giovedì 30 novembre 2017

"Soul searching" è l'esordio di Lorenzo Piccone




Ci sono persone con cui mi piace molto parlare di musica. Una di queste è Lorenzo Piccone, ventottenne chitarrista e cantautore di Albissola Marina, in Liguria, che in questi giorni ha pubblicato il suo disco d'esordio intitolato "Soul searching". Lorenzo, oltre ad essere un ottimo musicista, è prima di tutto un grande appassionato, mosso dalla voglia di scoprire, di capire e apprendere, di guardare la musica da angolazioni differenti senza rinchiudersi tra inutili steccati di genere. Come peraltro è giusto che sia. In questi primi anni di carriera Piccone è stato coinvolto in diversi progetti musicali. Dal gruppo bluegrass The Blue Grasshoppers Band con cui ha suonato negli Stati Uniti e in Germania, alla collaborazione con il mandolinista Carlo Aonzo con cui ha registrato l'ottimo disco "A Mandolin Journey", dal duo con il chitarrista Claudio Bellato al trio con Francesco e Giorgio Bellia (New Trolls, Dolcenera). Esperienze che hanno contribuito alla crescita di questo artista che si è affacciato sul mercato discografico in questi giorni con "Soul searching", un disco cantautorale che "raccoglie" quello che Piccone ha incontrato e ascoltato nel suo percorso artistico. E così, nei dodici brani proposti si possono apprezzare contaminazioni di ritmi africani, suggestioni hawaiane, incursioni blues, armonie west coast, soul e anche un episodio reggae. Tra i brani più riusciti c'è sicuramente “Haze”, canzone dall’ampio respiro in cui le percussioni rivestono un ruolo importante. “I am alive” è una ballad piacevolissima che richiama sonorità anni Settanta ma è "The wind" la gemma di questo disco. Una canzone che nella sua semplicità cattura l'attenzione dell'ascoltatore e che per Piccone può essere un ottimo punto di partenza per un prossimo progetto. Belle anche le atmosfere di "Soul searching", il soul di "Turning back", la springsteeniana "Close to the blue". 
Con Lorenzo il tempo di un caffè per parlare del disco si è presto dilatato in uno scambio di opinioni serrato che ha piacevolmente occupato un paio di ore. E da questa conversazione è nata l'intervista di presentazione di "Soul searching", un disco pieno di suggestioni e rimandi che si potrà apprezzare dal vivo il 15 dicembre alla Raindogs House a Savona.


Lorenzo, "Soul searching" è il tuo primo disco. Che cosa rappresenta per te?

«È un condensato di tutta la mia attività musicale, da sei-sette anni a questa parte. Ci sono parti elettriche e acustiche, suoni che ho trovato lungo il percorso. E poi il mandolino resofonico, gli strumenti etnici che sono arrivati ascoltando tanta musica e suonando con percussionisti africani».

Per la parte elettrica di questo tuo primo disco ti sei avvalso della collaborazione della tua band. Chi sono i componenti?

«C'è il batterista Andrea Marchesini che è veramente bravo. Ha collaborato con Mike Stern, ha fatto una jam a New York anche con Jaco Pastorius. È un batterista eccezionale, sa essere tecnico ma quando è al servizio di una canzone riesce a immedesimarsi nella sua atmosfera. Hammond e tastiere sono di Marco Ferrando. Lui non fa il musicista di professione ma ha grande talento ed è un grande appassionato di jazz, funky e blues. Poi c’è il bassista Federico Fugassa che è uno dei più bravi in circolazione».

Per il tuo primo disco hai voluto la presenza di un ospite internazionale. Raccontaci come hai conosciuto Ike Stubblefield

«È un pianista e hammondista che ho conosciuto tre anni e mezzo fa ad Atlanta in un club. Suonava con il suo trio in un locale di solo neri. Eravamo io e Carlo Aonzo e siamo rimasti pietrificati dal groove e dal sound che riuscivano a tirare fuori. Ho provato a mettermi in contatto con Ike per ben un anno, ho scritto sul suo sito ma niente, nessuna risposta. L'anno dopo siamo tornati io e Carlo a fare dei concerti nel sud degli Stati Uniti, abbiamo conosciuto un bassista di una orchestra e parlando con lui è venuto fuori il discorso che io stavo disperatamente cercando di entrare in contatto con Ike e lui mi ha detto che ci aveva suonato poco tempo prima e che poteva darmi il suo numero di telefono. Allora l'ho chiamato, sono andato a casa sua, abbiamo passato un po' di tempo insieme, ho preso anche delle lezioni da lui e mi ha raccontato un po' della sua vita. Ha 65 anni ed è nel business della musica da quando è stata fondata la Motown, ha suonato con tutti da Marvin Gaye, a Tina Turner quando era ancora in coppia con Ike, con Clapton, George Benson, B.B. King, Al Green, è ospite fisso dei Gov't Mule quando suonano ad Atlanta. Ike ha suonato in "Turning back" ed è un pezzo che avevo scritto nel periodo in cui stavo decidendo se lasciare il lavoro o meno. È un pezzo funky, nero, con quelle sonorità da trio e lui suona il piano elettrico e l'Hammond».

Apriamo una parentesi. Hai detto che hai lasciato il lavoro per fare il musicista a tempo pieno?

«Lavoravo alla Infineum a Vado Ligure. Avevo un contratto a tempo indeterminato e tre anni fa ho fatto questa pazzia. La reazione di mio papà è stata dura, mia mamma invece era d'accordo. È stata una scelta difficile e lo è tuttora. Ho iniziato a suonare quando avevo dodici anni e da cinque lo faccio con un intento professionale».

