lunedì 24 settembre 2012

La rivoluzione del compagno Marino Severini






Quando si parla con Marino Severini il tempo scorre veloce. Prima di un concerto o a fine serata non ha importanza, il cantante e chitarrista dei Gang è pronto ad ascoltare le storie raccontate dal suo pubblico, a discutere e spiegare le sue idee. Musica, politica, ambiente e cultura sono tutti argomenti dei quali il leader della band marchigiana sa il fatto suo e non ha remore a dire quello che pensa. Abbiamo parlato di tutto ciò ma anche del futuro della band dei fratelli Severini in questa intervista raccolta tra un concerto e l'altro durante questa lunga estate che ha visto i Gang protagonisti di due belle esibizioni a Savona e Quiliano. Il 2013 regalerà forse ai fans un nuovo atteso album di canzoni inedite che manca ormai da parecchi anni.




Marino, a Savona i Gang sono ormai di casa. Quest'estate avete suonato alla Festa di Liberazione a Savona e a Quiliano, in località Colla del Termine, insieme a Massimo Priviero e Daniele Biacchessi nello spettacolo "Storie dell'altra Italia". Che ricordi ti sei portato a casa da questo doppio evento?

«Sono stati due appuntamenti o meglio due incontri molto belli. Mi hanno trasmesso grande energia e ho portato a casa un altrettanto grande sorriso! Savona da ormai quattro anni ospita i concerti più belli dei Gang. È un approdo, uno scalo, una stazione, un'oasi a cui ci fa sempre piacere tornare e fermarci a cantare. E un bel concerto non lo facciamo certamente noi da soli, la differenza la fa il pubblico. La festa di Rifondazione a Savona riesce a richiamare la parte migliore della Liguria. Di questa possibilità che ci viene data devo ringraziare i compagni ma soprattutto i più giovani di Rifondazione Comunista. È un incontro con la comunità che vive di grazia e dignità al tempo dell'ingiustizia. E fa della propria dignità la propria arma di riscatto, la propria invincibile appartenenza, la propria libertà. Quella ligure è una terra che amo per molti motivi e che nel tempo trovano sempre più conferme».

Una terra e una comunità che non avete esitato a cantare.

«Sì, abbiamo avuto l'onore di cantare con questa comunità una storia come quella di Edo Parodi e di partecipare a momenti in cui questa storia è stata tenuta in vita anche attraverso una canzone e un video che vi invito a guardare. Tutto ciò mi onora non poco e restituisce al mio lavoro, che è quello di scrivere canzoni, un senso di utilità e di funzione ma anche di organicità, direbbe Gramsci... e capisco perché da questa cultura e da questo ambito culturale sia nato uno dei più grandi scrittori italiani come Maggiani, che da tanta bellezza ha sempre tratto ispirazione e nutrimento spirituale. Quello alla festa di Rifondazione a Savona è per me l'incontro con la Liguria che amo di più, che mi fa sentire a casa. Di più non ho mai chiesto a questo mio migrare».

Parliamo invece del bel pomeriggio passato sulle alture di Quiliano insieme a Massimo Priviero e Daniele Biacchessi.

«Stesse emozioni mi ha trasmesso risalire i sentieri partigiani da Quiliano fino a Le Tagliate. Dico che è stata un'impresa perché arrivare in quel posto non è stata di sicuro una passeggiata ma è anche vero che neanche Gesù quando predicava lo faceva in piazza, anzi era solito farlo in luoghi scomodi, difficili da trovare, come dire che la Profezia era alla fine una sorta di conquista. Adesso non è che lo spettacolo con Biacchessi e Priviero e i fratelli Severini abbia qualcosa di profetico ma magari è stato una sorta di allenamento, una preparazione ad altri momenti di condivisione futuri per la riconquista, se non della Profezia, almeno della memoria nostra. Anche lassù ho ritrovato molte facce familiari, dei bei sorrisi e un canto comune, oltre a quella emozione e a quella commozione attorno alle nostre storie che fa la differenza e l'unicità di quell'incontro, quindi ne è valsa la scalata. E il rischio di rompere la coppa dell'olio dell'auto che non è di sicuro un fuoristrada o un suv. Grazie ai compagni dell'Anpi di Savona per averci invitati a narrare, insieme ai nuovi Ribelli della Montagna».

I Gang sono un pezzo di storia del rock italiano e peli sulla lingua non ne avete mai avuti. Vi siete sempre schierati e avete lottato sul palco per far passare il vostro messaggio. Quanto ha inciso tutto ciò sul vostro successo?

«I primi passi nel mondo della musica risalgono alla nostra infanzia e adolescenza come ho avuto modo di raccontare in tante occasioni. Con i Papers' Gang, cioè io e Sandro insieme nello stesso gruppo, abbiamo iniziato alla fine degli anni '70. Quanto al successo tengo a ribadire che "il massimo del successo non è che il fallimento", tanto per citare Dylan. A essere onesto e sincero posso dire, con grande soddisfazione, che oggi mi sento al massimo del successo. Te lo dico rispetto alle aspettative. Quando noi abbiamo iniziato non cercavo di sicuro quel tipo di fama, successo o record di vendite bensì l'appartenenza e questa solo oggi posso dire di averla trovata. Se per successo intendi quel periodo in cui qualche azienda come CGD o multinazionale tipo WEA investiva sui nostri prodotti, lo ritengo un incidente di percorso, utile solo per averci insegnato a non fare più esperienze del genere. Noi produciamo beni culturali quindi il nostro riferimento e interlocutore è la politica. Chi invece produce merci ha per forza di cose come riferimento il mercato con i suoi metri di misura, le sue regole che non sono nostre e non appartengono alla nostra cultura».

In che ambito si può collocare la produzione discografica dei Gang?

«Le canzoni che faccio non rientrato in nessuna categoria se non quella della canzone popolare. Appartengo alla scuola critica e culturale che va da Ernesto De Martino e le sue relazioni con Alan Lomax e passa per Carpitella, Gianni Bosio fino ad arrivare ai Giorni Cantati di Portelli. È in questa storia che si può individuare il lavoro che ho fatto nella canzone italiana, con la peculiarità e l'unicità di aver dato ad essa lo spirito guida o la contaminazione del rock'n'roll, inteso come stagione dell'Umanesimo e come una delle Tre Grandi Rivoluzioni del '900, insieme a quella dei Soviet del '17 e a quella della Teologia della liberazione. Tutto il resto non mi riguarda e credo serva, come tante altre classificazioni, solo al commesso di un negozio di dischi per trovare al volo lo scaffale giusto».

Le vostre canzoni hanno però qualcosa di rivoluzionario, nel senso storico del termine. Non credi?

