lunedì 29 settembre 2014

La comunicazione musicata da Edmondo Romano






"Missive Archetipe" è il secondo capitolo della trilogia discografica di Edmondo Romano. Dopo aver indagato il rapporto tra il lato maschile e quello femminile dell'universo con il precedente "Sonno Eliso", il polistrumentista e compositore genovese ha messo sotto la lente d'ingrandimento il tema della parola, del verbo raccontato attraverso la poesia, della comunicazione nel significato più ampio e generale. Un viaggio musicale per immagini che parte dalla creazione fino ad arrivare alle pagine più drammatiche dei giorni moderni, il tutto attraverso improvvisazioni jazzate, contaminazioni minimaliste e sbocchi prog e classici. Canzoni scritte da Romano, eccetto un canto tradizionale e due episodi firmati insieme al fiatista Gianfranco De Franco ("Carme") e al pianista Fabio Vernizzi ("Dato al mondo"), con la consueta classe e ricercatezza nelle soluzioni compositive a cui ci ha abituato in questi anni. Rispetto al precedente "Sonno Eliso", in questo disco sono presenti alcune parti cantate o recitate: reading di poesie di Catullo, del mistico persiano Jalal al-Din Rumi, di Charlotte Delbo sull'esperienza personale nei campi di concentramento, e un canto popolare tra i più noti.
Romano (sax soprano, clarinetti, clarinetto basso, low whistle, chalumeau) si è avvalso della collaborazione di un nutrito gruppo di musicisti e artisti. A partire da Lina Sastri, Marco Basley, Simona Fasano, Laura Curino e Alessandra Ravizza alla voce; Arturo Stalteri, Elena Carrara e Fabio Vernizzi al pianoforte; Kim Schiffo al violoncello; Redouane Amir al fagotto; Vittoria Palumbo all'oboe; Roberto Piga, Alessandra Dalla Barba e Gabriele Imparato al violino; Riccardo Barbera al contrabbasso; Marco Fadda alle percussioni; Max Di Carlo alla tromba; Gianfranco De Franco al flauto traverso e al clarinetto.
Come già accaduto in occasione del precedente capitolo, abbiamo trovato in Edmondo Romano un interlocutore cortese e disponibile. I temi affrontati sono riportati nell'intervista che segue.



In questo disco, il secondo dopo "Sonno Eliso" dedicato al rapporto maschile-femminile, affronti il tema della parola e della comunicazione. Comunicazione tra chi e con chi?

«"Missive Archetipe" rappresenta la storia immaginaria di un uomo o dell’essere umano, dalla sua creazione fino all'aberrazione dei giorni moderni. Vuole guidare l'ascoltatore in un viaggio dentro il proprio essere, guidarlo attraverso i suoni e le parole che esprime, le metafore che ognuno può liberamente interpretare. Un percorso che non ti lasci indifferente, perché il ricordo, la memoria, sono sicuramente i beni più preziosi che possediamo, ma anche la capacità di viaggiare dentro noi stessi è consapevolezza che mai dovremmo perdere, anzi accrescere».

C'è ancora spazio per il verbo scritto e parlato in una società che è più propensa a perdersi nel mondo virtuale?

«Forse mai come oggi una così grande moltitudine di persone "scrive" ogni giorno, e questo grazie all'avvento del nuovo mondo tecnologico. Basta pensare alla grande quantità di pensieri continui che navigano sui social network. Come sempre non è il mezzo ad essere "il Diavolo" - come si diceva una volta della radio, poi della televisione… -, ma è l'uso errato del mezzo stesso che può portare a snaturarne la forma. Credo che la parola, la comunicazione avrà sempre più un ruolo fondamentale nella vita comune».

Alcuni brani del disco sono legati a poesie, come "A Lesbia" di Catullo. Che significato riveste all'interno dell'album e perché questa scelta?