Una scelta coraggiosa, non c'è che dire. Torniamo agli altri ospiti presenti nel disco…

«Stefano Guazzo è un sassofonista jazz di Chiavari ed ha suonato anche con Dado Moroni e Tullio De Piscopo. Abbiamo messo il suo sax su "Peace of mind" che è un pezzo che ho scritto con un tempo shuffle però non con gli accordi blues ma con armonie più west coast, più aperte. Altro pezzo su cui suona Stefano è "Family" che è l’unico brano strumentale del disco. È un tributo al sound che per un paio di anni mi ha avvicinato al jazz e a Jimmy Smith. È un brano dedicato alla mia famiglia, nato con la chitarra acustica ma registrato con basso fretless, Hammond e batteria. Altro ospite è Stefano Ronchi che adesso risiede a Berlino e suona in tutta Europa. Con Stefano abbiamo suonato un paio di volte qui nei dintorni e ci siamo subito trovati. Ha fatto un assolo con chitarra slide nel brano "In the middle of nowhere" che ho scritto a Rino nel Nevada, nel bel mezzo del nulla, è un posto dove poter stare con se stessi e con la natura. Senza dimenticare il fondamentale apporto del percussionista Maurizio Pettigiani».

Tra gli ospiti c'è anche Carlo Aonzo, mandolinista di fama mondiale e anche lui di Albissola…

«È stato lui a portami per la prima volta negli Stati Uniti nel 2014. Ricordo ancora il momento in cui mi disse se volevo accompagnarlo, rimasi stupito e accettai subito. Carlo l'ho conosciuto durante un concerto di beneficienza al Priamar di Savona. Io suonavo in una formazione jazz insieme ad un pianista che purtroppo è mancato e che si chiamava Terrence Agneessens dei Portland Partners. Finito il nostro soundcheck è salito sul palco Carlo che avrebbe dovuto suonare un brano da solo. Io avevo ancora la chitarra con il jack attaccato all'ampli e gli sono andato dietro in un pezzo e da lì siamo rimasti in contatto, ci siamo conosciuti e abbiamo scoperto di essere entrambi di Albissola».

Cosa significa il titolo "Soul searching"?

«Il titolo si riferisce ad una pratica sciamanica che si fa nel sud degli Stati Uniti. Il "soul searching" è la ricerca dell'anima, chi si è veramente senza dover necessariamente copiare qualcuno o essere vendibile e commerciale a livello musicale. Io penso che ci voglia anche qualcuno che provi a dare una alternativa anche rischiando. Non sono il primo e non sarò l'ultimo. In questo disco ci sono varie sfaccettature: c'è un brano radiofonico che è "Soul searching" in cui non ci sono strumenti etnici ma anche le coriste Marta Giardina e Margherita Zanin che sono due voci molto lontane tra di loro ma che, secondo me, funzionano bene insieme. Poi ci sono delle ballad. È un disco alla ricerca di chi è il sottoscritto».

I colori della copertina richiamano l'abbigliamento che indossi durante i concerti…

«Quando ho pensato alla copertina del disco ho immediatamente deciso di mettere i colori dei vestiti che uso quando suono. Sono vestiti africani e questo patchwork di disegni sono il modo più immediato per esprimere la mia visione del fare musica. Queste tele sembrano buttate lì a caso però se uno le analizza vede che sono tutte organizzate secondo uno schema ben preciso che è però distante da, per esempio, un pied de poule che ha una fantasia occidentale. Queste stoffe sono un qualcosa di organizzato ma con colori, sfumature e linee particolari, non immediatamente decifrabili. Ci sono luci, ombre, bordi bianchi e bordi neri, proprio come la mia musica. La copertina l'ho realizzata con Alex Chiabra».

Non pensi che possa essere fuorviante utilizzare vestiti africani quando suoni?

«Rimedio con il cappello. A parte gli scherzi, questo è un disco cantautorale e non etnico. Ci sono venature di Van Morrison, Jackson Browne, Ry Cooder, Springsteen, musica hawaiana, africana, c'è tutto quello che ho ascoltato finora che mi è piaciuto e che ho assorbito. Adesso si tratta di lasciar depositare e vedere che cosa nasce. È un buon punto di partenza perché da qui si svilupperanno i dischi futuri. Vorrei fare un album solo acustico con le percussioni come ad esempio è il brano "The wind" in cui suoniamo percussione, lo jambee africano e la chitarra hawaiana slide, ma c'è anche il lato più rock, blues, soul, funky suonato con il trio elettrico».

Si parlava di questo disco come di un punto di partenza. Qual è quindi la strada che vuoi percorrere?

«Ho un paio di idee che corrono parallele. Da una parte voglio continuare a scrivere canzoni con un background tradizionale, anni '70, folk con strutture ben note, dall'altra c'è la voglia di cercare qualcosa di nuovo sperimentando anche con gli strumenti etnici. Voglio legare la musica elettronica con l'uso degli strumenti etnici e delle percussioni. La sfida sarà quella di creare qualcosa che non ho ancora sentito. In questi mesi ci sto lavorando, vedremo».

C'è una linea di continuità a livello di testi e pensiero?

«Le canzoni parlano del mio desiderio di riuscire a vivere facendo il musicista e della voglia di andare via in giro per il mondo ad assaporare altre culture e fare nuovi incontri. Sono canzoni che parlano anche del mio modo di essere. Prendiamo "Haze", è una specie di rito vudù per scacciare i cattivi pensieri, quella foschia che prende un po' tutti nei momenti di sconforto. Poi ci sono canzoni di rivincita come "Turning back", "Family" che è dedicata alla mia famiglia».