«Non ho dubbi sul fatto che alcune canzoni possano contribuire a realizzare la Rivoluzione, ma prima forse bisogna chiarire cosa intendo io per rivoluzione. Per dirla con le parole del profeta Pier Paolo Pasolini: ‹la rivoluzione non è più che un sentimento›. Potremmo cominciare da qui, da questa prospettiva. Le canzoni dei Gang mantengono vivo il sentimento della memoria, o meglio ancora, cercano nel loro girovagare un ritorno al fuoco di una nuova appartenenza, condizione indispensabile e primaria del sentimento della libertà. Ogni rivoluzione, per dirla con Gramsci, è un processo, non un atto, quindi un cammino! Le canzoni dei Gang affermano contemporaneamente il luogo da cui proveniamo e quello verso cui stiamo andando. Ma occorre non aderire al canto delle sirene, alla confusione tipica del postmodernismo che svuota ogni funzionalità e di conseguenza riaffermare un ruolo della canzone. E con esso una sua identità».

A che tipo di rivoluzione pensi? 

«La nostra rivoluzione consiste oggi soprattutto nel riconciliare la Terra col genere umano. Ed è all'interno di questo processo rivoluzionario che il lavoro deve trovare una sua nuova centralità e una sua liberazione dallo sfruttamento e dall'alienazione. Un lavoro che produca ricchezza, non merci che affannano il respiro del mondo. E noi siamo già da questa parte del fiume, intenti a costruire la città futura, facendo questa rivoluzione. Le nostre storie cantate, il nostro canzoniere è utile in quanto fornisce un bene culturale che non ha niente a che fare con la merce, e cammina, viaggia, in territori lontani da quelli del mercato e dal suo pensiero unico».

Non avete mai nascosto il fatto di essere di sinistra e nello stesso tempo siete sempre stati critici con i vertici del partito. Come giudichi il momento attuale della politica italiana? 

«Conservo una passione per la politica, quella vera, perché ritengo sia l'arte della mediazione, la più grande delle arti. Quella a cui stiamo assistendo oggi non è però affatto la politica come io l'intendo e la conosco, ma l'antipolitica, l'accanimento, lo sputtanamento, l'umiliazione nei confronti della politica fatta da chi, con i metodi da "banda", si è impossessato dei luoghi della politica, compreso il Parlamento. Per dare una risposta breve devo però constatare che in questo paese ormai si è consolidata un'alleanza fra potere sul territorio, che è anche quello della cosiddetta politica, e il potere del denaro. Questa sorta di patto, non proprio taciuto, porta inevitabilmente all'affare. Ecco allora che chi ha il denaro investe nella politica, o meglio in alcuni "professionisti" della politica, in coloro che portano i voti e li spostano dove a loro conviene. È il mercato che si impossessa della politica. A questo modello non si sottrae la sinistra perché molti candidati hanno i loro sponsor personali e prima di fare gli interessi della comunità fanno quelli dei loro sponsor, o nel migliore dei casi cercano di mediare. L'assenza di regole opportune al risanamento della politica fa sì che si possano anche arrestare cento politici corrotti al giorno con i loro corruttori ma come per il crimine organizzato, per uno in galera ne spuntano fuori altri cento il giorno dopo perché è il sistema che è corrotto e corruttibile fino a che resta quello che è diventato».

La sinistra italiana secondo te ha la capacità di rinnovarsi e trovare finalmente una unità di programma? 

«Le motivazioni del crollo della sinistra in genere sono diverse ma sono convinto che la cornice che tiene insieme il paesaggio delle contraddizioni e delle sconfitte sia soprattutto quella dell'essere finita nella trappola del bipolarismo che ha, di fatto, strangolato quello che restava delle due forze politiche popolari e di massa come gli eredi del PCI e della DC. In questo mare mosso la sinistra "oltre il PD" è naufragata soprattutto perché si è imbarcata su una nave che già faceva acqua da tutte le parti, parlo di quello che restava del transatlantico del compromesso storico, e perché non ha valutato bene i rischi della rotta di navigazione, cioè il Riformismo imposto dall'alto. Pensare di affrontare le grandi sfide della globalizzazione con un riformismo a tratti tecnocratico e con una visione della politica che privilegiava la manovra dall'alto è stato come affogarsi. La sinistra di cui mi chiedi non ha saputo sganciarsi da una visione e una prassi politica condizionata sempre più da un pensiero povero influenzato dalla mitologia del decisionismo. Si è concentrata soprattutto sui "rami alti" del sistema quando avrebbe dovuto invertire la rotta e non far parte di questo equipaggio ormai senza timoniere. E per timoniere intendo un progetto, una visione grande, non un singolo, un leader, un protagonista. E quando la nave cola a picco ecco il litigio per accaparrarsi il proprio salvagente. Non è stata capace di mostrare la propria differenza e unicità. Oggi questa stessa sinistra partecipa a un gioco macabro e anacronistico dettato da faide, particolarismi, dispute nominalistiche. Una sorta di ritorno come scrive Reichlin, ai tempi in cui Firenze, Venezia, Milano si scannavano e l'Italia diventava terra di conquista dello straniero, per finire poi ai margini del mondo moderno. Ma vorrei fornire anche un alibi a questo disfacimento in un quadro più generale e non solo nazionale, cioè lo svuotamento della democrazia, quella "cosa" che ha fatto la storia e la forza del progressismo europeo negli ultimi due secoli. Quella democrazia che non è solo la conta dei voti o strumento di ascesa sociale ma che è mezzo di civilizzazione e mezzo attraverso il quale diventa possibile il cammino verso l'uguaglianza. E oggi il nemico vero della democrazia sono le oligarchie economiche. Questo impone anche alla sinistra "oltre il PD" una radicale revisione di strategia politica».

L'attuale panorama politico occupato dal Governo Monti vede tra i protagonisti il Sel di Vendola e il Movimento 5 Stelle. Che idea hai? 

«Negli ultimi tempi si è assistito al commissariamento dello stato di diritto da parte del governo Monti e a un collaborazionismo della sinistra verso una soluzione non conservatrice ma reazionaria della società e della politica italiana. I fenomeni come quelli di Vendola e di Sel o di Grillo e del Movimento 5 Stelle di fatto, direttamente e indirettamente, promuovono un culto della personalità che va ad ingrassare le fila di chi oggi lavora per la fine di questo sistema democratico e promuove la repubblica presidenziale. Di chi vuole cancellare la nostra Costituzione e instaurare un regime conservatore. Quindi il livello di pericolo della democrazia si è elevato per colpa di questi fenomeni, per non parlare dell'attuale strategia del PD che punta esclusivamente alla sua sopravvivenza con un ruolo nuovo che è quello di ricucire e ricomporre una nuova Democrazia Cristiana rimettendo insieme Rosy Bindi con Casini e allargandola a Vendola e Fini. Oggi stiamo assistendo a quello che un tempo si sarebbe chiamato un colpo di Stato né più né meno. Cioè la fine dello stato di diritto ad opera dell'impero finanziario europeo e non. Oggi allo stato di diritto si è sostituito lo stato impresa e peggio ancora quello del potere di acquisto. Essere cittadino significa semplicemente che sei in grado di acquistare altrimenti non hai nessun diritto. E se ciò avviene è soprattutto grazie all'appoggio di gran parte delle componenti della cosiddetta sinistra italiana».

