mercoledì 22 ottobre 2014

Paolo Saporiti canta il suo lungo percorso evolutivo





Ho avuto la fortuna di ascoltare Paolo Saporiti a "Queste piazze davanti al mare", festival musicale che ogni anno si celebra nel periodo estivo a Laigueglia, nella Riviera ligure, sotto la direzione artistica di Massimo Schiavon. È stata una esibizione chitarra e contrabbasso che mi ha piacevolmente sorpreso per gli arrangiamenti ricercati e mai scontati delle canzoni, i testi forti e a tratti visionari e naturalmente la bravura degli interpreti. Inevitabile quindi che mi sia venuta la mia voglia di approfondire la conoscenza di questo cantautore milanese che ha all'attivo cinque album, tutti cantati in inglese. Le canzoni del nuovo disco eponimo, pubblicato quest'anno dalla Orange Home Records di Raffaele Abbate, hanno invece la caratteristica di essere cantate in italiano, un novità per Saporiti.
Un disco ricco di idee e creatività compositiva che si dibatte tra opposti che potrebbero essere anche considerati inconciliabili ma che trovano la giusta miscelazione grazie anche al lavoro di Xabier Iriondo (Afterhours) che ne ha curato la produzione. E così l'improvvisazione e la dissonanza diventano complementari alla melodia e al folk, l'intimismo di certi episodi, molto in linea con la precedente produzione di Saporiti, si scontra con soluzioni ardite e di rottura. Contrasti musicali che viaggiano su binari paralleli a testi in cui l'autore affronta i propri limiti e i propri fantasmi in un percorso di lotta e sofferenza. Dodici brani che hanno permesso a Saporiti di raccontarsi, senza barriere linguistiche e filtri, e di fare i conti con il proprio vissuto e con le proprie radici familiari. 
Alla realizzazione del disco hanno partecipato in sala di registrazione Roberto Zanisi al bouzouki, Cristiano Calcagnile alla batteria, Luca D’Alberto alla viola e al violino, Stefano Ferrian ai sassofoni, lo stesso Xabier Iriondo che ha impugnato il basso e ha gestito l'elettronica.
La voglia di conoscenza mi ha portato a prendere contatto con Saporiti che è stato disponibile a parlarci del disco e della sua carriera. Il tutto è riportato nell'intervista che segue.




Capelli tagliati più corti, un album in italiano, ancora tanta sperimentazione. E' un periodo di cambiamenti sotto molteplici aspetti?

«Direi di sì ma vale un poco per tutta una vita, credo di averla impostata così, in fondo, un poco per scelta, come è forse capitato a tanti altri a un certo punto della propria esistenza. Una lunga serie di mutazioni e cambiamenti per sentirsi sempre più vivi e nuovi. In realtà ora i miei confini sono ben più definiti in ogni cosa che faccio e sono, e il gioco risulta essere sempre più facile e proficuo, anche da un punto di vista creativo. È come se, una volta conquistato uno stato dell'essere interiore sempre più certo e sicuro, tutto scaturisse in maniera più semplice. Credo che si debba in qualche modo raggiungere un piano in cui il giocare con se stessi e con le proprie facce risulti essere sempre più semplice e normale».

Per apprezzare appieno il tuo nuovo disco occorrono diversi ascolti. È una scelta coraggiosa in questi tempi di jingles. Lo sai che rischi di non arrivare mai in testa alle classifiche?

«Lo so e fa parte anche questo di una scelta. Amo giocare, come ti dicevo prima, ma in un campo di coerenza. Il vendersi non ne fa parte e, amando un certo tipo di musica e letture o pensieri o di autori in senso lato, non riesco a sposare un altro tipo di causa. Vorrei che il mondo seguisse questo trend e non il contrario».

Dopo cinque album in inglese la scelta di cantare in italiano rende però tutto più semplice. Sei cosciente che così facendo hai reso pubblico una parte della tua vita e delle tue emozioni?

«Credo che il discorso riguardi soltanto una maggiore consapevolezza di questo aspetto. È quello che cercavo e che ho fortemente voluto e inseguito. Essere sempre di più me stesso e raccontarlo agli altri; ha a che fare con un discorso di verità e le acquisizioni sono state tante e lente, giorno per giorno. L'italiano rende, come dici, tutto ancora più diretto ma non credo in fin dei conti di essermi poi troppo nascosto prima. Chi voleva capire il mio messaggio, poteva senza troppi problemi. Non ho mai pensato alla lingua come a un vero ostacolo anche se oggi non posso che confermare la bontà e la necessità di questo che comunque considero un salto importante ed epocale per me e la mia vita».

Nel disco ci sono dodici canzoni che ti vedono combattere un dramma interiore. L'uomo triste e l'uomo felice sono impegnati in una continua lotta. Chi vincerà alla fine di questa epica battaglia?

«Io non credo che la felicità risieda da altra parte se non nella ricerca e nell’affrontare se stessi, i propri limiti e i propri fantasmi e spesso bisogna scontrarsi con un bel grumo di sofferenza. È una questione di volontà e di fede, di capacità di credere in un sogno e la conquista della meta prevede fatica e sofferenza. Lì sta la felicità. Il percorso è lungo, perfino metodico nella sua evoluzione, disciplinare e sicuramente disciplinato, ma i frutti che porta la voglia di emancipazione e di conquista della libertà, sono sempre felici, in qualsiasi forma poi essi vengano a esprimersi. Faccio parte di quelle persone che credono che solo dal vivere in maniera completa quello che si prova possa scaturire il bene e il buono».

Anche dal punto di vista sonoro si assiste a uno scontro tra il folk della tua chitarra acustica e una marcata sperimentazione. Quanto ha influito da questo punto di vista la tua collaborazione con Xabier Iriondo?

«Xabier l’ho scelto, una volta conosciuto. Ho apprezzato la sua ricerca, il suo modo di gestire una carriera e il suo modo di essere e per questo gli ho chiesto aiuto. Volevo tradurre un certo tipo di sensazione interiore che sento corrispondere tremendamente all'uomo contemporaneo, molto più di quanto tutti vogliano provare a fingere di non accettare e capire, negando la verità a se stessi o non ascoltando quel che faccio e suono io ma prima o poi qualcuno capirà, ne sono convinto».

