Voce, violoncello e una manciata di canzoni che raccontano storie della tradizione del Piemonte rurale e contadino hanno convinto la giuria ad assegnare a Simona Colonna il primo posto nella selezione nord-ovest di "Suonare a Folkest - Premio Alberto Cesa". A Loano, nella Riviera ligure di ponente, la bravura, la simpatia e la capacità di interagire con il pubblico, l'energia della performance e la carica teatrale, oltre a una esibizione tecnica mai fine a se stessa, hanno consentito a Simona Colonna di precedere nella speciale classifica di merito il Laboratorio Permanente Figurelle e i Folkamiseria. Nel corso della serata loanese l'artista piemontese ha presentato le canzoni che fanno parte del cd "Masca vola via", pubblicato due anni fa, e alcuni inediti. Brani che dipingono un quadro sonoro minimale arricchito da storie cantate in lingua piemontese capaci di sedurre e incuriosire l'ascoltatore. Un lavoro innovativo e coinvolgente che ha visto la luce dopo quasi vent'anni di carriera al servizio di tantissimi musicisti, in formazioni e generi musicali molto diversi, e al termine di un percorso esplorativo e di ricerca nell'uso del violoncello e della voce.
La serata di Loano ha permesso ai molti appassionati presenti di conoscere e apprezzare Simona Colonna e a noi di gettare le basi per questa intervista.
Simona, a Loano hai vinto le selezioni di "Suonare a Folkest" contro avversari molto motivati e di qualità. Ti aspettavi questo riconoscimento da parte della giuria?
«Sinceramente no. Speravo in un secondo posto che mi avrebbe comunque spalancato le porte del festival di Spilimbergo ma non pensavo di poter vincere. Ne sono stata felicemente sorpresa».
Nel corso della serata hai presentato i brani del cd "Masca vola via". Come è nato questo disco?
«Dopo vent'anni di carriera passati in giro per il mondo a cantare e suonare, quattro anni fa ho deciso di fermarmi un po' in Italia, a casa mia a Baldissero D'Alba, un piccolo paese del Roero, e dedicare un po' di tempo e attenzione alle mie radici. Così è nato il desiderio di cantare in lingua piemontese alcuni dei profili del mio territorio, tra cui le masche, le storie di emigranti di contadini e altri. Con la canzone "Masca vola via" ho vinto il Biella Festival nel 2011 e il premio prevedeva, oltre a un contratto per un anno con un ufficio stampa di Roma, l'"Alfa Prom", anche una piccola partecipazione economica per un progetto in corso ed ecco che il mio cd si è materializzato. Ho unito le mie forze artistiche e finanziarie a questo fortunato concorso ed eccomi qua con "Masca vola via", cd che sto proponendo ormai da due anni in giro per il mondo».
Il tuo approccio alla musica tradizionale non è certo convenzionale. Come mai hai scelto di utilizzare violoncello e voce per presentare le tue canzoni?
«La voce è l'emanazione diretta dell'essere umano e del mondo. E il violoncello assume la stessa funzione tra gli strumenti. Ecco qua la risposta: due cose vere in un unico risultato sonoro».
Nei cinque brani del disco racconti un Piemonte del passato fatto di leggende, personaggi bizzarri della tradizione contadina, briganti. Chi o che cosa è stata la tua fonte di ispirazione?
«La mia fonte sono i ricordi. I miei nonni che mi raccontavano le loro tradizioni, un sacco di aneddoti interessanti e al tempo stesso divertenti, insoliti ma veri. Poi, la lingua piemontese che continuo a parlare con chi ancora la parla. E poi mi piace raccontare e attraverso la musica e le parole dei brani lo si può fare in modo così coinvolgente e interessante».
Simona Colonna a Loano. Foto di Martin Cervelli
Se da una parte i testi e le storie richiamano la tradizione non altrettanto si può dire della musica che abbraccia il classico contemporaneo e anche il jazz…
«È vero. Credo sia indispensabile guardare avanti, senza dimenticare però il passato e le radici. E allora perché non mischiare generi contemporanei, armonie moderne che possiamo trovare nei generi pop e jazz con ricordi e parole del passato? Io credo che funzioni, ne sono fermamente convinta! Per me la cosa è geniale. Quindi, credo che possa piacere questo mix di tante variegate sfumature se proposte in modo elegante e divertente».
Al giorno d'oggi pensi che in Italia sia ancora possibile tramandare le tradizioni popolari fuori dai centri di provincia? Mi spiego meglio con un esempio: le storie che racconti troverebbero terreno fertile in una metropoli come Torino?
«Penso di sì. Penso che sia solo il modo e le persone che fanno la differenza. Non è semplice attrarre l'attenzione del pubblico, delle persone, specialmente al giorno d'oggi dove tutto è veloce e superficiale, ma se proponi in maniera accattivante e genuino e, specialmente, in modo competente il pubblico ascolta. È più faticoso per l'artista arrivare a questo risultato ma sicuramente anche più interessante e appagante, non trovi? È così in tutte le cose della vita».
Trovo che sia molto interessante la scelta fatta di presentare nel libretto allegato al cd i testi delle canzoni tradotti in italiano e inglese. Ma non pensi che cantare in piemontese possa a lungo andare essere un limite?
«A mio avviso non è assolutamente un limite, anzi penso sia un punto in più a favore di chi lo fa. Basta trovare la formula giusta. Per come la penso io, la lingua, che come la musica è comunicazione, ha solo bisogno di bravi propositori e interlocutori. Io non faccio solo musica in piemontese ma anche! Quindi racconto cantando di quello che so attraverso i miei linguaggi».
Quando si parla di musica tradizionale del Piemonte si pensa subito alla scuola Occitana. La tua musica però non si colloca in tale ambito a dimostrazione di una cultura molto più variegata di quello che si possa immaginare. Quali sono le tante anime che compongono la tradizione musicale della regione e con quale ti senti più in sintonia?
«Mi definisco un'anima camaleontica perché amo stare in mezzo a persone che hanno differenze di cultura, di formazione e nelle vita stessa quindi non mi sento più in sintonia con un parte o l'altra. Sto bene perché sono curiosa e quindi abbraccio più generi, più linguaggi e più suoni possibili. Anzi, se posso cambio, cambio ma le radici sono profondamente legate alla mia terra e mai lo rinnego. Il risultato è il mio modo di essere artista».
Quali sono i tuoi prossimi progetti artistici?
«Difficilissima domanda. Vorrei incontrare Peter Gabriel e cantargli "Masca vola via" e sono seria, ma più concretamente sto scrivendo, scrivendo e scrivendo nuova musica. Sto finendo una collaborazione importante con Rai World per un programma dal titolo "Community" che mi ha dato modo di reinterpretare le più belle canzoni italiane del nostro patrimonio per voce e cello. Chissà, magari pubblicare un nuovo lavoro discografico che unisca qualche brano di questi e qualche cosa di mio, ancora non so… Ma i progetti che mi stanno più a cuore sono i concerti. Il live offre a tutti emozioni da pelle d'oca che vanno assolutamente provate, non pensi? Cerco di propormi per cantare e suonare la mia opinione sulla musica e che il linguaggio sia bianco, nero, jazz classico o folk non ha importanza. Importante è l'anima attraverso i suoni».
Titolo: Masca vola via Artista: Simona Colonna Etichetta: autoproduzione Anno di pubblicazione: 2012
Tracce
(testi e musiche di Simona Colonna)
1. Bacialè
2. Masca vola via
3. Ninnaoh
4. Portme via da si
5. Brigante Stella
"Qualcuno stanotte" è il frutto dell'incontro tra il cantautore fiorentino Massimiliano Larocca e Antonio Gramentieri, chitarrista romagnolo nonché produttore e leader dei Sacri Cuori. Il disco segna il ritorno sulle scene di Larocca con un album a suo nome dopo molti anni di assenza. Era il 2008 quando fu pubblicato "La breve estate", il secondo disco dopo "Il ritorno delle passioni" del 2005. In questo arco di tempo il musicista fiorentino è stato uno dei protagonisti del progetto Barnetti Bros Band insieme a Massimo Bubola, Andrea Parodi e Jono Manson (il disco "Chupadero!" ha visto la luce nel 2010) e di The Dreamers con Paolo Benvegnù, Riccardo Tesi ed Erriquez (il disco "The Dreamers" è uscito nel 2012). Con questo nuovo lavoro, "Qualcuno stanotte", Larocca si allontana dai suoni roots e dalle suggestioni a tratti folk delle precedenti testimonianze discografiche per abbracciare sonorità rock, a volte più corpose in altre occasioni più scarne. Per compiere questo balzo in avanti Larocca si è avvalso della collaborazione di Antonio Gramentieri e dei componenti dei Sacri Cuori che hanno suonano nelle tracce del disco. La musica "cinematografica" dei Sacri Cuori ha portato nuova linfa e vitalità alla poetica urbana di Larocca che ha firmato dieci delle dodici tracce presenti nel cd.