Qual è la soluzione per rimettere in rotta la nave della politica? 

«A me interessa ricostruire la casa del popolo ma che senso ha fare sempre delle riparazioni e tappare le crepe se la casa ha il tetto che fa acqua, i pilastri crollano e non tengono su l'edificio? Meglio buttare a terra e ricostruire cominciando così a rinforzare per prima cosa le fondamenta o quello che resta di buono e di saldo delle fondamenta. La ditta di muratori capaci di fare questo lavoro, ti confesso, non la vedo. Va rimessa in piedi, rifatta, con i migliori componenti vecchi e nuovi fra manovali, imbianchini, muratori, piastrellisti, idraulici, carpentieri e in quanto a capomastri da D'Alema a Vendola neanche a parlarne. Saranno le nuove lotte a creare i nuovi "sub-comandanti" non la legge elettorale».

Quindi mi pare di capire che dalla torre butteresti giù tutti i politici?

«Penso che noi oggi non abbiamo bisogno di politici ma di "pontefici", cioè di costruttori di ponti fra le culture, i costumi, le religioni, le leggi. Non si tratta di sostituirsi alla politica ma di combattere una lunga e dura battaglia culturale che sia già una rivoluzione nel suo divenire, nel suo camminare. Poi, a ponti fatti, la politica potrà tornare ad essere quella che è stata un tempo: l'arte della mediazione, non fra poteri ma fra sogno e realtà».

Ponti che i Gang hanno sempre provato a costruire con le canzoni. 

«Abbiamo cercato di avvicinare gli strumenti indispensabili alla costruzione del futuro di questo paese attraverso le sue tradizioni che sono ancora vive. Ed è proprio dall'incontro fra tre grandi tradizioni che si sta realizzando una nuova rivoluzione. La tradizione cristiana - quella dei Ciotti, Zanotelli, Puglisi, Balducci, Milani, tanto per fare qualche nome -, la tradizione comunista con una visione della democrazia diversa da quella borghese, si pensi ai consigli di fabbrica, alle case del popolo, alle prime società di mutuo soccorso e infine la tradizione delle minoranze, quella delle sinistre eretiche, dei cantori come Pasolini o Pazienza, dei movimenti per "un altro mondo è possibile", del femminismo e, in piccola parte, anche la minoranza che ha generato in Italia la rivolta dello stile. È da qui che provengo anch'io, in quanto ho cercato di riallacciare le culture delle minoranze italiane con il rock'n'roll. In ogni nostra canzone avviene l'incontro, il confronto e la condivisione di un immaginario comune a queste tre grandi tradizioni italiane».

Nelle ultime settimane il caso Ilva di Taranto ha calamitato l'attenzione dei media. Fino a quando, secondo te, si potrà continuare a sacrificare la salute pubblica al cospetto dell'urgenza lavorativa della popolazione? 

«Il caso dell'Ilva di Taranto oggi è arrivato ad un alto livello di tensione e di esasperazione. Lo possiamo paragonare a decine e decine di casi simili, da Marghera a Bagnoli, alla Falk di Sesto San Giovanni, per certi versi anche al caso Seveso o all'Eternit in Piemonte. Eppure secondo me, per circostanze storiche, il caso Ilva pone la questione ad un punto che prima non era così evidente. Oggi lo scontro diventa epocale fra due diverse concezioni del lavoro. La prima che vede il lavoro come strumento di emancipazione e di conquista della dignità, intesa come diritto alla speranza. Il lavoro come forma di riscatto sociale che trova radice e identità storica nel momento di maggiore forza e consapevolezza del movimento operaio italiano, quello del decennio di lotte degli anni '60-'70. La seconda che vede il lavoro come strumento per "guadagnarsi la pagnotta", per avere un minimo di potere d'acquisto, per sopravvivere, non il lavoro quindi ma il posto di lavoro. Una rivendicazione che non fa parte della storia della classe operaia né del movimento operaio. È invece una resa ad un modello di sviluppo classicamente occidentale che considera ed esalta il progresso misurando tutto in termini di profitto. Ecco allora che il posto di lavoro diventa un'arma di ricatto e quello che resta delle ceneri della classe operaia viene nuovamente presa in ostaggio. Nel caso dell'Ilva finalmente questa contraddizione o meglio questa realtà viene evidenziata come non mai. Senza entrare nei particolari o nel confronto su come uscirne vivi da questa trappola posso semplicemente affermare che non è soltanto lo stato a non avere una politica industriale in questo paese ma quello che è grave, anzi gravissimo, è che né i partiti storici della classe operaia, quindi la cosiddetta sinistra, né i sindacati, assolutamente nessuno di questi, né gran parte della forza lavoro, oggi è in grado di esprimere e di elaborare una visione dello sviluppo diversa da quella dei padroni, quella che punta tutto sul profitto».

Non sembrano quindi esserci vie d'uscita... 

«La legge è l'ancora di salvataggio. È riconosciuto un diritto alla salute, alla vita, e questo diritto individuale e collettivo deve prevalere sul profitto, sulle logiche del PIL e sulla retorica del potere di acquisto, non della sopravvivenza legato del posto di lavoro. Certamente il problema di oggi pratico e teorico, è molto più grande dell'Ilva di Taranto, ed è quello del come si esca dalla lunga storia del movimento operaio, in avanti, senza tornare indietro. Io sono per uno spiazzamento e una rottura netta dell'orizzonte del ricatto e della presa in ostaggio. Per una nuova visione del lavoro come strumento di conquista della dignità, dello stare bene, della vita! Come dire che il futuro anche in questo caso ha un cuore antico. Come ho sempre cantato occorre radicarsi per volare. Mi pare però che su tutto ciò la sinistra parteggi più per il conservatorismo rimandando all'infinito la questione fondamentale. Non scioglie il nodo, anzi. Per Taranto io sono per tre fasi: giustizia, referendum e bonifica. Come per tutte le altre realtà simili, ma la mia è solo una prefazione rispetto ad un tema che è molto più complicato e richiederebbe una spazio molto più ampio di discussione e confronto».

Anche a Vado Ligure c'è un problema di coesistenza tra la popolazione e un sito inquinante come è quello della centrale elettrica a carbone della Tirreno Power. Qual è la tua idea? 