Ho ascoltato con molto interesse la tua esibizione a Laigueglia in occasione del festival "Queste piazze davanti al mare" e mi ha incuriosito il testo di "Io non ho pietà". Che significato ha in generale e in particolare la frase ‹Perché non muori e non prendi me›?

«Perché non ti rinnovi, perché non ti ripulisci, cambi vita e scegli me in relazione al tuo passato, ai tuoi vissuti, anche i più angoscianti. È una cosa che chiedevo alla donna che amo ma che chiederei a tutti, compresi i miei genitori o a quello che ne rimane di loro. Il difetto più grande della società che abbiamo creato è la sfiducia totale nella figura del figlio, dei figli. Questo è un mondo di ex-padri, padri finiti o logori e madri stanche e annoiate, nella migliore delle ipotesi. I figli, che sono presente e futuro, sono concepiti già morti o soltanto come costole di se stessi o in funzione utilitaristica ed egoistica e questo è quello che mi uccide e che forse mi ha ucciso per così tanto tempo. Chiediamo uno scatto a questo mondo. È necessario, senza pietà, anche nel riconoscere e accettare le nostre zone d'ombra. Il gioco del nascondino ha stufato davvero, la scissione e la rimozione hanno perso ed è ora che chi ha sbagliato si tolga dal campo e lasci giocare chi ne ha voglia e diritto».

Hai presentato "Erica" dicendo che è una canzone che risale a tanto tempo fa. Anche in questo brano è presente il continuo gioco di contrapposizioni tra un messaggio positivo e uno negativo. ‹Erica come posso riuscire ad amare se sei ancora qui› ne è una sintesi straordinaria…

«Vero. Amare e rendersi conto di non esserne ancora capaci e accettare la messa in discussione e lavorare per un cambiamento profondo. Come tanti, la figura materna è una figura importante, bisogna riuscire ad affrancarsene e cercare delle nuove vie e ipotesi di relazione. Ci si nasconde dietro false acquisizioni date per scontate ma non è oro tutto quello che luccica e anche dietro la sensazione di una grossa passione o amore non è detto che risieda la verità».

Entra subito nella carne la rullata di batteria che apre "Come hitler". Un brano di poco più di un minuto e mezzo di durata che sbeffeggia simbolicamente il Führer "dai baffetti sporchi" ma che penso abbia un significato ben più ampio. Mi sbaglio?

«Assolutamente no. "Come hitler”" parla di qualsiasi forma di sopruso, manipolazione, coercizione fisica o psicologica che sia. Odio chi usa il proprio potere o la propria posizione a fini personali e che per fare ciò violenta, abusa o prevarica. Immagina due file di ragazzi e ragazze in collegio e il precettore che li picchietta e insidia col suo passo riconoscibile fra mille nelle loro memorie. Vorrei che questo tipo di vissuti scomparisse dalla faccia della Terra e che la gente sia sempre più consapevole dei danni che può arrecare. Ci vuole più rispetto a questo mondo».

"Ho bisogno di te" segna una rivincita verso chi ha condizionato la tua vita in questi anni o è una dichiarazione di guerra?

«Tutte e due le cose, una dichiarazione di intenti a fronte di un comportamento, un'azione o un modo di essere col quale volente o nolente ho dovuto confrontarmi negli anni. Parla di colleghi, case discografiche, amore e odio e della necessità a volte perversa di avere a che fare anche con l'aggressore, nella speranza di una pulizia dalla sporcizia. Credo che manifestare la rabbia, quando ce n'è, sia una delle prime acquisizioni e vie per la libertà, il che non vuol dire essere violenti o rispondere alla violenza e all'ignoranza con la violenza e l'ignoranza ma concedersi di sentire e di ascoltarsi al fine di crescere e l'arte è uno degli strumenti che l'uomo si è dato a disposizione e di cui vado fiero in quanto appartenente alla specie».

Ascoltando "Caro presidente" mi sono chiesto se sei credente?

«Lo sono stato ma nel modo sbagliato. Mi avevano insegnato a immaginare un mondo in cui Dio risponde positivamente alle tue preghiere e richieste prima o poi se ti comporti bene e preghi e ti penti o fai del bene o altro, vai a Messa, etc. Ora so che la fede, di qualsiasi tipo sia, non ha aspettative e non prevede risultato: c'è se c'è, se non c'è, non c'è».

Con "In un mondo migliore" lasci aperta una porta verso il futuro. Quali sono le tue speranze?

«Che il mondo cambi grazie alla nostra voglia di farlo. Prima di tutto bisogna che la gente ammetta che così non va, poi si vedrà. Per ora mi accontenterei di questo, una messa in discussione di tutti o buona parte degli status symbol a cui ci hanno e ci siamo piegati e abituati e la presa di coscienza che non tutto il nostro passato è da buttare, anzi, e che il bruciare libri, dischi, musica, teatro, cinema e quadri non porta e non porterà o mai ha portato alcunché di buono all'uomo e alla sua vita sulla Terra».

Sulla copertina sono raffigurati tuo papà da piccolo e tuo nonno. Anche nel libretto ci sono altre foto della parte maschile della tua famiglia. Che significato hanno queste foto e perché nessun ricordo delle donne della tua famiglia?

«In realtà sul posteriore c'è anche la bisnonna, oltre a bisnonno e nonno, mio padre è nel booklet interno ma hai ragione, questo voleva essere un tributo alla parte maschile della mia famiglia, quella che mi ha donato manualità e creatività a mio modo di sentire e che mi ha messo nella condizione di poter sognare e osare quello che altri rifuggono, un percorso diverso e indipendente».

Cosa può trovare l'ascoltatore nel tuo disco?

«Me e se stesso attraverso me o almeno, spero, qualche spunto utile e qualche forma di identificazione positiva con le proprie emozioni profonde».