La voce profonda di Larocca si sposa con testi che descrivono esperienze intime e di vita quotidiana in un susseguirsi di fotografie di "amore e salvezza". E' un disco che cresce alla distanza e che contiene una manciata di canzoni di spessore che sono destinate a rimanere a lungo. Un lavoro che funziona e che evidenzia come il percorso artistico di questo cantautore sia in grado di offrire ancora gradevoli sorprese.
Con Massimiliano è stato piacevole conversare di musica e suggestioni e quello che segue è un sunto di quella serata.
Sono passati sei anni dal tuo ultimo disco solista e quattro dal progetto della Barnetti Bros Band. Cosa hai fatto in tutto questo tempo?
«In questi anni ho lavorato con la musica in una maniera per me nuova e diversa. Mi sono impegnato a sviluppare progetti, che è poi stato anche il cammino che mi ha portato a lavorare con i Sacri Cuori. A livello discografico non è vero che sono rimasto totalmente fermo. L'anno scorso ho curato personalmente la realizzazione di un progetto, chiamato The Dreamers, che ha visto coinvolto un gruppo di ragazzi diversamente abili di Firenze. Insieme a Paolo Benvegnù, Riccardo Tesi ed Erriquez della Bandabardò abbiamo tenuto un laboratorio di scrittura di canzoni a cui hanno partecipato una trentina di ragazzi cosiddetti diversamente abili, che poi da un punto di vista creativo sono molto più abili rispetto a tanti altri. Abbiamo fatto una serie di concerti tutti insieme, abbiamo registrato questo disco. E' stata una esperienza molto bella. La musica è sempre stata quindi il mio strumento ma l'ho usata in maniera diversa, in diversi progetti ed è quello che in questo momento mi piace fare. Mi sono anche concentrato a fare promozione culturale a Firenze. Quest'anno al teatro Alfieri ho curato una rassegna che si chiama Storytellers a cui hanno partecipato anche Hugo Race, Robyn Hitchcock, Chris Eckman. E' andata molto bene».
Come è nata la collaborazione con Antonio Gramentieri e i Sacri Cuori?
«Ci conosciamo da dieci, quindici anni, non ricordo. Ma quando ci siamo conosciuti i nostri percorsi artistici erano veramente molto lontani. Era impensabile trovare un punto d'incontro. Ci sono voluti più di dieci anni per realizzare che un terreno comune l'avevamo. Siamo partiti da strade molto diverse. Io vengo dai cantautori italiani, dal rock americano degli anni '60-'70, quello che mi piace definire con l'espressione rock romantico, mentre Antonio ha fatto un percorso più da musicista anche se ha sempre lavorato a stretto contatto con la canzone. La mia terra d'elezione si è sempre divisa tra New York e il Texas, Antonio guardava all'Arizona dei Calexico, ai Giant Sand, a Steve Wynn. Questo è stato un po' il suo orizzonte che si è arricchito strada facendo anche di elementi insospettabili come la musica folk della Romagna, quindi il liscio. Io partendo dal rock romantico lungo la strada ho incontrato i cantautori italiani, il folk e certe radici della tradizione italiana».
Chi tra i due si è avvicinato di più all'altro?
«Io sicuramente, o meglio io mi sono avvicinato ad Antonio quando ho avuto veramente qualcosa da proporgli. Per il resto l'ho seguito perché il progetto Sacri Cuori mi è piaciuto fin dall'inizio e poi perché lo vedevo suonare con artisti che amo, Hugo Race ma anche Dan Stuart e molti altri».
Eppure un po' di anni sono passati da "La breve estate"...
«In questo mio percorso sono stato fermo tanti anni perché aspettavo una sorta di illuminazione, non volevo fare un disco come il precedente. L'ho sempre considerata la fase uno della mia carriera e la reputavo finita. Cercavo il punto di partenza per una seconda fase».
Dal punto di vista musicale cosa ti ha regalato l'incontro con i Sacri Cuori?
«Essenzialmente ha cambiato il mio modo di pensare la musica. L'avevo messo in preventivo, anzi sono andato a cercare Antonio essenzialmente perché volevo rovesciare le mie categorie. Fino a questo momento fare musica per me significava scrivere belle canzoni, tirarne fuori la bellezza e il romanticismo. Inoltre lavorando sulla musica elettro-acustica, il lavoro nei miei dischi precedenti era volto a restituire il suono nella maniera più fedele possibile. Invece, per riallacciarmi al discorso di prima, con i Sacri Cuori ho voluto iniziare la fase due in un modo nuovo e cambiare un po' il modo di fare musica».
Cosa hai cercato in questa collaborazione?
«Due cose mi sono sembrate particolarmente stimolanti nei Sacri Cuori e di conseguenza nella poetica sonora di Antonio Gramentieri, che è un po' la punta dei Sacri Cuori. La prima la spiego identificando la band come una sorta di organismo capace, mantenendo la propria essenza e identità, di allungarsi, dilatarsi, cambiare a seconda con quali altri organismi interagisce. Quando i Sacri Cuori suonano con un musicista è come se si scatenasse una reazione chimica dando vita a una nuova entità e questo contrasta con la cultura del musicista italiano che è prevalentemente un turnista impegnato a svolge il lavoro senza influenzarlo. Questa "officina sonora" in Arizona, a partire da Howe Gelb, è sempre esistita. Ero interessato a vedere quale poteva essere la reazione chimica che poteva scaturire dal mio incontro con i Sacri Cuori. La seconda è stata la voglia di cambiare le mie categoria musicali: non solo per quanto riguarda il suono, la canzone e la scrittura ma anche per l'idea di musica come ambiente. Nella musica dei Sacri Cuori è presente, infatti, una visione cinematografica che procede per immagini e suggestioni. Due cose che alla fine ho trovato in questa collaborazione».
Fabbriche, strade, uomini perdenti. Ci sono tutti gli ingredienti di una storia noir dedicata ai "loser" della tradizione cantautorale americana. Sei d'accordo?
«Non solo della tradizione americana, abbiamo ottimi esempi di chi ha cantato gli ultimi anche in casa nostra. Però sì, è vero che in ogni mio disco c'è una letteratura di riferimento in filigrana. La mia ambizione, per quanto possibile, è di essere letterario nella canzone. Rispetto a questo disco c'è anche una iconografia cinematografica, che è quella legata al mondo noir in bianco e nero. Però quando mi è stato chiesto di spiegare questo disco ho preferito definire le canzoni di amore e salvezza. E per me dire canzoni d'amore è una cosa senza precedenti, anche in questo c'è stato un bello scarto rispetto al passato».
In più di un episodio del disco ho ritrovato echi della produzione springsteeniana. A cominciare dal nebraskiano "Scarpe di lavoro" che mi ha ricordato "State trooper". Springsteen è uno dei tuoi punti di riferimento?
«Assolutamente sì. Ci sono canzoni la cui scrittura può tradire delle influenze della produzione di Springsteen come di molti altri, Dylan e Van Morrison in testa. "Scarpe di lavoro" è una sorta di blues un po' alla Los Lobos. Con quel ritmo ossessivo e quel riff dritto, quasi asettico. Il brano è un buon esempio di come una canzone scarna si trasformi passando attraverso vari filtri, ultimo dei quali, il più importante, è quello rappresentato dalla band. E quello che passa dalle mani dei Sacri Cuori ne esce sempre trasformato».
Cosa ti ha spinto a proporre una versione della canzone dei Gaslight Anthem "Blue jeans & white t-shirt"?
