venerdì 28 dicembre 2012

Lou Dalfin, la tradizione che si rinnova






Da trent'anni sono i rappresentanti più illustri della cultura musicale occitana. I Lou Dalfin, come gli antichi trovatori, cantano nella tradizionale lingua d'Oc ed esportano la cultura delle valli piemontesi in giro per il mondo. Il gruppo di Sergio Berardo, undici dischi realizzati e più di mille concerti alle spalle, è diventato un fenomeno di massa che attira migliaia di appassionati. La capacità di mischiare la tradizione con elementi moderni ha permesso ai Lou Dalfin di abbattere anche le barriere generazionali facendo ballare giovani e anziani. La band si esibirà sabato 29 dicembre in piazza Italia a Loano (ore 17) nell'ambito dell'iniziativa "Racconti d'Inverno", organizzata dall'associazione Compagnia dei Curiosi.
Tradizione, cultura, la difesa della montagna, il movimento No Tav e il Torino calcio. Questo e molto altro nell'intervista concessaci da Sergio Berardo alla vigilia del concerto di Loano, spettacolo che chiuderà l'edizione 2012 del prestigioso "Premio Nazionale Città di Loano per la musica tradizionale italiana".



Per i Lou Dalfin il 2012 è un anno importante. Ricorre il trentesimo anniversario, un traguardo che porta a fare un bilancio...

«Quando siamo arrivati ai 25 anni l'abbiamo sbandierato ai quattro venti, adesso che siamo arrivati ai trenta siamo stati ben zitti vergognandoci dei nostri dati anagrafici. Abbiamo preferito stendere un velo pietoso sul tempo che passa. I bilanci però si fanno ugualmente, anche senza celebrazioni. Siamo sicuramente un esempio di longevità musicale abbastanza raro. Il fatto che un gruppo resista per tutto questo tempo è, secondo me, proprio del fattore identitario, dell'attaccamento al territorio. Non siamo semplicemente un gruppo che fa musica, abbiamo la responsabilità di rappresentare una cultura, quella occitana, che ti porta a trovare la forza e la volontà di continuare. È uno dei motori che ci ha fatto andare avanti per così tanto tempo». 

Con la vostra musica avete fatto conoscere a un gran numero di persone la cultura delle valli Occitane. Avete rielaborato e contaminato la vostra tradizione musicale facendo ballare migliaia di persone. Qual è il segreto di questo successo?

«Se la musica popolare non trova gli strumenti per modificarsi, per evolversi continuamente, è destinata a morire. L'unica forza che hanno le tradizioni è quella di rinnovarsi e noi abbiamo semplicemente fatto questo. E prima ancora di far conoscere la nostra musica abbiamo dato una immagine della nostra musica e della nostra cultura. Quando i Lou Dalfin hanno iniziato ad avere seguito nelle nostre valli, vi era una immagine stanca, imbolsita della cultura occitana, fatta di piagnistei, di sovvenzioni che tenevano in vita associazioni più o meno produttive e culturali. Noi abbiamo dato l'immagine di un qualcosa di vivo che rappresenta un vero e proprio movimento, un fenomeno di costume delle nostre vallate. Poi siamo usciti dai nostri confini come hanno fatto i trovatori che portavano la cultura in Europa».

Il 29 dicembre suonerete a Loano e l'ultimo dell'anno sarete a Torino, in piazza San Carlo, per un Capodanno che si annuncia scoppiettante. Cosa ci puoi anticipare di questi due eventi?

«Tornare a Loano è sempre un piacere. A Torino divideremo invece il palco con ospiti importanti. Primo su tutti Richard Galliano, grande fisarmonicista marsigliese. Per noi è un onore salire sul palco a fianco di una figura musicale del genere. Poi avremo Bagad d'Ergué-Armel, una banda della Bretagna con trenta tra cornamuse e bombarde e alcuni membri delle mitiche Les Négresses Vertes».

In Liguria avete un grande seguito. Quali sono le differenze tra il tuo Piemonte e la Liguria?

«La cultura occitana ha sempre avuto la caratteristica di essere cultura da contrabbandieri, da portare in giro. I nostri venivamo da voi a comprare le acciughe e andavano a venderle chissà dove, i nostri suonatori di ghironda portavano in giro la loro musica per le strade di tutta Europa, prima di noi i trovatori. La cosa che mi preme ribadire è che chi si avvicina a questa musica, chi vive questa musica, chi se ne appassiona non perda mai di vista il motivo fondamentale che è quello di stare insieme e far festa. Molto spesso gli ambienti folk e trad diventano un po' dei tristi ricettacoli di collezionisti di danze, le appuntano come farfalle a prendere la polvere. A noi non interessa il fatto che uno balli bene o male, a noi interessa che la gente si diverta alla luce di quello che è lo spirito più vero e autentico della nostra cultura e tradizione».

In una Europa che tende a uniformare e a cancellare le diversità culturali, quanto è importante divulgare le radici e la cultura occitana?

«È fondamentale, essenziale. Bisogna vivere guardando alla propria terra, alle proprie radici, senza perdere di vista quello che c'è al di fuori. Ci sono due modi di essere provinciali. Uno è di guardare soltanto a quello che ci arriva dall'esterno considerando il proprio retroterra culturale qualcosa da dimenticare e di cui vergognarsi. E questa è forse la tendenza più seguita, non solo qui nelle nostre valli ma in generale. Dall'altra di riappropriarsi della propria cultura facendo un discorso di micro sciovinismo, cioè non guardando più oltre confine ma solo a se stessi. Molto spesso questa visione decade in folklorismo e peggio in atteggiamenti di chiusura culturale. Bisogna invece guardare lontano sapendo chi si è. Ed è una cosa che vale per la musica tradizionale così come per tutto il resto».

I Lou Dalfin sono la punta di un iceberg. Sono tanti i gruppi e i musicisti che in questi anni hanno seguito la strada da voi tracciata. Ci suggerisci qualche nome da tenere d'occhio?

«Per non fare ingiustizie ti dirò soltanto che c'è un grosso fermento, c'è tutto un mondo fatto da corali, gruppi da ballo, da chi sta cercando di fare della musica da ascolto. Un movimento visto con interesse non soltanto dal resto del Piemonte e dal nord Italia ma anche dall'Occitania transalpina. Le nostre vallate sono una specie di mecca per gli occitani di Tolosa o Marsiglia. Nelle nostre valli la lingua d'Oc è ancora molto viva, i bambini la parlano, cosa che nell'Occitania transalpina succede di rado. Il potere dell'informazione e la colonizzazione francese della cultura occitana è stata qualcosa di terribile».
 
Avete anche suonato per il movimento No Tav. Che aria si respira ora nelle valli?

«Sappiamo benissimo come l'informazione abbia giocato sporco, abbia manipolato parecchio quello che stava succedendo nella vallata. Manifestazioni con decine di migliaia di persone sono state relegate dalla stampa in un trafiletto e invece altre notizie sbattute sulla pagina intera. Mi ricordo di aver letto su un giornale di Torino un articolo il cui titolo recitava "Finalmente una manifestazione Sì Tav in vallata". Chi si è fermato al titolo avrà pensato che la valle fosse spaccata e invece non è mai stato così. Il giornalista era andato tra i commercianti di Bardonecchia e qualcuno di questi, probabilmente arrabbiato perché quel giorno la manifestazioni aveva bloccato l'afflusso di turisti, aveva paventato la possibilità di una contro manifestazione, che non è mai stata fatta. C'è stata una evidente manipolazione dell'informazione nei confronti di un movimento che della tutela degli interessi della montagna ha fatto il proprio motivo di esistere, facendo anche tutta una serie di ragionamenti sulle possibilità di sviluppo. La dignità della montagna è stata sempre calpestata, messa ai margini, una montagna che poteva dire solo la sua come buoni villici che facevamo sorrisi di circostanza ai cittadini che venivano su».

L'anno è ormai quasi finito, cosa ti auguri che acccada nel 2013?

«Mi piacerebbe un po' più di chiarezza, un po' meno disorientamento. Più umanità e che la crisi ci porti a riscoprire diversi modi di vivere, più legati alla terra, al territorio. Per quanto riguarda il Torino calcio chiedo la ricostruzione dello stadio Filadelfia. Rivoglio la culla della nostra civiltà. Il Toro è una metafora dell'Occitania. Siamo quelli che combattono, che non si arrendono, che nonostante abbiano preso mazzate continuano ad alzare la testa contro i re di Francia, contro i re della città che hanno molti più mezzi, che molto spesso mistificano la realtà e vincono in modo sporco. Vinceva in modo sporco Simone di Montfort al tempo della crociata contro gli albigesi, hanno vinto gli scudetti in modo sporco drogandosi o comprando gli arbitri, sono un po' la stessa cosa. Essere del Toro è stare col visconte Trencavel di Tolosa...».
  
Per quanto riguarda i Lou Dalfin, quali sono i vostri progetti?

«Abbiamo in programma uno spettacolo per celebrare gli 800 anni della battaglia di Muret. Come i sardi anche noi abbiamo un elemento fondante dell'identità in una battaglia persa, la battaglia in cui gli occitani e i catalani sono stati sconfitti dalle truppe papali e francesi. Faremo uno spettacolo per ricordare questo evento e per ricordare l'amicizia e la fratellanza tra occitani e catalani».






mercoledì 26 dicembre 2012

Max Manfredi, poeta e incantatore






Lo hanno descritto come un incantatore, un poeta, un cantautore della vecchia scuola, quella genovese. Per Roberto Vecchioni è un intellettuale. Max Manfredi è un personaggio eclettico del variegato panorama musicale italiano. È un artista a tutto tondo che ha percorso anche strade da poeta, da scrittore e da attore. Già vincitore della Targa Tenco e del Premio Recanati, Manfredi ha ricevuto dall'amico Fabrizio De André l'etichetta del "più bravo di tutti". Complimento che, superata la soglia dei 50 anni e per gli strani giochi del destino, resta ad abbellire una carriera di musicista coerente, sincero e di grande caratura artistica. Manfredi, quattro dischi in studio e un live in bacheca, continua a fare musica, musica vera, quella che non ha bisogno di artifici o di mirabolanti invenzioni per emozionare. E lo fa con amore e schiettezza, così come le sue canzoni restano a colorare le serate in tutta Italia, nei locali e nelle piazzette della sua Liguria.
Abbiamo chiacchierato con Manfredi della sua carriera e sui progetti futuri proprio dopo uno di questi concerti, quello tenuto nello storico Pozzo Garitta di Albissola, e in vista del prossimo appuntamento in programma sabato sera a Spotorno.




