giovedì 21 maggio 2015

I "nuovi" Üstmamò cantano il "Duty free rockets"




"Duty free rockets" segna il ritorno degli Üstmamò. Una reunion al 50% dopo tredici anni di assenza dalle scene musicali. Della band che tanto aveva fatto parlare di sé negli anni '90 sono rimasti Luca Alfonso Rossi e Simone Filippi che ha partecipato alla stesura dei testi. Non c'è più la cantante Mara Redeghieri che si dedica all'insegnamento a tempo ed è impegnata in progetti di studio, recupero e diffusione di brani della tradizione popolare mentre Ezio Bonicelli figura tra gli ospiti del disco. Entrambi hanno però appoggiato il progetto e spronato Rossi a iniziare questa nuova avventura. Inevitabile che due assenze così importanti abbiamo condizionato profondamente il suono e la musica dei nuovi Üstmamò. "Duty free rockets" è molto distante dalla produzione precedente del gruppo. Niente trip-hop, nessuna mescolanza di generi o traccia di elettronica, ma tante chitarre acustiche, slide ed elettriche a creare un tappeto sonoro compatto. Un guitar album, registrato alla svelta con due microfoni a valvole e un Ribbon su computer senza editing invadente, le cui tracce guardano oltre oceano, alla produzione rock americana, al blues di J.J. Cale, al country più cupo. E in queste atmosfere si colloca alla perfezione la voce sussurrata e malinconica di Luca A. Rossi. Un disco piacevole, ben scritto, a tratti sorprendente, con testi scritti unicamente in inglese, che segna il gradito ritorno sulle scene di una parte degli Üstmamò e il futuro è ancora tutto da scrivere.
A parlarci del ritorno e della rinascita degli Üstmamò è Luca A. Rossi nell'intervista che segue. 
 



Luca, perché avete deciso di tornare a incidere un disco dopo oltre dieci anni dallo scioglimento del gruppo?

«Perché avevo un sacco di idee e musiche, giri di chitarra, ma specialmente voglia di suonare alla vecchia maniera garage».

Cosa rispondi ai maligni che potrebbero pensare che sia solo una operazione nostalgica?

«I maligni, essendo tali, non si accontentano di una risposta sincera. In ogni modo, se fosse una operazione nostalgica andremmo in giro a suonare le nostre canzoni di venti anni fa. Se i maligni ascoltassero "Duty free rockets" capirebbero che di nostalgico c'è ben poco… lo capirebbero senza bisogno di spiegazioni».

In dieci anni cosa è cambiato nella tua visione del gruppo e della tua musica?

«Non è cambiata solo la mia visione ma il gruppo stesso, siamo rimasti in due e lavoriamo per quattro; questo in studio è anche molto divertente perché ci piace suonare vari strumenti ma dal vivo saremo in quattro: io, Simone Filippi, Mirko Zanni e Mauro Zobbi. La visione della mia musica parte dalle mani e dalle orecchie più che dagli occhi ed è cambiata. Cerco di fare delle cose molto semplici, non mi piacciono gli assolo complessi, ho riascoltato gente come Skip James, J.J. Cale, Elvis, un sacco di cose anni '50 e non mi piacciono molto i dischi che suonano plastificati, che spesso mi sembrano tutti uguali, come le voci trattate con "plug-in" di intonazione, il mio cervello e il mio orecchio le rifiutano, insomma preferisco le piccole imperfezioni delle voci e degli strumenti, siamo uomini, grazie a Dio vivi, con i nostri  difetti e le nostre differenze. In generale più lavoro su una cosa e meno mi piace».

Qual è il messaggio che vuoi trasmettere con le canzoni del nuovo disco?

«Nessun messaggio, ho provato a scrivere testi in italiano ed era evidente che i significati massacrassero la musica, non andava e non mi piaceva. Con l'inglese è stato più naturale e sono nate delle brevi storie. In "I play my chords" descrivo il momento preciso in cui ho composto la canzone, quello che succedeva, da dove arrivava. "Joy" parla di uno che alza gli occhi al cielo e chiede un po' di gioia per lui e gli altri, è la mia preferita. "Duty free rockets" è la storia vera di un gruppo di soldati americani, saltati su una mina anticarro in un'imboscata, da qualche parte in Afghanistan, tutti feriti in modo più o meno grave. Aspettando gli aiuti, a terra, nella polvere e tra le raffiche, uno di loro stava morendo, delirava e diceva frasi scollegate e senza senso. Un suo compagno sopravvissuto ha riportato, in seguito durante un'intervista a un quotidiano, alcune di queste frasi che ho ripreso e utilizzato nel testo. Sono le ultime parole di un soldato che crepa, esploso, nella polvere. Altre parole le ho rubate dalla battaglia di Geonosis di Guerre Stellari. "Tha last trap" parla di guerre sante e il testo è più che eloquente. Sono tutte brevi storie».