«Non ci sono particolari motivi se non che quella canzone mi piaceva veramente tantissimo, tra l'altro l'ho scoperta per caso e devo anche confessare che non sono un fan sfegatato dei Gaslight Anthem. Però quella canzone mi ha colpito subito e mi sono trovato a tradurla quasi per caso. Tratta un tema che nelle canzoni mi ha sempre toccato e commosso, che è quello dell'adolescenza e comunque delle grandi promesse dell'adolescenza. Quando siamo adolescenti ci si sente in grado di fare grandi promesse senza sentirsi bugiardi, poi questa innocenza la perdi e quando da adulto fai grandi promesse sai di essere un po' bugiardo. E forse questo è l'aspetto che mi ha sempre affascinato dell'adolescenza. Per me quella canzone è una fotografia incredibile della grande magia di quel periodo della vita. E' un tema che nel disco c'è e si lega ai miei ricordi da adolescente nel quartiere fiorentino in cui sono cresciuto; ci sono dei riferimenti personali che tra l'altro si amalgamano bene con la letteratura di cui parlavo prima».
Strade perdute" è la tua "Drive all night". Dove ti portano queste strade?
«Strade perdute è anche la mia "Madame George". Ho sempre amato queste lunghe canzoni dove alla fine quello che dava la dinamica alta-bassa, pieno-vuoto, erano sempre la voce e le parole. Volevo fare una canzone di questo tipo, dove la fine non termina mai. "Strade perdute" rientra in una certa tipologia di canzoni d'amore che sono presenti in questo disco, almeno in due episodi. "Strade perdute" sono tutti i grandi amori della vita che non si realizzano».
Nel disco c'è anche la canzone d'amore "Ti porto con me". Qual è il messaggio di questo brano?
«E' dedicata alla mia ragazza, Giulia. La capacità di parlare dei sentimenti o semplicemente della mia vita, direttamente senza filtri, mediazioni, senza utilizzare altri personaggi, è assolutamente una cosa nuova per me, è forse il più bel traguardo che ho raggiunto negli ultimi anni. "Ti porto con me" è una semplicissima canzone d'amore che dice una verità e meritava che non rimanesse nascosta».
Quanto c'è di autobiografico quindi nelle canzoni di questo disco?
«E' un disco veramente personale e non solo e non tanto perché ci sono pezzi di vita qua e là. Ci sono molte canzoni con riferimenti all'adolescenza, al quartiere in cui sono cresciuto. In "Nella città degli angeli" racconto alcune storie e parlo di certi personaggi che vivevano nella Firenze di metà anni '80, primi anni '90. Li vedevo in quel quartiere di periferie, Rifredi, dove c'era la grossa piaga dell'eroina che all'epoca si trovava dappertutto, anche sotto i sassi, e il mio quartiere ne era infestato. Vedevo ragazzi più grandi di me che si bucavano davanti a casa mia. Ho voluto raccontare Firenze, la mia Firenze come fosse una grande metropoli. Le cose personali sono anche molto più sottili della storia d'amore o dei ricordi dell'adolescenza. Sicuramente il rapporto uomo-donna ha un grosso peso. "Invisibili" e "Sottomondo" analizzano la luce e le ombre di un rapporto di coppia, d'amore».
Scommetto che le atmosfere da film western di "Le luci della città" sono di marca Sacri Cuori. E' così?
«Dici bene, è il brano che sembra più Sacri Cuori degli altri anche se era una canzone nata come una sorta di blues notturno metropolitano e loro lo hanno contaminato. E' un altro esempio di come quello che alla fine ha concorso a dare vita a questo disco siano state le tante identità, le tante suggestioni che hanno trovato insospettabilmente un terreno comune nelle canzoni».
Un netto stacco musicale si ha con "Invisibili", canzone scritta a quattro mani con Gramentieri e interpreta con chitarra e due voci. Come è nata e perché hai deciso di inserirla?
«Questa canzone non esisteva, avevo presentato ad Antonio le altre undici che avevo scelto per il disco. Avevamo iniziato il mix, quindi il disco era finito, però un giorno Antonio mi ha detto che nel disco mancava una canzone da un minuto e mezzo. Lì per lì non l'ho preso molto sul serio, non ho capito cosa volesse dire. Abbiamo finito quella giornata di lavoro e ci ho ripensato. Quella notte ho cercato in tutti gli archivi e ho provato a ricordare se avessi qualcosa del genere ma non ce l'avevo. Il giorno dopo ci siamo rivisti e ho detto ad Antonio che non avevo una canzone così. Allora gli ho chiesto se aveva una melodia carina su cui lavorare. E così mi ha mandato sul telefono questa melodia che aveva registrato in casa, suonata con la chitarra percussiva, come si sente poi nella registrazione. Il giorno dopo sono tornato da lui con il testo e l'abbiamo registrata seduti intorno a un microfono aperto con Antonio alla chitarra classica e due voci. L'abbiamo registrata così, infatti si sente che è un po' sporca sembra quasi presa per caso. Quando l'ho sentita finita ho capito e ti assicuro che se non ci fosse stato quel minuto e mezzo sarebbe stato un altro disco. Crea quella discontinuità che in un disco del genere è fondamentale affinché il cerchio si chiuda».
E' stato il colpo da novanta del produttore…
«Gramentieri lo considero un grande produttore, non tanto e non solo per gli arrangiamenti e le idee ma perché solo un grande produttore ti vien fuori con queste idee. E ripensando mi viene in mente l'episodio che mi ha citato Antonio e che credo sia descritto da Dylan in "Chronicles" e cioè che nel corso della registrazione dell'album "Time out of mind" Daniel Lanois abbia detto a Dylan che mancava una canzone d'amore. Quasi litigarono ma alla fine Dylan pare abbia scritto in cinque minuti "Make you feel my love". Sono cose belle che succedono quando lavori con i grandi produttori che sanno come tirare fuori il meglio dagli artisti».
Hai scelto una copertina old style, ricorda quelle della mitica Blue Note, e trasmette il senso del viaggio. Un piccolo film, di provincia...
«Volevo che quel mondo, quell'iconografia, quella letteratura di riferimento fosse ben chiara. Volevo che vendendo la copertina le persone sapessero il film che andavano a vedere. Il riferimento al noir o alla Blue Note con il caratteristico blu elettrico aumentano l'aspetto cinematografico. La foto e tutta la storia che si racconta graficamente possono riferirsi a tutte le canzoni del disco ma in particolare a "Strade perdute", che termina con questa donna che prende un treno senza destinazione».
Il disco lascia aperta la porta alla salvezza con "Dopo il diluvio". Qual è la formula per uscire dalla tua "City of ruins"?
«L'idea è proprio di chiudere il disco con una canzone che trasmetta il messaggio di salvezza e quindi quale migliore musica del gospel, seppur molto edulcorato, per restituire questa idea? In questo disco la salvezza può essere rappresentata dalle storie che si raccontano, dal fatto che ogni vita è unica senza precedenti. Credo che alla fine chi ascolta il disco possa scegliere di portarsi con sé una o più storie fra le tante, personali o impersonali non fa differenza, che sono raccontate. Una bella storia se te la porti dietro tutta la vita penso che sia sempre fonte di conforto e consolazione e quindi anche di salvezza».
Il sound dei Sacri Cuori è inconfondibile, lo porterai anche in tour?
«Insieme abbiamo tre date tra aprile e maggio, poi vediamo per l'estate. Quando ci sarà modo e occasione le si faranno. Quando invece non sarò con loro farò in modo che quello che è nato sul disco non sia un limite. Gli arrangiamenti di queste canzoni penso che siano molto aperti, che dicano tanto ma che non dicano tutto. Ognuna di queste canzoni poteva essere sviluppata ancora di più. Proverò a catturare dal vivo, in una formula diversa da quella presentata con i Sacri Cuori, quel margine di ancora non detto che si cela in ogni canzone. Portando però con me quella che è stata la cosa più importante di questa esperienza con loro, cioè il modo diverso di pensare la musica. Credo alla fine di questo disco di aver fatto un salto in avanti come musicista e cantante ed era quello che andavo cercando».