Nei giorni scorsi hai suonato nello storico locale di Pozzo Garitta ad Albissola. Come è andata?

«Molto bene. All'inizio dubitavo, in fondo è un ristorante. Ma poi c'è stato un sortilegio d'attenzione, come avviene nella Case del Fado a Lisbona. E mi ha fatto piacere vedere nel pubblico amici e persone che non conoscevo, giovani, adulti e vecchi, come si diceva una volta. E poi un locale che apre in Liguria, e dove c'è musica dal vivo, è una rarità, una stella in controtendenza».

Sabato sarai impegnato in concerto a Spotorno. Cosa ci puoi anticipare?

«Sabato nella Chiesa della Nunziata di Spotorno si terrà un concerto post-natalizio, col Natale per argomento. Il concerto sarà tenuto dal Gruppo Genovese di Musica Antica. Io farò, diciamo così, il "prete". Leggerò al microfono della chiesa la bella filastrocca di Guido Gozzano, la "Notte Santa". E i due splendidi brani della "Buona Novella" di Giovanni Pascoli: "In Oriente" e "In Occidente"».

Cinque dischi in oltre vent'anni di carriera. Perché hai centellinato la tua produzione?

«È il vantaggio e insieme lo svantaggio di non abitare mai sotto pesanti vincoli contrattuali. Uno esce con un disco con calma, con pazienza artigianale. D'altra parte a volte si è pieni di materiale e non si trovano sbocchi immediati. Né io voglio far dischi così, tanto per farli, specialmente dopo il relativo successo di vendite di "Luna persa", il mio ultimo lavoro».

Viene da dire che tu preferisca l'esperienza live alla vita in sala di registrazione. È così?

«I concerti dal vivo sono l'essenza. Quella che tu chiami "vita" in sala di registrazione è roba dei tempi dei Beatles o di Battisti. Oggi, o si va in sale di registrazione a pagamento, e allora si tende a starci solo il tempo indispensabile; oppure si inventa la sala di registrazione in casa propria o di amici: è più comodo e familiare, ma si tratta sempre di un'esperienza che dev'essere limitata nel tempo. La vita dell'artista della canzone è piuttosto picaresca, si è sempre in giro».

"Luna persa" ti ha fatto vincere la Targa Tenco come miglior disco dell'anno. Sono passati tre anni da quell'affermazione. Cosa è cambiato da quella sera all'Ariston?

«Per me, nulla. Per l'Ariston, non so. "Luna persa" è stata, ed è, distribuita nei negozi. È anzi raccomandabile ancora in questi giorni come strenna natalizia, per chi voglia fare un regalo un po' inconsueto. Voglio dire, si trova. E questo semplice "trovarsi" ha fatto la differenza, nonostante la mia quasi totale assenza dall'ormai poco frequentabile e alquanto mafioso mondo dei media».

Quanto tempo dovremo aspettare per sentire un tuo nuovo disco?

«Posso anticiparti che ho ben tre progetti discografici, si tratta solo di aspettare che si assestino. Il primo: sto lavorando con il musicista torinese Giorgio Licalzi a un progetto comune, dove io penso ai testi e alla voce; gli mando a volte un abbozzo musicale, a volte ci pensa lui, e gli lascio mano franca per l'arrangiamento. Per gli amanti delle etichette, una roba elettro-acustica-jazz-rock, che mi distanzia abbondantemente dai miei abituali variegati climi armonici. Il progetto prende forma in un complesso di cinque-sei elementi. Potrebbe essere il mio primo, o secondo disco in uscita, dipende dagli interlocutori: produttori, uffici stampa e il booking. Il secondo: sto facendo concerti in trio, insieme a Matteo Nahum, valoroso ed eclettico chitarrista e musicista con obbligo di glockenspiel, ed Elisa Montaldo, maga delle tastiere vintage e affermata musicista progressive a sua volta nel gruppo Il Tempio delle Clessidre. Con l'aggiunta di un basso e altri ospiti, questo nostro repertorio diventerà un disco, uno spettacolo, un film. E quello che mi affascina è trattare le mie canzoni, alcune inedite ed antiche, altre rilette come cover, secondo il nostro gusto, senza la minima autocensura, quasi come se fossero brani degli anni Settanta. Ma la novità è che suonerò in questo disco uno strumento molto particolare che mi sta costruendo il liutaio Fabio Zontini: una chitarra di cartone, di cui credo esistano in tutto il mondo solo due esemplari. La Torres, tradizionale, e una fatta da lui. Te ne sapremo dire di più, ma la notizia è ufficiale. Infine, per quanto riguarda il terzo progetto, mi sono accorto che altre canzoni mi sono cresciute e mi stanno crescendo sotto le dita. Non appena ci mettiamo mano con le orchestrazioni, libere, tradizionali e sperimentali - nel senso che ci piace a noi sperimentare - ci attendiamo un cd denso, multicolore ed emozionante come "Luna persa"».

Essere stato definito da De André "il più bravo di tutti" tra i cantautori italiani cosa ti ha portato in termini artistici e umani?

«A parte la soddisfazione di avere avuto un siffatto interlocutore - e collaboratore - qualcosa in più, qualcosa di insindacabile da mettere nei comunicati stampa. Col rischio poi di essere equivocato e chiamato "allievo", "pupillo" o "erede" di De André, cosa non vera, ahimè, in nessun senso. Chi sa ascoltare capisce, lui era il primo a dire che eravamo diversissimi».

In una intervista hai dichiarato che i cantautori sono ‹diavoli in cerca di anime›. Qual è il tuo metodo per catturare gli spettatori?

«I metodi son tanti, tutti rigorosamente segreti. In questo mi sento simile ad un cuoco ma anche ad un prestigiatore, anzi, un magnetizzatore da fiera. ‹Diavoli in cerca di anime› è un'immagine pittoresca per dire che io cerco di conquistare l'ascoltatore conducendolo in terre sconosciute, che però deve sembrare di riconoscere. Un linguaggio del tutto antagonista rispetto a quello della consueta fascinazione pubblicitaria, ma che può risvegliare reminiscenze antiche. Non vecchie, antiche. Come il teatro delle ombre, come la lanterna magica, come il suono di certi strumenti. In questo senso amo frequentare le sonorità più attuali come se fossero antiche. Non certo per mettermi up to date o fare il modaiolo; ma anzi, per spaesarle, condurle in un paesaggio diverso dal loro, e dal mio, abituale. E condurre i miei ascoltatori in questo paesaggio spaesato, in questa piazza spiazzante».

Fare il cantautore è ancora un mestiere in questa Italia sempre più distratta e poco curiosa?

«Purtroppo è quasi "solo" un mestiere. Un mestiere incerto e  precario, come d'altronde tutti i mestieri di chi non parte già da posizioni di potere acquisite. Ora, se precario è fare l'operaio, il minatore o l'insegnante; che meraviglia se a decine di migliaia scelgono di tentare la strada dell'arte, indipendentemente dalle capacità, dal talento o dal genio? E mancano ormai le mediazioni».

Ci consigli un disco e un giovane artista da tenere sotto osservazione?

«Non ascolto altro che i cd che mi danno da sentire. Ora, a parte che i giovani artisti da tenere "sotto osservazione" medica sono la maggioranza, non saprei che dire. Ci sono artisti davvero buoni, sono pochissimi, indipendentemente dall'età e dalla notorietà».

Negli Stati Uniti d'America gente dello spettacolo e in particolare cantanti non hanno paura di schierarsi politicamente. Un esempio è Springsteen che ha fatto campagna elettorale a fianco di Obama. In Italia i musicisti sono lontani dalla politica, sembrano aver paura di schierarsi. Hai questa stessa impressione e perché?

«Sai, l'America è fatta di grandi distanze, è vasta, ha figure che la cronaca proietta nel mito. L'Italia, poverina, è piccola. Qui c'è un solo modo di far politica con le canzoni: non usare il linguaggio del potere pubblicitario, dell'ignoranza coatta, dell'istinto gregario. Far politica e far poesia in questo senso, paradossalmente, coincidono: guai se una diventa ancella all'altra. Ciò detto, chi vuoi che si schieri con chi? In un'Italia dove la cultura è stata programmaticamente abbattuta, come il pescato, per legge, negli ultimi decenni, essere vivi ed avere una voce non gregaria è già far politica, e di quella pesante. Poi va aggiunto che io non ho interlocutori in questo senso. Ho cantato o suonato per questo o per quell'esponente politico, spesso anche per simpatia; ma non ho interlocutori politici come Max Manfredi. Quando ho proposto all'Anpi una canzoncina sulla Resistenza, che mi è stata commissionata dall'allora dirigente Raimondo Ricci, non siamo stati neppure presi in considerazione dai "quadri". A parte queste considerazioni, la politica, me ne accorgo, può essere solo - ammesso e non concesso, poi, come diceva Totò - rapporto fra individui. Appena si raggruppa, peggio se culturale, si sente puzza di gregge, pecus, pecunia e peculato e di tutto ciò che finisce in -ato, di ciò che è categoria. Alla categoria oppongo da sempre la fantasmagoria».