Degli Üstmamò degli anni '90 siete rimasti in due. La cantante Mara Redeghieri non vi ha seguito in questa nuova avventura e Ezio Bonicelli ha dato un contributo limitato. Cosa cambia ora nelle dinamiche e nella visione del gruppo?

«In due si lavora bene e ci si mette sempre d'accordo, ovvio che devi lavorare il doppio. Tre è il numero perfetto, dicono… In quattro rimanere insieme più di dieci anni è già una gran cosa. Quindi cambia tutto costantemente, di sicuro i vecchi quattro Üst non avrebbero fatto un disco chiamato "Duty free rockets", con questo immaginario e cantato in inglese».

Gli Ustmamò non sono più una "ghenga" ma tu sei ancora il capo…

«Per forza. A parte gli scherzi, se fossi ancora il capo avrei recuperato tutti e quattro gli Üst…».

La novità più grande è che hai preso il microfono in mano e sei diventato il cantante degli Ustmamò. Scelta obbligata o aspirazione che trova finalmente realizzazione?

«Realizzazione no di sicuro. Appurato che Mara non avrebbe cantato, era evidente che toccava a me. Non mi piace cantare, sono un musicista e mentre facciamo le prove per i concerti non riesco mai ad attaccare con la voce… aspetto sempre e penso ‹ma quando cazzo entra sta voce!?›. Poi rinvengo e attacco. È stato divertente comporre le canzoni chitarra e voce in una legnaia che suonava benissimo, registravo sul telefonino dei provini per memorizzare ed erano fantastici, suonavano anni '50. Bello anche in studio, durante le registrazioni, mi diverto con compressioni ed echi. In ogni caso mi auguro che il prossimo disco lo cantino Mara o Simone che con la voce è fortissimo».

Come e dove si collocano gli Üstmamò nel 2015?

«Non ne ho la più pallida idea. Vorrei solo collocare dei concerti, con Simone alla batteria e alla voce, io voce e chitarra, Mirko Zanni alla chitarra e Mauro Zobbi al basso. In stile blues sporco, reggae roots, old school».

Giovanni Lindo Ferretti ha espresso parole d'elogio per il tuo nuovo progetto: <Da tre settimane ascolto il disco di Luca, mi ha fatto innervosire molto per l'uso dell'inglese, un po' perché non c'è la voce di Mara, poi sorridere perché mi sto abituando alla sua voce. E sono contento per Luca e le sue canzoni cominciano a farmi compagnia…>.

«Ho realizzato il disco anche con l'intento sincero di fare compagnia a qualche mio amico e sono contento che abbia funzionato con Gio e altri, anche Ezio Bonicelli si è fatto parecchi viaggi in auto con "Duty free rockets". Con Giovanni abbiamo parlato dei testi in inglese, stava per massacrarmi poi ha capito che in italiano non avrei mai concluso e si è rassegnato all'idea, credo».

Nel disco compaiono anche due cover: una di J.J. Cale e l'altra è un classico r'n'r. Perché hai fatto questa scelta?

«In effetti  avrei potuto sceglierne altre tremila. "Don't go to strangers" di J.J. Cale l'ascoltavo a 12/13 anni e cercavo di strimpellarla. Casualmente l'ho riascoltata a 47 anni e impulsivamente l'ho registrata in due o tre ore. Fine. "Hambone" uguale, mi piacciono perché sono fatte di tre accordi e una settima, una linea melodica semplice, un riff di chitarra».

Viviamo nel 2015 ma mi pare di capire che il tuo sguardo musicale sia puntato su riferimenti del passato. Mi sbaglio?

«Adesso sì, riferimenti che suonano vecchi, il mio cervello li riconosce e li digerisce meglio. Meno pressione sonora e più aria che si muove. Ogni tanto faccio finta di vivere nel passato. Dipende dal cd che ho sulla Jeep».