«Tutto quello di cui ho parlato trova conferme nella questione della Tirreno Power. In cima alla piramide di Tirreno Power siede nientemeno che Carlo De Benedetti, che del Partito Democratico rivendicò la tessera numero uno. L'Ingegnere controlla, attraverso la holding Cir e Sorgenia, i destini dello stabilimento. Poi c'è Legambiente che condivide e si schiera da tempo con le posizioni delle Amministrazioni di Vado e di Quiliano, di Provincia e Regione che, mentre si dichiarano pubblicamente contro il potenziamento, di fatto e in maniera evidente non vogliono l'abolizione del carbone nella centrale di Vado. Questo palese disinteresse sugli enormi danni alla salute e all'ambiente e sui relativi costi indotti sul territorio savonese conferma la sudditanza delle stesse Amministrazioni alla Tirreno Power, motivata da consuete forme di finanziamento di cui i Comuni sono spesso gratificati. Legambiente è socio azionario di Sorgenia, si può comprendere quindi il suo ruolo di malcelata sudditanza. La stessa sudditanza che, da tempo, mostra verso quegli enti pubblici di cui condivide in modo acritico le posizioni e da cui risulta già finanziata con lauti contributi. Termino ricordando che anche qui e per tutto ciò c'è la Costituzione e l'art. 32. Come se non bastasse la tutela della salute viene oggi modernamente defini­ta a livello internazionale dall'Organizzazione mondiale della sanità come "uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non solamente l'assenza di malattia o di inabilità", ovvero una condizione di armonico equili­brio funzionale, fisico e psichico dell'organismo dinami­camente integrato nel suo ambiente naturale e sociale».

Tornando alla musica e ai Gang, è appena uscito un cd/dvd live che celebra i venti anni di "Le radici e le ali". Quali sono i vostri progetti futuri? 

«Dato per scontato che, come dice il profeta, il futuro non è scritto, quello dei Gang vede all'orizzonte finalmente un disco di inediti. Disco che non si fa da 13 anni. Penso che ce la faremo entro il 2013. Si chiamerà "Sangue e Cenere". Sono dodici canzoni suonate con una vera grande orda d'oro di musicisti provenienti da strade musicali anche molto diverse. Come dire? La lunga marcia continua. A presto, sulle strade, le nostre! Intanto.....Buona Vita!».




mercoledì 12 settembre 2012

"QB" è l'esordio discografico degli Uribà







Canzoni della tradizione rivestite con arrangiamenti moderni e brani originali che bene si collocano in questo ambito. Questo offrono gli Uribà con il loro disco d'esordio intitolato "QB" e pubblicato nei giorni scorsi da FolkClub Ethnosuoni (registrazioni eseguite da Alessandro Mazzitelli presso l'AM Studio a Loano tra aprile 2011 e marzo 2012). Davide Baglietto, Alessandro Graziano, Federico Fugassa e Davide Bonfante hanno lavorato su materiale raccolto sul campo da etnomusicologi come Alan Lomax, Giorgio Nataletti, Mauro Balma, Paul Collaer, e su informazioni rintracciate in libri e documenti. Il quartetto del ponente savonese offre la possibilità di conoscere e apprezzare canzoni dell'entroterra ligure, filastrocche delle valli ingaune, ninne nanne provenienti dalla Valle Argentina e dal centro sud della Corsica, canti di questua. Canzoni che sono state liberate dalla polvere degli anni grazie a un suono moderno che non ha stravolto però l'originalità delle composizioni. Sono brani che gettano luce su un patrimonio che rischia di andare perduto e dimenticato per sempre. Storie e racconti che sono ora disponibili e fruibili anche dalle nuove generazioni. Gli Uribà hanno aggiunto a queste canzoni una manciata di composizioni originali.
Con Davide Baglietto, musicista e appassionato ricercatore delle tradizioni liguri, abbiamo parlato del nuovo disco e dei prossimi impegni artistici.

"QB" è il primo lavoro degli Uribà. Cosa vi ha spinto a pubblicare questo disco?

«La passione comune per la musica e per l'entroterra del ponente ligure. Dopo aver messo a disposizione il materiale musicale che faceva parte di una mia ricerca sulle tradizioni ligure alpine, Alessandro, Federico, Davide ed io abbiamo creato il repertorio adatto per uno spettacolo live e per registrare il disco».

Cosa significa "QB" e perché avete dato questo titolo al disco?

«Noi ci chiamiamo Uribà che nel dialetto dell'entroterra ingauno significa alloro.Visto che la foglia di questo arbusto viene usata in alcune ricette di cucina ligure in quantità variabile a seconda del gusto personale del cuoco, abbiamo deciso di usare il termine "Quanto Basta", tradizionalmente abbreviato con QB. L'idea è quella che anche la nostra musica venga sentita dall'ascoltatore quanto basta per sentirsi appagato».

Alla base di questo progetto musicale sembra esserci uno studio approfondito della cultura e delle canzoni della zona alpina ligure. Cosa ci puoi raccontare in questo senso?

«La passione per l'entroterra ligure e per i suoi usi e costumi è nata durante la mia infanzia, perché i miei genitori, amando la montagna, mi portavano spesso a Garessio, Calizzano, Bardineto, Ormea e in altre località dell'entroterra. Fin da subito mi avevano colpito i dialetti, totalmente diversi e lontani da quelli rivieraschi. Con il passare del tempo, conoscendo e visitando altri paesi e conoscendo paesani "tipici", ho iniziato a documentarmi sui vari usi e costumi, fino ad arrivare al 2009 quando ho deciso di cercare materiale tradizionale musicale e non. Così ho trovato le registrazioni fatte negli anni '60-'70-'80 da vari etnomusicologi come Alan Lomax, Giorgio Nataletti, Paul Collaer e Mauro Balma. Ma non mi sono fermato lì perché durante la ricerca ho scoperto che nella nostra zona alpina il dialetto è stato influenzato da altri dialetti e lingue come ad esempio il franco-provenzale, il kyè, l'occitano, il brigasco, il roiasco. Quindi mi sono messo a cercare in questa direzione guardando nella letteratura esistente e presso le associazioni culturali. Ho trovato e conosciuto persone che mi hanno dato una mano a integrare la mia ricerca. Alla fine il materiale recuperato era talmente tanto che con Federico, Alessandro e Davide abbiamo dovuto fare una selezione per far sì che venisse coperto l'arco alpino ligure e le zone limitrofe».

Geograficamente vi siete spinti anche in Corsica con la canzone "O ciucciarella"…

«Nel mio ricercare e suonare ho conosciuto due storici e musicisti corsi, i fratelli Jean Jacques e Christian Andreani, che mi hanno insegnato molte canzoni tradizionali della loro terra. Visto che la lingua corsa ha diverse assonanze con il ligure e in alcune parti dell'isola, come Ajaccio, Calvi e Bonifacio, veniva parlato addirittura il dialetto ligure - oggi solamente il bonifacino è rimasto in uso -, ho deciso di proporre una canzone tradizionale in dialetto corso scritta da un vescovo quasi tre secoli fa».