Titolo: Paolo Saporiti
Artista: Paolo Saporiti
Etichetta: Orange Home Records
Anno di pubblicazione: 2014



Tracce
(Testi e musiche di Paolo Saporiti)

01. Come venire al mondo
02. Io non ho pietà
03. Cenere
04. Sangue
05. Come hitler
06. L'effetto indesiderato
07. Ho bisogno di te
08. Erica
09. In un mondo migliore
10. Caro presidente
11. P.S.



lunedì 6 ottobre 2014

La disperata "Beggar town" dei Cheap Wine




Diciotto anni di musica, concerti dal vivo e dieci dischi pubblicati fanno dei Cheap Wine una delle band indipendenti più longeve del panorama musicale italiano. Il gruppo pesarese, guidato da Marco Diamantini, ha presentato in questi giorni il nuovo atteso disco intitolato "Beggar town", che arriva a quasi due anni di distanza dal precedente "Based on lies". Se i personaggi del disco pubblicato nel 2012 erano travolti e sconvolti dall'inaspettato peggioramento delle loro condizioni di vita, le figure presenti in "Beggar town" hanno preso coscienza della situazione e fanno i conti con la loro esistenza, con luoghi pieni di desolazione e smarrimento, con la prospettiva di una vita fatta di lotte per garantirsi la sopravvivenza. Gli stati d'animo dominanti sono frustrazione, rabbia, disperazione e cinismo ma a questi si uniscono potenti squarci di luce, momenti di speranza e sogni. Nei testi, di una importanza forse anche superiore alla musica stessa, si passa dallo sconforto più cupo alla speranza più vivida. Situazioni e stati d'animo che condizionano anche la musica, ricca di sfumature, che appare nella sua totalità più cupa rispetto al lavoro precedente. Potente è la sezione ritmica affidata al bassista Alessandro Grazioli e al batterista Alan Giannini, così come altrettanto importanti sono le incursioni chitarristiche di Michele Diamantini e il tappeto sonoro messo sul piatto delle tastiere di Alessio Raffaelli.
"Beggar town" è un disco intenso, compatto, crepuscolare che necessita di attenzione per essere apprezzato e interiorizzato ma che ha grandi potenzialità per rimanere a lungo nella memoria di chi lo ascolta. La grafica è firmata, come nel disco precedente, da Serena Riglietti, che ha curato le copertine dell'edizione italiana di "Harry Potter" ed è una delle illustratrici più apprezzate in ambito nazionale. Nel libretto, a conferma dell'importanza dei testi scritti da Marco Diamantini, sono riportate anche le traduzioni in italiano.
Nell'intervista che segue Marco Diamantini ci presenta il nuovo disco dei Cheap Wine.



Nell'era in cui gli U2 regalano le loro canzoni, voi siete rimasti al cd. Siete all'antica ma trovo che ci sia molto più amore nelle canzoni di "Beggar Town" rispetto a quelle abbastanza fredde del gruppo irlandese...

«Personalmente il disco degli U2 non l'ho ascoltato, non mi hanno mai interessato più di tanto, neanche ai temi d'oro. Sul fatto che ci sia più amore nelle nostre canzoni penso che tu abbia ragione, gli U2 hanno raggiunto un tale stato di business che credo che gli affari siano diventati più importanti della musica. Cosa che ovviamente per noi non è. Noi andiamo avanti da tanto tempo proprio perché abbiamo una passione per la musica che supera qualsiasi altra cosa. In tutto quello che facciamo cerchiamo di metterci sempre la massima cura. Infatti, per questo disco abbiamo rinnovato il sito, in questi giorni è uscito il video, abbiamo curato la confezione del cd. Insomma cerchiamo sempre di fare il massimo e di offrire un prodotto che possa competere con i gruppi che hanno un budget diverso dal nostro e, allo stesso tempo, vogliamo dimostrare rispetto nei confronti di chi ci segue e magari acquista quello che facciamo. Per noi è importante che dalle canzoni traspiri il nostro amore per la musica».

Quando ho sentito la prima volta il vostro ultimo disco mi ha fatto tornare in mente la buona musica degli anni Settanta, quella che ha fatto la storia, che si sentiva con la puntina che correva lungo i solchi del vinile…

«Ce lo hanno chiesto in tanti ma il vinile ha costi proibitivi e non ce lo possiamo permettere. Abbiamo già speso tanto, anche perché oltre al cd ci vuole il video, il sito, e tutta una serie di altre cose. Nessuno di noi è ricco anzi, siamo due disoccupati e il più ricco del gruppo prende lo stipendio di un operaio, questo per farti capire la situazione».

Alcuni gruppi e musicisti si affidano al crowdfunding. Voi invece avete voluto fare a meno dell'aiuto dei fans…

«Siamo contrari al crowdfunding. È una formula che non ci piace e non approviamo. Lo potremmo utilizzare solo se fossimo proprio ridotti nella condizione di non poter produrre assolutamente niente. Ma fino a quel momento andremo avanti per la nostra strada, mi sembra più seria. Chiediamo alla gente di acquistare il nostro cd solo se piace, non per una opera di carità o elemosina. Ci lascia perplessi anche vedere che ci sono band che hanno tutti i mezzi per fare da soli e che invece usano quest'altro metodo».

Torniamo alla musica degli anni Settanta…

«Non credo che questo disco sia musicalmente anni Settanta, quello che forse richiama è il modo di suonare. C'è una intensità strumentale che il mercato attuale non vuole, vengono richiesti motivi più accattivanti, suonati in maniera più leggera, più orecchiabili, cose che vanno via. Noi siamo andati controcorrente anche in questo. Siamo cinque appassionati di musica, non facciamo calcoli, abbiamo suonato questo disco nel modo in cui volevamo e secondo me ha una intensità di suono che non si riscontra al giorno d'oggi. È un disco che richiede attenzione, tempo, non è un usa e getta, non è una cosa immediata, ci vuole l'atmosfera giusta, non lo puoi mettere come sottofondo. È un disco che può anche risultare difficile per alcuni e ancora di più per i tempi della vita moderna che non ti permettono di dedicare più di venti minuti al giorno all'ascolto di un disco. Ecco, è fuori dal tempo e probabilmente è anni Settanta proprio perché una volta il disco era una parte centrale nella giornata di una persona. E questo disco è fatto con quella logica».

Trovo che le canzoni siano costruite molto bene e che non si disperdano con gli ascolti. Quanto avete lavorato per arrivare a questo ottimo risultato?

«Il disco è frutto del lavoro di un anno, forse qualcosina in più. Poi ovviamente ci rientrano diciotto anni di musica, di attività, di esperienze personali, di ascolti. C'è stata una selezione molto severa delle canzoni perché inizialmente ce ne erano una quarantina. Abbiamo dovuto incastrare gli impegni di tutti per fare un lavoro serio su questo disco e siamo stati facilitati dal fatto, e io mi tiro fuori, che gli altri quattro componenti del gruppo sono veramente dei musicisti di primo livello. Hanno una preparazione e un gusto artistico che hanno permesso di fare quello che avevamo in testa. Musicisti bravi ce ne sono migliaia, la discriminante è riuscire a fare la cosa giusta al momento giusto e con il giusto feeling, ed è una cosa che sanno fare in pochi».