L'immagine di copertina fa pensare a una guerra, a esplosioni…

«Sì, anche la realtà spesso fa pensare a una guerra. "Duty free rockets" per una parte è una zona franca da missili e razzi, dove si può stare al riparo, sicuri. Per l'altra parte è una zona franca dove missili e razzi possono essere venduti e comprati in grande quantità, con facilità a basso prezzo e senza dazi. In mezzo è guerra feroce tra le due parti».

Chiudi il disco con due canzoni in cui è protagonista il vento. Cosa rappresenta per te questo elemento naturale?

«Abito in un posto che si chiama La Bora e non è un caso, quando il vento vuole, sa fare male. Esasperato, dopo una settimana di raffiche violente, fredde e rumorose ho messo fuori dalla porta un Marshall valvolare a manetta cercando di sovrastare il suo suono e la sua potenza. Ha vinto lui, sembrava dire ‹tu sparisci!› e questa è la storia della canzone. Il vento rappresenta la forza e la potenza della natura e mi ricorda che non sono niente di molto importane e duraturo. Una foglia».

Trovo che il disco sia molto genuino e trasmetta naturalezza. Non c'è nulla di forzato. Lo è stato anche il processo creativo?

«Sì, il processo creativo è la cosa che ha funzionato meglio, e quando comincia funziona come un orticello, va bagnato e lavorato un po' tutti giorni e se la terra non fa proprio schifo nasce qualcosa. È la cosa che mi piace fare di più. La registrazione della canzone equivale  al congelamento del raccolto».



Titolo: Duty free rockets
Gruppo: Üstmamò
Etichetta: Primigenia Produzioni / Gutenberg Music
Anno di pubblicazione: 2015


Tracce
(musiche e testi di Luca A. Rossi, eccetto dove diversamente indicato)

01. I play my chords
02. Done
03. Don't go to strangers  [J.J. Cale]
04. Joy
05. Hambone  [Carl Perkins, Wayne P. Walker]
06. The last trap
07. Duty free rockets
08. I want to tell you
09. Sad king
10. Wha wha wind
11. When the wind talks to me


 

martedì 12 maggio 2015

Per Luca Casali e la Roots Band è "Time to smile"





Un viaggio in Australia e Nuova Zelanda ti può cambiare la vita. Lo ha capito anche il cantautore riminese Luca Casali che in Oceania non ha fatto solo il turista ma ci ha vissuto per un po' di anni durante i quali ha preso confidenza con l'ambiente e la natura, ha conosciuto luoghi e persone e si è innamorato della musica australiana di Xavier Rudd e John Butler. Tornato a casa, nella riviera romagnola, Casali si è inserito nella scena musicale locale stringendo collaborazioni con diversi artisti e nel 2013, insieme alla The Roots Band composta da Eros Rambaldi e Stefano Cristofanelli, ha iniziato le registrazioni, al Teatro Corte di Coriano, delle canzoni del suo primo album, "Time to smile", che ha visto la luce l'anno seguente. Dagli anni passati in Australia Casali ha portato con sé atmosfere, esperienze, paesaggi e l'amore per la chitarra Weissenborn, strumento caratterizzato da una cassa piccola ma con il manico quadrato vuoto e dotato di una voce melodiosa ed evocativa.
Il tutto è andato a comporre i nove brani inediti, tutti suonati con strumentazione acustica, che fanno viaggiare l'ascoltatore verso luoghi lontani, a contatto diretto con la natura. Canzoni che per atmosfere fanno pensare a nottate passate a suonare davanti a un falò, magari in riva all'oceano, con amici in un clima di serenità.
Nel disco brani energici dalle influenze rock e blues si alternano a ballate più intime e introspettive. Anche i testi scritti da Casali fanno parte di un percorso che prende il via dalla descrizione dell'ipocrisia della società e dei suoi sistemi per poi arrivare a una visione più distesa e in pace con il mondo, in attesa di una nuova primavera.
Luca Casali è il protagonista dell'intervista che segue.




Luca, il tuo disco si intitola "Time to smile" ma sei proprio sicuro che sia tempo di sorridere?

«"Time to smile" vuole regalare una visione positiva per il prossimo futuro, vuole essere un traino per tirarci fuori da questo periodo di staticità sociale. Personalmente il titolo del disco si riferisce anche ad un cambio decisivo di direzione della mia vita».