«Rivestono un ruolo di completezza e forse anche un naturale bisogno di inserire all’interno del lavoro alcune "voci". La scelta è avvenuta in modo involontario, devo ammettere… Talmente naturale da sembrare a volte casuale. Nulla in realtà è casuale, quando esiste una reale libertà creativa accade che si approfondiscano alcuni temi, emozioni…, in modo completo, profondo. Questo poi si riflette quasi sempre nel lavoro che in quel momento si sta portando avanti, anche in diversi ambiti. Si segue in libertà un percorso in realtà obbligato, questo credo faccia parte di una crescita consapevole».

Hai inserito anche una ninna nanna tradizionale. È questa la tua visione della comunicazione nell'eta dello sviluppo?

«Ogni età è "dello sviluppo". Ogni cosa si evolve grazie a quello che prima c’è stato tramandato ed insegnato, quindi nulla può essere più attuale di una lezione, una emozione, una riflessione che arriva dalla tradizione, dal personale passato».

In "Di questo amore morite" viene recitata la poesia "Morite morite" del poeta e mistico persiano Jalal al-Din Rumi. Che significato ha e perché la scelta di un poema in arabo? In questo caso la comunicazione difficilmente sarà completa. E poi la toccante poesia di Charlotte Delbo in "Vestire la tua pelle" che racconta la sua tragica esperienza diretta nei campi di concentramento...

«"Missive Archetipe" è un lavoro sul "Verbo" ed ospita al suo interno alcune parti cantate o recitate, porzioni volutamente mancanti in "Sonno Eliso" ma indispensabili per completare questo secondo capitolo. Poesie che amo particolarmente: "A Lesbia" di Catullo - recitata da Lina Sastri - per me rappresenta la passione amorosa; "Morite, morite" di Jalal al-Din Rumi - recitata in persiano da Alessandra Ravizza - è l’eterno dilemma dell'essere umano; "Vestire la tua pelle" di Charlotte Delbo - cantata da Marco Beasley - al tempo stesso denuncia una modernità violenta ed è un inno alla vita che sorge dalle macerie del Male; "Ninna nanna sette e venti" - cantata da Laura Curino e Simona Fasano - è tra i canti più belli della nostra tradizione popolare, la protezione verso un figlio».

Di "Vestire la tua pelle" nel cd si trova una traccia video di cui hai curato anche la regia. Devo dire che sei riuscito benissimo a trasmettere il senso di claustrofobia e di angoscia che si potevano respirare in quelle tragiche situazioni. Come ti è venuta l'idea?

«La realizzazione del video nasce dalle riprese effettuate a "Il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa", meglio conosciuto come Museo dell'Olocausto e della Shoah situato a Berlino. La telecamera viaggia all'interno di questo enorme labirinto senza fine creando un effetto di tensione e prigionia. Tutte le altre immagini che compongono e completano il video, dalla coreografia di Giovanni Di Cicco realizzata dalla Compagnia Teatro Nudo alla fotografia di Fabrizio Giusti, si sviluppano sempre con la stessa profondità di campo presente nel labirinto. L'idea è nata sul momento, mentre ero a Berlino al centro del monumento, da solo, ed ho iniziato a girare senza fermarmi, in silenzio, realizzando le riprese come se fossero un video. Quando le ho montate sulla musica, la lunghezza delle immagini era perfetta».

Perché la scelta di costruire brani più orchestrali e se vogliamo anche con un suono più omogeneo rispetto a quelli dell'album precedente?

«Anche "Missive Archetipe" come "Sonno Eliso" è un disco composto da 'musica per immagini'. Come per il primo lavoro molte scritture sono scaturite dallo stretto rapporto che da anni conduco con il teatro, terreno che considero fertile per poter creare in grande libertà espressiva. Alcuni brani invece sono stati composti appositamente, per completarne il discorso. Le differenze tra i due lavori in realtà sono numerose: il secondo album adotta una composizione molto più orchestrale, arrangiamenti più lineari, omogeneo nei suoni e nell'utilizzo degli strumenti, scelta in parte voluta ed in parte naturale perché il risultato di una scrittura svolta in un tempo relativamente più breve, quindi sicuramente più concentrata e focalizzata».