Titolo: Qualcuno stanotte Artista: Massimiliano Larocca Etichetta: Brutture Moderne/Audioglobe Anno di pubblicazione: 2014
Tracce
(testi e musiche Massimiliano Larocca, eccetto dove indicato)
01. Angelina
02. Scarpe di lavoro
03. Le luci della città
04. Magnifici perdenti
05. Strade perdute
06. Sottomondo
07. Invisibili [Massimiliano Larocca e Antonio Gramentieri]
08. Piccolo eden [Gaslight Anthem, adattamento in italiano Massimiliano Larocca]
09. Interludio: Il Grande Caldo
10. Nella città degli angeli
11. Ti porto con me
12. Niente amore (in questa città)
13. Dopo il diluvio
Una storia di provincia cantata da chi la provincia l'ha vissuta al numero uno di Vicolo Riccardi. Si intitola proprio "Vicolo Riccardi n°1" il nuovo disco di Ugo Cattabiani pubblicato in questi giorni per Rigoletto Records. Il cantautore originario di Parma, al secondo album solista dopo "Il cortigiano" del 2011, ha voluto raccontare le emozioni, le storie e i ricordi degli anni vissuti in quella piccola abitazione, stretta in un vicolo dove poco accadeva ma che tanto ha trasmesso dal punto di vista emotivo. Canzoni che descrivono la dicotomia tra la voglia di andare, di lasciare il vicolo che per sua natura non si apre al mondo, e l'impulso a rimanere in un luogo sicuro e conosciuto ma intriso di rimpianti per le occasioni mancate.
Un album eterogeneo che vede alternarsi ritmi rock a ballate dal piglio blues, fino a una sorprendente incursione nella bossa nova. Il tutto legato a testi ricercati, nella migliore tradizione della canzone d'autore a cui Cattabiani non si sottrae. Al disco, registrato allo studio Macchina Magnetica di Romeo Chierici con la produzione artistica di Max Scaccaglia (anche al basso), hanno contribuito Alessandro Aldrovandi e Gigi Cavalli Cocchi alla batteria, Daniele Morelli alla chitarra, Federico Del Santo, Gabriele Fava al sax, l'Oscar Abelli Quartet, Beppe Di Benedetto al trombone e Alessia Galeotti, voce in "Vicolo Riccardi".
Con Ugo Cattabiani abbiamo parlato del vicolo e delle sue storie.
Abitare in Vicolo Riccardi è stata una esperienza che ha lasciato il segno?
«Il segno è rimasto come possibilità di utilizzare e stravolgere il dato biografico. Certo, abitare nel Vicolo è stata un’esperienza importante, ma di cose – laggiù – ne sono accadute ben poche. L’evento decisivo è stato l’abbandono del Vicolo per trasferirmi altrove: essermene andato mi ha consentito di guardare a una porzione di vita con la giusta dose di rimpianto».
In quale periodo della tua vita è capitato?
«Avevo da poco compiuto trent’anni. Mi guardavo attorno per capire se sarei riuscito a conciliare uno stile di vita da artista con la normale routine lavorativa. In quel periodo ero convinto di farcela, e in un certo senso ce l’ho fatta: avevo un impiego quasi regolare che non mi faceva troppo pesare l’assenza di introiti come musicista. Nello stesso periodo ho scritto le canzoni che poi ho pubblicato nel mio primo album "Il cortigiano". In realtà stavo covando una forte insofferenza verso un compromesso che mi andava sempre più stretto».
Nella prefazione al disco esprimi tutta la tua nostalgia per uno stile di vita umile e dimesso. Come te la immagini la vita?
«La vita non me la immagino affatto. Col passare del tempo ho imparato a prendere quello che viene e a non desiderare il successo altrui. Posso azzardare questa affermazione: rinunciando al compromesso di un’esistenza sdoppiata tra musica e lavoro fisso, mi sono impossessato completamente della mia vita. Non ho paura di fallire: anche il fallimento, come il successo, non significa nulla. Però non posso impedirmi di rimpiangere un certo tipo di equilibrio che avevo raggiunto allora. Anche i soldi, ogni tanto, fanno comodo».
Dici anche di aver mancato ‹l'agognato approdo›. Qual è ora la tua rotta e quale il porto più vicino?
«Lo dico nella prefazione al disco, in riferimento a quest’immagine di Ulisse vagante per le notti di periferia. Ulisse, forse, avrebbe preferito approdare in una terra di successo, mandando in patria messaggeri che annunciassero la sua felicità, vera o presunta. C’è senz’altro il rammarico di aver sprecato tanto tempo nelle direzioni sbagliate; d’altro canto, senza l’esperienza accumulata nel viaggio, non si potrebbe apprezzare il conseguimento di un qualsivoglia obiettivo. Ecco, sento che la rotta non poteva che riportarmi qui, nella mia terra, dove riesco a usufruire di quel poco che ho costruito nonostante lo sbandamento».
La provincia è ancora un posto dove vivere e far musica?
«Ci sono musicisti che hanno spalancato le porte della bellezza possibile anche in provincia. Penso a un Guccini, a un Capossela, ma anche a un Paolo Conte. Si scrivono grandi canzoni su piccole cose che succedono ovunque. Tutto sta nell’offrire una chiave di lettura non convenzionale, ovvero nello spostare il punto di vista. Non bisogna fraintendere: la vita ha dignità ovunque, così come l’esercitare un mestiere non può assumere un peso specifico maggiore in base alla residenza. La difficoltà oggettiva sta nella maglia del cosiddetto “giro” o circuito di contatti-conoscenze-opportunità che in provincia ha una trama più allargata rispetto a una grande città. In termini lavorativi, la provincia probabilmente penalizza l’artista; da un punto di vista artistico, è un posto bellissimo dove vivere».
Mi pare di capire che ti consideri ‹fuori tempo massimo›. Per cosa?
«Per fare quello che adesso so come potrei fare, mentre prima non lo sapevo affatto. Da ragazzi si vive di intuizioni, oltre ad affidarsi alla magia delle suggestioni. Si possiede l’energia, l’incoscienza molto utile a infrangere certi tabù, tra cui quello del dover vivere – coccolati e al sicuro – sullo stesso lembo di terra in cui si è nati. Oggi ho capito che nessuno è mai al sicuro, soprattutto se giovane, perché l’età esige l’esperimento, lo smarrimento e il ritrovarsi a un livello superiore di coscienza. Artisticamente parlando, mi sarebbe piaciuto ritrovarmi tanti anni fa da un’altra parte, in un altro luogo, più forte e indipendente. Tutto questo non conta più, oggi, per me. Ma continuo ad avvertire la fatica di un percorso che avrei potuto alleggerire già tempo fa».
Un disco, un racconto di provincia intriso di rimpianti ma molto ricco dal punto di vista musicale. Spazi dal rock con richiami ai Litfiba (il cantato di "L'interno") a Bob Dylan (l'incipit di "Blues dell'addio"), al blues fino alla bossa nova ("Vicolo Riccardi"). Perché tutta questa eterogeneità di generi?
«Posso supporre che la cosa derivi dalla totale libertà che concedo all’ispirazione. Non ho mai deciso a tavolino che tipo di musica comporre; o meglio, continuo a sognare di scrivere un’opera lirica o una sinfonia o un concerto jazz per big band (se ne avessi le competenze, ci proverei pure). Confesso l’eterogeneità dei miei ascolti, anche se non mi considero onnivoro. Quando un disco non mi piace, lo tolgo dopo 30 secondi: cosa che succede più facilmente con il pop italiano, con il folk dialettale, con il metal e con il rap (ma anche qui ci sarebbe da stendere una lunga lista di eccezioni). Non sono un integralista né della separazione né della commistione a tutti i costi dei generi. Mi piace la ricchezza del linguaggio, la varietà di situazioni, lo scarto tra atmosfere limitrofe: un antidoto contro la noia».
Ci sono stati ascolti particolari che hanno influenzato le sonorità di "Vicolo Riccardi n°1"?
«Se facessi un elenco dei miei ascolti più recenti, anche in virtù di quanto appena detto, non risulterebbero nessi logici con le sonorità del disco. Alcune reminiscenze vengono da molto lontano, altre si collegano a studi musicali (il Real Book, bibbia degli standard jazz) poi abbandonati. Senz’altro ho un debito di ispirazione con il grande rock e con il grande cantautorato, quello che abbiamo ascoltato tutti; sono un patito di Jimi Hendrix e dei Led Zeppelin (prima di venderle, avevo una Fender Stratocaster e una Gibson Les Paul); ho amato i Doors, Vinicio Capossela e Fabrizio De André; sono tuttora innamorato di Francesco Guccini e alla follia di Piero Ciampi. Dylan è ancora capace di incantarmi, anche senza andarmi a leggere i testi (che poi, oggettivamente, sconvolgono, ma se non fossero cantati così…). Ci sono poi tantissimi nomi che hanno offerto qua e là il loro sapiente insegnamento (Tom Waits e Robert Johnson fra tutti). Cosa c’entra tutto questo con le sonorità del disco? Ahimè, non lo so. Il passato e il presente, la musica leggera e quella classica, il blues e il country, l’italiano, l’inglese e l’americano sono una matassa difficilmente districabile».