Prima di pubblicare il tuo album d'esordio hai passato diversi anni in Australia e Nuova Zelanda. Cosa ti ha lasciato questa esperienza nella tua visione della vita e della musica?

«Gli anni trascorsi in quelle terre così lontane ed affascinanti mi hanno decisamente segnato e cambiato in maniera radicale. Mi hanno fatto prendere pienamente coscienza di me stesso e di quello che sto cercando. Non solo i luoghi ma anche le persone e le diverse culture con cui ho avuto contatto. È come aver avuto la possibilità di guardare la mia vita ed il mio percorso dall'esterno, un privilegio unico. La musica è la risultante di tutto ciò, la manifestazione esteriore, pubblica».

Dal momento che hai vissuto in quella terra lontana e così affascinante mi viene da chiederti se ti senti più in sintonia con la musica di Xavier Rudd o con quella di Nick Cave?

«Mi sento più in linea con la musica e le sonorità di Rudd, sia per i testi che per l'uso della chitarra Weissenborn. Inoltre le tematiche affrontate da Rudd, quali il legame con la terra, la tutela e la salvaguardia dell'ambiente e la ricerca di una visione positiva del mondo, sono idee che condivido pienamente, in parte anche nei miei brani. Cave, pur essendo un artista indiscusso ha sonorità più cupe e grottesche, affronta tematiche diverse quali il ruolo del divino nella vita dell'uomo descrivendo l'angoscia esistenziale e l'amore perduto. Quindi pur provenienti dalle stesse terre mostrano peculiarità, a mio avviso, molto diverse».

Se non avessi vissuto in Australia la tua musica cosa sarebbe ora?

«Devo molto a quella esperienze e così anche la mia musica. Quegli anni mi hanno aiutato inconsapevolmente a maturare anche dal punto di vista artistico. Senza, forse, non saremmo qui a parlare di "Time to smile"».

Le canzoni del disco portano lontano ma puntano forse più verso un certo folk-blues americano. Mi sbaglio?

«Hai ragione, la matrice fondamentale rimane quella del folk-blues americano ma con l'utilizzo delle percussioni e del contrabbasso il sentiero prende una via diversa, direzione emisfero sud. Quindi le sonorità si addolciscono e diventano più ritmate».

Ascoltando il disco nella sua interezza sembra di percorrere una strada che da ripida e difficile, canzone dopo canzone, diventa più agevole fino a "Spring time" che chiude il tuo lavoro…

«Si parte descrivendo l'ipocrisia della società e dei suoi sistemi, la necessità vitale di un respiro diverso, la ricerca e l'intreccio con la natura più selvaggia, per poi passare e trasformare l'energia in immagini più distese come in un tacito accordo raggiunto con il mondo. Esattamente un personale percorso che si rispecchia anche nella musica».

In questo progetto sei accompagnato dalla Roots Band. Ce la presenti?

«Eros Rambaldi suona il contrabbasso ed è un bravissimo musicista che ha dato un notevole valore aggiunto ai brani grazie alle sue capacità e intuizioni musicali. Stefano Cristofanelli è un percussionista eclettico che riesce a trasmettere ai suoi strumenti musicali la sua passione per la musica».

Perché hai scelto di scrivere in inglese e soprattutto perché non hai allegato al cd un libretto con i testi?

«La scelta della lingua inglese e stata dettata dal luogo dove questi brani sono nati o comunque si sono ispirati, quindi mi sembrava coerente usare questa lingua. Secondariamente, forse, il genere musicale si sposa meglio con la lingua inglese, ma questo non esclude la possibilità che ci possano essere successivi lavori in italiano. Per quanto riguarda il libretto posso dire che non è stato allegato per questioni tecniche. Ci sarebbe voluto un po' più di tempo ed era troppa la voglia di far uscire il disco prima possibile».

Non credi che la scelta di usare essenzialmente strumenti acustici possa in qualche modo limitare le tue possibilità espressive?

«È vero, in qualche modo gli strumenti acustici possono limitare le scelte sonore ma questo disco è nato così, cantato sulla sabbia, in spiaggia, magari davanti ad un falò e sono queste le sonorità e le immagini che volevamo trasmettere».