È curioso come tu abbia il completo controllo nella produzione del tuo lavoro. Anche in questo disco hai curato tutto, dalla produzione al mixaggio, dalla grafica alla regia del video. Sei un accentratore o hai timore che i collaboratori possano in qualche modo alterare il tuo messaggio?

«Non esiste nessun timore nella collaborazione con altri artisti o produttori, difatti questo in parte avviene, vivo sempre uno stretto rapporto collaborativo con chi produce il lavoro, fatto anche di lunghi scambi di opinione. Come per "Sonno Eliso" ne ho curato la produzione, le registrazioni, i missaggi, la grafica, il video. Questa visione globale del lavoro che applico a ogni mio cd, sin dal primo Eris Pluvia, è a mio avviso, se non si possiedono budget alti, l’unico reale modo per lavorare in totale libertà creativa, libertà che ti permette di realizzare materialmente le tue idee. Ho comunque sempre vissuto in modo naturale questo tipo di visione globale sul mio lavoro, capacità che ho sviluppato negli anni con serietà, applicazione e molte ore dedicate allo studio dei mezzi tecnologici».

Scorrendo i crediti del disco ho notato che ti sei affidato a molti musicisti, addirittura a tre differenti pianisti. Perché questa scelta?

«Come ho già accennato vivo la composizione in modo completamente indipendente da vincoli creativi, produttivi, di mercato. La musica nasce in totale libertà, non si indirizza ad un pubblico specifico e non viene pensata per qualche specificità, credo che il compositore sia solo un mezzo per amplificare ad altri ciò che già esiste, solo un essere capace di cogliere e trasformare un messaggio che in qualche modo doveva comunque nascere. Questo criterio ha indirizzato anche la mia scelta per i musicisti: come tu fai notare, in questo disco ho lavorato per esempio con tre pianisti differenti - Arturo Stalteri, Elena Carrara, Fabio Vernizzi - che hanno completato con la loro differente sensibilità la parte da me composta. Per me è il tocco, il modo in cui si vive ed interpreta la musica a scegliere il musicista adatto per un brano, è la composizione stessa a farlo».

Avremo la possibilità di ascoltare "Missive Archetipe" in versione live nel prossimo autunno?

«La prima uscita in concerto di "Missive Archetipe" sarà a Genova nel pomeriggio del 10 ottobre, evento realizzato in collaborazione con il Comune di Genova all’interno delle manifestazioni legate alle Colombiane. Ho scelto come spazio il bellissimo Museo Orientale "Chiossone", spazio magico e sospeso, dove il pubblico si muoverà liberamente al suo interno durante lo spettacolo e i musicisti si esibiranno tra le antiche statue d’oriente».

Il tema del prossimo capitolo della trilogia sarà la religione ma nel frattempo in quale altro progetto sei coinvolto?

«Sicuramente ci saranno progetti paralleli sia nell’ambito teatrale con la Compagnia Teatro Nudo con la quale lavoro da anni nel teatro di ricerca, sia in quello discografico. Prevedo la realizzazione di altri tre cd con musicisti con i quali collaboro da tempo: il nuovo lavoro con Orchestra Bailam e Compagnia di Canto Trallalero che sta ottenendo ottimi riscontri in tutto il mondo nell’ambito etno/folk; sto terminando un  nuovo lavoro che uscirà a breve con alcuni musicisti con i quali ho lavorato negli Eris Pluvia una ventina d’anni fa, Alessandro Serri e Mauro Montobbio che vede la partecipazione di John Hackett; si parla anche di un nuovo cd con Vittorio de Scalzi ed uno con Federico Sirianni; andrò a suonare a Tokyo con la formazione di Picchio dal Pozzo. Ma quello che maggiormente sento vivo in me oggi è il percorso da solista, strada sicuramente più difficile da consolidare, ma che spero divenga unica concentrazione e guida musicale nel futuro».