Dimmi se sbaglio ma mi pare di avvertire nelle prime tre-quattro canzoni una sorta di prosecuzione delle tematiche affrontate nel precedente disco, per poi svoltare verso una visione, non dico ottimista, ma che offre, seppur a fatica, una via di uscita con un futuro ancora da scrivere…

«In realtà diciamo che c'è un filo conduttore a livello di testi che lega "Beggar town" al precedente "Based on lies". Il fatto però che tu lo abbia rilevato nelle prime canzoni è casuale perché, in realtà, la scaletta del disco è stata decisa in un secondo tempo. Non c'è stata una logica relativa ai testi, nella scaletta abbiamo pensato più alle atmosfere musicali. In "Based on lies" è descritta la sorpresa di trovarsi catapultati improvvisamente in nuova situazione, condita da sentimenti quali paura, smarrimento e disperazione. In "Beggar town" si prende atto della situazione e a questo punto la disperazione e lo smarrimento non servono più, serve soltanto cercare una reazione per quanto possa essere difficile, duro e complicato. Gli sprazzi di luce ci sono perché c'è l'esortazione a non arrendersi. Anche nelle difficoltà peggiori non possiamo rassegnarci».

Quanto c'è di autobiografico in queste canzoni?

«Tutto è molto autobiografico perché coincide con la mia storia, con quella di alcuni componenti del gruppo. È chiaro che i testi, scrivendoli io, coincidano più con il mio vissuto che non con quello degli altri. Il fatto di essere disoccupato da oltre due anni è una cosa che si fa fatica ad affrontare e sostenere e quindi in questi dischi c'è tutto questo. C'è una sorta di strana contraddizione: in "Based on lies" la musica era più solare e i testi forse più scuri, in "Beggar town" la musica è abbastanza scura ma i testi lasciano trasparire un poco di speranza e di voglia di reagire e risorgere in qualche modo. Sono quindi due dischi legati da un tema comune ma musicalmente sono molto diversi».

L'ambientazione resta, almeno nei primi episodi, la città. Una città decadente dove mozziconi di sigarette, vetri rotti, pillole nere e nuvole di cocaina che sbuffano sono una triste cornice. Descrizioni di situazioni al limite dell'emarginazione che si vivono quotidianamente anche nelle periferie delle metropoli italiane. Cosa ci ha fatto cadere in questa spirale?

«Esprimo la mia idea e non so se coincida con quella degli altri componenti del gruppo, anche perché non parliamo molto di politica. Io sono convinto che ci siamo trovati in questa situazione per gli effetti del capitalismo. Non voglio fare un discorso ideologico, però non è stato mai accettata, soprattuto in Italia, l'idea che nessuno debba rimanere indietro e questo ha fatto sì che molta gente finisse ai margini. In questo periodo poi si assiste a una ecatombe. Nella mia città, che è sempre stata piuttosto ricca, la Caritas sta lanciando appelli perché non ce la fa più a dare da mangiare a tutti, non ce la fa più a dare i vestiti usati a tutti, non ce la fa neanche più a dare le medicine a tutti quelli che non riescono più a permettersele. E la situazione sta arrivando al limite. Rispetto  alla maggior parte degli stati europei abbiamo un welfare inesistente e questo ha trasformato la vita delle persone e anche l'aspetto delle città».

La crisi economica certamente non ha migliorato una situazione già difficile…

«Chi governa deve pensare in modo solidaristico, capire che una persona non può essere lasciata morire di fame. Altrimenti tutta le persone che sono rimaste senza lavoro e sono in difficoltà cosa devono fare? Rapinare i passanti per procurarsi da vivere? Purtroppo c'è ancora una grossa fetta di popolazione che rifiuta un discorso di questo tipo. Sento tanti che si chiedono, ad esempio, perché bisogna dare il reddito di cittadinanza - che esiste in tutta Europa tranne che in Italia - a chi non fa niente. Ma chi non ha lavoro come fa a sopravvivere? O decidiamo per una soluzione hitleriana e creiamo delle camere a gas in cui porre fine alle loro sofferenze oppure bisogna che venga permesso loro di andare avanti e di vivere. E credo che l'abbrutimento delle città e dei valori morali partano da qua, da un individualismo sfrenato che non tiene più conto dei bisogni degli altri».

Qual è la ricetta per uscire da questa città di mendicanti e re dalla corona d'oro?

«Avere un pasto e un tetto sopra la testa sono cose che non si possono negare perché altrimenti si disumanizza la società. Se la società deve essere fondata su un contratto, su delle regole di convivenza, allora deve essere permesso alle persone di avere uno standard minimo di sopravvivenza. Ci sono i più ricchi e i meno ricchi ma non puoi permettere che ci sia chi muore di fame o persone che dormono su una panchina. Finché ci sarà tutto questo sarà difficile combattere il degrado. Una persona ridotta in quello stato diventa una specie di animale che ha fame e io l'ho provato sulla mia pelle. Mi sono reso conto che finché avevo un lavoro, il mio stipendio, una vita tranquilla, potevo dibattere su tanti temi nobili come il razzismo, i diritti delle minoranze, dei lavoratori, ma nel momento in cui ti trovi a pensare se il giorno dopo riesci a mangiare di tutti questi argomenti non te ne importa più nulla, pensi solo più alla sopravvivenza. Si disumanizza tutto e anche le grandi idee della civiltà occidentale vengono completamente azzerate. Non ho soluzioni, non è il mio compito, vedo però che nessuno sta facendo qualcosa di concreto, li vedo solo parlare in televisione, blaterare, lanciare slogan ma non si occupano della gente. I loro giochetti politici non interessano, adesso noi abbiamo fame».

Dopo quello che io chiamo il trittico cittadino si passa a "Lifeboat". Ma il capitano rimane debole e i marinai sono dei bugiardi, quasi fosse un naufragio a cui tutti assistiamo...