Penso che ci siate riusciti molto bene. Tra gli strumenti usati spicca la chitarra Weissenborn, uno strumento dal suono melodioso che conosciamo bene per averla vista suonare anche da Ben Harper. Dove l'hai scovata e cosa ti dà questa chitarra?

«La Weissenborn è uno strumento davvero unico ed ancora una volta devo la sua scoperta al mio girovagare per il continente australe dove ho avuto modo di conoscere musicalmente non solo Rudd ma tanti altri artisti minori, buskers di festival locali. È uno strumento molto espressivo, volubile e in grado di trasmettere le emozioni di chi lo suona».

Dall'Australia hai portato con te anche il suono del didjeridoo che devo confessarti è uno strumento che mi affascina…

«Il didj anche se suonato a fiato viene considerato una percussione e si sposa benissimo sia con ambienti sonori acustici che elettronici! Nato dalla tradizione aborigena richiama all'orecchio i suoni e i colori della terra ancestrale».

Secondo te a cosa serve una canzone?

«Una canzone serve a trasmettere emozioni, immagini ed esperienze di vissuti, può far star bene, può incuriosire, deve emozionare e comunque sia darti carica e tempo per andare avanti e riflettere qualunque cosa tu stia facendo nella vita».

Quali sono gli ascolti che hanno maggiormente influenzato l'album?

«Xavier Rudd, John Butler, Eddie Vedder, Tommy Emmanuel, Nick Drake, Pearl Jam, Damien Rice e ce ne sarebbero tanti altri».

Come artista dove ti vedi tra dieci anni?

«È difficile dirlo, la strada del musicista come altre, non è semplice; è fatta di passioni, delusioni, salite e rapide discese. Tra dieci anni suonerò sicuramente, magari con qualche sogno in più nel cassetto realizzato».


Titolo: Time to smile
Artista: Luca Casali & The Roots Band
Etichetta: autoproduzione / New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi di Luca Casali)

01. True song
02. Over the sea
03. Like a breath
04. Found out the way
05. Time to smile
06. And nothing more
07. Siren
08. Without shoes
09. Spring time


lunedì 4 maggio 2015

I "Pensieri verticali" del cantautore Stefano Barotti






Non c'è fretta quando si è alla ricerca della qualità. Lo sa bene Stefano Barotti, tornato discograficamente a far parlare di sé dopo un lungo periodo di assenza. Sette anni in cui il cantautore toscano ha suonato molto dal vivo, ha collaborato con altri artisti, ha composto e registrato le canzoni di "Pensieri verticali", terzo disco della sua carriera. Un importante passo verso una decisa maturità artistica capace di unire il meglio del cantautorato della tradizione italiana con una importante iniezione vitaminizzante di rock, blues e americana.
L'esperienza maturata da Barotti alla corte di Jono Manson (ospite nel brano di apertura), in occasione dei due precedenti capitoli discografici, è servita a creare quel fertile substrato su cui si è andato a innestare felicemente il lavoro con il produttore Raffaele Abbate della OrangeHome Records. Un rapporto di collaborazione che ha trovato il giusto feeling e che ha regalato agli ascoltatori un disco ricco di sfumature, in cui viene valorizzata al meglio la capacità compositiva dell'autore. I brani sono piccole gemme che raccontano emozioni, stati d'animo e cose del vivere comune attraverso una scrittura non complessa. Ballad folk-rock lasciano il passo a brani di matrice pop ("L'uomo armadillo"), a divagazioni blues ("Blues del cuoco"), a incursioni dylaniane ("Nerone"), fino all'esplorazione dei territori della west coast ("Cuore danzante/Sulla pietra del pane sfidando il drago con la spada di San Giorgio") in cui la resofonica di Max De Bernardi regala atmosfere suggestive.
Oltre a Manson e De Bernardi, sono tanti gli ospiti che hanno contribuito alla realizzazione di questo progetto che si colloca tra i più belli e interessanti degli ultimi mesi. Tra questi Paolo Bonfanti con il suo inimitabile tocco chitarristico, John Egenes, Kreg Viesselman ed Henry Carpaneto. A creare una solida base musicale ci hanno pensato Vittorio Alinari (flauto e clarino), Nico Pistolesi (pianoforte e organo Hammond), Luca Silvestri e Matteo Giannetti (basso), Vladimiro Carboni (batteria), Luca D'Alberto (archi) e lo stesso Raffaele Abbate (percussioni e pianoforte).
A presentarci il disco è Stefano Barotti nell'intervista che segue.