Nel disco è ospite Gigi Cavalli Cocchi, musicista che non ha bisogno di presentazione avendo suonato con molti dei più grandi della scena prog italiana e internazionale. Come è avvenuto questo incontro?
«Gigi l’ho conosciuto tramite Romeo Chierici, titolare dello studio "La macchina magnetica" in provincia di Reggio Emilia presso cui ho registrato il disco. Le cose sono andate come vanno in questi casi: si parla del più e del meno, il discorso cade inevitabilmente sulla musica, si finisce per collaborare. È stato un grande onore che Gigi abbia accettato di suonare la batteria su uno dei pezzi più rock del disco, "Fitzgerald". Non riuscivo a smettere di pensare, mentre lo guardavo dietro il vetro della sala riprese, che era lo stesso batterista che avevo ammirato da ragazzino quando accompagnava il Liga nel tour di "Sopravvissuti e sopravviventi", un album che ho consumato a forza di ascolti. Gigi è un artista a 360°, anche grafico e produttore, aperto a ogni genere musicale. Siamo diventati amici perché - da persona squisita qual è - ha azzerato immediatamente il divario tra un "grande" come lui e un "piccolo" come me. Ha anche supervisionato la compilation "Volume 2" firmata Rigoletto Records, il collettivo di cantautori parmigiani di cui faccio parte. Continuiamo a sentirci, senza smettere di progettare per il futuro».
Che cosa rappresenta "Vicolo Riccardi n°1" nel tuo percorso artistico?
«È un disco che mi ha dato del filo da torcere. Non per la realizzazione, ma per il senso di responsabilità che ho provato nel licenziarlo. Venivo da riscontri più che positivi nei confronti del mio precedente lavoro, "Il cortigiano", nato senza troppe pretese e segnalato nel 2012 dal Club Tenco come "proposta interessante". Mi ero messo in testa che non potevo deludere le aspettative. Con questo pensiero, dopo sei mesi dalla fine delle registrazioni, non osavo pubblicare il nuovo disco. Sembrerà assurdo, ma fino a quel giorno la musica era stata per me la cosa più naturale del mondo: suonavo, scrivevo canzoni e non mi aspettavo niente da quello che facevo. Coltivavo l’ambizione con un pudore molto simile al disincanto. Al primo riscontro come cantautore, sono andato in cortocircuito. Mi ci è voluto un po’ di tempo per tornare a inquadrare serenamente il mio mestiere: ora so che devo continuare a farlo per me stesso, come l’ho sempre fatto, cercando di comunicare con il mio pubblico, vasto o esiguo che sia».
Riascoltandolo pensi che avresti potuto cambiare qualcosa?
«Cambierei tutto! Che è come dire: è perfetto così. L’ho riascoltato talmente tante volte per capirne i difetti, che mi sono affezionato a quei difetti. Arriva il momento in cui la creatura deve staccarsi dal creatore e affrontare il mondo con le proprie gambe. Tanto dal vivo lo stravolgo a piacimento! Una cosa che non cambierei mai e poi mai è proprio questa idea di libertà creativa che mi sono sforzato di comunicare ai musicisti che hanno registrato in studio: io vi do la traccia, voi la interpretate a piacimento. Le canzoni hanno subìto un trattamento in fase di pre-produzione sotto la guida di Max Scaccaglia, che ha curato anche le linee di basso; poi si è aggiunta la batteria di Alessandro Aldrovandi, il sax di Gabriele Fava, le chitarre di Federico Del Santo e di Daniele Morelli. Grazie al loro contributo, la musica è cresciuta in maniera esponenziale, molto al di là delle mie aspettative. Infine, sono arrivate le collaborazioni a impreziosire il risultato finale: Alessia Galeotti alla voce in "Vicolo Riccardi", Beppe Di Benedetto al trombone ne "Lo scioperato", l’Oscar Abelli Quartet nel "Blues dell’addio"».
Qual è la tua dimensione live preferita: da solo o con la band?
«Faccio di necessità virtù. Fosse per me, suonerei ogni volta con la band al gran completo: la musica ne trae beneficio e io mi diverto come un matto. Li ho citati poc’anzi, gli straordinari musicisti con cui ho collaborato. Tutti professionisti che sanno il fatto loro. Purtroppo - vuoi per gli ingaggi al lumicino, vuoi per le location - non sempre posso permettermi un così sontuoso accompagnamento. Perciò mi muovo spesso in formazioni ridotte (duo o trio acustico) o anche da solo. Ad essere sincero, non mi dispiace affatto interpretare le mie canzoni in maniera minimale chitarra e voce: c’è più spazio per raccontare le storie da cui sono nate, ricreando un’atmosfera di complicità tra artista e pubblico. Non è facile intrattenere con così pochi mezzi, ma è una sfida a cui un cantautore non può sottrarsi».
Quali sono i tuoi prossimi progetti oltre alla promozione del disco?
«Eh, i progetti sono davvero tanti, sia come Ugo Cattabiani che come membro della Rigoletto Records (guardate un po’ il sito www.rigolettorecords.com e capirete che si tratta di un continuo work in progress) per cui l’unica certezza del presente è che c’è tanto da lavorare. Amo ciò che faccio e sono felice di poterlo fare, nonostante le oggettive difficoltà che incontra chiunque s’impunti a trasformare in realtà dei progetti artistici. Per ora mi sto dedicando a quello che ho chiamato Vicolo Cieco Tour ovvero una serie di concerti e showcase promozionali del nuovo disco: l’idea è quella di un tour piccolo piccolo, nelle province limitrofe di Parma, Reggio Emilia e Modena, con qualche scorribanda estemporanea in città più lontane (a maggio sarò a Genova). Inoltre, con il collega cantautore Rocco Rosignoli e il regista Luca Vitali, stiamo realizzando un docufilm, dal titolo "Trobàr - Viaggio alla ricerca della canzone", attraverso il sistema di finanziamento denominato crowdfunding: con il contributo dei nostri futuri spettatori, cui verrà corrisposta una ricompensa, contiamo di macinare più chilometri possibili su e giù per l’Italia raccogliendo testimonianze di artisti affermati, giornalisti di settore e critici musicali (http://trobar-doc.blogspot.it/?m=0)».
Come dicevamo il tuo disco è stato pubblicato da Rigoletto Records, di cui tra l'altro sei il presidente. Qual è il vostro progetto come casa discografica e quali artisti producete?
«La Rigoletto Records non è una casa discografica (perlomeno non la è ancora) bensì un’associazione culturale composta da musicisti e cantautori operanti tra le province di Parma e Reggio Emilia. Il nostro intento è quello di valorizzare e promuovere il patrimonio della canzone d’autore, declinata nelle sue infinite forme, attraverso iniziative culturali, concerti, rassegne e la pubblicazione discografica. Siamo nati ufficialmente nel 2012 e da allora siamo cresciuti come presenza sul territorio. Non possiamo ancora permetterci di produrre artisti esterni all’associazione; la Rigoletto Records si limita a sostenere i progetti discografici dei soci, fornendo servizi quali ufficio stampa e promozione sul web».
Altri dischi quindi in un mercato sempre più saturo. Non pensi che la situazione sia troppo intricata?
«La situazione per certi versi è grottesca: ci si ostina a stampare dischi che rimarranno, nella migliore
delle ipotesi, invenduti; nella peggiore, inascoltati. Tuttavia non si può continuare a ragionare in termini di mercato. Il mercato è solo una parte di questa intricata faccenda. Penso che la canzone cosiddetta d’autore debba ritrovare la sua identità, tornando a farsi interprete delle istanze di un pubblico comunque vivo, presente, disposto a seguire i concerti o addirittura a comprare i dischi dei suoi artisti preferiti. Parlo naturalmente di una nicchia (di pubblico e di artisti) che nulla ha da spartire con il target generalista delle grandi produzioni nazionalpopolari. Stampare un disco, nel 2014, è comunque indispensabile per veicolare l’attività live, che in definitiva è l’unico jolly che ancora rimane a noi cantautori per comunicare attraverso la musica».
