuno viene in mente lo arricchisce. Poi mi faceva ridere, ci ho messo il culo e non la faccia in modo significativo, forse un po' enigmatico. Mi piace insomma».

Quali sono i tuoi progetti futuri?

«Sto finendo di registrare il secondo disco. Faccio alcuni concerti poi vedo se a qualcuno potrà interessare il nuovo lavoro. Sarà la continuazione di "Ballo sul posto", un filo più movimentato e di sapore un po' western».


Titolo: Ballo sul posto
Artista: Emiliano Mazzoni
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2012

Tracce
(testi e musiche di Emiliano Mazzoni)

01. Mentre piangono le grondaie
02. Meglio sparire
03. Il dissoluto
04. La strada del male
05. Buon per te luna
06. Stronzi tutti
07. Oppure gli han sparato
08. Pieni di virtù
09. L'esperto
10. Spirito e potere
11. Con queste regole
12. Canzone di speranza




lunedì 1 luglio 2013

Il cuore dei Madame Blague fa "Pit-a-pat"







Quattro ragazzi savonesi e un sogno: registrare il primo disco. I Madame Blague ci sono riusciti e lo hanno fatto con determinazione e grande forza di volontà. Il risultato di tanto impegno è "Pit-a-pat", un album di dieci canzoni originali che strizzano l'occhio a sonorità rock anni '60/'70, in chiave rinnovata e moderna. Brani che mettono in mostra la voglia di esplorare del gruppo e che hanno il punto di forza nell'energica solarità delle melodie. I Madame Blague sono nati nel 2009 a Varazze dall'incontro del quasi ventenne percussionista Andrea Carattino con i più maturi Andrea Greco (chitarra e voce), Emmanuele Venturino (basso e voce) ed Edoardo Chiesa (chitarra e voce). Un'unione di musicisti di estrazione e gusti differenti che ha potuto contare su tre frontmen. Una peculiarità che ha portato i Madame Blague a un percorso artistico più ragionato, articolato e a tratti sofferto. Fin da subito i Madame Blague hanno preferito le prove in saletta piuttosto che le esibizioni live, facendo una eccezione per i concorsi. La scelta li ha portati a sperimentare e a lavorare su canzoni originali che hanno trovato ufficializzazione in questo disco, uscito sotto etichetta Dreamingorilla Records.
Abbiamo incontrato Andrea Greco, Emmauele ed Edoardo e ci siamo fatti raccontare cosa è "Pit-a-pat".



Quando avete deciso che era ora di fare un disco?

Edoardo: «Il disco è nato di conseguenza al gruppo. Ci siamo formati nel 2009 e abbiamo iniziato a suonare cover ma nello stesso tempo a comporre i primi pezzi originali. Quando abbiamo iniziato ad avere un po' di canzoni le abbiamo registrate per concretizzare il nostro progetto. Abbiamo quindi iniziato a fare delle prove mirate e siamo andati in studio di registrazione. Il disco è nato così».

Il disco è nato per un'urgenza di comunicare oppure è il bilancio di questa prima esperienza insieme?

Andrea: «Non c'è stata urgenza espressiva. Siamo tre autori e c'è il piacere di tutti di esprime le proprie emozioni».

È un disco nato per soddisfare le vostre esigenze o ha uno scopo commerciale?

Andrea: «Il disco, la mia musica non è solo per me, serve per esprimere qualcosa e si sta naturalmente attenti alle esigenze del pubblico che abbiamo davanti. Nella nostra varietà di stili, cerchiamo sempre di accontentare noi e speriamo anche il pubblico».

Cosa significa il titolo?

Emmanuele: «Il titolo è uno dei modi per definire il battito del cuore, la palpitazione. Ci piaceva il significato anche perché le nostre canzoni sono stratificate nel tempo, non vengono da una scrittura immediata. Magari sono brani che abbiamo tenuto nel cassetto per un po' di tempo e poi abbiamo tirato fuori nel momento in cui ci sentivamo di avere un contesto di gruppo in cui potevamo svilupparli. Quindi era come un qualcosa che, rimasta nel nostro cuore, volevamo portare all'esterno. Non eravamo così decisi a chiamare l'album "Pit-a-pat", ma nel momento in cui il grafico ci ha fatto questa proposta di copertina è stato come un segnale che dovessimo dare quel titolo al disco. Altrimenti probabilmente l'album si sarebbe chiamato Madame Blague».