Battere il ferro finché è caldo non è un motto che ti si addice. Dal tuo ultimo album sono passati sette anni. Non pensi che nella frenetica società di oggi aspettare così a lungo possa essere controproducente?

«Discograficamente parlando, di caldo in Italia ci sono solo le spiagge estive di Rimini. Questo per dire che non c'è una realtà discografica vera nel nostro paese. A meno che tu non sia un nome e allora ogni anno devi far uscire qualcosa di nuovo, farti un giro a Sanremo o ancora meglio far uscire la tua discografia su "TV Sorrisi e Canzoni" per mantenere caldo il ferro, come dici tu. Anche quando da battere c'è rimasto ben poco. Parlando della società che citi, proprio perché frenetica non credo si siano accorti dell’assenza di Barotti. Proprio perché tutto è così frenetico.
Detto questo, mi sono preso del tempo. Volevo voltare pagina e lavorare al nuovo disco in modo diverso rispetto al passato. Sono passati sette anni ma due li ho passati a produrre "Pensieri verticali". Dopo "Gli ospiti" del 2007 mi sono dedicato alle canzoni, a mettermi in discussione artisticamente e a cambiare direzione».

Cosa hai fatto in tutti questi anni?

«Tanti concerti, collaborazioni. Ho scritto un musical con Roberto Ortolan, amico e chitarrista eccezionale. Diciotto canzoni a tema che raccontano una storia, che spero prima o poi vedrà la luce in teatro grazie ad una produzione. Ho studiato e scritto nuove canzoni. Per fare un disco devi averne almeno venti buone per sceglierne una decina da inserire in un nuovo lavoro».

Quali sono i "Pensieri verticali" che più ti ossessionano?

«In realtà il pensiero verticale non ossessiona. Anzi incuriosisce, innamora. Alla base credo ci siano le "radici e le ali" come cantava qualcuno. Essere curiosi del nuovo mantenendo una buona integrità. Certamente ci sono pensieri più affilati, taglienti come per esempio quelli dettati dal rimpianto, questi tendono ad alzarsi un po' troppo in piedi. In questi casi credo sia importante che uno spermatozoo di pensiero non diventi un Gulliver».

Gli artisti hanno sempre una buona dose di follia in qualche angolo nascosto… Tu come ti senti?

«La mia dose di follia è decisamente implosa. Non amo i merletti e i cappelli e nemmeno i gesti ad effetto. Ho il mio clandestino a bordo che a volte affiora e mi porta altrove. Da ragazzo la prerogativa era quella di non essere uno dei tanti, crescendo sono cambiate molte cose. Credo comunque che avere una vita piena di segnalibri, di canzoni, sia già una forma di follia. Così come raccontare la propria vita a perfetti sconosciuti tutte le sere cantandogliela. Se ci pensi è da incoscienti. Anche se poi le canzoni diventano degli altri, ma questa è un'altra storia».

I tuoi primi due album sono stati prodotti da Jono Manson, "Pensieri verticali" da Raffaele Abbate. Cosa è cambiato nel tuo modo di lavorare e quali sono le differenze di approccio tra i due?

«Jono è un produttore molto "Live". Segue molto l'istinto e tifa per il 2 + 2 fa 4. È molto pratico. Mi ha sempre ricordato quei capi mastro nei cantieri edili che fanno un mazzo così a geometri e architetti. Abbate è più sornione, strategico. Lavora come gioca uno scacchista. Tende a ripulire il suono, lascia poco al caso, e fa si che una sua scelta diventi anche la tua. Ho scelto lui perché appartiene alla "vecchia scuola". Un po' come me. Una canzone deve stare in piedi chitarra e voce, allora puoi cercarle un buon vestito, e il buon vestito può voler dire lasciarla nuda. Il mio modo di lavorare è cambiato molto. La lunga pausa tra i miei ultimi due lavori è stato un mettere a fuoco tutto il percorso. I due dischi americani con Jono, la nuove prospettive e intenzioni musicali. Mettendo me e chi lavora con me a disposizione delle canzoni e non il contrario».