Il prezioso lavoro sul campo svolto negli anni Sessanta dal musicologo Giorgio Nataletti è stato una delle vostre fonti di ispirazione. Quali sono state le altre?

«Come dicevo prima oltre a Nataletti abbiamo preso ispirazione dal materiale di Alan Lomax e Mauro Balma e anche da alcuni libri di poesie e filastrocche delle valli ingaune editi dalle edizioni Delfino Moro. Inoltre abbiamo ricevuto testimonianze raccolte da amici, come ad esempio quella di Jean Oliva per "Addormite Cuumbu", di cui il testo e la melodia mi sono stati spediti da Luigi Calvini di Montalto Ligure».

"QB" è un progetto che segue da vicino quello presentato dagli A Brigà, gruppo nel quale tu, Fugassa e Bonfante, cioè i 3/4 degli Uribà, avete militato a lungo e che vi vede anche protagonisti nell'ultimo album "Artemisia. Le Alpi del Mare". Perché avete preso la decisione di lasciare gli A Brigà e dare vita agli Uribà?

«Questa decisione è nata perché il materiale da me raccolto e messo a disposizione del gruppo aveva dato origine a due modi differenti di intendere la rilettura. Così di comune accordo abbiamo deciso di dividerci e di sentirci liberi artisticamente di fare quello che ci veniva più naturale. Ecco che allora Federico, Davide e Alessandro, anche lui presente negli A Brigà per lo spettacolo Alpi del Mare portato in giro nel 2011, ed io abbiamo deciso di formare gli Uribà, con una visione "pop-trad" del repertorio delle alpi liguri. Una volta formati, non solo abbiamo rivisitato parte del materiale già lavorato precedentemente ma ne abbiamo aggiunto di nuovo, di nostra composizione: "Vaggu aa fera", "Mamma io voglio andare sul Monte Zemolo", "Tacabrighe", "Tacabrighe reprise", "Laggiù in fondo in quel boschetto", "Stanco di pascolare le pecorelle"».

La partecipazione al vostro disco di Marta Giardina, cantante degli A Brigà, non ha però tagliato completamente il cordone ombelicale tra i due gruppi savonesi, non credi?

«Direi di no. Quando ci siamo spartiti il materiale musicale avevamo già inciso alcuni brani, "O ciucciarella" era uno di questi. Visto che l'arrangiamento trip-hop, totalmente estraneo all'attuale scelta artistica degli A Brigà, era perfetto con la voce di Marta e i cori di Alessandro, di comune accordo, abbiamo deciso di tenere il contributo di Marta, vista come singola artista e non come voce degli A Brigà».

Non vi spaventa il fatto che gli spettatori più distratti possano confondere la vostra produzione con quella degli A Brigà?

«Siamo convinti che le due line-up live si presentino completamente differenti e che anche lo spettatore più distratto non possa mai confondere un gruppo con l'altro».

Quale futuro vedi per la musica tradizionale?

«Al momento mi sento di risponderti che il futuro è nella rilettura in chiave moderna del repertorio tradizionale, soprattutto nelle regioni come la nostra dove le tradizioni musicali o sono assenti o sono del tutto scomparse, per fare sì che i giovani si interessino alla musica del loro territorio e anche agli strumenti e ai modi in cui veniva suonata. In questo modo, stabilendo un dialogo tra nuovo e antico, si potrebbe creare una base forte per far crescere e resistere la musica tradizionale».

Qual è il vostro background musicale?

«Alessandro musica classica, jazz, rock e prog; Federico jazz, pop e funk; Davide rock, funk e indie; io world music, musica tradizionale italiana e della Francia centrale, asian break beat, new wave, elettronica, insomma un po' di tutto».

Non resta quindi che vedervi suonare dal vivo. Qual è il vostro prossimo impegno e quali sono i progetti futuri?

«Siamo già impegnati a lavorare su nuovo materiale sempre tradizionale ligure, ma non voglio svelarti troppo. Ora portiamo in giro "QB", il nostro disco, al quale hanno collaborato alcuni amici musicisti che vorrei ricordare: Edmondo Romano al clarinetto, Marco Fadda alla tabla e al karthal, Walter Rizzo alla ghironda e I Liguriani con Michel Balatti al flauto, Fabio Rinaudo alla musette, Claudio De Angeli alla chitarra, Filippo Gambetta all'organetto e Fabio Biale al neolin. Per quanto riguarda i prossimi concerti ti consiglio di segnare sul calendario le date del 6 ottobre quando suoneremo a Laigueglia (ore 21) nell'ambito della manifestazione "Il salto dell'acciuga", il giorno successivo invece saremo a Calice, il 21 ottobre al Caffè Vittoria a Finale e il mese dopo, più precisamente il 23 novembre, al Teatro Gassman a Borgio Verezzi».


Titolo: QB
Gruppo: Uribà
Etichetta: FolkClub Ethnosuoni
Anno di pubblicazione: 2012

Tracce
(musiche e testi Davide Baglietto e Alessandro Graziano, eccetto dove diversamente indicato)

01. Vaggu aa fera
02. Mamma io voglio andare sul monte Zemolo  [trad. adattamento Baglietto e Graziano]
03. Tacabrighe: Che or era sull'Orera + Tacabrighe  [Baglietto]
04. Adormite cuumbu + Varzumbu  [trad. + Baglietto e Federico Fugassa]
05. Il canto delle uova + La polca delle uova  [adatt. Baglietto + L. Pesenti]
06. La pulayera + Il tema del pollo  [trad. + Baglietto e Fugassa]
07. Puve de l'oru  [Baglietto e Fugassa]
08. E laggiù in fondo in quel boschetto  [trad. adattamente Baglietto e Graziano]
09. O ciucciarella  [trad.]
10. Tacabrighe reprise  [Baglietto, Graziano, Fugassa e Davide Bonfante]
11. Stanco di pascolar le pecore   [trad. adattamento Baglietto, Fugassa, Graziano]




lunedì 10 settembre 2012

Il "Sonno Eliso" di Edmondo Romano







Una carriera musicale che abbraccia cinque lustri e che nei primi mesi del 2012 ha trovato espressione nell'album "Sonno Eliso". Per Edmondo Romano, polistrumentista a fiato genovese con alle spalle collaborazioni eccellenti, è il punto di arrivo ma nello stesso tempo di partenza di un lungo percorso artistico iniziato nel 1985 con il gruppo progressive-sperimentale Eris Pluvia. "Sonno Eliso" è un album, il primo della carriera di Romano e anche di una trilogia dedicata agli opposti e alla comunicazione che si completerà nei prossimi anni, dall'ampio respiro e senza frontiere. Tredici brani strumentali che spaziano tra diversi generi, tradizioni e culture mediterranee. Un disco di atmosfere, suggestioni, profondamente musicale che si sviluppa intorno al concetto della comunicazione tra due opposti: l'uomo e la donna. Per dar vita a "Sonno Eliso" Edmondo Romano ha chiamato intorno a sé amici musicisti come Ares Tavolazzi, storico bassista degli Area, Mario Arcari, il pianista Fabio Vernizzi, Elias Nardi, il percussionista Marco Fadda, Riccardo Barbera, Alessio Pisani, Daniele Bicego, il violoncellista Kim Schiffo, dall'Orchestra Bailam sono arrivati il violinista Roberto Piga e il fisarmonicista Luca Montagliani.
Conclusa la stagione dei concerti estivi che lo ha visto protagonista su molti palchi italiani, Romano è stato disponibile a rispondere alle domande di questa breve intervista.