«Il mare torna spesso nelle mie canzoni anche perché vivo in una città di mare, per me è quindi una ambientazione consueta. Il mare è sempre una metafora molto efficace. In "Lifeboat" c'è questo mood della musica che mi ricordava le onde che lentamente scorrono verso la battigia quando il mare è calmo. Mi è venuto naturale scrivere un testo di questo tipo».

La prima potente luce di speranza ce la offrite con "Your time is right now". ‹Troverai la luce, lungo la strada. Troverai il sorriso, lungo la strada›. Ci sono voluti un disco e mezzo per dare qualche speranza?

«Pur essendo i miei dischi sempre ricchi di una sorta di inquietudine, fa parte di me, del mio carattere, del mio modo di essere, non mi è mai piaciuto trasmettere dei messaggi completamente privi di speranza. Nel disco precedente qualche sprazzo c'è anche se contemporaneamente ci sono cose tra le più tremende che abbia mai scritto, soprattutto in un paio di episodi. In "Beggar town" emerge di più perché, assorbita la botta, è necessario attrezzarsi per trovare la via d'uscita, altrimenti non si sopravvive. Il senso di questo disco è appunto cercare la via d'uscita in tutti i modi. Pur nelle difficoltà che sono tante, dobbiamo lottare. La resa non mi è mai piaciuta e non ci sarà mai».

Con "Claim the sun", una delle canzoni più belle del disco, fate un ulteriore passo avanti. Ci invitate a risvegliarci e a pretendere il sole, a trovare la forza per cancellare tutto il grigio e scoprire un colore nuovo ogni giorno. Se dovessi dare un consiglio da cosa dovremmo iniziare questa rivoluzione?

«Siamo sempre portati a vederci circondati da problemi e a sperare nel minimo consentito, anche nella sopravvivenza un po' grigia. Invece io penso che dovremmo pretendere, anche da noi stessi, dalla nostra vita di avere il meglio. Mi sembra di ricordare che Borges, in uno dei suoi racconti, parlasse di un uomo che in punto di morte diceva ‹il mio più grande peccato è stato non essere felice›. È a questo che dobbiamo ambire e non si tratta di una felicità materiale ma di un sentimento più profondo, spirituale. Con l'espressione ‹pretendi il sole›, invitiamo le persone a non accontentarsi ma di pretendere il meglio, di essere felici, di avere una forza vitale interiore che faccia amare la vita. Probabilmente è anche un po' una utopia, però in fondo il r'n'r è un inno all'utopia e io credo che anche la vita debba tendere all'utopia, la dimensione del sogno è fondamentale».

‹C'è una nuova frusta per gli schiavi. Ti spacchi la schiena per una paga da fame. Non hai nessun potere›, è questa la drammatica visione della condizione umana nella società capitalistica descritta in "Destination nowhere". E in questi giorni si parla anche dell'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Cosa ne pensi?

«Da qualche anno è in atto un processo che tende a instaurare un nuovo schiavismo e che ha una regia precisa. Per paghe ridicole le persone sono costrette ad accettare qualsiasi tipo di lavoro. Ti propongono un piatto di minestra e devi anche ringraziare perché dietro di te c'è la fila di gente che prenderebbe il tuo posto. Approfittando della situazione disperata stanno togliendo tutti i diritti, il rispetto, e ti dicono vuoi una minestra al mattino e una alla sera allora spaccati la schiena e sei già privilegiato perché c'è chi non ha nemmeno questo. Vedo gente che si distrugge dal lavoro dalla mattina alla sera e poi non riesce ad arrivare alla fine del mese ed è una cosa allucinante. La forbice tra pochi ricchi e tanti poveri, persone che hanno finito di vivere, si è allargata enormemente. La frase di "Destination nowhere" è molto cruda ma è quello che sta accadendo. Hanno iniziato parlando di flessibilità, questa nuova parola che avrebbe garantito il futuro, poi hanno detto che dovevamo capire che non si poteva avere un lavoro per tutta la vita e che si doveva essere disposti a cambiare, poi hanno cominciato a dire che andava bene anche firmare contratti di tre mesi perché almeno si lavorava. È stato un processo iniziato nell'ultimo decennio o qualcosa in più. Hanno cominciato lentamente, piano piano, e adesso lo stanno portando a termine. Stanno distruggendo tutti i diritti, tutto il rispetto che c'era per chi lavorava e per chi non è nella posizione di dettare legge. E in tutto questo, la cosa più triste è che le persone o non se ne rende conto oppure l'approvano perché provvedimenti di questo tipo negli anni Settanta avrebbero scatenato una rivolta popolare».

Il tutto senza che ci sia una vera presa di coscienza da parte dei lavoratori. I grandi scioperi in Italia sono ormai un ricordo lontano…

«Stanno riuscendo a fare tutte queste cose anche perché non hanno bisogno di usare la forza. Attraverso i media hanno un potere di persuasione enorme, le persone non sono più in grado di ribellarsi anche perché per ribellarti ti devi informare e probabilmente molti non hanno neppure il tempo di farlo. Faccio fatica a vedere vie di uscita. Stiamo dando fondo ai risparmi non tanto dei genitori quanto dei nonni, nel momento che saranno finiti allora qualcuno si domanderà come farà a mangiare domani».

In "The fairy has your wings" canti <Il cielo è per volare, per abbandonare le zavorre che ci impediscono di essere liberi nel profondo>. Allora c'è la possibilità di riemergere ed essere protagonisti di un nuovo futuro?

«Quella canzone l'ho scritta per una ragazza che non c'è più e che era importante per noi. È un brano che ho dedicato a lei e anche quella frase ha qualcosa a che fare con lei. Comunque sì, anche la lettura che tu dai non è sbagliata. C'è questa speranza, la convinzione che un giorno le cose ritorneranno ad essere quello che ci aspettiamo che siano».

"Utrillo's wine" è il racconto di una storia vera. Che posizione assume all'interno del disco e quale è il suo significato?

«Il disco si intitola "Beggar Town", cioè città dei mendicanti, e Utrillo e anche Modigliani erano due di loro. Il che è una beffa se si pensa che questi due artisti sono morti nella povertà, mentre oggi le loro opere non hanno prezzo. Questa canzone racconta in maniera tragicomica, con un sorriso amaro, quella che può essere la realtà di persone costrette in quello stato. Pur di seguire la propria arte sono stati disposti a rinunciare a tutto, anche a morire di fame. In qualche modo ci identifichiamo in loro e abbiamo ammirazione per quello che hanno fatto».