Mi pare di capire che sia un disco molto personale?

«Sì, lo è. Non ci sono temi sociali o l'amore universale, a parte "Peace of mind" che è un inno della pace dello spirito».

Con il trio di Carlo Aonzo o da solo sei stato negli States e hai girato un po' la Germania. Che reazione ha avuto il pubblico?

«Negli Stati Uniti con Carlo è sempre stato un successo. Anche in questo ultimo tour abbiamo avuto standig ovation, abbiamo finito i cd e le magliette. Ci hanno già ingaggiato per il prossimo anno perché Aonzo è uno di quelli che può suonare qualsiasi cosa ma con il tocco e il gusto italiano che agli americano piace. In Germania ho trovato un pubblico attento e aperto a nuove sonorità. Ho portato parecchi strumenti etnici, dalla chitarra hawaiana al bouzouki, fino al mandolino resofonico. Ho suonato i mie pezzi più alcune cover riarrangiate di vario genere, anche di musica caraibica prendendo spunto dalla produzione di Bob Brozman che è stato un grande della musica e che è una mia fonte d'ispirazione. Il mio sogno sarebbe andare in India, Cina e Giappone».

Tu sei un chitarrista ma c'è qualche altro strumento che ti piacerebbe suonare?

«Mi piace da morire la batteria e mi diverto come un bambino ma è veramente difficile. Recentemente ho preso un basso tanto per essere cosciente di quello che succede nella musica partendo dalle fondamenta. Ed è molto interessante, sono tornato ad ascoltare i dischi di Neil Young, i primi dischi di Clapton in cui i bassisti suonavano poche note ma di gusto. Ho iniziato a riascoltare i dischi di Springsteen, di Jackson Browne da un punto di vista diverso, con il basso in mano…».

Mi sono sempre chiesto come ascolta la musica un musicista…

«Sto leggendo dei libri su questo argomento. Il primo si intitola "Musicofilia" scritto dallo psicologo e psichiatra Oliver Sacks. Spiega come il cervello recepisce la musica, le onde sonore, gli impulsi elettrici… Il secondo è "Come funziona la musica" di David Byrne. Questi due testi cercano di analizzare i vari aspetti dell'ascolto. Io personalmente quando ascolto qualcosa che mi piace non riesco a capire subito perché mi piace, è un cosa inconscia. Mi cattura l'insieme, certo sento se viene utilizzata una progressione di accordi o una melodia standard, se è più un esploratore alla David Crosby piuttosto che l'ultimo Springsteen. Cerco di ascoltare quello che mi piace più volte, da punti di vista diversi».

Adesso che stai approfondendo la conoscenza del basso la tua visione musicale sarà sicuramente più ampia…

«Sì, sto molto più attento a quello che fa il basso. Spesso e volentieri scrivo un pezzo con la chitarra poi il basso lo aggiungo dopo ma ci sono canzoni che sono nate da un giro di basso oppure da un groove di batteria come "Fifty ways to leave your lover" di Paul Simon, brano nato appunto da un groove di Steve Gadd. Però quando c'è qualcosa che mi piace mi lascio trasportare, se non lo facessi perderei la magia che la musica sprigiona».

Un primo riscontro importante lo hai avuto con la canzone "The wind"…

«È stata pubblicata dalla CandyRat record che è un casa discografica americana orientata principalmente verso i chitarristi super tecnici. Il brano è abbastanza semplice ma è suonato con la Weissenborn hawaiana e questo rimarca la mia convinzione che anche suonando delle cose semplici ma con timbriche e sonorità inusuali si possono aprire delle porte interessanti. A consigliarmi di proporre questo materiale è stato il mio amico musicista Claudio Bellato. Insieme, a settembre, abbiamo partecipato alla rassegna "Un paese a sei corde" e abbiamo in programma di fare delle cose insieme».

So che un po' di tempo fa avevi anche un gruppo di bluegrass, The Blue Grasshoppers Band…

«Avevo un trio con cui sono andato a fare dei concerti anche a New York. Abbiamo portato il bluegrass ad Harlem in mezzo ai neri ed è stato rischioso (ride, ndr). Con il contrabbassista Alberto Malnati e Daniele Carbone al mandolino suonavamo standard bluegrass. È lì che mi sono appassionato a questo genere che spesso e volentieri è sottovalutato perché è suonato con poche armonie e pochi accordi. Anche i pezzi più semplici sono difficili da far rendere, i grandi maestri come Doc Watson e Norman Blake insegnano».

Tornerai su questo progetto?

«Il bluegrass è stata una bella parentesi e penso che non mi sia rimasto molto nel mio modo di fare musica anche perché è sempre un genere molto tradizionale che ti riporta immediatamente in quei luoghi. Mi piacerebbe riarrangiare dei classici del bluegrass o addirittura fare un disco di bluegrass ma avendo prima sviluppato un mio tocco. Beppe Gambetta lo ha ed è per questo che è accettato da tutta la comunità bluegrass. Il mio lavoro sarà anche quello di diventare riconoscibile».