Jono Manson resta comunque figura importante avendo partecipato con voce e chitarra in "L'uomo armadillo", canzone che apre il disco…

«Jono è stato e sarà sempre una figura importante per il mio lavoro. Con lui ormai c'è un'amicizia forte che dura da più di dieci anni. Ci tenevo partecipasse al disco, che ci fosse, nonostante io abbia scelto altre strade rispetto al New Mexico. Ne "L'uomo armadillo" ci sono alcune linee in inglese e con Raffaele Abbate abbiamo pensato di farle cantare a Jono. Tra l'altro l'uomo armadillo è un amico comune. Quindi, un piccolo cerchio che si chiude».

"In soli sei minuti so cambiare il mondo", partendo da cosa?

«Questa linea è rubacchiata. Chiedendo ad un'amica come stava dopo alcuni avvenimenti spiacevoli mi rispose: ‹tranquillo, tra sei minuti mi è passato tutto›. Mi è piaciuto questo dare un tempo a un piccolo dolore per un dispiacere. La capacità di cambiare, sterzare nei momenti minori, e farlo addirittura in fretta credo sia da persone intelligenti. Esistono per tutti i giorni neri, dedicare solo sei minuti alla ripresa mi sembra un buon risultato».

Oltre a Manson hai potuto contare su altri ospiti di riguardo come Max De Bernardi - splendido il suo contributo con la resofonica in "Cuore danzante" -, Paolo Bonfanti e Kreg Viesselman. Cosa ci puoi dire di queste collaborazioni?

«Paolo Bonfanti ha sempre suonato nei miei dischi. Abbiamo diviso spesso il palco. Ad ogni disco Paolo mi torna in mente, perché d'istinto sento le sue chitarre in questa o quella canzone mentre il disco lo sto disegnando ancora. Sono convinto sia uno dei più grandi talenti della sei corde che abbiamo nel paese, e per questo possa giocarsela a testa alta anche all'estero. Max De Bernardi invece l'ho conosciuto solo qualche anno fa ad un festival. Lui è veramente illuminato. Suona sempre quel che non ti aspetti. La sua resofonica in "Cuore danzante" mi dà ancora sorprese nonostante l'abbia ascoltata centinaia di volte. Kreg Viesselman l'ho conosciuto nel 2008. Abbiamo fatto un tour insieme in Italia. Siamo legati da una profonda amicizia, nonostante il mio pessimo inglese e il suo poco italiano. Due anni fa è capitato di suonare ancora insieme mentre registravo "Pensieri verticali", in quei giorni l'ho invitato a partecipare ai cori di "Nerone"».

In "Giudizio non ho" canti in maniera ironica il tuo personale rapporto con tua madre. ‹Ieri ho rivisto mia madre e mi ha detto che non era il caso che a suon di cantare e scrivere mi crescerà il naso› è una delle strofe della canzone che mi porta a chiederti come la musica sia entrata nella tua famiglia…

«Mio padre era un buon chitarrista, adesso non suona da anni ma negli anni '60 con la sua band impazzava sulla costa versiliese. A mia madre piaceva cantare, e spesso da ragazza si impadroniva di qualche microfono quando qualcuno suonava nei locali di Forte Dei Marmi. Si sono conosciuti praticamente su un palco. Quindi non poteva andare altrimenti con me».

Ho notato che nei tuoi testi hai focalizzato la tua attenzione sulle piccole cose, sulla vita di tutti i giorni, sui sentimenti lasciando completamente da parte ogni riferimento all'attualità e alla politica. Sono argomenti che non ti interessano?

«Sono un individualista. Credo fermamente che l'unico modo per cambiare le cose in meglio sia quello di fare del proprio meglio. Quotidianamente. Sembra una frase retorica ma non è così. Per la situazione politica sono molto deluso e arrabbiato ma preferisco scrivere altro. Rincorrere altro. Magari cantare della vita faticosa dei cuochi, o che i poteri forti ci stanno rubando tutti i colori come fossero ladri di arcobaleni. Togliendoci la meraviglia, la speranza della voglia di fare. Sono un contadino, mi piacciono le sfumature e raccontare delle storie».

L'amore però è argomento che hai cantato in una romantica tetralogia stagionale. Qual è la tua stagione preferita e perché è giusto viverla?