Dopo oltre 25 anni di carriera, durante i quali hai collaborato e scritto per numerose realtà artistiche, hai deciso di pubblicare il primo disco a tuo nome. Perché hai atteso così a lungo?

«Non è stata una scelta ponderata, credo sia accaduto in modo naturale. Le prime colonne sonore per teatro e spettacoli di danza le ho scritte quando ero giovanissimo, intorno ai 16 anni. Il passo mancante era quindi quello di elaborare e fissare le idee al termine di un percorso preciso. Cosa che è avvenuta nel momento in cui da musicista ho iniziato a creare dei vuoti da poter nuovamente riempire con qualcosa di nuovo e fresco, cioè iniziare ad abbandonare quello che a mio avviso è il principale freno per un artista: la fame d'essere sempre presente in ogni luogo, dir sempre di sì ad ogni proposta lavorativa, diventando in questo modo schiavo di se stessi, del proprio ego, a volte malato, che sa ben apparire ma forse ha ben poco da dire di nuovo».

"Sonno Eliso", secondo le note introduttive scritte da Paolo Fresu, è il primo disco di una trilogia. Cosa stai esplorando con la tua musica?

«È il primo di una trilogia dedicata alla comunicazione con noi stessi e con il resto del mondo. La vera comunicazione con il proprio essere, il saper riconoscere un impegno maturo verso il proprio essere e quindi diventare capaci di dar vita a una persona felice, sincera. In quest'epoca sembra essere la cosa più complessa da realizzare. Questo mi sembra il tema più importante e pregnante nella realtà sociale in cui ci stiamo muovendo, realtà in totale smarrimento, confusa, creatrice di altrettanti esseri confusi. Il primo passo verso la comunicazione con l'esterno è la dualità maschile/femminile, prima esperienza di avvicinamento verso il differente da te e fulcro di una costruzione che forgerà la tua persona nel tempo. I temi che affronterò nei due prossimi lavori sulla comunicazione e che a mio avviso completano questa ricerca saranno il verbo (scritto, parlato) e per ultimo forse il più complesso e subdolo dei tre, la religione».

Ti sei avvalso della collaborazione di grandi musicisti come Mario Arcari, Ares Tavolazzi, Marco Fadda e tanti altri. Una bella squadra che porta in alto la tua musica. Come sono nati questi incontri?

«Questi incontri sono avvenuti negli anni, molti di loro hanno in parte aggiunto un piccolo mattone alla mia formazione musicale. Dico questo perché non credo esista il caso, ma una successione di piccoli eventi, piccole scelte che ci portano a essere ciò che oggi siamo, quindi non ci si incontra per caso, ci cerchiamo e a volte sappiamo riconoscerci. Ho chiesto ad ognuno di loro la collaborazione in base alle loro peculiarità artistiche, quindi è stata in parte la musica scritta a dettare chi era il musicista adatto per questo lavoro. Mia grande gioia è stata la partecipazione sentita e omaggiata da parte di tutti, con passione e stima verso il mio lavoro».

Da dove vengono i brani di "Sonno Eliso" e quali sono state le fonti di ispirazione?

«Le composizioni racchiudono un periodo di scrittura di circa quattro anni. Molti brani sono nati come colonna sonora per la Compagnia Teatro Nudo per la quale rivesto il ruolo di compositore, regista, attore ed ogni forma di espressione lo spettacolo richieda, in una totale collaborazione tra gli artisti. Con la Compagnia per alcuni anni abbiamo sviluppato proprio il tema maschile/femminile rielaborando testi di Pasolini, Beckett, Al-Neimi, gli antichi miti. Molti sono nati nel silenzio del mio studio, in totale solitudine, grande fonte d'ispirazione».

Il fulcro tematico del disco è l'incontro-scontro tra uomo e donna. Ce ne parli?

«Ho diviso il lavoro in due parti. Il primo gruppo di sei brani rappresenta la parte femminile, che è completamente speculare nel disegno musicale con il secondo gruppo di sei brani che rappresentano la parte maschile. La traccia finale, la numero tredici - nei tarocchi la morte e la rinascita - rappresenta il punto d'incontro tra i due mondi in un brano caratterizzato dalle due realtà che coesistono nella differenza tra il ritmo dispari che simboleggia il femminile e il ritmo pari che rappresenta il maschile, collegate tra loro da un tempo ternario. Le due realtà coesistono, come due cellule melodiche e ritmiche ripetute ma mai uguali, il tempo dispari ed il tempo pari, che si trasformano sino al breve equilibrio creato dall'incontro armonico finale».

Ti è andata male, ci fosse ancora il vinile la divisione in due facciate avrebbe facilitato questa dicotomia tra le canzoni dedicate al mondo femminile e quelle riservate all'universo maschile.

«Forse è vero, difatti la grafica del CD vuole in parte essere appositamente simile a quella di un vinile, con il colore oro che rappresenta la donna, il blu profondo che rappresenta l'uomo.
Il formato CD mi ha permesso l'inserimento di un video, in cui la tematica sviluppata è la dualità femminile. Protagoniste sono una donna nera (il nuovo) e una donna bianca (l'antico) che cercano l'equilibrio interno (la casa) ed esterno (la desolazione di una cava di marmo)».

Nel corso della tua carriera hai spaziato in quasi tutti i generi musicali. Sei passato dal progressive sperimentale degli esordi con gli Eris Pluvia, al gruppo etnico Avarta, al folk dei Comunn Mor e dell'Orchestra Trad Alp a quella yiddish-balcanica dell'Orchestra Bailam. Senza contare tutte le collaborazioni nell'ambito cantautorale, jazz e le colonne sonore per cinema e teatro. Cosa ti hanno lasciato tutte queste esperienze e come hanno condizionato la tua carriera?