Un ligure che suona il bluegrass, geograficamente qualcosa non mi torna…

«La musica ha dei confini ma non sono invalicabili. Anche gli americani suonano la musica gypsy e lo fanno con rispetto e conoscenza del genere. Anche il grandissimo chitarrista Tony Rice, l'icona del bluegrass sulla chitarra acustica, quando è stato chiamato a suonare con il mandolinista David Grisman ha dovuto modificare il suo modo di suonare, da strandard bluegrass verso una apertura più jazz, blues. La musica è bella perché offre tantissima scelta anche nell'ascolto. Se voglio un disco suonato nella maniera più tradizionale allora ne scelgo uno di Norman Blake, se voglio ascoltare qualcosa di più arrangiato magari opto per David Grier. C'è anche da dire però che tutti questi musicisti che sperimentano sono prima di tutto grandi conoscitori della tradizione e quindi anche come Carlo Aonzo, per tornare a noi, quando suona Calace, Verdi, Puccini o Vivaldi li suona da top, con una conoscenza fantastica, capillare di tutto. Ho ventotto anni, ho ancora tanta strada da percorrere ma questo l'ho imparato».


Titolo: Soul searching
Artista: Lorenzo Piccone
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2017

Tracce
(testi e musiche di Lorenzo Piccone eccetto dove diversamente indicato)

01. Haze
02. I am alive
03. Island girl
04. Soul searching
05. Turning back
06. Family
07. Another avenue
08. In the middle of nowhere
09. Close to the blue  [Corrado Schiavon; Lorenzo Piccone]
10. The wind
11. Peace of mind
12. Haze (with intro)


venerdì 17 novembre 2017

"Totem", il manifesto di Emanuele Dabbono





Emanuele Dabbono ed io ci sentiamo con una certa regolarità. Un messaggio, una chiamata per condividere un nuovo successo, un traguardo atteso e finalmente raggiunto, la notizia e l'invito ad un suo concerto. Ed in questi ultimi anni, sotto il profilo musicale, sono stati tanti i momenti vissuti da protagonista da Dabbono: le canzoni scritte per Tiziano Ferro e portate al successo dal cantante di Latina ("Incanto" e "Il conforto" sono stati premiato con il doppio disco di platino, "Lento/veloce" ha raggiunto il platino e poi "Valore assoluto" e "Non aver paura mai"), i vent'anni di carriera, i testi di alcune canzoni utilizzate per una edizione speciale di Topolino con Tiziano Ferro protagonista della storia. Ora, nel momento più importante della sua carriera, Dabbono ha pubblicato "Totem", il suo terzo album e il primo senza i Terrarossa (senza considerare i due lavori del progetto Clark Kent Phone Booth). Un disco per certi versi inatteso, registrato in pochi giorni dal tecnico del suono Raffaele Abbate in una chiesa sconsacrata ad Arenzano. Ad accompagnarlo sono stati chiamati musicisti di provata esperienza come Fabrizio Barale, Marco Cravero e poi Paolo Bonfanti, Gianka Gilardo, Fabio Biale ed Andrea Di Marco. Con "Totem" Dabbono ripercorre i suoi vent'anni di carriera, dagli esordi nel 1997 con la canzone "Piano" fino agli ultimi anni. Un disco sincero, genuino, che rifugge i circuiti di promozione e i passaggi nelle radio commerciali. Una volontà confermata anche dal fatto che non è stato estratto un singolo di lancio. 
È lo stesso Dabbono, nell'intervista che segue, a spiegare i motivi di questa scelta.



Emanuele, eccoci a parlare del tuo nuovo disco. Lo hai intitolato "Totem", termine che identifica una entità naturale o soprannaturale che ha un significato simbolico. Qual è il tuo totem e perché hai intitolato così questo tuo nuovo lavoro?

«Il Totem per gli indiani era qualcosa di sacro al quale sentirsi legati per tutta la vita. In questo disco non c'è niente di fittizio, non ci sono comparsate del rapper di turno né suoni modaioli o overproduction esasperate che radio e case discografiche spesso promuovono a scapito dei contenuti. Qui l'unico featuring che mi sono concesso è con la verità, con il ragazzino sognante che sono stato, coi ricordi di un tempo antico e bellissimo. In questo senso Totem è il mio manifesto».

Questo è anche il tuo primo album solista dopo i due precedenti firmati insieme ai Terrarossa. Perché questa scelta?

«Mentre lo compilavo pensavo: sarà il mio "Nebraska". Ma questo album non è stato preferire i provini agli arrangiamenti elettrici con la E Street Band come fece il Boss nell'82 (tra l'altro anche Giuseppe Galgani dei Terrarossa è presente nell'album alla chitarra, come a proseguire il cammino con me). Questo disco l'ho pensato, addirittura sognato, per vent'anni. Ma nessun progetto da ragioniere. Una mattina mi sono detto: è il momento. Chi se ne frega del mercato. Avevo bisogno del mio tempo per maturare e prendere il coraggio di andare controcorrente, non per il gusto di farlo o per strategia. Perché guardandomi allo specchio era l'unica direzione dove il mio navigatore emotivo sapesse dirigersi. E l'ho fatto».

Dopo i successi come co-autore di brani portati in vetta alle classifiche da Tiziano Ferro ci si sarebbe potuti aspettare una naturale prosecuzione su questa strada. Invece ti sei chiuso in una chiesa sconsacrata di Arenzano per registrare in presa diretta queste undici tracce…

«Avevo una cassetta dei Cowboy Junkies registrata in chiesa. Ero solo un bambino. Mi sembrava ci fosse più sacralità lì dentro che nelle prediche del prete la domenica. Ma poi ho capito perché: certe canzoni ti chiedono spazio. E io sono nato suonando la chitarra acustica. Non vedevo l'ora di far respirare e non soffocare la mia voce in mezzo all'elettronica. Quando faccio l'autore mi diverto, sperimento con synth, tastiere, moog e quant'altro perché l'apertura mentale non è una frattura del cranio. Cerco la profondità testuale e non mi accontento, ma in ogni caso c'è molta curiosità dell'ignoto, nel cimentarsi a briglie sciolte nei generi musicali. Quando fai il tuo disco invece è molto più semplice e netta la domanda da farti allo specchio: tu che musica sei?»