Titolo: Missive Archetipe
Artista: Edmondo Romano
Etichetta: Felmay
Anno di pubblicazione: 2014



Tracce
(musiche e arrangiamenti di Edmondo Romano, eccetto dove diversamente indicato)

01. Petali di carne
02. Parabola
03. Carme  [poesia di Catullo; Edmondo Romano / Gianfranco De Franco]
04. Ahava
05. Dato al mondo  [Edmondo Romano / Fabio Vernizzi]
06. Ninna nanna
07. Il giardino degli animali eterni
08. Di questo amore morite
09. Diluvio
10. Questa terra
11. Vestire la tua pelle
12. Missive archetipe




mercoledì 10 settembre 2014

"Majin", la tradizione piemontese dei DinDùn



Angelo Conto e Alessandra Patrucco (copyright Martin Cervelli)


Li abbiamo visti esibirsi in occasione della decima edizione del Premio Città di Loano per la musica tradizionale italiana. Nella raccolta e calda sala della biblioteca loro, i DinDùn, hanno presentato le canzoni di "Majin", album che a sorpresa si classificato al quarto posto nella classifica dei dischi del 2013 più votati dalla giuria del Premio. Un riconoscimento inatteso che ha premiato la qualità e soprattutto la capacità di esplorazione e innovazione di questo trio piemontese che ha ampliato i confini della tradizione intrecciando più generi musicali. I DinDùn sono partiti dai canti della tradizione piemontese raccolti sul campo da Costantino Nigra, Leone Sinigaglia e Giuseppe Ferraro e li hanno colorati con tinte che posso essere rintracciate facilmente nel jazz e nell'avanguardia. Un progetto coraggioso che ha trovato la giusta espressione nella voce di Alessandra Patrucco, dotata di una ottima tecnica e capace di coprire senza cedimenti un'ampia estensione vocale, nel pianoforte di Angelo Conto, utilizzato in tutte le sue caratteristiche espressive, e nella ghironda elettrificata di Francesco Busso che nei concerti di quest'estate ha preso il posto di Marc Egea, presente invece sul disco. Questo disco è una piacevolissima sorpresa che ha saputo ridare freschezza a canti del patrimonio storico e culturale piemontese senza cadere nel puro revival. E così anche melodie semplici e per certi versi banali, come può essere quella conosciutissima de "Il mio castello", hanno trovato nuova collocazione e nuovo slancio.
Con Alessandra Patrucco e Angelo Conto, in questa intervista, abbiamo esplorato "Majin" e parlato di musica tradizionale.



Prima di parlare del disco, mi piacerebbe che uno di voi raccontasse il vostro approccio alla musica popolare...

Conto: «Il mio approccio alla musica popolare è lo stesso rispetto a qualunque altra musica alla quale mi avvicino. Cerco di delineare i contorni, le linee generali di quel mondo sonoro, di quel linguaggio, di quel contesto sociale e possibilmente di andare a fondo in alcuni aspetti. Su queste basi, suono, arrangio ed interpreto secondo il mio gusto e la mia sensibilità, adattate però al caso specifico. Mi spiego. Per la musica popolare piemontese non mi sono sentito di utilizzare armonie elaborate, mi sembrava di togliere un po' di quella essenzialità che caratterizza questa musica. In altri casi invece mi è successo di arrangiare musiche in maniera molto più incisiva, soprattutto armonicamente, introducendo degli elementi che non sono propri di quel linguaggio. Questo non mi è venuto da farlo nel caso della musica piemontese, e a dire il vero, finora non ci avevo pensato».

"Majin" si è piazzato al quarto posto nella classifica degli album del 2013 più votati dalla giuria del Premio nazionale Città di Loano per la musica tradizionale. Un risultato per molti inaspettato e per voi?