Chi ha avuto l'idea del titolo?

Emmanuele: «Io, ma come tutte le cose è praticamente impossibile che si porti avanti una idea se non piace almeno a tre persone. Spesso questa cosa ci rallenta perché non avendo nel gruppo un leader abbiamo sempre la necessità di ricorrere alle votazioni».

"Pit-a-pat" è un disco eterogeneo, le cui canzoni richiamano però gli anni '60-'70. Come è successo?

Edoardo: «Quello che si ascolta necessariamente diventa parte di quello che si suona. L'inizio di "Before" richiama i motivi degli anni '50 con la tromba e il giradischi rotto. "Realitink" può ricordare un pezzo anni '60. Abbiamo cercato di prendere degli spunti da quel mondo perché ci appartiene e li abbiamo resi attuali a livello di suoni. Avremmo avuto anche la possibilità di registrare il disco solamente in analogico ma non lo abbiamo fatto perché ritenevamo importante guardare al presente».

Come avete scoperto la musica degli anni '60 e '70 voi che siete nati quasi tutti nella seconda metà degli anni '80?

Edoardo: «Sicuramente in casa, tra gli amici».
Emmanuele: «Personalmente la mia raccolta di dati non viene da una esperienza familiare, i miei genitori non mi hanno mai indirizzato verso qualcosa, né forzato verso la musica. Non saprei dire quello che ascoltavano».
Andrea: «Per me è una questione familiare. I miei genitori sono separati e l'ex fidanzato di mia mamma era musicista e mi sono fatto una cultura di blues, soul e rock».

Perché invece non siete stati attirati dalla musica contemporanea?

Edoardo: «Non è questione di qualità ma di fascino. Secondo me le cose buone le trovi anche oggi».
Emmanuele: «A prescindere da dove siamo andati a raccogliere la musica, c'è in tutti noi la volontà di ricercare quella di cui sentiamo di aver bisogno e poi non è detto che non la si trovi anche nel contemporaneo. Se si va a vedere c'è anche molto di buono nella musica attuale, si prenda per esempio Gualazzi che è sicuramente di livello. La differenza sta nel non accettare quello che viene passato dai media ma cercare quello di cui uno ha bisogno».
Andrea: «La nostra varietà nasce dai gusti differenti di tutti i componenti del gruppo. Tutti abbiamo un bagaglio di musica del passato ma magari di un decennio diverso. E in questo legame tra il passato e il presente del nostro lavoro c'è anche la questione delle sonorità e delle registrazioni. C'è stata una storia anche in quel campo e i dischi del passato suonano così e non suoneranno mai più nello stesso modo. Noi abbiamo preso quella musica e gli abbiamo dato sonorità attuali. Forse è nato anche qualcosa di nuovo».

Mi ha colpito la canzone "Tell me" con quelle sonorità californiane e i cori...

Emmanuele: «Ci siamo chiesti quale canzone potesse essere rappresentativa dell'album. Ecco, "Tell me" è forse quella che racchiude un po' l'essenza del disco. È nata un giorno in cui in saletta non eravamo tutti presenti. Io ed Edoardo abbiamo iniziato a strimpellare e abbiamo buttato giù qualcosa, poi lui ha lavorato un po' di più sulla musica, io un po' di più sulle parole e poi abbiamo sottoposto la bozza al gruppo. Tutti hanno contribuito a integrarla e a renderla una canzone. Andrea Greco si è occupato dei cori e di queste armonizzazioni, che sono poi una delle caratteristiche forti del nostro gruppo. "Tell me" è qualcosa di particolare nel senso che è stata una delle canzoni della nostra svolta, insieme a "Realitink". Brani che ci hanno spinti a mollare definitivamente le cover e che ci hanno dato la forza per provare a fare qualcosa di originale».

Le canzoni, come abbiamo detto, sono anche molto diverse tra di loro come sonorità, però sembra esserci un filo conduttore…

Emmanuele: «Con la scelta dei suoni abbiamo cercato di creare quel trait d'union che non c'è tra le canzoni. Una volta trovata la sonorità che potesse essere valida per tutti i pezzi l'abbiamo riproposta in tutte le canzoni. Le equalizzazioni di basso sono le stesse per tutti i pezzi e così anche per quanto riguarda la chitarra. Questo ha fatto sì che anche i pezzi diametralmente opposti suonassero all'interno del cd non come qualcosa di stravagante o buttato lì a caso».