La scelta di raccontare episodi e storie di persone realmente vissute non è una scelta nuova per te...

«L'avevo fatto anche in Spirits (2009) raccontando la storia del partigiano Silvio Corbari. Le storie dei partigiani sono sempre un po' retoriche, piene di sangue, e anche in quell'occasione avevo preferito raccontare un episodio ironico della vita di Corbari e della sua attività di partigiano. Magari ti strappa un piccolo sorriso ma ti fa ragionare su quello che certa gente ci ha lasciato e ha patito sulla propria pelle».

Particolarmente bella e significativa è la copertina. Il cane con la testa bassa e la pioggia fredda e acida trasmettono un senso di angoscia e solitudine…

«La copertina in realtà è tutto merito di Serena Riglietti, una illustratrice bravissima, forse la numero uno in Italia, conosciuta anche a livello internazionale. Molto semplicemente le abbiamo fatto avere il titolo del disco e i testi di alcune canzone e ha tirato fuori dal cilindro questa opera d'arte». 

Come si fa a restare per diciotto anni indipendenti e coerenti con la propria musica?

«Si potrebbe parlare due giorni di questo armento. Partiamo dal fatto che tenere insieme una band per diciotto anni senza i guadagni economici è una impresa quasi unica al mondo. Gruppi molto più ricchi e premiati non sono durati tutto questo tempo. Al primo posto c'è la passione per la musica, quella con la "p" maiuscola, quella vera che ti permea ogni momento della giornata. Da piccolo sentivo mio zio che strimpellava le canzoni di De Andrè e  mi sono innamorato del suono della chitarra, è una cosa che probabilmente è nel dna. Amore totale per la musica e anche una serietà professionale. Fin dal primo momento abbiamo affrontato la musica con lo spirito di una vera e propria professione, anche se non mi piace la parola, non l'abbiamo mai considerata un hobby. Ho portato avanti questo discorso pretendendo che questo fosse un principio inviolabile della band. Andare avanti in un modo più raffazzonato non mi ha mai interessato. E quindi anche nella scelta dei componenti della band c'è stata una selezione, abbiamo sempre tenuto in grande considerazioni le motivazioni. Andare avanti per diciotto anni in questo modo è stata dura, abbiamo passato momenti molto difficili, alcuni ogni tanto capitano nuovamente anche perché suoniamo un genere che in Italia non è molto considerato, non va di moda, ed è seguito da un pubblico di nicchia. Però il fatto di aver portato avanti questo discorso senza aver mai delle posizioni ambigue ci ha fatto guadagnare del rispetto e questo aiuta a rimanere coerenti. La nostra musica può piacere o meno ma su una cosa non si può discutere: quello che facciamo è onesto, vero e spontaneo».




Titolo: Beggar town
Gruppo: Cheap Wine
Etichetta: Cheap Wine Records
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(Testi e musiche di Marco Diamantini, eccetto dove diversamente indicato)

01. Fog on the highway
02. Muddy hopes
03. Beggar town  [musica di Alessio Raffaelli, testo di Marco Diamantini]
04. Lifeboat  [musica di Michele Diamantini, testo di Marco Diamantini]
05. Your time is right now  [musica Michele Diamantini e Alessio Raffaelli, testo Marco Diamantini]
06. Keep on playing  [musica di Michele Diamantini, testo di Marco Diamantini]
07. Claim the sun
08. Utrillo's wine  [musica di Alessio Raffaelli, testo Marco Diamantini]
09. Destination nowhere
10. Black man
11. I am the scar
12. The fairy has your wings (for Valeria)



giovedì 2 ottobre 2014

L'urlo spaventoso del "Dremong" di Max Manfredi





A sei anni da "Luna persa", album che gli consentì di vincere la Targa Tenco, Max Manfredi torna sulle scene con "Dremong". Il cantautore genovese ci regala un disco dalle atmosfere di confine che ruota intorno alla figura del Dremong, nome tibetano che identifica l'orso della luna che si pensa abbia dato origine alla leggenda dello Yeti ma che, in realtà, è stato per secoli ed è tuttora cacciato e imprigionato per l'estrazione della bile, sostanza usata nella medicina e nella cosmesi tradizionale cinese. Tredici canzoni, più l'intro firmato da Elisa Montaldo, nate dalla collaborazione con Fabrizio Ugas che cura la produzione artistica e partecipa al disco suonando chitarra classica e laud cubano. Il progetto è invece seguito da Primigenia Produzioni e reso possibile dalla campagna di crowdfunding su MusicRaiser. 
"Dremong" è un disco sorprendente che ci restituisce un Max Manfredi cantautore dalla classe eccelsa che, questa volta, gioca con la musica e con i suoni più di quanto aveva mai fatto in precedenza. E così si possono apprezzare echi prog nella title track, world music in "Finisterre", rebetiko in "Sangue di drago", fini esempi di cantautorato in "Piogge" e "Inutile", rock in "Sestiere del molo". Il tutto utilizzando strumenti della musica classica come violino, violoncello, clarinetto, della musica popolare e di strada, fino a strumenti della tradizione musicale cinese come il gu-qin e il gho-zen suonati da una bravissima Elisa Montaldo e tastiere vintage. Canzoni che attraversano vent'anni di carriera e che raccontano viaggi, storie d'amore, città e disincanti. 
Per riuscire nell'impresa Manfredi si è circondato di un gruppo di validi musicisti come il chitarrista Matteo Nahum, già protagonista con il progetto Nanaue, il pianista genovese Marco Spiccio, il contrabbassista Federico Bagnasco che ha da poco pubblicato il suo primo disco, e poi Daniele Pinceti, Marco Frattini, Daniela Piras, Nino Tubrimec, Loris Lombardo con il suo handpan e Roberto Piga.
Nell'intervista che segue Max Manfredi ci presenta il "Dremong" e la sua musica.




La prima cosa che mi ha colpito è stato il sound del tuo nuovo disco. Come ti è venuta l'idea di utilizzare suoni della world music, progressive, il rebetiko e pure il rock?