Conto: «Senz'altro anche per me, dal momento che è un Premio importante al quale concorrono musicisti esperti e conosciuti. Oltretutto il nostro lavoro è autoprodotto e autopromosso, quindi credo che sia la conferma del fatto che stiamo percorrendo una buona strada».
Patrucco: «Anche per me è stato un risultato del tutto inaspettato».

Qual è il filo conduttore di questo progetto?

Patrucco: «Il suono delle campane del paese e il suono delle voci dei vecchi - siccome ero piccola mi sembravano tutti vecchi - che mi raccontavano delle storie, di guerra o di lavoro in campagna, oppure dicevano cose che non capivo ma mi piaceva lo stesso starli ad ascoltare, era una musica bellissima il suono del dialetto. Alle volte a noi bambini gridavano dietro se giocavamo a pallone contro i muri delle case, che erano quattro in tutto sulla collina di Rolasco frazione di Casale Monferrato, ed era bello anche quello, non ci facevano paura e non so perché ma veniva da ridere un po' a tutti. Mi è venuta voglia di interpretare queste canzoni quando le ho sentite cantare da voci così, voci che non ci sono più».
Conto: «I canti, le storie che raccontano, che sono immagini, "cortometraggi" che parlano di molti tratti umani belli, interessanti e, a volte, commoventi. Dal punto di vista musicale, direi, il linguaggio che utilizziamo, che credo contribuisca a dare unitarietà al lavoro». 

A Loano, complici le condizioni atmosferiche non proprio favorevoli, siete stati costretti ad esibirvi in uno spazio più raccolto e intimo rispetto a quello previsto. Come avete vissuto la serata e cosa avete portato a casa dai giorni trascorsi in Riviera?

Conto: «La pioggia, che poi quella sera non è caduta, è stata una coincidenza fortunata. La sua incombenza ha fatto sì che il concerto si svolgesse al chiuso e, nonostante il caldo, sono sicuro che la scelta abbia giovato a noi e alla musica, come molti ascoltatori poi ci hanno riferito. Ho portato a casa intanto un po' di aria ligure, un po' di profumo di mare che per me che vivo nell'interno è sempre una bella cosa, e poi la voglia di lavorare su questa musica, di suonarla e di rendere il progetto sempre più solido».

Il vostro approccio alla musica tradizionale è fortunatamente molto distante dal puro revival. Come vi è venuta l'idea di mischiare avanguardia, jazz e tradizione?

Conto: «È semplicemente il frutto di molteplici interessi. È il risultato delle strade percorse e delle esperienze fatte, ciascuna delle quali iniziata tempo fa e magari per motivi differenti, alcune volte per curiosità personale, altre volte su commissione o per l'incontro e la collaborazione con alcuni musicisti e che ad un certo punto, inevitabilmente, noi lasciamo che si mescolino, anziché tenere ciascuna dentro a compartimenti stagni, come farebbe un custode dell'ortodossia e della "purezza" dei linguaggi».
Patrucco: «A me non è venuta un'idea, direi che i canti hanno trovato me. Quando ho provato a cantarli ero piuttosto intimorita, poi ho preso confidenza cantandoli e ricantandoli a voce sola, sentendo ogni volta qualcosa in più e ho lasciato che le melodie si sciogliessero bene nel mio corpo, così a poco a poco anche le parole hanno cominciato a risuonare. Quando canto, canto così, con dentro tutta la musica che ho amato e che amo senza pensare a questo o a quel genere».

A tratti sembra che le canzoni raccolte da Costantino Nigra, Leone Sinigaglia, Giuseppe Ferraro e da voi riproposte siano state utilizzate come una tela bianca da colorare con grande fantasia. Sbaglio di molto?

Conto: «È una bella immagine che trovo appropriata. Io vedo però una tela non bianca ma che già contiene una traccia e dei colori».
Patrucco: «Qualsiasi canzone in un certo senso può essere una tela bianca da colorare e i colori mi piacciono molto. Ma non è mai completamente bianca, ci sono i colori di chi la canzone l'ha creata e su cui stendere i miei, come con gli acquerelli, velatura dopo velatura».