Avete detto che un leader non esiste, come funziona all'interno del vostro gruppo?

Edoardo: «Le proposte vengono sempre vagliate e votate da tutti. Sembra quasi fatto apposta ma siamo sempre divisi equamente e quindi nascono delle situazioni di stallo anche molto lunghe. Dobbiamo quindi studiare una idea alternativa per trovare una maggioranza. Siamo rallentati da questo sistema ma pensiamo di andare avanti così».

Chi ha portato il maggior numero di idee nel disco?

Emmanuele: «Nel cd ci sono sei canzoni equamente divise tra Andrea, Edoardo ed Emmanuele. Poi ci sono "The circus never stops" e "Under a Varazze sun" che sono canzoni del gruppo, "Tell me" e "Realitink" sono delle vie di mezzo. I Madame Blague nascono come un consorzio di solisti, se avessimo fatto un cd di tre canzoni per ogni componente e una di gruppo sarebbe nato un cd troppo disomogeneo».

Perché i Madame Blague si vedono poco suonare dal vivo?

Andrea: «Perché a volte siamo poco propositivi. Abbiamo speso tanto tempo dietro al cd e i live ci sono sfuggiti di mano. Poi c'è un problema mio personale che rende difficile il lavoro di tutti. Da tre anni soffro di acufeni - fischi e ronzii nelle orecchie - che suonando peggiorano e quindi tendo a ricercare meno i live».

Avete programmato un tour promozionale per l'estate?

Edoardo: «Abbiamo qualche data fissata: il 6 luglio saremo al Beer Room a Pontinvrea e il 7 luglio apriremo al grande Paolo Bonfanti a Varazze. Poi a livello di eventi facciamo fatica a inserirci, non siamo molto "piacioni", nel senso che non siamo mondani, non abbiamo tante conoscenze».
Emmanuele: «Oltre a essere figli di nessuno, il problema è che la nostra musica non ha una etichetta definita. Quando suoni un genere paradossalmente assurdo o di nicchia hai più possibilità di emergere che in contesti come il nostro. Perché ti puoi infilare nella scia di un tuo personaggio di riferimento e provare a legarti a questo, oppure abbracciare festival di nicchia, o inserirti in un filone che è già percorso da altri. Non avendo un gruppo di riferimento noi siamo tagliati fuori. Inoltre non siamo politicizzati, e lo si può vedere anche dai testi che sono più introspettivi, di riflessione. E così siamo in quel limbo che non piace a nessuno, in più non siamo estremi e non siamo soft».

Passiamo alla copertina, cosa mi potete raccontare?

Emmanuele: «L'ha realizzata Cikaslab, lo studio di design di Riccardo Zulato a Noventa Vicentina. Ci è piaciuto il lavoro che ha fatto per un gruppo di Genova, i Dresda, e lo abbiamo contattato dopo un enorme delusione su più fronti. Riccardo ci ha presentato alcune bozze e poi, come succede sempre, prima che decidessimo quale potesse essere quella definitiva c'è voluto del tempo. Si tratta di un cuore inserito nei polmoni ma rappresentato come un alveare dentro un albero ribaltato a testa in giù. Riccardo ci ha chiesto se esisteva qualcosa che potesse essere un simbolo del gruppo, un animale o uno spirito guida. Abbiamo scelto il bombo perché è citato nel testo di "Realitink". Nel ritornello della canzone cantiano ‹il bombo, per il rapporto tra le dimensioni del suo corpo e l'ampiezza delle sue ali, secondo le leggi dell'aerodinamica non potrebbe volare, ma il bombo non conosce le leggi dell'aerodinamica per cui vola›, frase che è attribuita a Igor Sikorskij, l'inventore dell'elicottero. Questa frase è un po' il significato del gruppo che vuole lanciarsi oltre le proprie effettive possibilità».

Il disco lo avete registrato a Piacenza, perché siete andati così lontano?