«Il primo strumento con cui mi sono avvicinato alla musica è stato il clarinetto. Negli anni curiosità, studio e predisposizione mi hanno permesso di imparare e rapportarmi con strumenti a fiato molto differenti tra loro ed appartenenti ad aree geografiche diverse. Credo che sia in me naturale l'approccio a molte forme di espressione - teatro, cinema, pittura, fotografia… - e quindi anche allo studio di varie forme musicali. Prediligo la musica classica e strumentale ma ascolto qualsiasi genere. Unico elemento comune che mi porta ad essere rapito da una canzone è l'essenza sincera della composizione. La scrittura spinta da un messaggio personale, le operazioni estetiche, egoiche, nate per la vendita non le trovo stimolanti. Questa varietà mi rende sicuramente comprensibili ed esprimibili diversi linguaggi, questo credo sia l'insegnamento».

Paolo Fresu ha definito il tuo disco «un infinito patchwork musicale, senza frontiere geografiche o di territorio». È calzante questa definizione?

«Trovo che abbia compreso nel profondo quello che il lavoro rappresenti. L'arte non ha limiti geografici e culturali, l'uomo ha limiti geografici e culturali, per questo nella sua visione ancora ignorante trova sollievo nel catalogare e collezionare ogni cosa».

Jazz, world music, etnica, contemporanea. In "Sonno Eliso" troviamo tutto questo e anche di più. A chi invece non avesse ancora sentito il tuo disco cosa vorresti dire?

«Per realizzare "Sonno Eliso" ho lavorato molto sulla ricerca della lentezza e quindi sull'acquisizione del giusto tempo per riuscire a vedere la profondità e la bellezza delle cose. Vorrei dire di attendere il momento giusto per ascoltarlo, creare un rituale interiore, dare valore ed attenzione al gesto di apertura verso il  mondo nuovo che un lavoro d'espressione ti può comunicare».



Titolo: Sonno eliso
Artista: Edmondo Romano
Etichetta: Felmay
Anno di pubblicazione: 2012

Tracce
(musiche di Edmondo Romano)

01. Sonno eliso
02. Canto di lei
03. Preghiera
04. Corpo
05. Fiato
06. Intercessione
07. Rilucente
08. Canto di lui
09. Nadi
10. Trasfigurazione
11. Risucchio
12. Intelletto
13. Risonanza




sabato 1 settembre 2012

I New Trolls e il basso di Francesco Bellia



Vittorio De Scalzi e Francesco Bellia (Savona, 1 aprile 2011) - Copyright




I New Trolls sono uno dei gruppi più importanti e influenti della scena rock italiana. La band, attiva dal 1967, ha pubblicato album fondamentali del rock progressive come "Concerto Grosso per i New Trolls" (1971) e "Concerto Grosso n. 2" (1976), entrambi opera del compositore e musicista argentino Luis Enriquez Bacalov. Quarantacinque anni di storia musicale per i New Trolls tra scioglimenti, reunion, vicende legali, cambi di denominazione. Attualmente Nico Di Palo e Vittorio De Scalzi, due tra i fondatori del gruppo insieme a Giorgio D'Adamo, Gianni Belleno e Mauro Chiarugi, sono i leader de La Storia dei New Trolls, band che fino a pochi mesi fa era chiamata Leggenda dei New Trolls. Al fianco di Di Palo e De Scalzi c'è ormai da molto tempo il bassista Francesco Bellia, siciliano di nascita (classe 1968) ma albissolese da una vita. Abbiamo incontrato Francesco, figlio di una famiglia di musicisti e fratello di Giorgio valente batterista, un pomeriggio di questa calda estate in riva al mare davanti a un bicchiere di acqua e menta. Una conversazione a tutto tondo da cui è nata questa intervista.


Francesco da quanti anni sei il bassista dei New Trolls o meglio de La Storia dei New Trolls?

«Quasi dieci anni. Il mio primo concerto con i New Trolls fu a Sestriere il primo febbraio 2003, all'aperto con una temperatura di meno 19 gradi, con l'orchestra e in diretta su Radio Italia. Fu un trauma perché suonare a quelle temperature alle 18 di sera fu una impresa impossibile ma la portammo a casa. Sono ormai passati quasi dieci anni e spero di continuare questo viaggio anche se è sempre più difficile, sotto tutti gli aspetti. Purtroppo viviamo in un momento storico in cui non è permesso fare nulla di quello che si vorrebbe».

Non deve essere stato facile entrare in un gruppo così importante. Come è scoccata la scintilla tra te e i New Trolls?

«Devo ringraziare Andrea Maddalone (chitarrista de La Storia dei New Trolls, ndr) che mi ha aperto questa porta. Suonavo con lui in vari gruppi cover in Liguria e un giorno mi chiese se avevo voglia di fare un provino con Vittorio De Scalzi perché il bassista di quel periodo, Roberto Tiranti, aveva deciso di lasciare il gruppo. E così Luigi Ogno (ex bassista dei Ricchi e Poveri e manager di numerosi gruppi musicali, ndr) organizzò questo provino in uno studio di Genova Nervi. Mi fecero cantare e suonare "Una miniera" e "Visioni". Il provino si concluse con De Scalzi che mi disse: ‹sembra abbastanza buono, ti faremo sapere›. Poi un giorno mi chiamò Luigi Ogno e mi diede i compiti da fare a casa: studiare Concerto Grosso 1 e 2».

Cosa vuol dire suonare sui palchi di mezzo mondo insieme a Nico Di Palo e Vittorio De Scalzi?

«È una emozione che ha milioni di sfaccettature, non credevo mai di poter fare esperienze così belle. Penso che le parole non diano la giusta importanza a quello che provo tutte le volte che salgo sul palco. Lascio pensare al massimo delle emozioni di ognuno di noi moltiplicato per 'n' volte».

Ci puoi fare un ritratto di due grandi personaggi della canzone italiana come Nico e Vittorio?

«Il comune denominatore è genio e sregolatezza. La cosa che apprezzo di più in entrambi è l'amore, e scriverei tutta la parola in lettere maiuscole, verso la musica. Guardo Vittorio sempre con occhi di stima e stupore quando si mette a suonare il pianoforte alle due di notte nella sala dell'hotel dopo aver tenuto un concerto di tre ore. Ha desiderio di suonare perché per lui non è lavoro ma amore nei confronti della musica. Vediamo se riesco a descrivere entrambi con una parola. Nico è 'inventiva', riesce sempre a trovare una soluzione che ti lascia a bocca aperta. Vittorio invece è 'armonia' musicale. Al di fuori della musica Nico è uno di quelli che sta zitto per tre ore e poi ti lancia la battuta che ti fa morir dal ridere, Vittorio dà il meglio di sé nelle cene dopo i concerti, quando inizia a raccontare le barzellette, non riesci più a mangiare dalle risate».