Titolo: Vicolo Riccardi n°1 Artista: Ugo Cattabiani Etichetta: Rigoletto Records Anno di pubblicazione: 2014
Tracce
(testi e musiche di Ugo Cattabiani)
01. La scatola
02. L'interno
03. Vicolo Riccardi
04. Perderò
05. Intermezzo
06. Fitzgerald
07. Ballata dell'uomo che fu
08. Blues dell'addio
09. Lo scioperato
10. Il dilettante
Produttore, arrangiatore, stimato musicista e cantautore. La carriera di Gianfilippo Boni da oltre vent'anni si divide equamente tra tutti questi impegni musicali. Ha prodotto l'esordio di Marina Giaccio e Giorgia Del Mese, ha collaborato con Lucio Dalla, Gianni Morandi e Samuele Bersani. E ha inciso dischi. Tre, per l'esattezza. Nel 1995 ha esordito con "Cinema" per la Fonit Cetra, seguito nel 2003 dall'album "Con le zanzare". E dieci anni dopo ecco il terzo capitolo del musicista fiorentino, intitolato semplicemente "Gianfilippo Boni". Un disco intimo, autobiografico, il cui stile si ispira a molta della miglior produzione del periodo d'oro del cantautorato italiano degli anni Settanta. Si possono rintracciare, qua e là, influenze di Dalla, echi del più ispirato De Gregori, spruzzate di Caputo. Il tutto racchiuso in dieci canzoni che hanno il dono di suonare moderne, al passo con i tempi. Si tratta di un piccolo gioiello musicale che si colloca lontano dai clamori e dalle mode e che, fortunatamente, non ha nulla da spartire con certe produzioni plastificate e prive di ispirazione che saturano il mercato discografico italiani.
Per il suo terzo album solista, Boni ha radunato intorno a sé alcuni dei migliori musicisti della scena fiorentina, tra cui Bernardo Baglioni alla chitarra e Fabrizio Morganti alla batteria. Senza dimenticare il tocco di classe che Stefano Bollani
ha saputo dare a "Van Gogh", brano di rara bellezza che chiude un album ricco di suggestioni che cattura non solo per la musica ma a cominciare dalla splendida copertina realizzata da Francesco Chiacchio.
Gianfilippo, in quasi vent'anni hai pubblicato solo tre dischi. Non si può certo dire che non siano progetti pensati a lungo… Come lo spieghi?
«In realtà la domanda ha una semplice spiegazione nel fatto che, arrangiando e producendo artisticamente anche lavori per altri cantautori, il tempo è sempre tiranno e di conseguenza anche le energie. La seconda motivazione sta nel fatto che preferisco far decantare le canzoni un po' di tempo, come il vino: sulla lunga distanza, resistono quelle più convincenti».
Qual è stato lo spunto che ti ha convinto a far nascere questo nuovo album?
«Un'urgenza interiore. Le canzoni erano estremamente sentite e rappresentavano un periodo importante della mia vita. Avevo la necessità di fissarle per poi andare oltre».
Quali sono state le difficoltà maggiori nel realizzarlo? Hai qualche aneddoto curioso da rivelarci?
«Realizzare un album è sempre molto dispendioso, in primis psicologicamente: è un modo per mettersi in gioco e confrontarsi con gli altri. Più si invecchia, più in qualche modo si cerca di evitare questo confronto. Per me la difficoltà maggiore è stata decidere di farlo. Poi, avviata la macchina, il disco ha preso forma grazie a Lorenzo Forti, che ha curato con me gli arrangiamenti e mi ha convinto a non mollare. Per quanto riguarda gli aneddoti: eravamo fermi su un brano, provavamo ad arrangiarlo con varie soluzioni ma non ci convinceva, alla fine ci eravamo arresi. Poi a Lorenzo è venuto un arpeggio di chitarra che mi ha emozionato. Nella notte ho scritto un nuovo pezzo, tutto di un fiato: "Senza disturbare"».
Il titolo "Gianfilippo Boni" fa pensare a un album profondamente autobiografico. Mi sbaglio?
«Sì. È interamente e profondamente autobiografico. Avrebbe dovuto ipoteticamente intitolarsi "Senza filtro", ma rimandava troppo all'idea di sigaretta. Alla fine il titolo migliore era il mio nome e cognome».
Come dicevi prima, oltre a essere cantautore sei anche uno stimato arrangiatore e produttore artistico e nel disco si sente. Hai messo grande cura negli arrangiamenti e nella ricerca di una qualità strumentale superiore alla media. Come si sono svolte le sedute di registrazione e quanto tempo hai dedicato a questo lavoro?
«Devo la cura degli arrangiamenti principalmente a Lorenzo Forti. Avevo realizzato negli anni dei provini abbastanza strutturati ma c'era bisogno di una visione dall'esterno. Ero troppo dentro al progetto e così è stato Lorenzo a modificare il mio materiale, integrandolo e cambiando ciò che non lo convinceva. A volte è stato difficile staccarsi dalle mie vecchie idee: per la cronaca, abbiamo escluso perlomeno dieci brani. È stato davvero un lavoro a quattro mani, senza prevaricazioni, dando spazio al dialogo e al confronto. Le sessioni si svolgevano, ahimè, ritagliando il tempo da altri lavori che stavo facendo: per questo ci è voluto più di un anno a chiudere il disco, dedicandocisi perlopiù nella notte. È un disco decisamente notturno. Si ascolta bene nel silenzio della notte».
"Potrei" mi ha ricordato certe sonorità di Lucio Dalla, con cui hai anche lavorato. È così?
«A "Potrei" sono particolarmente affezionato, perché è nata spontaneamente, anch'essa nella notte, ed è semplicemente un piccolo autoritratto. Il mio primo album, "Cinema", uscito per la "Fognit tetra" - lapsus, scusami - "Fonit Cetra" (in realtà l'avevo soprannominata così), era prodotto dal grande produttore ed arrangiatore Bruno Mariani, da anni produttore artistico di Lucio Dalla, Luca Carboni, Samuele Bersani e molti altri. L'amicizia con Bruno mi ha portato in seguito a una collaborazione su una trentina di puntate di una fiction RAI, "Sotto casa", con colonna sonora firmata da Lucio Dalla. Dalla è sicuramente un mio punto di riferimento: ti basti pensare che a otto anni i miei primi LP acquistati furono "Come è profondo il mare" di Dalla e "Via Paolo Fabbri 43" di Francesco Guccini».
Ci racconti qualche aneddoto di quel periodo con Dalla?
«L'unica cosa che posso dire è che alcune persone nascono per fare musica: ogni sua frase melodica, sia con la voce, sia con il clarinetto, sia con il sax o il piano era incredibilmente musicale, riusciva sempre ad emozionarti. Questo talento non è comune a molti».
Per questo album hai radunato alcuni dei migliori musicisti della scena fiorentina. Cosa sta accadendo a Firenze e dintorni?
«Firenze è sempre stata una grande fucina di musicisti validissimi. Io ho l'onore di conoscerne tanti e spesso di lavorarci insieme; del resto è il mio modo di produrre musica, affiancarmi e dialogare con persone dotate di grande sensibilità musicale. Il problema è sempre lo stesso: la musica è sempre più bistrattata e coperta dal rumore di fondo. A volte si assiste a grandi concerti di jazz con la gente che urla o festeggia compleanni e i musicisti fanno sottofondo, o peggio ancora arredamento. Firenze, ahimè, è una città con una certa predisposizione all'apparenza e un po' meno alla sostanza... Quindi, tanti locali ma poco ascolto e sempre più voglia di generi musicali d'intrattenimento. Vivere di musica non è facile, ci si deve adattare a fare un po' di tutto».
Nel suo insieme il disco non ha cedimenti. C'è però qualche brano di cui sei particolarmente orgoglioso?
«Il brano di cui sono e sarò sempre orgoglioso è sicuramente "Van Gogh"; anche se non è recentissimo, continua ad emozionare le persone che lo ascoltano e questa per me è la vittoria più importante».
Qual è la tua dimensione ideale: in studio o dal vivo?
«Esattamente 50 e 50: lo studio mi appassiona, perché ciò che produci rimane nel tempo, ma senza il live non potrei farcela, tenderei ad un isolamento troppo forzato. Alla fine ho sempre suonato e cantato per la gente e andare in giro per l'Italia, anche ad accompagnare pianisticamente i cantautori che produco, mi permette di vivere come ho sempre sognato. Mi dà l'occasione di fare conoscenze e di sentirmi uno 'zingaro felice', tanto per citare un altro mio punto di riferimento, Claudio Lolli. Ma per quanto io sia un cantautore legato alla tradizione, si anima dentro di me una passione profonda per il rock, in particolar modo per quello di Lou Reed e di Federico Fiumani, mio concittadino e fonte di grande ispirazione».