Per concludere ti vorrei sottoporre alle dieci domande secche.

- Mandorle o pistacchi? Pistacchi, per la loro ambiguità filologica. In genovese i "pistassi" son le noccioline americane, mentre i pistacchi siciliani sono altra cosa.
- Giubbotto o paltò? Loden e giacconi.
- Presepe o albero di Natale? Nessuno dei due. Il presepe è il paesaggio, l'albero di Natale uno qualsiasi degli abeti della foresta casentinese, piantati dai monaci camaldolesi. Stelle ed ufo appesi.
- Cappon magro o acciughe al verde? Acciughe, acciughe. Il cappon magro è una delle invenzioni più inutili della genovesità che pure ha inventato quasi tutto, come gli Arabi o i Cinesi.
- Mezzanotte o mezzogiorno? Mezzanotte. Un'ora in cui la magia è ancora pronunciabile. Nel meriggio si è oltre, preda della spossessione panica e del mal d'acedia.
- Giove o Mercurio? Dico Mercurio, non solo per onorare la divinità furba e ladra, ma anche per protestare contro i termometri di nuova generazione: hanno il solo merito di dimostrare come non sempre il progresso tecnologico sia un bene augurabile. Il buon mercurio, guardiano della soglia delle famiglie, custodito quasi perigliosamente nel tubetto di vetro, ha lasciato il posto all'indeterminazione frettolosa, una misura di temperatura "random" e inaffidabile.
- Orologio a lancette o a cristalli liquidi? Nessuno. Mi piace l'idea della cipolla, che siglava i tempi della vita e della morte nei western, ma non la porto. Leggo l'ora sui display delle farmacie o dal mio telefonino.
- Pipistrello o riccio? Mi piacciono tutt'e due, ma scelgo il pipistrello. La piccola volpe volante che schizza nell'aria della sera come se sbattesse sui muri.
- Film a colori o in bianco e nero? Lanterne magiche a colori e film in bianco e nero. Ma con eccezioni al riguardo.
- Mercato rionale o ipermercato? Mercato rionale, mercatino a chilometro zero. Preferisco il peso e il rumore del pittoresco umano alla standardizzazione da obitorio delle ipercoop e dei centri commerciali ad alto volume. Del resto non era in un supermercato che Romero ambientò il suo film di zombi?





mercoledì 12 dicembre 2012

Cristiano Angelini, a un anno dalla Targa Tenco








È passato un anno da quando Cristiano Angelini è salito sul palco del teatro Ariston di Sanremo per ritirare la prestigiosa Targa Tenco, vinta nella categoria "opera prima" grazie al disco "L'ombra della mosca". Si è trattato del meritato riconoscimento dopo vent'anni di gavetta e centinaia di concerti in giro per mezza Italia. E soprattutto un premio per un album di grande qualità, impreziosito dalla collaborazione di Max Manfredi e dei musicisti de La Staffa (Marco Spiccio, Federico Bagnasco e Matteo Nahum). A un anno di distanza poco è però cambiato per il cantautore spezzino di nascita e genovese di adozione. Angelini, quarantacinquenne neurobiologo ricercatore all'Ospedale san Martino di Genova, frequenta ancora con immutato entusiasmo i piccoli palchi dei locali e delle osterie dove resiste la tradizione di offrire agli avventori spettacoli di musica dal vivo.
Incontrato a Sanremo in occasione del Premio Tenco 2012, Angelini non si è tirato indietro e si è sottoposto con pazienza al fuoco di fila delle domande di questa intervista in cui ha rivelato interessanti notizie sul suo nuovo album in uscita nei prossimi mesi.



Nel 2011 hai vino la Targa Tenco nella categoria "opera prima" con l'album "L'ombra della mosca". Come è cambiata la tua vita artistica dopo questo successo?

«La vita artistica non cambia con l'acquisizione di un premio o di un riconoscimento, per quanto prestigioso, come è appunto la Targa Tenco. Specie in questi tempi di disattenzione culturale in cui la canzone d'arte paga il prezzo forse più di altre forme musicali. Indiscutibilmente cambiano l'approccio del pubblico, l’aspetto professionale e la necessità di mantenere un livello espressivo adeguato, ma questo è comunque parte del gioco dei ruoli: c'è chi narra e chi ascolta ed il discernimento della qualità deve essere da entrambe le parti».

Che bilancio fai di questo anno che si avvia alla conclusione?

«Il bilancio è assolutamente positivo sia dal punto di vista dei concerti che sotto l'aspetto produttivo. E parlo di nuovi progetti e collaborazioni artistiche che proiettano ad un 2013 interessante, Maya permettendo».

È quindi ora di dare un seguito a questo tuo primo disco, non credi?
 

«Ahahahaha! Direi di sì! Altri 44 anni per l'opera seconda sarebbero un po' troppi dal punto di vista strettamente biologico. Nel corso di quest'anno ho composto molti inediti che stiamo già inserendo nei live, anche se con moderazione sennò diventano editi prima del tempo. Penso che nel 2013 avremo scelto la decina di canzoni che andrà a comporre il nuovo lavoro. Ci saranno brani scritti circa dieci anni fa che non hanno trovato spazio ne "L'ombra della mosca" ed alcuni che ho finito ieri».

Ti abbiamo visto tra il pubblico dell'edizione 2012 del Premio Tenco. Che impressione ti ha fatto?

«L'effetto di stare tra il pubblico è sempre piacevole. Frequento il Tenco da moltissimi anni e rivedo sempre volentieri molti amici storici, artisti e non. Inoltre, ascolto anche cose interessanti e questo condisce il piacere. Dal punto di vista della manifestazione credo che il Premio Tenco sia una istituzione di valore da difendere nel nostro territorio, visto che si tratta di canzone d'arte italiana, ma non solo. Quello che manca un po' a mio avviso al Tenco è la visibilità internazionale, cioè l'aspetto di "paladino" della canzone d'arte italiana all'estero. Artisticamente a volte vedo un po' di confusione nella considerazione di questa forma musicale nella rassegna. Penso che si dovrebbe andare un po' meno incontro al gusto del pubblico a favore di un indirizzamento del gusto del pubblico. Mi spigo meglio: il pubblico che segue la canzone d'arte è molto competente e ben informato su ciò che accade e sui "nuovi" artisti. Il pubblico meno attento segue molto più quello che i resti dell'industria discografica - che agonizza ben più dalla canzone d'arte - gli offre attraverso i media e l'ipnosi pubblicitaria dei prodotti in vendita. Se quello che gli si offre è questo lo riconosce come autorevole in quanto riconoscibile mediaticamente. Non importa se di valore artistico o meno. Ecco, in questo senso la rassegna dovrebbe essere punto di novità qualitativa. Indurre l'analisi che offre la capacità di discernere cosa è un prodotto e cosa è un altro».

La tua carriera di musicista è iniziata a metà anni Ottanta nel gruppo rock-prog Tuya di Rapallo. Dopo questa esperienza da buon ligure hai scelto la strada del cantautorato…
 

«La mia esperienza con il rock-prog mi ha insegnato che la parola ha la sua musicalità intrinseca anche cantata, non solo recitata. In quegli anni si riteneva che l'italiano avesse moltissima difficoltà musicale nel genere rock e che la lingua inglese fosse più adatta malgrado autorevoli e geniali presenze come gli Area, che di inglesismi non volevano saperne, o il Banco, la PFM ed affini. Ad un certo punto, però, ho sentito la necessità di legare maggiormente la sonorità della parola alla narrazione della nota e la canzone d'arte fa esattamente questo mestiere: rende unico e strettamente legato ciò che è composto da due entità separate che dipendono l'una dall'altra a formare l'unico corpo che emotivamente evoca immagine».

Fin dalle tue prime esperienza compositive hai sempre scelto la lingua italiana andando un po' contro la moda del tempo. Hai cambiato idea in questi anni?

«Assolutamente no. Continuo a ritenere che l’italiano sia una lingua musicale. Tocca saperla bene però».

Nel 2012 si può ancora parlare di scuola genovese o sono ricordi di un tempo passato?
 

«Mi pare che sia più che altro una necessità dei giornalisti e dei critici musicali. Come ho avuto modo più volte di dire, per me la scuola genovese esiste non nel senso di maniera, ma nel senso della collaborazione tra autori e musicisti. A Genova esiste un'ottima integrazione tra gli artisti caratterizzata principalmente dall'amicizia che si consacra in molto tempo di frequentazione comune al di fuori della musica. I progetti e le collaborazioni nascono a tavola, passano attraverso gli studi di registrazione e finiscono sui palchi. Non c'è rivalità o invidia, ma partecipazione comune e comune senso di soddisfazione al successo dell'altro. In questo senso sì, esiste la scuola genovese perché mi pare una realtà che non vedo in altre parti d'Italia. Poi, che a Genova ci possa essere un genius loci, beh, può essere…».

Quali artisti o movimenti hanno influenzato il tuo stile musicale?

«Il mio ascolto preferenziale è sempre stato il jazz, anche in età adolescenziale. Ho avuto i miei ascolti rock, blues e folk, ma il jazz resta la mia musica. Della musica italiana ho sempre amato De Andrè, Lolli, Fossati, Ciampi, per un certo periodo mi è piaciuto anche Dalla. E i francesi con Brel, Brassens e Léo Ferré su tutti e una passione del tutto personale per Aznavour. Dei contemporanei è per me mostro sacro Max Manfredi a cui mi lega oltre a una stretta amicizia anche una manifesta ammirazione per la sua opera, proprio come un fan».

In questa epoca di musica jingle che si consuma come hamburger al fast food ha ancora senso impegnarsi a registrare un cd?