Sembra una decisione di rottura, quasi a dire: attenti, io non sono solo quello di "Incanto" o "Lento/Veloce"…

«Il brano al quale sono più legato è "Il conforto". Vedi, io considero uno che fa il mio mestiere non come un seriale che ti propone sempre la stessa minestra. Ci evolviamo quotidianamente. Adesso leggo Wyslawa Szymborska, adoro Hitchcock e Magritte e ascolto Roberto Vecchioni. Anni fa non lo avrei detto e nel frattempo mi perdevo queste meraviglie. E se vai proprio a vedere, "Incanto" aveva un'atmosfera irish».

Tre giorni di registrazioni che ricordano gli anni d'oro della musica quando in presa diretta si registravano canzoni e album memorabili. La chiesa di Arenzano è la tua cantina della Big Pink?

«Quando insegnavo ancora canto (anche agli amici e bravissimi Samuele Puppo e Lorenzo Piccone) uno dei must era "The night they drove old dixie down". Sono cresciuto con quella musica. Con Crosby, Stills, Nash & Young, Joni, Jackson Browne. Era naturale, prima o poi, "riportare tutto a casa" e l'esperienza della chiesa di Arenzano ha reso tutto più gospel senza nemmeno essere un disco soul, ma ci sono quintali d'anima dentro. Spero si avverta».

A collaborare hai chiamato due maestri della chitarra: Fabrizio Barale che lo ricordiamo a fianco di Ivano Fossati e Marco Cravero che ha legato il suo nome a quello di Francesco De Gregori. Cosa hanno dato a te personalmente e al disco queste collaborazioni?

«Tutti gli ospiti presenti da Paolo Bonfanti a Fabio Biale, da Andrea Di Marco alla tromba a Gianka Gilardi alla batteria mi hanno regalato la loro umanità, prima che il loro innegabile talento. Volevo belle persone, non macchine da metronomo. E in questo senso mi sento di dover ringraziare più di tutti Raffaele Abbate, "il mio Jonathan Wilson", l'ingegnere del suono che ha ripreso tutto ed è stato in grado, registrando con il suo studio mobile, di permettere a tutti e non solo a noi, di vivere la magia di un album come si faceva nel 1973. In soli tre giorni, senza scomporsi mai, sempre col sorriso. Un privilegio averlo a fianco».

Quanto c'è di aggiunto in post produzione alle canzoni che hai registrato?

«Nulla. Quello che senti l'abbiamo fatto in chiesa. Pure il mastering è addirittura in analogico».

Arenzano, una chiesetta, lontano dalle luci della ribalta ma un suono che esce prepotente dai confini nazionalpopolari. Abbraccia l'Irlanda ma anche certa scena world sdoganata a suo tempo da capolavori come "Graceland" di Paul Simon o il New Jersey in bianco e nero…

«Guarda, hai citato alcuni dei miei numi tutelari non solo musicali ma anche di attitudine e di protezione delle proprie idee senza scendere a compromessi. Alcuni discografici di major italiane erano rimasti - per usare la loro parola - “abbagliati” dalla bellezza del provino di “E tu non ti ricordi”. Ho spiegato loro che non era il provino, che gli archi non li avrei toccati e che facevo sul serio».

Trovo che sia un disco molto personale. Nelle canzoni c'è il Dabbono delle scoperte giovanili, del superamento dei momenti brutti della vita e di quello che le esperienze inevitabilmente lasciano sulla pelle. Dimmi se sbaglio…

«Assolutamente sì. Luigi Cerati (autore di tutte le foto dell'album) mi ha convinto a metterci la faccia in copertina, perché "era tempo". Così io, mia moglie Francesca, il mio caro amico Marco Berbaldi e Luigi siamo saliti su un aereo per la Duna du Pilat, vicino Bordeaux. Non lo dimenticherò mai. Soltanto tre giorni. Un viaggio che durerà, scolpito nella mia memoria».

In quest'epoca di compromessi mi sembra di capire che tu non ne abbia voluti fare. Hai puntato sulla genuinità e sulla coerenza artistica e umana ma dove è il singolo da lancio da far girare a palla nelle radio? Non pensi che possa essere controproducente non averlo?

«Quando ho fatto la riunione di lancio del progetto a Milano mi hanno chiesto quale fosse il singolo che avevo in mente. Risposi la traccia numero 12. Loro guardarono e si accorsero che il cd ne conteneva 11. Appunto, dissi, non facciamo singoli. Volevo fosse chiaro che questo non è un album per scalare le classifiche, ma spero venga lentamente annoverato tra quelli "di culto", quelle perle rare che sono nascoste e che quando le trovi ti sembra siano solo tue, da custodire. Penso a certe cose di Sigur Ros, Bon Iver, il primo Ryan Adams».

Il disco si apre con "Piano", canzone che risale al 1997 e che ti fece vincere il primo contratto discografico. La pubblicazione in questo album è un omaggio ai tuoi vent'anni di carriera o un bel ricordo di ciò che ha dato il via a tutto?

«"Piano" è uno dei due brani miei più longevi e che la gente ama di più. Pensa che non ha nemmeno il ritornello. Mi sembrava doveroso dargli una casa e con "Totem" ha una camera con vista sull'Atlantico».