L'album si chiude con "Van Gogh" a cui ha contribuito anche Stefano Bollani. Come è nata questa collaborazione?
«Stefano Bollani è il più grande musicista che ho conosciuto, dotato non solo di tecnica e conoscenza musicale... È istrionico: talento ed estro allo stato puro. Lo chiamammo per suonare la fisarmonica su "Van Gogh", lui ascoltò il brano e mi disse: ‹Posso suonarci anche il piano?›. In un battibaleno cancellai la mia traccia di pianoforte e lui alla prima la risuonò. Un verso della canzone recita ‹Francia fine ottocento›; mi ricordo che mi disse: ‹E se fosse stato New Orleans anni '50?› e suonò un piano in stile e così via, giocando con epoche e stili. Un grande che ama divertirsi con la musica. Poi mise la fisarmonica, sempre alla prima, e se ascolti bene si sente che canta il solo mentre lo esegue. Non finirò mai di ringraziarlo per la musica che mi ha regalato, nel vero senso della parola: non volle soldi... Ci tengo anche a ringraziare un caro amico comune a Stefano, Lorenzo Piscopo, chitarrista ed arrangiatore: è grazie a lui se ci siamo conosciuti».
In molti testi delle canzoni del disco è presente la figura femminile ("In ogni stanza", "Senza di te", "Finta di niente"), la stessa che abbracciata compare nella bella copertina del disco. È per te una fonte importante di ispirazione e perché?
«La figura femminile in questo disco è centrale, è un lavoro che è ispirato totalmente dalle donne importanti e significative della mia vita: da mia madre alle mie compagne, fino a mia figlia. L'ispirazione non può che nascere dal continuo confronto e approfondimento con l'altro sesso; un confronto antico, come l'illustrazione in copertina di Francesco Chiacchio, che fotografa esattamente lo stato d'animo a cui tenevo: un uomo e una donna stretti in un ballo antico, dolce e nostalgico, anche lievemente assente; del resto l'assenza è un altro tema centrale del lavoro».
Come ti confronti con la tecnologia?
«Devo dire che ho sempre avuto un ottimo rapporto con la tecnologia: da ragazzo ero un patito di videogiochi, crescendo ho perso questa passione, ma non del tutto... (ride)… Sono sempre rimasto affascinato dalla tecnologia, me la cavo abbastanza bene con le macchine; in studio di registrazione devi per forza aggiornarti continuamente e questo fa sì che mi tenga sempre in allenamento. Con l'età ho anche capito che la tecnologia ti può fregare e che ha i suoi limiti: alla fine è sempre meglio fare una bella passeggiata in mezzo alla natura, piuttosto che passare ore davanti ad uno schermo».
Dovremo aspettare altri sette-otto anni per vedere il tuo quarto disco solista oppure hai già qualcosa in cantiere?
«Questo lo devi chiedere a Lorenzo Forti e dipende da quanto sarà capace di stimolarmi ed infondermi la voglia di pensare ad un nuovo lavoro. In realtà avevamo appena finito questo e già mi stava proponendo un nuovo progetto, completamente diverso da quello che avevamo realizzato. Probabilmente stavolta passeranno quattro anni. Se ci prende bene, faremo un disco con influenze swing. Sarà sempre un po' malinconico, ma ci sarà perlomeno un bel 'battere e levare' per dirla alla De Gregori».
Titolo: Gianfilippo Boni Artista: Gianfilippo Boni Etichetta: Tumtumpa Records Anno di pubblicazione: 2014
Tracce
(testi e musiche di Gianfilippo Boni, eccetto dove indicato)
01. Passano
02. Potrei
03. In ogni stanza [testo Massimo Chiacchio, musica Gianfilippo Boni]
04. Senza di te
05. Ti offro
06. Con la crisi che c'è
07. Senza disturbare [testo Gianfilippo Boni, musica Lorenzo Forti e Gianfilippo Boni]
08. Finta di niente
09. Completamente senza
10. Van Gogh
A volte ritornano ed è una bella notizia. Sul finire degli anni Novanta, nelle vesti di promettente band giovanile, hanno imperversato sulla scena ligure conquistando una discreta notorietà e un buon successo. Ora, dopo un periodo di oblio, complice le inevitabili responsabilità che la vita impone, i Qirsh sono tornati e lo hanno fatto in grande stile pubblicando il loro secondo disco. "Sola andata" è il titolo del cd che ha visto la luce nelle scorse settimane per la Lizard Records, importante e prestigiosa etichetta indie. Disco che è arrivato sedici anni dopo "Una città per noi", uscito in poche copie su cassetta e diventato quindi oggetto da collezione. Il nuovo album è composto da nove canzoni, nate tra il 2009 e il 2011, che spaziano dal rock alternativo al progressive e al pop. Il filo conduttore del disco, registrato artigianalmente ma con grande cura a partire dal 2012, è il viaggio come esperienza di vita. Che sia in un mercato algerino ("Mercato Ghardaia") o in Indonesia ("Malaria"), oppure in una folle corsa in ambulanza ("Rianimazione") o in agghiaccianti episodi di cronaca ("Figli del piccolo padre"). L'album è intrigante, per certi versi esotico, con richiami a suoni degli anni '70 ma difficilmente collocabile nelle anguste e riduttive cellette di classificazione di generi.
Il sestetto savonese è formato da Andrea Torello (basso e voce), Daniele Olia (chitarre, tastiere e voce), Leonardo Digilio (piano e tastiere), Marco Fazio (batteria e percussioni), Michele Torello (chitarre), Pasquale Aricò (synth e cori).
Nell'intervista che segue Andrea Torello ci parla dei Qirsh e del nuovo disco.
Siete insieme dal 1993 e dopo l'avventurosa registrazione di "Una città per noi" del 1997, è finalmente arrivato il momento di tornare in scena con l'album "Sola andata". Cosa è successo in questi anni?
«In sedici anni sono successe tantissime cose: lauree, lavori, viaggi, trasferimenti, matrimoni, figli, e anche problemi esistenziali molto seri. Ad uno di noi si è rotta la tastiera, che non deve essere visto solo come un problema prettamente tecnico. Il motivo per cui è passato così tanto tempo dal primo album è che per alcuni anni siamo stati attirati maggiormente dalle serate live e ci siamo concentrati sulle cover, per accontentare il pubblico e per avere più opportunità di suonare. Inoltre dai primi anni 2000, non appena laureati, quasi tutti contemporaneamente, alcuni di noi si sono trasferiti in altre città per esigenze lavorative, e ciò ha rallentato l'attività del gruppo. Ancora oggi metà band non vive a Savona».
Perché avete voluto riprovarci?
«Ad un tratto ci siamo resi conto che il tempo stava passando, ma avevamo ancora tante cose da dire, e che anzi, praticamente avevamo ancora tutto da dire. Quindi ci siamo rimessi a creare e abbiamo dato alla luce una serie di nuovi brani, che per fortuna sono piaciuti all'etichetta Lizard. Il passo successivo è stato la nascita di "Sola Andata", il nostro primo vero album».
Non siete tutti troppo grandi per giocare a fare i musicisti?
«Veramente ci sentiamo ancora una boy band e ricordiamo come se fosse ieri il nostro esordio sul palco della festa parrocchiale, era il 1993. Comunque promettiamo che tra 40 anni smetteremo di suonare e ci dedicheremo ad attività più serie».
Negli anni a cavallo tra il 1998 e il 2001 avete imperversato nei locali e sui palchi di mezza Liguria conquistando anche una discreta notorietà. Cosa ricordi di quel periodo?
«Ricordo tre utilitarie che viaggiano sull'Aurelia caricate di strumenti fino all’inverosimile, ricordo le fatiche per montare e smontare il palco, la cena col panino offerto dal padrone del locale (o a volte decurtato dal già scarso compenso), le interazioni col pubblico (che spesso invitavamo a suonare con noi... e che spesso risultava più bravo di noi), ricordo un'esibizione in playback su una TV locale (col cavo della chitarra collegato a un tappeto), il nome del gruppo storpiato sui manifesti all'entrata dei locali (Quirsh, Kirsh, Quiershh) ma ricordo anche le innovazioni. Siamo stati tra i primi gruppi giovanili savonesi ad avere un sito internet (1997), a tappezzare la città di volantini colorati plastificati, per la gioia del Comune, a suonare in posti originali: su una motonave in navigazione, all'entrata di una banca, su un camion, sul palco di una lap dance, in un maneggio e anche in un museo. Quest'ultimo in tempi più recenti: il museo storico dell'Alfa Romeo, ad Arese, nel 2010. Siamo stati anche i primi a suonare la versione integrale di "Shine on you crazy diamond" dei Pink Floyd alla festa dei licei, rischiando il linciaggio».