«Per me sì. Mantiene la magia della creatività. Sebbene la discografia sia abbastanza agonizzante e incapace nelle scelte, per me vale la pena. È come andare a cercare i dischi che ti piacciono nelle bancarelle: puoi scaricare tutto dalla rete, è vero, ma è difficile scaricare le emozioni».

Si parla molto dei nuovi talenti, di quelli "cresciuti" in format come X-Factor. Tu cosa ne pensi?

«Non ne penso. Se non come format. È quello che dicevo più sopra: la riconoscibilità mediatica. Se si facessero format legati alla qualità il pubblico avrebbe strumenti per discernere. Ma non è così, mi pare».

In tempi di crisi economica e culturale si sentono dichiarazione che lasciano interdetti. Nelle scorse settimane il ministro Lorenzo Ornaghi ha dichiarato di voler tagliare i fondi a Umbria Jazz Winter perché "il jazz non è espressione diretta della cultura italiana". Qual è la tua posizione?

«È scellerato! A parte la blasfemia, perché artisti come Natalino Otto, Gil Cuppini, Enrico Rava o Stefano Bollani non mi risulta essere dell'Arkansas, poi qualcuno mi deve spiegare se le basi NATO sono cultura italiana».

Sono assolutamente d'accordo con te. Per finire ti ho riservato le dieci domande secche che sono diventate un must del blog.

- Spaghetti o rigatoni? Spaghetti! Perché con pollo e insalatina e una tazzina di caffè stanno bene (a Detroit).
- Sigaro o pipa? Sigarette. Ce lo vedi un nevrastenico con la pipa. Io il sigaro? No, roba da gente calma quella.
- Vino bianco o rosso? Rosso in genere, ma anche bianco.
- Penna o piuma? Sempre penna. Piuma solo col calamaio.
- Chiesa o castello? Castello! In chiesa non mi pare ci siano castellane…
- Genoa o Sampdoria? Che domanda, Genoa!! A Genova non ci sono altre squadre di calcio, a parte quelle di delegazione…
- Blu o viola? Blu. Se unito al rosso meglio. Il rossoblù mi è sempre piaciuto.
- Jeff Buckley o John Prine? Entrambi direi, perché limitarsi? Quando le cose sono buone meglio averle tutte, no?
- Romanzi o saggi? Entrambi, dipende dallo stato d'animo. Purché ben scritti. Anche una argomento accattivante quando è mal scritto diventa innervosente, forse anche di più.
- Utilitaria o fuoristrada? Non ho la patente. Taxi direi.





mercoledì 5 dicembre 2012

"Nella prossima vita" di Federico Sirianni








Federico Sirianni ha scelto il festival musicale "Su la Testa" di Albenga per presentare ufficialmente il suo nuovo album dal titolo "Nella prossima vita". Si tratta del terzo disco del cantautore genovese dopo l'esordio con "Onde clandestine" nel 2002 e il successivo "Dal basso dei cieli", pubblicato nel 2006. Una vita artistica divisa tra musica e teatro per Sirianni che si è fatto apprezzare anche come autore e interprete di spettacoli di teatro-canzone. Nel suo nuovo lavoro in studio si è avvalso della collaborazione del Gnu Quartet, formazione per archi e flauto composto da Raffaele Rebaudengo (viola), Francesca Rapetti (flauto), Roberto Izzo (violino), Stefano Cabrera (violoncello). L'ensemble è diventato famoso per aver collaborato con gli Afterhours (vincitori ex aequo con Zibba della Targa Tenco 2012 per il miglior album), i Baustelle e per aver accompagnato i La Crus al Festival di Sanremo 2011.
Sirianni e Gnu Quartet saranno di scena sabato 8 dicembre al Teatro Ambra di Albenga in occasione della terza e conclusiva serata della settima edizione del festival organizzato dall'associazione Zoo.
Federico ha parlato del nuovo disco e della sua carriera artistica in questa intervista gentilmente concessa a "Musica e Disincanti".



Uscirà l'8 dicembre, proprio il giorno in cui suonerai al "Su la Testa", il tuo terzo album dal titolo "Nella prossima vita". In attesa di ascoltarlo descrivici questo disco.

«È sicuramente un disco profondamente diverso dai due che l'hanno preceduto, c'è un respiro musicale più profondo e un lavoro sui dettagli più minuzioso, ma anche un raccontarsi eliminando tutti i possibili filtri. Anche prima in realtà le canzoni avevano molti elementi autobiografici, ma mediati dallo stratagemma del narrare una storia facendola appartenere ad altri. Mi è venuto naturale invece scrivere quasi tutto in prima o seconda persona, prendere a piene mani da fegato, cuore e stomaco, gettare tutto su una tela bianca e mettermi a guardare la forma che il dipinto avrebbe assunto».

Quando e come è nata la collaborazione con il Gnu Quartet e cosa ti ha spinto a fissare su disco questo connubio artistico?

«Io e gli Gnu ci conosciamo da molti anni. Siamo tutti genovesi e in diverse occasioni c'è capitato di suonare insieme. Con Raffaele Rebaudengo, che suona la viola, ho un'amicizia di lunghissima data, è stato uno dei primi musicisti con cui ho lavorato quando ho cominciato a fare questo mestiere. Gli Gnu sono un combo strano, asimmetrico, la presenza del flauto al posto di un arco sposta modi e frequenze e loro riescono a essere contemporaneamente un quartetto da camera e un gruppo punk. Ho pensato che coinvolgerli fosse una buona idea, non solo a livello di arrangiamenti, ma come parte integrante del progetto, volevo che le mie canzoni, che finora navigavano sulle acque calme di un fiume, si trovassero a domare le onde dell'oceano. E così credo sia avvenuto».

Come e quando sono nate le canzoni presenti nell'album?

«Praticamente tutte le canzoni sono state scritte in un arco temporale abbastanza preciso, diciamo gli ultimi cinque anni, periodo in cui sono accaduti diversi avvenimenti che in qualche modo mi hanno cambiato e, credo, cresciuto. Aneddoti ce ne sono molti, a uno in particolare sono affezionato. Ero in Abruzzo, luogo che amo molto, alla fine di un concerto estivo. Mentre mi rilassavo bevendo un Rosso di Montepulciano, mi sono trovato ad ascoltare una discussione tra una giovane lei e un lui abbastanza sbronzo che tentava di corteggiarla in maniera un po' irruente. A un certo punto lei lo molla dicendogli la frase: ‹Tu sei proprio nato sfasciato›. A parte la bellezza dell'espressione in sé, in quel preciso momento mi è venuta voglia di immaginare come poteva essere la vita di uno che "nasce sfasciato" e, nel giro di poche ore, ho messo giù la canzone che porta quel titolo».

Come cambia in sala di registrazione l'approccio alle canzoni quando si ha una band alle proprie spalle?

«In realtà l'approccio cambia molto prima di entrare in sala. Mi è sempre piaciuto suonare con altri musicisti e ho avuto la fortuna di collaborare con artisti di altissimo livello, ma ho sempre pensato che una buona canzone debba essere buona quando è "nuda". Da lì la si può vestire come più ci piace, da sera, sportiva, metterle i piercing o gli stivali da cowboy. Gli Gnu han dato alle mie canzoni un respiro più lungo, dilatato, è come se le mie parole avessero imparato a muoversi nell'aria invece che restare a terra. Non è stato un lavoro facile, immediato, tutt'altro. Però il risultato ci soddisfa pienamente. Fondamentali, per la riuscita della cosa, sono stati Fabrizio "Cit" Chiapello, produttore e fonico dello studio Transeuropa di Torino, dove abbiamo registrato il disco, che ha dato ordine e forma all'immenso magma di suoni creato. E, certamente, Gian Gilberto Monti, deus ex machina e organizzatore di questo progetto».

Avete già programmato un tour per promuovere l'album?

«"Nella prossima vita" uscirà ufficialmente nei negozi per Egea a metà gennaio, da quella data verranno programmati dei concerti che sono poi il nostro "luogo fisico" preferito, siamo gente da palco, da autostrade, stazioni, aeroporti. Ma già adesso abbiamo alcuni concerti fissati per presentare il disco, oltre a quello di Albenga. Il 28 dicembre saremo al Teatro delle Clarisse di Rapallo e il 22 febbraio alla Claque del Teatro della Tosse di Genova».

I tuoi precedenti dischi hanno avuto ottimi riscontri di critica. Hai portato a casa anche il Premio Bindi. Cosa ti aspetti dall'album in uscita in questi giorni?

«Non lo so e non mi pongo il problema. Ho vinto parecchi premi, la cosa mi ha fatto piacere ma non mi ha cambiato la vita. La critica mi ha sempre trattato piuttosto bene, ma il mio rapporto principale lo vivo con il pubblico che viene a sentirmi ai concerti, che aumenta lentamente ma in maniera costante, che mi permette di sopravvivere suonando, che mi segue con entusiasmo e affetto. Una volta una coppia che si è conosciuta ascoltando una mia canzone mi ha chiesto se potevo eseguirla al loro matrimonio. Per me una cosa del genere vale più di mille recensioni. È stato meraviglioso e commovente».

Che bilancio fai del 2012, anno che ti ha visto anche in scena insieme a Gian Piero e Roberta Alloisio nello spettacolo di teatro-canzone "Malavitaeterna".

«Un anno decisamente positivo, tanti concerti, la realizzazione del disco e, appunto, "Malavitaeterna". Ho spinto io Gian Piero Alloisio a riprendere questo testo che ho amato dalla prima volta che l'ho visto in scena, nei primi anni Novanta, al Teatro della Tosse. Gian Piero è un artista eccellente e, per quel che mi riguarda, uno dei miei riferimenti ancor prima che iniziassi a fare il cantautore. Ci conosciamo da tantissimi anni, abbiamo spesso collaborato e sono felice di essere stato protagonista con lui e Roberta di questa operina musicale sulla tossicodipendenza. È stato un modo molto bello e particolare, ancorché duro e difficile, di approcciarmi nuovamente al teatro».