«Mi piace cantare d'amore. E mi ha aiutato parecchio scriverne. Continuo a capirci poco. Ma rinchiudere un dolore, la fine di un amore in un foglio di carta mi ha aiutato a superare l'ostacolo. Riguardo le stagioni direi senz'altro la primavera, paragonata al sentimento Amore è quella più affascinante, quando il giorno e la luce cambiano. Sembra arrivare il caldo, ma c'è ancora brezza dopo il tramonto. Come quando ci si innamora di qualcuno, quando tutto è ancora platonico e il gioco deve ancora iniziare».

Il tuo amore e debito verso la musica americana lo paghi con "A cena con Drake". Cosa sarebbe la musica senza la poesia di Nick Drake?

«Non so pensare alla musica senza Nick Drake. Ricordo l'innamoramento con "Bryter layter", e poco dopo il rapimento con "Pink moon". Il suo primo disco l'ho ascoltato per ultimo. Ma l'ho tenuto in casa per anni senza ascoltarlo perché sapevo che dopo quello non ci sarebbe stato altro da ascoltare di Drake. Lui mi ha sempre fatto pensare all'acqua del fiume. Silenziosa, costretta dagli argini ma mai domata. Mai ferma, sempre in movimento. Il suo incalzare con indice e pollice sulle corde è ipnotizzante, non dà fiato, per poi cantarci sopra in modo così largo, affilato ma dolce. La sua musica, le sue canzoni saranno sempre avanti nel tempo. Nel disco gli ho fatto un omaggio di quaranta secondi. Era il minimo per chi ha cambiato la mia prospettiva musicale. Quando dissi ad Ernesto De Pascale che avevo scoperto Nick Drake mi disse ‹son cose che ti cambiano la vita› e il buon Ernesto aveva ragione in pieno».

Nei mesi spesi a registrare e a completare "Pensieri verticali" hai trovato il tempo di partecipare alla produzione del nuovo disco dei Gang. Come è andata?

«Coi Gang va sempre bene. Che sia il palco o uno studio con loro si respira sempre una bella energia. È stata una bella giornata di canzoni. Ho cantato alcune linee, facendo dei cori alla voce di Marino. È un onore partecipare al grande ritorno discografico dei fratelli Severini. Suonavo la loro "Bandito senza tempo" quando avevo vent'anni. Oggi avere il mio nome nel loro disco mi fa capire quanta strada ho fatto».

Spiegaci invece il progetto di abbinare le tue canzoni in veste acustica a vini Triple A...

«Da alcuni anni la Velier di Genova sostiene la mia musica. Tra i loro prodotti ci sono i vini naturali Triple A. Con Luca Gargano (uno dei titolari dell'azienda) abbiamo pensato una formula per rendere al meglio la nostra collaborazione. In pratica parliamo di house concert. Concerti in location private dove chi partecipa può assaggiare i vini Triple A e godersi il concerto pagando un biglietto/offerta. Sono due mondi molto vicini le canzoni e il vino. Specialmente in questo caso, dove sia io per la mia musica che i vignaioli e produttori di questi vini lavoriamo con curiosità e intenzione. Da artigiani. In modo "verticale" insomma».

Ora quanti anni dovremo spettare per avere tra le mani il quarto episodio della storia discografica di Stefano Barotti?

«L'idea è di tornare presto in studio. Ho diverse canzoni buone, e sicuramente questo "Pensieri verticali" ci farà lavorare al meglio per un disco futuro. Con Abbate abbiamo dovuto annusarci artisticamente e conoscerci durante le session. La prossima volta avremo il vento e l'esperienza dalla nostra. Anche un live mi piacerebbe. Con Vladimiro Carboni alla batteria e Luca Silvestri al basso abbiamo raggiunto una buona pasta di suono. Mi piacerebbe averne una testimonianza in un disco».




Titolo: Pensieri verticali
Artista: Stefano Barotti
Produzione artistica: Raffaele Abbate e Stefano Barotti
Etichetta: OrangeHome Records
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi di Stefano Barotti, eccetto dove diversamente indicato)


01. L'uomo armadillo
02. Blues del cuoco
03. La ragazza
04. Vorrei essere
05. Povero è l'amore
06. Giudizio non ho
07. Rose di ottobre
08. A cena con Drake
09. Nerone
10. Ogni cento parole
11. L'arcobaleno rubato
12. Cuore danzante
13. Sulla pietra del pane sfidando il drago con la spada di San Giorgio
14. Girasole  [Stefano Barotti / Carmelo Schininà]