Ivano Fossati in una intervista ha detto: ‹Oggi nelle canzoni si parla solo di un amore da ragazzini. Niente corpi, rughe e sensualità. Eppure invecchiare è una conquista›. In "A mani nude" canti invece proprio l'amore di due persone anziane, hai seguito il consiglio del maestro…

«Fossati è un gigante. L'amore sa essere dolcissimo e crudele sia tra anziani che tra adolescenti. Cambia solo il linguaggio con cui ti accorgi di provare al mondo e a qualcuno che sei vivo».

Il disco di chiude con "Luce guida". Qual è la tua e dove ti sta portando?

«La mia luce guida è la consapevolezza di avere dei punti di forza stretti a doppio nodo: la tenerezza, le mie bambine, la certezza di un altro concerto di Springsteen, un nuovo amico con cui parlare persino del tempo, perché non piove più come si deve, vengono giù solo secchiate. E dove mi sta portando tutto questo? A casa».


Titolo: Totem
Artista: Emanuele Dabbono
Etichetta: Digital Media
Anno di pubblicazione: 2017

Tracce
(testi e musiche di Emanuele Dabbono)

01. Piano - (03:37)
02. Treno per il sud - (04:26)
03. E tu non ti ricordi - (04:27)
04. Parole al vento - (04:43)
05. Il senso di un abbraccio - (04:14)
06. Irene - (04:12)
07. Siberia - (03:04)
08. A mani nude - (03:53)
09. Canzone per i tuoi occhi - (02:03)
10. Le onde - (03:20)
11. Luce guida - (05:57)



martedì 7 novembre 2017

I Rebis cantano il Mediterraneo senza frontiere





L'estate mi ha regalato tantissime occasioni di assistere a concerti dal vivo di band e cantautori emergenti come di artisti affermati della scena italiana e internazionale. Ma tutto questo è solo un bel ricordo, torno volentieri quindi al lavoro che avevo imbastito prima della pausa estiva e con piacere presento il nuovo disco dei Rebis, duo musicale che nel frattempo, proprio in questi mesi, lo è diventato anche nella vita. Alessandra Ravizza e Andrea Megliola hanno pubblicato il loro secondo disco, intitolato "Qui". Si tratta di undici canzoni cantante in italiano, arabo e francese che hanno come protagonista le donne e le loro storie. Storie e racconti, a volte anche sofferti e crudi, che fanno la spola da una parte all'altra del Mediterraneo, in un continuo andirivieri senza barriere e steccati. Un tentativo di unire il mondo e in particolare le culture del nostro mare che era già presente nel precedente "Naufragati nel deserto" e che diventa ancora più pressante in questo ultimo lavoro. Per dare corpo alle canzoni i Rebis si sono avvalsi della collaborazione di un manipolo di musicisti di grande affidabilità come Edmondo Romano che con classe ha "soffiato" in tutti gli strumenti possibili, dal clarinetto al mizmar, dal sassofono al santur e allo shanay, il violoncellista Salah Namek, Matteo Rebora alle percussioni, Emanuele Milletti e Kai Kundrat al basso, Roberto Piga al violino, Julyo Fortunato alla fisarmonica, Marco Spiccio al piano. Senza dimenticare l'inserto rap in inglese di Natty Scotty nel brano "Ma maison".
"Qui" è disco che non va giudicato o capito al primo ascolto. Le canzoni, le atmosfere, i colori e le sfumature hanno necessità di depositarsi per essere apprezzate appieno. Ma una volta entrati in questo ambiente musicale non si può che rimanerne affascinati. E magari stimolati ad aprire le porte verso ciò che culturalmente ci è distante.
Con Alessandra abbiamo approfondito il discorso facendo un piccolo viaggio tra le pieghe di "Qui".


In una epoca in cui si parla di muri e frontiere voi abbattete qualsiasi ostacolo musicale o linguistico. "Qui", il vostro secondo album, è completamente calato nella cultura mediterranea…

«Crediamo che la musica e l'arte in generale possano riportare un po' di empatia e di umanità nei cuori delle persone. Persone divise da muri, odio e paure. Abbiamo viaggiato tanto tra le sponde del Mediterraneo e continueremo a farlo perché la nostra identità è profondamente radicata in una storia e in un futuro comuni. È una visione molto miope quella dei muri: bisogna costruire insieme il nostro futuro, è la migliore risposta alla violenza dilagante che caratterizza il nostro tempo radicalizzato. Il terrorismo nei confronti dei civili e la violenza degli stati verso i più poveri e/o i "diversi" non sono una risposta per un futuro migliore ma sono i semi per un presente ancora più ingiusto e violento».

Italiano, francese, arabo… Lingue che si intrecciano e che raccontano cosa?

«Raccontano storie di persone che cercano il loro "posto" nel mondo. Un posto non soltanto fisico ma anche interiore, un posto nel quale poter seguire i nostri sogni e vivere i nostri affetti, un posto nel quale sentirsi sicuri e potenti. Si tratta di un disco al femminile, le protagoniste delle nostre canzoni sono soprattutto donne. Una cara amica antropologa mi ha fatto notare che "Qui" è un continuo dialogo e che le nostre protagoniste cercano loro stesse nel confronto con l'altro. "Qui" è un disco molto politico che parla di scelte autentiche, di persone che hanno scelto un amore libero e paritario, di sorelle separate dal mare, di persone in esilio, di donne più forti della morte, di bambine che parlano con gli animali e che, una volta donne, si rifiutano di sfruttarli ed opprimerli».