La tua produzione è molte volte legata al mondo del teatro, mi riferisco a "Luna park della scienza" di cui hai scritto le musiche e che è andato in scena l'anno scorso e, andando più indietro nel tempo, a "Il Grande Fresco" di cui sei stato autore e interprete. Come mai questa scelta?

«Nei miei concerti ho spesso cercato di inserire degli elementi teatrali, a cominciare da brevi monologhi che legassero insieme una canzone all'altra, a oggetti scenici, abiti o ammennicoli particolari. Le mie prime esibizioni nascono sui palchi dei teatri genovesi, il Garage, la Tosse, il vecchio, piccolo e meraviglioso Campopisano, che ora non c'è più, lo Stabile, l'Archivolto. Li ho calcati tutti. Ne respiro la magia, l'odore, la scena. Cerco di portarmi il tutto con me, a volte ci riesco, altre no».

Fare il cantautore ai tempi d'oggi è ancora possibile e quali doti deve avere un musicista per poter spiccare in mezzo alla folta schiera di pretendenti?

«Domanda da un milione di dollari. Io sopravvivo grazie ai numerosi concerti, siamo vicini al centinaio, che riesco a fare ogni anno. Ma non è per tutti così, bisogna varcare la soglia irta di rovi che ti introduce in quello che possiamo per comodità definire "mercato", anche se è tutto più virtuale e finto di quanto appaia. Nell'ultimo ventennio, e non è un caso, il mondo dello spettacolo e della cultura non richiede più doti particolari, tutti possono essere cantautori, attori, scrittori. In molti ci credono, la palude diventa sempre più melmosa, l'artista vero galleggia col parvenu e a volte nemmeno se ne accorge».

Da Genova ti sei trasferito a Torino, non hai nostalgia della tua terra?

«A Torino vivo benissimo, è una città che mi appaga in tutto e per tutto. Mi piace camminare lungo le rive del fiume con mia figlia, poter girare in bicicletta, scegliere luoghi ed eventi culturali da grande metropoli europea ma in un contesto fisico a misura d'uomo. A Genova torno abbastanza spesso, la amo come si ama una vecchia amante bella e con un pessimo carattere».

Artisticamente e culturalmente che differenze hai riscontrato tra le due città?
 

«Come ti dicevo, Torino, che non è New York, ha una buona offerta a livello culturale. Mi sembra che Genova, dopo un lungo sonno, si stia lentamente risvegliando. Mi piace riuscire a organizzare qualche evento nella mia città d'origine, fino a qualche anno fa era impensabile. La nascita di luoghi come La Claque o il Count Basie - ne cito due che ultimamente mi capita di frequentare artisticamente - hanno aperto uno spiraglio nel bozzolo cristallizzato in cui la città stava addormentata. Alla Claque organizzerò il 13 dicembre una serata tutta dedicata a Tom Waits con moltissimi ospiti genovesi, provenienti dai generi musicali più svariati».

Ti rivedremo anche quest'anno al "Su la Testa", hai un rapporto privilegiato con la città di Albenga e il suo festival…

«Sono stato ospite alcuni anni fa e mi ero trovato molto bene. Ora è capitata l'occasione di tornare e mi fa molto piacere poter presentare in questa manifestazione, coraggiosa per i tempi attuali, il mio nuovo disco».


Queste sono invece le ormai consuete dieci domande secche…
 

- Noce o nocciola? Se posso avere una terza via sceglierei la mandorla. Mi piace l'idea della dolcezza che si abbina a un veleno.
- Tex o Zagor? Zagor, decisamente. Da ragazzino avevo tutta la collezione.
- Mongolfiera o dirigibile? Romantici entrambi. Forse il dirigibile mi porta qualche suggestione in più.
- Latte intero o scremato? Intero, scremato mi fa schifo.
- Passeggiare o correre? Sono un ottimo passeggiatore. Ma aggiungo che tra le due opzioni preferisco andare in bicicletta.
- Borsa o zaino? Dipende. Forse più spesso la borsa, ma non il borsello.
- Rickie Lee Jones o Janis Joplin? Mi piacciono entrambe ma sono più affezionato a Rickie Lee.
- Paglia o fieno? Mah, l'ago nel pagliaio o l'amore sul fieno? Diciamo fieno.
- Colomba o aquila? L'aquila è un bell'animale, ma non amo il concetto di "rapace" nell'essere umano. Per cui scelgo la colomba.
- Domenica o venerdì? Il venerdì e il sabato, a meno che non debba lavorare, esco molto di rado. La domenica è il giorno del riposo e della malinconia. Vada per la domenica.



Titolo: Nella prossima vita
Artista: Federico Sirianni
Etichetta: Incipit Records
Anno di pubblicazione: 2013




domenica 2 dicembre 2012

Carlo Aonzo e il mandolino magico









Savona può annoverare tra i suoi figli illustri uno dei più apprezzati mandolinisti viventi. Carlo Aonzo, albisolese di nascita - "Non sono nato in ospedale ma in quel palazzo ad Albisola Capo che dà sul Sansobbia, appena si supera il ponte. Al piano terra una volta c'era un macellaio", ci tiene a precisare Aonzo - ma savonese a tutti gli effetti. Papà Giuseppe, anche lui bravo mandolinista e instillatore nel giovane Carlo della passione per lo strumento, è lo storico gestore, insieme alla moglie, della latteria specializzata in frappé in piazza Chabrol, nel centro storico della città, gli zii hanno gestito per anni "Vino e Farinata", uno dei simboli gastronomici della città della Torretta. Carlo Aonzo, dal canto suo, è un virtuoso dello strumento che tutto il mondo ci invidia. Negli Stati Uniti è una star che è invitata con regolarità per tournée e per insegnare il mandolino.
Nonostante ciò, Aonzo, uomo schietto e diretto, è legato a Savona e lo si può incontrare e ascoltare nei luoghi e nelle situazioni più inaspettate. In piccoli locali, bar, chiese o piazzette la sua bravura riesce a calamitare l'attenzione del pubblico. Eterogeneo è anche il suo repertorio che spazia dalla classica, alle sperimentazioni in ambito moderno, dalle performance con i suoi Mandolin Cocktail, alla stimolante collaborazione con David Grisman e Beppe Gambetta.
Ultimo progetto, in ordine di tempo, è quello realizzato insieme ad altri due apprezzati musicisti savonesi: il percussionista Loris Lombardo e il chitarrista Claudio Bellato. Il trio sarà impegnato il 6 dicembre al Teatro Ambra di Albenga in occasione della prima delle tre serate della settima edizione di "Su la Testa", festival musicale organizzato dall'associazione Zoo.
Abbiamo incontrato Carlo in un noto locale nella darsena a Savona dove, tra una birra e un rum, abbiamo parlato di musica, cultura e mandolino.




Nel corso della rassegna "Su la Testa" suonerai insieme a Loris Lombardo e Claudio Bellato. Un incontro tutto savonese...

«Loris l'avevo già chiamato a suonare in un progetto di musica antica quando era ancora studente, è un ragazzo serissimo, sia nello studio che nella vita, per cui si lavora bene insieme. Invece con Claudio è una collaborazione recente, dovuta alla sua amicizia con Lombardo e alla stima reciproca. Ci siamo trovati e abbiamo iniziato a tirare giù del materiale e ci siamo accorti che può nascere qualcosa di veramente intenso. Ovviamente non c'è nulla di filologico».

Cosa ci puoi anticipare di questo progetto?

«Un brano che sarà secondo me molto interessante è un movimento tratto da "Le Quattro Stagioni" di Vivaldi reso in una forma molto mistica e intrigante. Ci deve essere stato qualche cosa di energetico nell'aria che ci ha permesso di creare tutto ciò, perché, sebbene sia stato stravolto armonicamente e strutturalmente, è un po' come se l'anima di Vivaldi l'avesse ricreato per i momenti attuali. Riprende un po' quello che lui ha voluto trasmettere con questi incredibili brani. Siamo talmente abituati ad ascoltarli che ci sembrano normali ma se si mettono a confronto con tutta la musica di quel periodo ci si chiede da dove siano usciti, sono mistici, straordinari. Partiamo da lì per creare questa atmosfera misteriosa che è anche un invito alla meditazione ma, grazie all'abilità tecnica del trio, c'è anche il tiro musicale, il groove. Gli ingredienti quindi ci sono tutti e mi aspetto molto da questo progetto».

Sei un artista di fama internazionale eppure hai ancora piacere a suonare nei club di provincia, ad accompagnare amici sul palco e a esibirti in piccole rassegne estive. Cosa ti spinge a fare certe scelte e a rimanere ancorato al territorio?

«Mi spinge il piacere e il gusto della purezza. Perché, se io ho piacere a suonare ce l'ho sempre, con le persone che mi piacciono e di cui mi circondo. Non c'è differenza se suoni sul palco della Scala oppure qui in questo momento. Suonando dai qualcosa a chi ti ascolta ma ricevi anche tanto dal pubblico. Ed è questo lo spirito che è importante non perdere. Secondo me c'è stato un momento storico in cui il concertista doveva esibirsi solo con etichetta, in certi contesti, senza svendersi. Ma alla fine quello che conta è la gioia di suonare, non arrivare a farlo alla Carnegie Hall».

Il 2010 è stato l'anno dell'ultima edizione savonese dell'Accademia Internazionale del Mandolino. Poi cosa è successo?