«Curiosità e opportunità. Anche in "Luna persa", e forse, in modo meno lampante, nei dischi ancora precedenti, venivano sfiorati tanti mondi musicali. Non sono un intenditore, sono un bevitore di musica. Sono un Casanova musicale che coglie l'occasione. La world music ce l'abbiamo in casa, oppure ci viene a trovare - come in questo caso - sotto forma di strumenti che Elisa (la tastierista) riceve in regalo da un viaggio in Cina. Oppure ci si innamora di un'inflessione musicale, di un mondo tradizionale... come nel caso della musica klezmer, del rebetiko greco. Quanto al rock, anche quello è un'abitudine, lo troviamo ovunque, dai supermercati a Facebook, anche se - come dicevo in una mia vecchia canzone - a volte è ‹tagliato male›. Non dimentichiamo Youtube e le altre diavolerie, che permettono a chiunque di ascoltare - e vedere - più o meno ciò che vuole, e hanno moltiplicato esponenzialmente le possibilità d'ascolto, seppure abbiano contribuito a frantumare l'attenzione».

Un lavoro musicalmente molto stratificato e vario che ha richiesto l'aiuto di un gran numero musicisti, ben ventuno più quattro coriste. Come è andata e cosa ti ha spinto a scegliere questa squadra?

«È ciò che chiamerei voglia di sperimentare. La 'sperimentazione' oggi ha un senso soggettivo. Non l'acqua che giammai non si corse, ma il percorso che io non ho ancora fatto, o, viceversa, i procedimenti a cui sono affezionato. Qui ci starebbe bene il quartetto d'archi, qui l'arpeggiatore del moog, qua un suono di mellotron, qui un intreccio di cordofoni. Un disco è come una festa con tanti invitati, però frastagliati come in un sogno, nel tempo e nello spazio. Il progetto preesiste, ma con tutte le variabili che inevitabilmente si vengono a creare. Un'avventura che sta fra una gita scolastica e la simulazione, almeno, di una guerra di confine».

Per rendere al meglio certe sonorità hai utilizzato anche strumenti etnici come il gu-qin, il gho-zen cinese o poco noti come l'handpan…

«È stato un uso molto parco. Il gu-qin per i glissati su "Notte", il gho-zen  per l'ostinato 'rock' un po' 'China' di "Sestiere del Molo", l'handpan per dare l'idea della pioggia persistente in "Piogge". E poi il glockenspiel, che ormai è il marchio di fabbrica delle mie canzoni. E archi, arpa, flauti, clarinetti, corni, organetto. Non ci siamo fatti mancare nulla. Un po' come una di quelle cene 'povere' di campagna in cui ognuno porta qualcosa, e si rivelano poi degne dei migliori ristoranti».

Protagonista del disco è l'orso tibetano, il Dremong. Ma dove lo sei andato a scovare?

«Ho una moglie esperta di tradizioni tibetane, mi indicò questo nome presente in alcuni testi antichi. La figura dell'orso l'ho sentita amica fin da bambino. E poi mi piaceva molto il suono del nome. Molto prima dei dibattiti insulsi su testo musica e poesia o non poesia nelle canzoni, Petrarca, il poeta, aveva già capito tutto, dicendo: ‹anzi, mi struggo al suon delle parole›. "Dremong" ha nel suo suono il brivido del freddo o della paura e, insieme, il colpo rituale del gong».

Nella cultura dei Pellerossa d'America, come per i lapponi e i popoli della galassia uralo-altaica l'orso è visto come un dio e al tempo stesso è padre, fratello, figlio, amico. Non così in Italia dove non se l'è mai passata bene e anche nelle ultime settimane gli orsi sono stati protagonisti, loro malgrado, di episodi che hanno attirato l'attenzione dei media. Che idea ti sei fatto al riguardo?

«Le culture che citi sono, o erano, solide, antiche, tradizionali, rituali. La nostra è una cultura putrida, magmatica, contraddittoria, scintillante e opaca,  dove le istanze convivono e confliggono senza durare. Da quanto ho capito c'è stato un progetto di ripopolamento animale, per motivi di convenienza finanziaria, in zone poco compatibili. Non siamo nel Wyoming, l'Italia è stretta. Animali non domestici e uomini, come nell'aneddoto su Genova, convivono ‹facendosi il culo l'un con l'altro›. In città girano branchi di cinghiali, i gabbiani disertano i moli e occupano le discariche, in attesa di qualche segnale hitchcockiano, lungo i contenitori della raccolta differenziata delle metropoli sostano pensosi i Marabù, i lupi li abbiamo appena oltre la periferia e a volte scendono a valle per un panino o per invadere qualche recinto, come gli orsi, e servirsi nell'hard discount dell'ovile. Di qui il rischio, e la precarietà, di una convivenza o 'amicizia' tra l'uomo, animale colonizzatore, e l'orso, animale opportunista».

"Dremong" è anche una canzone di denuncia dello sfruttamento che fanno in Cina degli Orsi della Luna. È in corso in tutto i mondo una campagna per impedire queste atrocità. Magari la tua canzone potrebbe diventarne il manifesto. Ci hai mai pensato?

«Del contrario ho brama, come si legge in Padre Dante. La mia è una ballata, non un manifesto. Non credo che Buzzati, inquietante cantastorie della 'famosa invasione degli orsi in Sicilia', abbia voluto far altro che emozionare e stupire. O che si legga Salgari come una dissertazione sociologica sul fenomeno della pirateria. Una canzone che denuncia le atrocità contro gli orsi  tibetani, in realtà esiste, è cantata dall'amica Rossella Seno, tanto più credibile in quanto i profitti della stessa canzone vengono devoluti in favore della difesa degli Orsi della Luna, o del Tibet, che, come molti sanno - e come anche il mio "Dremong" racconta - vengono da secoli perseguitati e torturati per l'estrazione della loro bile, che si ritiene abbia facoltà mediche o afrodisiache. Allegoricamente, la canzone anche, nella sua bile, può servire da cosmetico, da afrodisiaco, da farmaco. Da antidepressivo, da adattogeno dell'altrove, da rimedio omeopatico contro la nostalgia».

Quanti inquietanti Dremong, non obbligatoriamente a quattro zampe, hai incontrato nella tua vita?

«Voglio ricordare un orso buono, che conobbi nella noiosa adolescenza scolastica. Era un padre gesuita che faceva lezioni di italiano e si occupava di cinema. La sua andatura assomigliava a quella di un orso. Lo prendevamo in giro fra noi alunni snaturati, non tanto per l'andatura, ma per i suoi tic pedagogici - com'è inevitabile far coi professori - e gli volevamo bene».