Dove è questo "Qui"? Lo possiamo trovare nella vostra Genova o in un villaggio sperduto nel Maghreb?

«Ognuno ha il suo "qui". Può essere un luogo fisico ma noi lo viviamo più come uno spazio interiore nel quale poter fiorire e dare frutti. Se dovessi dare delle coordinate spaziali al nostro "qui" musicale ti direi che si tratta di una città immaginaria sospesa tra il Sud dell'Europa ed il Nord dell'Africa. Affacciata sul mare ma non troppo distante da montagne e deserti».

Cosa vi affascina delle culture mediterranee e in particolare di quella araba?

«È molto difficile per noi immaginare una "cultura araba" o "mediterranea" in quanto i singoli paesi e le singole regioni sono tutte molto diverse tra loro. Detto ciò c'è qualcosa che ci fa sentire a casa, forse sono i secoli di storia che intrecciano lingue, popoli, canzoni, poesie, cibi, onde, guerre e amori».

A rendere ancora più cosmopolita la vostra musica avete inserito anche un po' di rap in lingua inglese del cantante nigeriano Natty Scotty. Qual è l'idea di questa collaborazione?

«Abbiamo conosciuto Scotty grazie ad un'amica volontaria del centro richiedenti asilo in cui tutt'ora alloggia. Era arrivato da poco dalla Nigeria e cercava musicisti con i quali portare avanti la sua carriera di cantante e il suo operato di attivista per i diritti umani. Benché noi non fossimo grandi esperti di rap e di hip hop ci colpirono il calore della sua voce e l'impegno civile dei suoi testi. In quei giorni con Andrea stavamo lavorando alla composizione dell'ultima canzone del disco ("Ma maison"): una canzone che gira intorno al concetto di casa inteso come un luogo all'interno del quale poter tradurre in realtà i propri sogni e valori, in cui sentirsi protetti e dal quale aprirsi al mondo. Abbiamo capito subito che Scotty avrebbe avuto molto da dire e da cantare a riguardo e non ci sbagliavamo».

Si parlava di collaborazione e mi viene da citare il nome di musicisti eccelsi come Edmondo Romano, Matteo Rebora e il violoncellista siriano Salah Namek che nel disco hanno svolto un lavoro di primissimo piano…

«Abbiamo impiegato diversi anni per scegliere (e per incontrare) i musicisti che ci hanno affiancato nella realizzazione di questo nuovo disco e devo dire che la nostra ricerca ha portato a un risultato che ha superato di gran lunga le nostre aspettative. Ognuno di loro ha portato la sua storia, la sua sensibilità, la sua professionalità, dimostrando una grande partecipazione e generosità nei confronti della nostra musica. Edmondo Romano ha registrato dodici strumenti diversi (sassofono, clarinetti, flauti, mizmar, furulya, shanay, mohozeno, zurna, santur, chalumeau, low whistle) e ha portato nelle nostre canzoni un suono personale, raffinato e ricco. Matteo Rebora ha fatto un profondo lavoro di ricerca, ideando un set percussivo composto da cassa, piatti e da sedici strumenti tradizionali di origine araba, turca, persiana e indiana, capace di dare vita a un suono di confine tra le ritmiche e le sonorità tradizionali arabe e mediorientali e il pop colto occidentale. Salah Namek, con il suo violoncello, ha portato nella nostra musica la sua profonda conoscenza della musica classica araba orientale. Salah è infatti uno dei più grandi musicisti siriani ed è originario di Aleppo: città che viene considerata la capitale della musica araba orientale. Edmondo, Matteo, Scotty e Salah non sono i soli musicisti che hanno collaborato con noi a "Qui". Nel disco hanno suonato anche il bassista Emanuele Milletti che ha arricchito il nostro disco di sensibilità e armonia, il bassista tedesco Kai Kundrat (attualmente residente in Brasile), il grande Roberto Piga ai violini, il maestro Marco Spiccio al pianoforte e il giovane e talentuosissimo Julyo Fortunato alla fisarmonica».

Il mondo arabo, e in particolare la letteratura, hanno ancora un ruolo fondamentale nella vostra scrittura. In "Partoriscimi di nuovo" citate i versi di una poesia dello scrittore palestinese Mahmoud Darwish…

«Assolutamente sì, Mahmoud Darwish è per noi un maestro di vita e non solo di scrittura. Nelle sue poesie respira l'umanità intera. Ogni volta che leggo una sua poesia sento di fare un passo in più verso la mia umanità. Ho avuto l'onore di studiare con Lucy Ladikoff: docente di lingua araba presso l'università di Genova, originaria di Gaza, amica intima di Mahmoud Darwish del quale ha pubblicato diverse raccolte di poesie tradotte in lingua italiana (non posso non citare "Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine?"). Lucy mi ha adottata come una figlia e un giorno mi ha regalato la traduzione inedita di "Partoriscimi di nuovo", invitandomi a musicarla e a cantarla. È iniziato così un lungo lavoro di confronto tra me e Andrea che ha portato alla nascita di questa canzone alla quale siamo davvero molto legati e cha parla di esilio, di amore per la terra, per la madre: "partoriscimi di nuovo, partoriscimi per sapere in quale terra morirò ed in quale terra rinascerò…"».