«Siamo andati a Ferrara, ci hanno accolto a braccia aperte, con i tappeti rossi. Il Prefetto ci ha ricevuto nella sua residenza rinascimentale, ai concerti finali c'è stato il finimondo, c'erano degli onorevoli, Franceschini tanto per citarne uno, c'era il Sindaco, il vice Sindaco, insomma è stato un grosso evento nonostante che nella stessa settimana fosse in programma il Buskers Festival, uno dei più importanti appuntamenti musicali. Noi e i nostri mandolini siamo diventati protagonisti tanto è vero che ci siamo tornati anche quest'anno. Ci vorrebbero anche la prossima estate ma a noi piace essere itineranti».

Un brutto colpo per la cultura savonese ma si sa, nemo propheta in patria…

«Purtroppo non abbiamo avuto lo stesso tipo di accoglienza ma va bene anche così. I savonesi sanno che ci siamo, che facciamo cose e ci possono seguire. Si fanno progetti nuovi, nuove sperimentazioni come il trio Aonzo-Bellato-Lombardo. Lo sperimentiamo e se funziona a Savona vuol dire che funzionerà dappertutto».

Non ti è mai venuta l'idea di dire: basta, volo negli States per fare musica?

«Sono pronto a trasferirmi, chiaramente ne deve valere la pena perché la vita è abbastanza difficile negli States se non hai un impiego fisso. È dura anche per i musicisti. Se però dovessero offrirmi una opportunità che mi facesse stare meglio allora potrei anche spostarmi, certamente. Il modo in cui mi sono organizzato la vita e la famiglia adesso però me lo consente poco. Se fossi da solo, senza figli, sarei già andato».

Restiamo a Savona e alla cultura musicale. Cosa è cambiato in questi ultimi anni?

«Conosco poco la situazione culturale perché dopo l'esperienza dell'agosto 2010 ho fatto veramente poco a Savona. E poi sono spesso lontano per cui anche gli eventi locali li seguo di rado».

Se avessi il dono di realizzare un tuo desiderio quale sarebbe?

«Mi piacerebbe realizzare quello che avevo in mente, quello che ho provato a fare a Savona. Cioè dare vita a un punto di riferimento internazionale per il mio strumento, una istituzione dove gli studenti di tutto il mondo possano perfezionarsi e imparare a suonare il mandolino. Un vero polo di attrazione anche per chi desidera approfondire gli aspetti storici del mandolino e degli strumenti affini. Questa sì, è una cosa che mi piacerebbe fosse realizzata».

Cosa manca per concretizzare questo sogno?

«Per cominciare manca la predisposizione mentale degli italiani in genere e dei savonesi in particolare. Poi mancano le strutture, a partire da quelle della semplice accoglienza. Qua non puoi pensare di partire da zero ma devi mettere in conto di iniziare da sotto zero. È quasi impensabile tentare di creare qualcosa di virtuoso in questa situazione».

Quando si parla di mandolino la maggioranza delle persone pensa alle canzoni della tradizione italiana eppure lo strumento è anche molto rock. Si pensi al riff su "Losing my religion" dei R.E.M., alla "Glory days" di Springsteen, a Ry Cooder che arricchisce con il mandolino la "Love in vain" dei Rolling Stones. Come consideri il tuo strumento?

«Senza dimenticare "The battle of evermore" dei Led Zeppelin. Nel rock è molto utilizzato, non c'è dubbio. Lo strumento in sé ha una storia floridissima che inizia nel medioevo. Ha avuto momenti di grande successo ma è rimasto stranamente sempre un po' nascosto. Il mandolino ha questa caratteristica che lo devi andare a cercare. Quello che suoniamo oggi risale al Settecento e si chiama mandolino napoletano perché la musica napoletana è quella che lo ha reso famoso in tutto il mondo ma non è detto che sia nato a Napoli. In precedenza esistevano altri tipi di mandolino che nel corso dei secoli hanno cambiato nome e forma».

Lo strumento lo troviamo anche in culture diverse da quella italiana...

«Il mandolino è partito insieme agli emigranti italiani e dove si è stabilito è entrato nella cultura in maniera talmente potente da cambiare forma e diventare un nuovo tipo di mandolino. In Sudamerica abbiamo il bandolin che suona la musica choro, nel Nord America diventa il mandolino Gibson, che è il più suonato al mondo in questo momento e che può contare sul maggior numero di professionisti. Ricordiamo che la musica bluegrass americana è basata sull'uso del mandolino, ma è entrato anche nel blues e poi in Russia è diventato domra. Anche in Germania hanno inventato una forma di mandolino che è poi diventato quello accademico classico. Invece i giapponesi no. I giapponesi hanno preso il nostro mandolino, gli è piaciuto così come era, lo hanno usato e sono diventati più bravi di noi. Dobbiamo ringraziare i giapponesi per aver salvato grossa parte della nostra cultura musicale. Sono venuti in Italia e l'hanno recuperata e archiviata, fortunatamente già prima dell'alluvione di Firenze, città dove era conservato un fondo inestimabile di musica mandolinistica. E così chi vuole suonare la musica italiana dei primi del Novecento deve andarla a rintracciate negli archivi giapponesi».

Quanto può ancora dare il mandolino alla musica?

«Proprio per il fatto che è rimasto sempre nel limbo è uno strumento totalmente da scoprire. Non è vecchio e superato. Poi se verrai a vederci al "Su la Testa" sentirai cose un po' diverse, niente a che vedere con Arbore. Nell'immaginario collettivo il mandolino rappresenta la vecchia e brutta faccia dell'Italia, invece è uno strumento in grande crescita in tutto il mondo. Ci sono un sacco di musicisti che stanno facendo cose nuove, inedite. È uno strumento molto affascinate, molto fresco».

Qual è l'incontro o il concerto che più ti ha emozionato?
 

«Sicuramente l'incontro con David Grisman. È stato fondamentale sia dal punto di vista della mia carriera che da quello puramente artistico. Con lui ho registrato anche un disco. E poi l'incontro con Beppe Gambetta. Non è un mandolinista ma ha avuto un ruolo importante. Nell'ambito del mio strumento ci sono una serie innumerevole di amici importanti con cui condivido la passione e l'amicizia: Don Stiernberg in ambito jazz, Rich DelGrosso per il blues, e poi i miei maestri, prima mio papà e poi Ugo Orlandi nell'ambito del mandolino italiano classico».

Nel corso della tua carriera sei venuto a contatto con molte realtà culturali differenti dalla nostra. Che importanza si dà alla musica all'estero?

«Dobbiamo nuovamente parlare male dell'Italia. Partiamo dal fatto che l'Italia è l'unico paese dove per assistere a un concerto non si paga, parlo naturalmente degli spettacoli non commerciali. Ai concerti culturali la gente è abituata che l'ingresso è gratuito perché finanziato da contributi pubblici o da sponsor. Inoltre quello che ha ucciso la cultura musicale da quarant'anni a questa parte è la Siae. Anche negli altri paesi c'è chi protegge i diritti d'autore ma non esiste che se fai musica vieni visto come un criminale, come invece accade in Italia. Se io adesso avessi voglia di suonare qualcosa in questo locale sarei un delinquente ed è pazzesco. Probabilmente renderei più interessante la serata e invece per la legge italiana sarei un criminale perché non ho pagato una tassa e assolto a tutti gli obblighi burocratici. Mio papà racconta, invece, che quando era giovane le serate le passavano a suonare, si faceva sempre musica dal vivo per fare le serenate o quando ci si trovava tra amici. Tutto questo esiste ancora in Ticino, dove vivono persone di cultura italiana, che mangiano e bevono il caffè come in Italia e che parlano italiano. La differenza è che sono sotto le leggi svizzere e che esiste una Siae che funziona molto bene ma che non perseguita i musicisti. Se vai nei grotti, le osterie tipiche della regione, ti accorgi che tutte le sere fanno musica dal vivo, musica della tradizione del nord Italia suonata con i mandolini. Ho pubblicato anche un libro su questo interessantissimo repertorio. Da noi questa cultura tradizionale è stata cancellata».

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

«Intanto sono molto impegnato con il trio. Stiamo preparando un po' di materiale, diciamo che siamo nella fase di creazione della "confezione" di questo prodotto. Stiamo immaginando cosa potrebbe essere e viviamo questa fase in maniera sorprendente. Inizieremo a realizzare materiale per i media, si comincerà con qualche traccia audio, poi con le foto e i video. L'obiettivo è quello di registrare un disco di canzoni inedite. Loris è un grande esploratore per cui ogni volta che lo incontri riesce a farti appassionare a cose impensabili. Claudio è un grande, una fornace di idee. Tornando ai miei impegni, porto sempre avanti il mio corso annuale a New York, che si tiene in primavera a Manhattan, e poi l'Accademia Mandolinistica ad agosto. Per quanto riguarda gli impegni concertistici a marzo suonerò al Metropolitan Museum a New York. In provincia mi esibirò invece il 21 dicembre al Teatro Nuovo di Valleggia per un concerto natalizio a cui parteciperà anche mia figlia Cecilia che è molto brava nel canto».

Anche a te Carlo il compito di rispondere alle dieci domande secche.