In questi anni hai preso parte anche a tour in Giappone, Messico, Russia e Corea. Quali sono le differenze più eclatanti tra il pubblico italiano e quello straniero?

«Questa è una nota dolente. I New Trolls sono conosciuti nel mondo per il loro vero valore, e parlo di due album immensi come Concerto Grosso 1 & 2, in Italia li si associa invece a canzoni come "Quella carezza della sera" e altri brani pop, quelli più ascoltati in radio. Canzoni belle e importanti che non danno però l'idea della grandezza di questa band. I dischi Concerto grosso 1 & 2 sono quelli che hanno dato unicità alla produzione del gruppo. Purtroppo gli italiani sono musicalmente ignoranti ma non è colpa loro».

Oltre alla tua esperienza ne La Storia dei New Trolls, suoni anche con De Scalzi nel progetto "Il suonatore Jones" e con tuo fratello Giorgio in un gruppo tutto vostro. Ce ne parli?

«Sono realtà altrettanto belle. In "Il suonatore Jones" emerge l'armonia musicale a 360° di Vittorio. Il primo disco dei New Trolls, "Senza orario senza bandiera", è un lavoro da 'mosaicista' fatto da Fabrizio De André su poesie del poeta genovese Riccardo Mannerini. Vittorio e Faber erano molto amici, ci sono state varie collaborazioni, e da lì, parecchi anni fa, è nato il progetto di portare in giro rivisitazioni di "Senza orario senza bandiera" con una formazione particolare arricchita da percussioni etniche. Vari pezzi omaggiano i lavori di Fabrizio. È un bellissimo spettacolo! Il gruppo di famiglia invece non esiste. Quando io e Giorgio ci troviamo a Savona ci piace suonare insieme nel tempo libero. E così abbiamo questo gruppo che si chiama "Kicècé" perché non sappiamo mai chi viene a suonare con noi. Purtroppo ci sono sempre meno locali dove suonare e i live non sono più apprezzati come vent'anni fa, colpa della tecnologia».

Tuo fratello Giorgio ti ha da poco raggiunto nei New Trolls diventandone il batterista. Come vi trovate a suonare insieme?

«Domanda inutile come diceva Battisti. Suoniamo e ci troviamo a meraviglia. Non c'è bisogno di guardarci, sappiamo come procedere e divertirci».

In questi dieci anni quali sono stati i momenti che ti ricordi con più piacere?

«Il primo si riferisce al concerto che abbiamo tenuto in piazza Unità d'Italia a Trieste davanti a diecimila persone e di cui abbiamo pubblicato il dvd in "Concerto Grosso New Trolls Trilogy Live". Tra il pubblico c'erano anche i miei genitori, partiti in treno da Albissola, che sono stati ripresi in primo piano dalle telecamere e sono finiti sul video ufficiale della serata. Una sorpresa inaspettata per loro e per me. Poi ricordo con estremo piacere il concerto che abbiamo tenuto a Seul in Corea. Sono entrato in scena per primo, come da copione, e sono stato accolto da un pubblico urlante in stile Beatles. È stata una emozione fortissima, l'adrenalina è salita a mille e i brividi sono corsi dalla punta dei capelli ai piedi. Sono emozioni che trasmettono tanta carica ma nessuna paura. E per ultimo ricordo quando abbiamo registrato due brani insieme alla cantante britannica Sarah Jane Morris. Vederla cantare dietro al microfono in studio e sentire quello che riusciva a fare con la voce mi ha dato i brividi su tutto il corpo. Ho avuto una specie di infarto quando ha iniziato a cantare, è stata travolgente».

Cosa ci puoi dire di nuove uscite discografiche dei New Trolls? Si parla di un disco già pronto che però non può essere pubblicato per problemi contrattuali. Cosa c'è di vero?

«Il disco esiste, è pronto ma non si sa quando potrà uscire. Non dipende da noi».

Nei primi mesi di quest'anno avete portato in scena "Quella carezza della sera", un viaggio tra musica e parole condotto dal giornalista Massimo Cotto. C'è qualche possibilità di vedere pubblicata una di queste interessanti serate?

«Ci si sta lavorando, non so se andrà in porto o meno ma qualcosa bolle in pentola».

Hai mai pensato di pubblicare un album di canzoni tue?

«Da quando ho quattro anni ma adesso mi piacerebbe che qualche mia canzone venisse proposta da un interprete di spessore, e intendo internazionale. Quello sì, mi piacerebbe molto. Posso dire che anche in questo caso ci si sta lavorando, con mille difficoltà».

Recentemente ho intervistato Antonio Gramentieri dei Sacri Cuori e parlando della situazione di crisi del mercato musicale italiano ha esortato le persone a mettere il naso fuori di casa e a guardare qualche concerto in più, magari comprando anche qualche disco. Da componente de La Storia dei New Trolls come vedi la situazione attuale?

«Gramentieri ha ragione. È una situazione disastrosa per colpa della tecnologia. Anche sul versante dei concerti dal vivo ho notato con dispiacere che la gente non riesce a distinguere la musica live da quella proposta da certi personaggi che vanno in giro con le basi registrate, a volte anche male, e che magari fanno anche finta di cantare. Schiacciano un pulsante sulla tastierina e la gente applaude. È anche questo, come dicevo prima, sinonimo di ignoranza. Io ascolto tutti i generi musicali, non mi fisso su uno in particolare, per fare un esempio sarebbe come mangiare sempre minestra quando ci sono altre cose buone da assaggiare. Ogni genere musicale ha le sue emozioni, vibrazioni che bisogna assaporare. La gente invece non lo fa, forse per mancanza di tempo o per pigrizia. Capita di incontrare persone che non conoscono artisti di fama mondiale, è avvilente. Il problema è rappresentato anche dalle radio che trasmettono il prodotto di chi ha più soldi da investire. Propinano i brani che il mercato impone e dopo che senti quindici volte al giorno la stessa canzone alla fine ti piace pure».

Infine il gioco delle dieci domande secche.

- Jogging o palestra? Jogging, se vuoi bruciare i grassi. In palestra diventi grosso quando hai 20 anni, a 40 devi dimagrire.
- Pizza o pasta? Pari, ma sono carboidrati purtroppo.
- Armadio o cabina armadio? Armadio.
- Arancio o blu? Preferisco l'arancio, mi dà più pace.
- Sinistra o destra? Una ha bisogno dell'altra...
- Tony Levin o Cliff Burton? Tony Levin perché ho avuto il piacere di conoscerlo, ha toccato il mio basso. La bravura è fare la nota giusta al momento giusto e lui la sa fare.
- Struffoli o babà al rhum? Struffoli.
- Rambo o Apocalypse now? Apocalypse now, tutta un'altra storia.
- Panorama o L'Espresso? Sono tutti finti.
- Agrodolce o salato? Salato.