Altro episodio è "Goodbye Amal" che è ispirato al romanzo "Ogni mattina a Jenin" della scrittrice Susan Abulhawa…

«Consiglio a tutti di leggere "Ogni mattina a Jenin" (Feltrinelli), è un libro che apre il cuore e che racconta cent'anni di storia palestinese vista dagli occhi delle donne. Qualche anno fa ci avevano contattato da Roma per partecipare ad un reading mondiale organizzato da un'associazione statunitense che si occupa di attivismo e letteratura. In teoria non avremmo dovuto suonare in quell'occasione, ma subito dopo aver letto il libro, mi è venuto spontaneo scrivere questa canzone che ha subito convinto anche Andrea ed è senza dubbio uno dei brani più amati da noi e dal nostro pubblico. Spesso riceviamo mail di ringraziamento di persone che dopo aver ascoltato la canzone hanno acquistato e letto il libro di Susan Abulhawa e questo ci riempie di gioia».

Per quanto riguarda i testi la figura femminile è predominante. Da questo spunto vi chiedo quale secondo voi debba essere il ruolo della donna delle culture mediterranee nei prossimi decenni.

«Abbiamo scelto come protagoniste delle nostre canzoni figure femminili perché crediamo moltissimo nell'importanza del protagonismo femminile e nella collaborazione tra donne per un mondo più giusto. Dico questo non perché crediamo che le donne siano migliori degli uomini ma perché si parla ancora troppo poco al femminile e sappiamo quanto risulti  più difficile per una donna esporsi e raccontarsi (anche nel mondo dell'arte). Crediamo nella necessità di una rivoluzione culturale che liberi le donne e gli uomini dal maschilismo ancora molto presente nelle nostre società sotto forma di violenza e di dogmi culturali molto difficili da estirpare. Lo scorso anno abbiamo inaugurato con la nostra musica il Festival Chouftouhonna (Festival internazionale d'arte femminista di Tunisi) e abbiamo avuto modo di confrontarci con artiste, attiviste e giornaliste di tutto il mondo. Questa esperienza ci ha donato molta forza e ci ha liberato come individui e come coppia, si è creata una comunità di sorelle sparse per il mondo con le quali ci sosteniamo e ci confrontiamo a distanza. La frase ispiratrice del festival era: "Troppe donne, in troppi paesi del mondo parlano una sola lingua: il silenzio". Tornati in Italia abbiamo capito che il nostro sentire corrispondeva a quello di tantissime altre artiste, che non stavamo agendo da soli ed è anche grazie a questi incontri che è nato il nostro ultimo disco "Qui"».

Secondo voi l'arte, e in particolare la musica, può essere un veicolo per far avvicinare il mondo arabo e quello europeo?

«Credo che lo strumento più importante per un cambiamento profondo e autentico dell'umanità sia l'empatia. Se l'arte lavora sull'empatia credo possa essere un buon mezzo per avvicinare le persone anche se non può essere l'unico. Ci vorrebbero anche precise scelte politiche volte ad avvicinare le persone, a farle incontrare e conoscere e bisognerebbe soprattutto rompere le catene dello sfruttamento e dell'ingiustizia da una parte e dall'altra del Mediterraneo».

Qual è il target delle persone che viene ad ascoltarvi dal vivo?

«È molto difficile definire un target del nostro pubblico in quanto dipende moltissimo dai contesti in cui ci ritroviamo a suonare. In media però posso dire che in Italia come all'estero attiriamo spessissimo persone in ricerca e in viaggio. A volte si tratta di persone molto sofferenti che si stanno cercando e che trovano sollievo e speranza nelle nostre parole e nelle nostre note, a volte persone che hanno iniziato un percorso di consapevolezza politico e/o spirituale che ritrovano nella nostra musica i loro valori e la loro visione del mondo oltre al piacere delle note. Poi ci sono coloro che vengono colpiti dalla mia voce, dalla chitarra di Andrea e dalla bravura dei nostri musicisti. Devo dire che queste sono le categorie principali di coloro che entrano in contatto con noi anche dopo i concerti e che ci ha permesso di veder crescere con il tempo una specie di famiglia allargata sparsa per il mondo».

Potete suggerirci delle realtà musicali arabe da seguire?

«Certamente! Ritornando alla poesia di Mahmoud Darwish non posso non segnalarvi Marcel Khalife: compositore e musicista libanese che ha trasportato in musica tantissime poesie di Mahmoud Darwish. Forse il suo disco che ho amato di più è "Suqut al-­-qamar" (la caduta della luna). Restando in Libano non posso non citare Fayrouz e Majida el-­-Roumi. Parlando di voci femminili consiglio anche la grande Julya Boutrus (Libano), Souad Massi (Algeria), Amel Mathoulothi (Tunisia), Lena Chamamyan (Siria), Yasmine Hamdan (Libano). Pensando a voci maschili contemporanee mi viene subito in mente il talentuosissimo cantautore Sabri Mosbah (Tunisia) e il gruppo rock‐indie libanese Mashrou' Leila ma anche qualcosa di più datato come il rai di Rachid Taha, Cheb Khaled, Cheb Mami. Per chi fosse interessato a una visione aggiornata sulla musica araba contemporanea consiglio di seguire la pagina Note d'Oriente: https://www.facebook.com/NotedOriente/».


Titolo: Qui
Gruppo: Rebis
Etichetta: Gutenberg Music / Produzioni Musicali Primigenia
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Alessandra Ravizza e Andrea Megliola, eccetto dove diversamente indicato)


01. Vincimi con i tuoi occhi
02. Je reviendrai en automne
03. Qui
04. Ma maison  [testo in inglese e benin di Natty Scotty]
05. Goodbye Amal
06. Partoriscimi di nuovo
07. Wadi nostalgie
08. Cercami nel mare
09. Da bambina
10. Adrienne
11. Pioggia fine