Edoardo: «Avevamo deciso di fare il disco e avevamo deciso che lo avremmo registrato ad agosto perché non c'era altro tempo. Abbiamo contattato 2-3 studi ma ad agosto era impossibile. Abbiamo proseguito nella ricerca e abbiamo trovato l'Elfo Studio di Piacenza che ci ha dato la disponibilità. Abbiamo avuto la fortuna di registrare nella sala più bella e abbiamo conosciuto una persona meravigliosa, il fonico Daniele Mandelli, con cui siamo diventati amici. Ha fatto un lavoro incredibile, siamo stati fortunati. Abbiamo mixato con lui e poi abbiamo fatto masterizzare il disco allo Studiopros di Los Angeles».
Emmanuele: «Le voci le ha però registrate Andrea Greco a Varazze. Ha delle ottime apparecchiature e inoltre ha fatto dei corsi all'Accademia della Scala di Milano tramite lo studio Barzan».

Non avete fatto molte date live ma in compenso avete preso parte a contest locali e nazionali...

Andrea: «Abbiamo partecipato a Rock on the Rocks a Varazze vincendo con il brano inedito "Afraid to forget you" che è poi stato trasmesso per tre mesi da Radio Skylab, abbiamo raggiunto le semifinali del Tour Music Fest a Roma con "Before", siamo arrivati secondi allo Sband di Savona».

Perché avete preferito i concorsi?

Andrea: «Perché vedi dove puoi arrivare. Bisogna accettare il metro di giudizio, e a volte è difficile quando a decidere è il pubblico, però conosci nuove persone, ti rapporti con tante realtà diverse. Mi sono sempre trovato bene, anche se suoni poco. E poi trovi tutto pronto e questo è già un vantaggio per noi musicisti».
Emmanuele: «Ci sono stati contest che ci hanno scoraggiato, altri che nonostante l'esito ci hanno soddisfatto. Il Tour Music Fest, nel quale abbiamo rappresentato il nord ovest e per il quale abbiamo speso una marea di soldi per le trasferte a Milano e Roma, è stata una battaglia con tutta gente di valore, in cui ci poteva stare vincere o perdere. Siamo tornati a casa contenti».
Edoardo: «Dipende dal concorso. Quelli dove devi portare gli amici per essere votato è meglio non farli. Se invece davanti hai una giuria allora ci può stare, anche per capire e vedere cosa ne pensa qualcuno che lavora nell'ambito della musica. Purtroppo i concorsi sembrano essere l'unico modo per far suonare le band emergenti».

Avete già progetti per il futuro?

Edoardo: «Stiamo lavorando a nuove canzoni, ci piace e ci divertiamo. Adesso però dobbiamo concentrarci a promuovere il nostro album. Cercare di far più date possibili».

Ci sono persone che vi hanno seguito nel corso della gestazione di "Pit-a-pat"?

Emmanuele: «I testi sono nati dalle nostre mani in base a quello che volevamo esprimere. Abbiamo però scelto di cantare in inglese e non essendo di madre lingua, abbiamo avuto bisogno di aiuto. Ci sono due persone che ci hanno dato una mano sotto questo punto di vista e che vogliamo ringraziare».
Andrea: «Si tratta di Terrence Agneessens, traduttore e papà di un mio compagno di liceo, e di Mariafelicia Maione che è una amica dell'Aquila che ha studiato da traduttrice. In realtà ci ha dato una mano anche Alessio, figlio Terrence».

Cosa significa Madame Blague?

Andrea: «È il primo nome per cui ci sono stati tre voti a favore. Il primo che ci è venuto in mente è stato Coin Edge ma forse era più da metal. Madame Balgue è più raffinato, alla francese. Era nato come Mister Blague ma ci sono tante band che hanno il nome che inizia con mister e allora abbiamo deciso di cambiarlo in madame. Lo possiamo tradurre come signora scherzo».


Titolo: Pit-a-Pat
Gruppo: Madame Blague
Etichetta: Dreamingorilla Records
Anno di pubblicazione: 2013

Tracce
(testi e musiche di Madame Blague)

01. Join us
02. The circus never stops
03. Escaped whisper
04. Tell me
05. Sweet colors
06. Afraid to forget you
07. Before
08. The story of how I lost my face
09. Realitink
10. Under a Varazze sun