- Matematica o storia? A scuola sono sempre stato per la matematica, però la storia è legata al mio strumento.
- Toast o focaccia? Focaccia, da buon savonese.
- Cicala o formica? Cicala perché penso che siamo a questo mondo per il piacere di esserci.
- David Grisman o Mike Marshall? Conoscendoli entrambi preferisco papà Grisman, Mike è più un fratello maggiore.
- Alloro o rosmarino? Rosmarino, mi fa venire in mente la farinata.
- Luna piena o crescente? Direi che la luna piena è più da meditazione.
- Barca a vela o a motore? Barca a vela perché il silenzio concilia la musica.
- Storie di alieni o racconti romantici? Racconti romantici che possono anche avere come protagonisti gli alieni.
- Miele o zucchero? Miele, è un prodotto naturale.
- Neve o pioggia? Questa è difficile, sono entrambe bellissime. In questo caso insieme no, perché la neve mista a pioggia esiste ma è schifosa. Se devo scegliere dico la neve, è più poetica.




lunedì 26 novembre 2012

Francesco Piu e la maschera blues "Ma-moo tones"







Arriva dalla Sardegna, e più precisamente da Sassari, uno dei bluesmen emergenti più apprezzati del panorama musicale italiano. Il suo nome è Francesco Piu ed è uno degli ospiti più attesi della settima edizione di "Su la Testa", rassegna musicale organizzata dall'associazione Zoo in programma al Teatro Ambra di Albenga dal 6 all'8 dicembre. Piu si esibirà l'ultima sera, sabato, e dividerà il palco con Dolcenera, Gnu Quartet e Federico Sirianni, e il vincitore del contest riservato a musicisti savonesi emergenti. Dopo due album di rodaggio, se così si può dire visto che "Live at Amigdala Theatre" (registrato nel maggio del 2010) ha collezionato ottime recensioni, il cantautore sassarese ha messo a segno il colpo decisivo con "Ma-moo tones". Un album blues moderno che esalta le caratteristiche e la maturità artistica raggiunta da Piu.
Passato, presente ma soprattutto futuro sono gli argomenti affrontati da Francesco in questa intervista in attesa dell'esibizione live di Albenga.


"Ma-moo tones" è il tuo terzo disco e arriva dopo il sorprendente "Live at Amigdala Theatre" e l'album d'esordio "Blues Journey" che sostanzialmente è un cd di cover. Il terzo capitolo della tua ricerca sul blues è entrato di diritto tra i migliori dischi dell'anno. Come è nato?


«Il disco è nato mettendo assieme diverse bozze composte da me negli ultimi due anni. Ogni tanto registravo qualcosa e mettevo da parte, poi a maggio dell'anno scorso ho selezionato le idee secondo me più riuscite ed ho iniziato a lavorarci più assiduamente».


Un importante contributo lo ha dato Daniele Tenca che ha scritto i testi di divese canzoni di "Ma-moo tones". Dove vi siete conosciuti e quale è stata la molla che vi ha fatto collaborare?


«Ci siamo conosciuti tramite il mio batterista Pablo Leoni che ha suonato anche nel suo disco. Mi è piaciuto il suo modo di scrivere e l'ho contattato chiedendogli di collaborare per la stesura di diversi testi dell'album».


Restituirai il favore a Daniele che in questo periodo sta lavorando al suo prossimo disco?


«Francamente non ne so niente, non ti saprei dire».


Per questo tuo terzo album hai potuto contare anche sulla prestigiosa collaborazione di Eric Bibb che ha curato la produzione. Come è nata la vostra collaborazione e quale è stato l'apporto di Bibb alle tue canzoni?

«La collaborazione con Bibb è figlia di due episodi fondamentali: nel 2010 ho avuto la fortuna di aprire un suo concerto e in quell'occasione ci siamo conosciuti di persona, mentre nel 2011 abbiamo addirittura suonato insieme grazie al mio amico Marco Cresci che ha organizzato il concerto. Poi ci siamo tenuti in contatto e grazie al grande lavoro del mio manager Gianni Ruggiero e dell'agente italiano di Bibb, Gigi Bresciani, siamo riusciti ad averlo in studio con noi ai primi di dicembre del 2011. Ha svolto un ottimo lavoro di produzione, soprattutto lasciando ai brani l'impronta di miscela che io avevo in mente, e lavorando sulla mia voce in maniera molto incisiva. Penso che abbia fatto uscire il meglio di me in questo lavoro».


Come si è svolto il lavoro in sala di registrazione?


«Tutte le tracce sono state suonate in diretta dal mio trio - Pablo Leoni alla batteria e percussioni e Davide Speranza all'armonica - sotto la supervisione di Eric. In un secondo momento ho cantato i brani con lui che, al mio fianco, mi indicava la corretta pronuncia e le diverse possibilità in cui potevo modulare la mia voce. A parte "Soul of a man" che è stata cantata e suonata tutta in presa diretta. È stata un'esperienza pazzesca, penso che mi abbia fatto crescere tanto sotto vari aspetti».


"Ma-moo tones" è un disco eterogeneo: undici brani blues che di volta in volta vanno a braccetto con soul, country, rock e funky. Hai un background molto ampio...

«Sì, il mio background parte dalla mia infanzia. Grazie a mio padre e a mio fratello, musicisti per hobby, scoprii il blues ed il rock degli anni '60/'70. Ho poi ascoltato tanti altri generi ed è cambiato anche ciò che mi piaceva suonare: il metal, l'hard rock, il progressive rock, il jazz, il rhythm and blues... Anche l'esperienza a fare piano bar con mio zio Lelle mi ha fatto apprezzare cantautori americani come James Taylor e Neil Young. A livello professionale poi sono maturato molto suonando in tour col cantautore Davide Van De Sfroos, col quale ho girato l'Italia in lungo e in largo per due anni e mezzo. Alla fine di questo percorso, in cui ho "assaggiato" vari stili musicali, mi son reso conto che quello che mi faceva stare bene e che sentivo appartenermi era il blues. Perciò la mia idea ora è quella di partire dal blues e contaminarlo con ciò che di buono mi hanno lasciato gli altri generi».


Nel disco rendi omaggio anche a un mostro sacro come Jimi Hendrix con la canzone "Third stone from the sun" e a Blind Willie Johnson con "Soul of a man". Perché questa scelta?

«Per quanto riguarda Hendrix, da chitarrista, mi piaceva omaggiarlo con una mia rilettura di un suo brano, dato che lo reputo il numero uno in assoluto. "Soul of a man" di Blind Willie Johnson per due motivi: per la profondità del brano e perché tempo fa avevo un duo delta blues col mio amico Samuele Marchisio che si chiamava come la canzone, perciò mi ero promesso prima o poi di inciderla
su un mio disco».


È curiosa la copertina del tuo ultimo disco, come anche il titolo. Cosa significano?


«Il titolo del disco è un gioco di parole che deriva dalla parola mamuthones, che è una maschera tipica della tradizione carnevalesca della mia isola, la Sardegna. Miscelando la cultura sarda con quella che suono, quella del Mississippi e comunque americana, ne è venuta fuori la parola Ma-moo Tones! Dopo aver spiegato questo concetto al mio grafico Antonello Sedda, lui ha voluto ulteriormente rimarcare la miscela ricoprendo una tipica maschera dei Mamuthones con un insieme di ritagli di giornali e riviste provenienti da oltreoceano».


Sei nato e cresciuto in Sardegna, non certo il posto ideale per venire a contatto con la musica internazionale, blues o rock che sia. Per assistere a un concerto bisogna viaggiare e per un giovane non sempre è possibile. Tu come ti sei avvicinato alla musica?


«Come dicevo precedentemente, nasco in una famiglia di musicisti: mio padre suonava il basso, mio fratello la chitarra e tra zii e cugini musicisti potrei fare una big band! Addirittura mio prozio suonava la batteria con Fred Buscaglione. In questo ambiente familiare, quando sei circondato da vinili, musicassette e qualche chitarra in salotto, se hai un minimo di curiosità per la musica il fatto di poter giocare a "strimpellare" aiuta. Sicuramente in Sardegna non transitano molti musicisti di caratura internazionale con frequenza come nella penisola, ma grazie al Narcao Blues Festival e a diversi jazz festival che ci sono sull'isola, anche se in un periodo limitato dell'anno, ho potuto vedere dal vivo diversi musicisti, americani e non, con la M maiuscola, che comunque stimolano e accrescono l'entusiasmo di chi si avvicina al mestiere di musicista».


Sono sempre più numerosi i musicisti italiani, tra i 30 e i 40 anni, che suonano blues. Molti dimostrano anche una notevole conoscenza del genere...


«Il blues è una musica semplice che punta dritta all'anima, magari in maniera più diretta rispetto ad altre, ma c'è anche da dire che alla fine è una cosa molto soggettiva, molte persone provano certe emozioni anche ascoltando altri generi».
 

Al giorno d'oggi si può vivere di musica e quali sono i maggiori problemi che i musicisti della tua generazione devono affrontare?


«Penso che si possa vivere di musica, io ci riesco ma devo dire che è sempre più difficile. La crisi non aiuta, i locali e gli organizzatori di festival fanno sempre più fatica e in Italia siamo molto indietro sia nell'essere riconosciuti come professionisti che nell'essere tutelati in ciò che facciamo. Senza andare troppo lontano, chi fa il musicista in Francia ha un aiuto economico notevole da parte dello Stato perché il musicista è considerato un artista, un patrimonio della cultura nazionale. Nella nostra penisola questa è fantascienza, dopotutto basta guardare la "cultura" che passa in tv e, soprattutto, basta vedere come vengono gestiti i soldi pubblici dai nostri politici per capire che siamo molto indietro, direi "Terzo Mondo"».
 

Quali sono i tuoi pregi e i tuoi difetti?

«Beh, non dovrei essere io a rivelarli. Comunque, dato che me lo chiedi, iniziamo con i pregi: sono un ottimista con molta determinazione. Per quanto riguarda i difetti direi che sono testardo e mi ostino ancora a fidarmi delle persone, ma pian piano mi sto disilludendo di quest'ultimo aspetto».
 

Il mondo musicale sarebbe più povero se...?


«Se non ci fosse il blues, naturalmente!».


Per finire ti sottopongo alle dieci domande secche che sono diventate un must di questo blog
- 
Assaggiare o gustare? Gustare, direi che è meglio soffermarsi sulle cose.

- Archeologia o fantascienza? Archeologia, prima di fare il musicista, da piccolo, sognavo di fare l'archeologo.