Scelta che ha convinto la maggioranza della critica e del pubblico. Dall'altro lato gli integralisti della tradizione potrebbero però storcere il naso di fronte a certe vostre interpretazioni a tratti cameristiche. Cosa ne pensate?

Conto: «Certo gli integralisti, di qualunque genere, di solito storcono il naso quando ci si allontana un po' troppo dal canone, questo è inevitabile. Ciò che però mi rassicura molto sul nostro lavoro sono i pareri positivi espressi dalla maggior parte dei musicisti di musica popolare che conosco, che senz'altro non sono degli integralisti, va detto, ma anche i più vicini alla tradizione hanno apprezzato la nostra musica e il nostro modo di trattare la musica popolare».
Patrucco: «È musica fatta di tanta altra musica senza pregiudizi estetici o pretese filologiche, quel che sentiamo suoniamo e cerchiamo di suonare e sentire meglio che possiamo».

Come sono stati scelti i brani e quale lavoro è stato fatto per adattarli alla vostra musica?

Patrucco: «In un primo tempo, più che scelti i brani li ho incontrati poco a poco facendo altri lavori, per esempio per il teatro. Alcune tematiche dei testi delle canzoni sono state funzionali agli spettacoli ma alle volte sono state le canzoni stesse a far virare gli spettacoli in questa o quella direzione. Per lo più mi sono interessata a storie di persone, spaccati di vita quotidiana, come quella di Pero, uomo timido che va a trovare la sua amata e che non osa neanche entrare in casa sua. Oppure la storia della bionda di Voghera: questa canzone l'ho imparato andando in giro d'estate per i campi col mio cane e immaginando la protagonista che, proprio come me, si sedeva all'ombra per il caldo e fantasticava dell'incontro con il bel giovane. Anche i paesaggi mi commuovono; per esempio in "Majin" e in "La soca" c’è la collina con dietro la montagna che è il paesaggio che ho visto dalle finestre ovunque abbia abitato in Piemonte. Un paesaggio che non mi stanco mai di guardare. Poi ogni canzone volendo è un film, ci puoi mettere i tuoi attori, i tuoi luoghi, lasciare che siano gli stessi ogni volta o cambiarli, io veramente mi affeziono agli stessi, col tempo mi sembra quasi di conoscerli… In un secondo momento con il trio abbiamo scelto quelle che venivano meglio, anzi forse sono le canzoni che hanno scelto di essere suonate. E siamo noi che ci siamo adattati ad esse e non viceversa, voglio dire che il lavoro più grande è stato quello di togliere, semplificare, lasciare spazio e mettere in luce quel che già c'era perché c'era già tutto».

Avete compiuto anche ricerche sul campo o vi siete affidati al materiale esistente?

Patrucco: «Tutte e due le cose. Le ricerche sul campo sono iniziate nel 2006 in occasione del primo disco "Varda la luna", registrato con il gruppo Sasà. A quel tempo ho avuto la fortuna di collaborare con Franco Castelli, etnomusicologo e ricercatore dell’ISRAL di Alessandria, collaborazione che è continuata fino ad oggi. Grazie a lui ho conosciuto testimoni e portatori di cultura orale dell’alessandrino che mi hanno trasmesso conoscenze, musica e canti, ho avuto l'opportunità di raccogliere materiale nuovo e già esistente e di rielaborarlo sotto la guida della sua esperienza insieme alla mia sensibilità. Questo è in parte accaduto anche per il disco di DinDùn. Una bellissima esperienza che ha dato la possibilità al mio lavoro di crescere e continua a farlo».

Secondo voi è possibile trasmettere alle nuove generazioni l'amore per la musica tradizionale?