Ma non c'è solo l'orso nel disco. Con "Disgelo" hai voluto denunciare il fallimento della new economy. Lo chiami, non a torto, mondo d'imbecilli ma quale è la strada per uscirne?

«Che tutto il sistema fallisca, anche solo qui in Occidente, come un immane, apocalittico scorpione cyberpunk che si uccide o uccide i compagni, mi pare tristemente evidente. Ma poi, fallisce in cosa? È evidente, nelle sue promesse di felicità. Ogni sistema fa promesse di felicità (o anche solo di vivibilità) e non le mantiene. Mantiene spesso, invece, le sue minacce di repressione e di sequestro dei beni necessari. Come se ne esce? Non lo so, e non lo sa il piazzista della canzone, che non è piazzista di ideologie. Dà solo l'indicazione di un'esperienza ambigua come il suo scopo: ‹così l'orgoglio l'ho ridotto a zero per infilarmi nella coda del pavone›. Cosa sia, questa coda del pavone, questo passaggio, o iniziazione, non lo dice e, in realtà, lo ignora. Può solo cercare di decifrare, come si fa leggendo le figure dei tarocchi, i Trionfi. E sogna un buen retiro, un ritorno, un precario idillio, forse persino una donna a cui gridare, o che piuttosto gli gridi, come in una tempesta, ‹amore mio›».

C'è anche un po' di Genova in "Dremong". "Sestiere del molo" è la cartolina della città… Genova è ancora la tua città?

«Adesso vivo a Sturla, che è pur sempre Genova, un po' più vicino alle spiagge. È Genova, a un passo dal centro, eppure è così diversa dal centro storico, dove - ovviamente - torno spesso per commissioni o appuntamenti... "Sestiere del Molo" è una cartolina dove qualcuno ha vomitato, che qualcuno ha strappato, ha bucato con la brace di una sigaretta. Sestiere del Molo è proprio l'anticartolina, il rifiuto, lo schifo. Lo sberleffo e il sarcasmo nei confronti dei luoghi 'poetici' della tradizione genovese 'alla Caproni', celebrati in loco, in economia, da una 'culturina' che vive di rendita, luoghi come la circonvallazione di Castelletto percorsa dall'autobus notturno. È il delirio, il capolinea su Saturno, la Casa dell'Artista intesa come ospizio, da dove si aspetta una qualche rivelazione o rivoluzione, o almeno rivalsa, che invece si risolve nel week end di regime, chiamato, non a caso, il sabato fascista, o nella visione degli amici morti, seduti al tavolino del bar».

Il disco si chiude con "Le castagne matte", una sorprendente canzone dedicata alla Resistenza che si ispira, nel titolo e nel tema, a un racconto di Mario Mantovani...

«La mia è una canzone inattuale e necessaria, non certo necessaria socialmente, ma per chi la vuole ascoltare e la fa sua. Quasi un western, non però alla Tarantino, semmai come vecchie pellicole di Howard Hawks oppure Aldrich. In effetti ha una strana nascita. Mi veniva in mente una canzone inglese, inesistente, dove, fra melodia ed armonia, comparivano queste parole: ‹for freedom and revenge›. Un canto desolato, di un reduce. Allora ho cercato di pensare alla Resistenza come al terreno di una nostalgia, lontano da programmi o rivendicazioni, lontano soprattutto da ogni retorica burocratica, da ogni analisi storica e da ogni gioioso zumpa zumpa da festa dell'Anpi, sacrosanti, invero, ma così distanti dal mio sentire. Per inciso, con altri amici componemmo anche una canzone retorica e zumpa zumpa, la controparte di questa, anche utilizzando cellule staminali di questo testo. Nonostante fosse entusiasticamente appoggiata da personalità come Don Gallo e Raimondo Ricci - allora presidente dell'Anpi - sbattemmo contro un muro, spero di gomma. Nonostante il ritmo retorico e sussiegoso, in quest'altro brano c'erano almeno belle immagini, bei concetti espressi magari in forma involuta per esigenze di ritmo, ed a volte mediati da lettere di partigiani, come questa: ‹Dal battito del cuore conoscere l'amico, e non quando il partito decide che lo sia›… "Le castagne matte" l'ho fatta sentire a un'amica che fu staffetta partigiana, nel dubbio che potesse non riconoscersi. Invece, e mi fece piacere, si commosse».

E poi la splendida copertina firmata da Ugo Nespolo. Come è nata questa collaborazione?

«Un felice incontro, procurato dagli amici dell'Isola di Alessandria. Ugo Nespolo già mi conosceva come cantante (e io naturalmente conoscevo lui come artista) ed è stato gentilissimo e veloce nella realizzazione».

Il disco è stato pubblicato anche con l'aiuto della campagna di crowdfunding su MusicRaiser. Penso che per te sia stata la prima volta che hai potuto contare sull'aiuto di questi nuovi "mecenati". Cosa ne pensi?

«È un metodo interessante per almeno due motivi: ti permette di evitare il più possibile le mediazioni, e ti dà il polso dell'esistenza di un nucleo di pubblico personalizzato e appassionato, non casuale o distratto. E quindi, ti fa vincere il primo round di un'ipotetica sfida».


Titolo: Dremong
Artista: Max Manfredi
Etichetta: Gutenberg Music/Primigenia Produzioni
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(testi e musica di Max Manfredi, eccetto dove diversamente indicato)

01. Intro Dremong  [musica Montaldo]
02. Dremong  [musica Manfredi, Stefanelli, Montaldo]
03. Disgelo  [musica Manfredi, Spiccio]
04. Diadema  [musica Manfredi, Ugas, Spiccio, Nahum]
05. Notte  [musica Manfredi, Ugas, Nahum]
06. Finisterre  [musica Manfredi, Ugas]
07. Rabat girl  [musica Manfredi, Nahum]
08. Piogge  [musica Manfredi, Ugas]
09. Inutile  [musica Manfredi, Ugas]
10. Sangue di Drago  [musica Manfredi, Ugas]
11. Il negro [musica Manfredi, Ugas]
12. Sestiere del molo  [musica Manfredi, Ugas]
13. Anni Settanta  [musica Manfredi, Ugas]
14. Le castagne matte  [musica Manfredi, Ugas]