- Chitarra elettrica o acustica? Beh, dipende dai periodi. Oggi direi acustica.

- Lana o cotone? Cotone. Sia come tessuto, sia perché è legato alle radici del blues.

- Arancione o azzurro? Azzurro, come il cielo di Sardegna.

- Stevie Ray Vaughan o Eric Clapton? Questa è difficile perché sono due miei maestri ma scelgo Clapton perché mi ha influenzato maggiormente.

- Anguria o melone? Anguria perché mi rinfresca di più quando c'è caldo.

- Pastore tedesco o bulldog inglese? Pastore tedesco perché ne ho avuto uno quando ero piccolo. Ero molto affezionato a Kim.

- Borsalino o coppola? Mi piacciono entrambi ma scelgo Borsalino, forse è più blues.

- Acqua frizzante o liscia? Frizzante perché mi piacciono le bollicine.



Titolo: Ma-moo tones 
Artista: Francesco Piu 
Etichetta: Groove Company 
Anno di pubblicazione: 2012


Tracce
(testi e musiche di Francesco Piu, eccetto dove diversamente indicato)


01. The end of your spell
02. Over you
03. Trouble so hard
04. Hooks in my skin
05. Blind track
06. Colors
07. Stand-by button
08. Overdose of sorrow
09. Down on my knees
10. Soul of a man  [Blind Willie Johnson]
11. Third stone from the sun  [Jimi Hendrix]





martedì 20 novembre 2012

I colori di Giua e Armando Corsi illuminano "Tre"






Maria Pierantoni Giua, in arte semplicemente Giua, è una delle più promettenti cantautrici degli "anni Zero". La trentenne musicista originaria di Rapallo, già salita alla ribalta per la partecipazione al Festival di Sanremo nel 2008 e apprezzata pittrice, sarà protagonista, insieme ad Armando Corsi, del festival musicale "Su la Testa", rassegna che andrà in scena al teatro Ambra ad Albenga dal 6 all'8 dicembre. Nel corso della prima serata della manifestazione organizzata dall'associazione Zoo, Giua presenterà alcuni brani tratti "TrE", album pubblicato a gennaio di quest'anno e che ha visto la collaborazione di Mario Arcari, Fausto Mesolella, Riccardo Tesi, Marco Fadda, Claudio Taddei e Jaques Morelenbaum. Un disco che è anche un incontro in musica tra due generazioni: quella di Giua e quella di Corsi, applaudito già a fianco di Ivano Fossati, Paco De Lucia, Eric Marienthal e tanti altri. Un incontro tra l'allieva e il maestro che si scalda con i colori della cultura mediterranea, le sonorità sud americane e le tinte forti del continente africano.
Abbiamo voluto presentare l'evento ingauno parlando direttamente con Giua che, con grande cortesia, ha risposto alle domande di questa intervista.



Insieme ad Armando Corsi stai girando l'Italia per promuovere l'album "TrE". Come sta andando?

«Sta andando bene, fare questo disco e proporlo in concerto ci sta dando grande soddisfazione. Ogni volta succede qualcosa di nuovo e col pubblico si instaura un rapporto forte, emozionante». 

Con Corsi hai instaurato un rapporto molto stretto di collaborazione artistica, fin da quando era il tuo maestro di chitarra…

«Quello con Armando è stato un incontro importantissimo per me, dal punto di vista umano e artistico. È nata una profonda amicizia che ha fatto sì che ancora oggi, oltre al piacere di suonare insieme, ci sia la voglia di confrontarsi e continuare a fare progetti insieme». 

Raccontaci un aneddoto di questo tour?

«Quest'estate c'è venuta un'idea stravagante: abbiamo deciso di suonare nei mercati di frutta e verdura trasformando "TrE" in un'esperienza diversa, di incontro e provocazione col progetto "L'arte (h)a peso, per ridare peso all'arte" insieme al poeta e musicista Pier Mario Giovannone. Ogni concerto si è trasformato lasciando ancora più spazio all'improvvisazione e alle persone che ci ascoltavano, il tutto in un posto vivo, brulicante e caotico come può essere un mercato! È stata una esperienza bellissima e divertente». 

Nelle tue canzoni c'è molta ironia, da dove viene?

«Non so bene da dove venga; forse è un modo di pensare, di interpretare, di prendere e trasformare le cose che succedono, anche quelle più difficili, trovando una chiave, un passaggio per capire e andare oltre». 

Nei tuoi lavori non mancano le suggestioni latine, gli echi brasiliane e a tratti anche sonorità africane. Quanto ha inciso su tutto ciò la vicinanza con Corsi, da sempre grande interprete di questi generi?

«La presenza di Armando ha sicuramente ha inciso molto nella scelta delle sonorità che sono entrate nel disco. In realtà io e Armando siamo entrambi, per ragioni diverse, immersi in questi mondi musicali che danno voce a un nostro linguaggio comune». 

Beppe Quirici, Oscar Prudente, Gianluca Martinelli, Riccardo Tesi, Fausto Mesolella, Marco Fadda, Jaques Morelenbaum, sono solo alcuni dei grandi professionisti che hanno creduto in te. Hai una bella responsabilità, non credi?

«Più che di responsabilità mi piace parlare di privilegio: spero di saper cogliere e fare sempre tesoro di questi incontri». 

Quali sono i tuoi prossimi progetti artistici?

«Ho diversi progetti in cantiere. Sto scrivendo canzoni nuove, sto collaborando col poeta Pier Mario Giovannone a un porgetto di filastrocche musicate per i bambini, sto pensando a un disco come interprete, e ho in mente un'avventura che spero mi porti dall'altra parte dell'Oceano...». 

Sei anche una raffinata interprete del repertorio di De André. Quanto di Faber è nel tuo sentire e nel modo di fare musica?

«Ascolto Faber da quando sono bambina. "La guerra di Piero" è una delle prime canzoni che mi cantava mio padre facendomi piangere tantissimo! Credo sia stato uno degli ascolti più importanti e suggestivi per me». 

Vedendoti in scena dai l'impressione di essere una donna molto determinata e che sa quello che vuole. Ma chi è Giua una volta scesa dal palco?

«Non credo di essere tanto diversa una volta scesa dal palco. Per me fare un concerto non è realizzare qualcosa che altrimenti non sarei, ma è dar voce a qualcosa che sono. La mia determinazione sta in questo, nel perseguire un desiderio. Questo non vuol dire essere forti, sempre sicuri di sé e avere la risposta pronto per tutto. Sono una persona complessa, con difetti e debolezze, pregi e possibilità: cerco di non sedermi o nascondermi, ma di lavorare a quello che sono». 

Cosa ti fa più paura come donna e come artista?

«Mi fa paura la semplificazione, mi fa paura la possibilità di perdere le persone che amo e l'idea di non riuscire a seguire le mie passioni. Il successo più grande per me come donna e come artista è poter fare quello che mi piace con le persone che amo».

Cosa ti ha lasciato a livello professionale ed emotivo la partecipazione al Festival di Sanremo nel 2008?

«L'esperienza del Festival mi ha fatto capire tante cose e mi ha messa di fronte a domande e possibilità rispetto alle quali ancora mi interrego. Ad oggi mi è più chiaro quello che non mi piace e la differenza tra vocazione e successo».

In un mercato sempre meno interessato all'oggetto fisico, parlo di cd o vinile, cosa rimane oggi del lavoro del musicista?

«È una buona domanda. Io amo ancora sedermi ad ascoltare un cd, magari sfogliando il libretto, e non credo di essere l'unica a farlo: chi vorrà continuerà a trovare il modo per ascoltare musica nonostante i cambiamenti e il mercato. Quello che credo non possa esser fatto fuori è il live, l'esibizione dal vivo che è la vera occasione per musicisti e pubblico». 

Che musica ascolti in questo periodo?

«Sto ascoltando di tutto, dalle nuove proposte, per capire quali sono le idee che girano in Italia e fuori, ad Atahualpa Yupanqui, passando per il mio amato Caetano Veloso e arrivando a Paolo Conte».

Faccio anche con te il gioco delle dieci domande secche...

- Aglio o cipolla? Cipolla, sono allergica all'aglio!
- Gustav Klimt o Edward Hopper? La luce di Edward Hopper.
- Arancia o banana? L'arancio dell'arancia.
- Treno Intercity o regionale? Se ho tempo il regionale e un buon libro.
- Coniglio o riccio? Riccio, di mare.
- Termosifone o stufa a legna? Stufa a legna e una tazza di tè!
- Sgabello o poltrona? Poltrona, comodissima!
- "Cime tempestose" di Emily Bronte o "Le affinità elettive" di Goethe? "Delitto e castigo" di Dostoevskij?
- Spatola o pennello? Adoro le spatole.
- Giallo o rosso? Rosso.


Titolo: TrE
Artisti: Giua e Armando Corsi
Etichetta: Egea
Anno di pubblicazione: 2012

Tracce

CD 1
01. Scatole cinesi
02. Gru di palude
03. Belem
04. Pop corn
05. Forse non è amore
06. La culla di giunco
07. Totem e tabù
08. Alberi (feat. Riccardo Tesi)
09. Beleza
10. Penelope (feat. Jaques Morelenbaum)
11. La via dell'amore (feat. Jaques Morelenbaum)
12. Qui sul collo e sull'orecchio (feat. Noezhan)
13. Agave
14. Wonderwoman
15. Come fa una mela

CD 2
01. Volver
02. La casa nel parco
03. Cantarito de Greda (feat. Marco Fadda)
04. I' te vurria vasà (feat. Fausto Mesolella)
05. Veinte años (feat. Mario Arcari)
06. Beuga bugagna (feat. Anita Macchiavello)
07. Bonus track: Volver (feat. Claudio Taddei)