Conto: «Sì certo, secondo me è possibile trasmettere agli altri l'amore e la passione per le cose che si fanno, indipendentemente dall'età e da fattori generazionali. Ho l'impressione che però si tratti di fenomeni che riguardano ciascun individuo, più che le categorie come per esempio "i giovani" che, come tutti, sono soggetti, purtroppo, a una massiccia dose di propaganda a favore di cose che con la musica e con l'amore non hanno molto a che vedere».
Patrucco: «Penso che sarebbe bello poter suscitare amore per la musica in generale. Sarebbe bellissimo se anche la musica tradizionale emozionasse oggi come nel momento in cui a qualcuno, in un tempo lontano, è venuta la fortunata urgenza di inventarsi una canzone. Con cura e con amore è possibile che si possa suscitare il desiderio di provare a fare lo stesso. La fortuna è anche che quel canto sia sopravvissuto fino ad oggi e quando questo viene reinterpretato è come se si instaurasse un dialogo tra persone che non si sono mai conosciute, che sentono in momenti diversi e lontani emozioni che fanno ridere o piangere, e tutte quelle altre meravigliose sfumature che stanno tra i due opposti».

I canti della tradizione sono tanti, ci possiamo aspettare un secondo capitolo targato DinDùn?

Conto: «Spero in una lunga serie di capitoli dei DinDùn, ma ancora non ho chiaro quali potrebbero essere i titoli né i contenuti neanche del prossimo. Staremo a vedere».
Patrucco: «Sì, ci sono già alcuni canti che mi stanno girando intorno come "Cantè bergera", "Il potere del canto", "Leva su bela", "E mi chantu". Ma ci vorrà ancora un po' di tempo per mettere a fuoco il nuovo disco».

Concludendo, quali sono al giorno d'oggi i problemi a proporre musica tradizionale?

Conto: «Frequento relativamente da poco l'ambiente della musica tradizionale, ti posso però dire che credo esistano in generale dei problemi a proporre musica un po' al di fuori degli schemi consueti; credo sia costante nelle programmazioni la ricerca del grande nome, del musicista famoso con il quale il pubblico possa essere rassicurato di ascoltare, spesso, la stessa musica. Un po' "stessa spiaggia, stesso mare", che alla musica secondo me non fa un granché bene. Una nostra caratteristica, con la quale dovremo fare i conti, è che proponiamo una musica che è tradizionale ma non da ballo, è soprattutto una musica da ascolto, caratterizzata dal miscelarsi di diversi ingredienti, che credo possa interessare ad un tipo di programmazione aperta, di qualunque matrice. Ti sapremo dire in futuro».
Patrucco: «I problemi nascono quando proponi qualcosa che non è facilmente riconducibile a un modello riconosciuto, insomma qualcosa di non identificabile con un termine preciso. Per esempio, una volta un signore dopo un concerto di DinDùn mi ha detto <bello, mi è piaciuto molto perché io ci ho sentito anche musica africana in queste canzoni tradizionali> e sembrava sentirsi un po' in colpa mentre lo diceva <e anche musica… e anche…> e più elencava generi e più gliene venivano in mente e alla fine esausto ha detto <sì, ma se io volessi dire a un mio amico cosa ho sentito, che musica ho ascoltato, che genere, cosa gli dico?>. Ero davvero dispiaciuta di non poterlo aiutare perché naturalmente non lo sapevo e non lo so neanche adesso, così gli ho detto che se gli fosse venuta voglia forse sarebbe stato interessante inventarsene uno. Ecco, non so se ci siano problemi a proporre la musica tradizionale, la questione importante è aver la possibilità di fare musica».



Titolo: Majin
Gruppo: DinDùn
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2013

Tracce

01. La bionda di Voghera  [trad.]
02. Il mio castello  [trad.]
03. Majin (lutto leggero)  [trad. / adattamento Alessandra Patrucco]
04. Cucù  [trad. / adattamento Alessandra Patrucco]
05. La soca  [trad. / adattamento Alessandra Patrucco]
06. La crava l'à mangià 'l muri  [trad.]
07. Tuca Cicìn / Fa la nana  [trad. / adattamento Alessandra Patrucco]
08. 'L me marì  [trad.]
09. Pero (timidezza)  [trad.]