Qual è ora l'ostacolo più grande che vi tiene lontano dai palchi?
«Rispetto al passato la sensazione è che ci siano sempre meno opportunità per presentare la propria musica originale, e sempre meno locali interessati a fare live. E sicuramente c'è anche meno gente interessata a questo tipo di intrattenimento, molto anni '90. Ma se capitano occasioni non ce le faremo scappare. Nel caso peggiore ci ripresenteremo alle feste parrocchiali con buona pace di tutti».
Quali sono le vostre fonti di ispirazione?
«Se parliamo di gruppi o artisti che ci hanno influenzato, la lista è lunga (anche perché siamo in sei e ognuno di noi ha le sue preferenze specifiche), ma basti ricordare che la nostra scaletta storica comprendeva cover di Pink Floyd, Queen, U2, CSI, Pooh, Elio, REM, Doors, a cui aggiungiamo Genesis, Battiato, rock progressive anni '70, new wave anni '80… e infatti alla fine il nostro genere è stato definito un mix di pop-rock-progressive. Ma le definizioni sono sempre limitanti, non ci piace inquadrarci».
E le canzoni del nuovo album?
«Il tema dell'album è il viaggio. Siamo molto legati all'idea del viaggio, sia come gruppo che singolarmente. Ognuno di noi viaggia molto, a volte prendendo l'aereo per destinazioni remote, a volte rimanendo nella sua stanza con un paio di cuffie nelle orecchie. Alcune canzoni sono nate sedendosi davanti a una tastiera e cominciando a farsi trasportare dai suoni o dalle sequenze di accordi; altre canzoni invece si sono materializzate nella nostra mente durante qualche viaggio, guardando persone e ambienti che scorrevano fuori dal finestrino».
Nell'immagine di copertina, seppur nella sua bellezza, vedo un gruppo di sopravvissuti che si sta radunando sul finire di una spiaggia dopo una esplosione nucleare. Ho sicuramente una visione distorta ma cosa te ne pare?
«In realtà quella foto rappresenta solo un gruppo di persone su una spiaggia australiana in una normale giornata infrasettimanale. C'è chi fa due passi per rilassarsi, chi fa volare aquiloni, chi con una tavola da surf sottobraccio pensa a come affrontare le onde nel modo migliore. Tutti viaggi, anche piccoli e di routine, nel quotidiano di ciascuno di noi. Alla strage nucleare in effetti non avevamo pensato».
Le tragedie, i morti, le malattie, gli abbandoni e i viaggi sono al centro delle vostre canzoni. Qual è la vostra visione del mondo?
«Non è così catastrofica, anzi l'album vuole trasmettere un messaggio positivo: viaggiate, esplorate, aprite la vostra mente. Purtroppo le esperienze tragiche possono lasciare il segno più di quelle positive e riflettersi quindi nelle canzoni in modo più evidente ma bisogna essere capaci di andare avanti... non a caso l'album si intitola "Sola andata"».
In "Figli del piccolo padre" parlate di Andrei Chikatilo, il mostro di Rostov che ha ucciso 53 persone, e del figlio Yuri che viene aiutato dallo Stato a cancellare il passato e a rifarsi una vita. Cosa vi ha spinto a cantare questa storia?
«Questo brano è uno dei più controversi dell'album. È nata per prima la parte strumentale, che ci ha spinto verso la narrazione di una storia forte; e così il viaggio in questo caso è diventato un viaggio nella cronaca e nella psicologia, che ha toccato alcuni dei risvolti più oscuri della storia russa del secolo scorso».
"Rianimazione" ha qualcosa di claustrofobico ma allo stesso tempo lo trovo rassicurante. Cosa vi ha ispirato a scrivere questo brano?
«In realtà tutte le persone che hanno ascoltato il brano ci hanno detto che trasmette ansia! D'altra parte è la rappresentazione di una folle corsa in ambulanza... anche quello è un tipo di viaggio... che poi sia un viaggio realmente accaduto o no non è dato sapere».
Come vedi la musica ha tante letture differenti. Passiamo a "Malaria". Qual è il messaggio del testo ‹Devo aspettare, solo aspettare, restare sveglio è fondamentale. Non riesco a parlare›?
«"Malaria" è il classico pezzo che rappresenta una situazione di difficoltà, fisica o psicologica, in cui ciascuno di noi si può trovare e deve far ricorso a tutte le proprie energie per affrontare il viaggio del superamento dell'ostacolo, di qualsiasi natura esso sia. Il testo è parte di questo discorso».
"Artico" è dedicata a Umberto Nobile e alla tragica avventura al Polo Nord con il dirigibile Italia. Cosa può rappresentare oggi questa storia?
«Quello fu un importantissimo viaggio di esplorazione scientifica, la prima volta al Polo Nord, una conquista tutta italiana. Un esempio che merita di essere ricordato. La missione ebbe un finale tragico ma vide anche l'epica resistenza dei sopravvissuti della "tenda rossa". Questa canzone vuole cogliere proprio lo spirito dell'esplorazione, il desiderio ancestrale dell'uomo di scoprire e spingersi sempre un po' più in là».
Il disco si chiude con "La nebbia", il racconto di un abbandono…
«Una lunga attesa in aeroporto, e poi la nebbia, forse più metaforica che reale. Una situazione in cui tutti ci siamo trovati almeno una volta nella vita, non solo quelli che partono dall'aeroporto di Malpensa».
Quando vi rivedremo dal vivo?
«Sabato 15 marzo suoneremo alla Pentola Magica di via Stalingrado a Savona, poi il 5 aprile saremo ospiti in diretta su radio Base Popolare Mestre».
Titolo: Sola andata Gruppo: Qirsh Etichetta: Lizard Records Anno di pubblicazione: 2013
Tracce
(testi e musiche di Daniele Olia, eccetto dove diversamente indicato)
01. Artico
02. Mercato Ghardaia
03. Myflower [Leonardo Digilio]
04. Figli del piccolo padre
05. 5a, finestrino
06. Rianimazione
07. Malaria [Michele Torello]
08. Vento delle isole
09. La nebbia
Il cantautorato femminile, poco rappresentato nel periodo di massimo splendore della scuola genovese, ha trovato negli ultimi anni interpreti molto interessanti. Una di queste è Valentina Amandolese, cantautrice genovese che si è presentata al grande pubblico vincendo nel 1998 il concorso "Generation Globe" e partecipando al festival francese "Le printemps de Bourges". Dopo un paio di Ep autoprodotti, la Amandolese ha pubblicato, nel 2011, il suo disco d'esordio intitolato "Nella stanza degli specchi". Un album accolto molto bene dalla critica che ha apprezzato la capacità di scrittura e la voce potente e allo stesso tempo melodiosa dell'artista genovese. A tre anni di distanza la Amandolese è al lavoro per dare un seguito a questo disco dalle belle sonorità rock-indie. Oltre a essere una valida musicista, la Amandolese è anche una delle fondatrici dell'associazione culturale Lilith che si occupa di promuovere e dare spazio alle nuove cantautrici e che ogni anno organizza a Genova il "Lilith - Festival della musica d'autrice".
Con Valentina abbiamo parlato della sua musica, dei progetti futuri e naturalmente di Lilith.
Sono passati più di dieci anni dalla vittoria al concorso "Generation Globe". Cosa è cambiato nel tuo modo di intendere la musica?
«Ricordo con estrema tenerezza i miei 17 anni e quella partecipazione, diciamo che in qualche modo ha segnato uno step importante nella mia vita di musicista: da poco avevo iniziato a scrivere canzoni e quello è stato il primo riconoscimento di una certa importanza, mi ha incoraggiata a proseguire. L'entusiasmo è sempre lo stesso, sicuramente è cambiato l'approccio. Dopo tanti anni di esperienza mi sento un pochino più "corazzata" e consapevole rispetto a quella ragazzina che partiva per la Francia con negli occhi sogni ancora da scoprire».
Dopo un paio di Ep, nel 2011 hai pubblicato il tuo primo disco, "Nella stanza degli specchi". A tre anni distanza lo rifaresti?
«Il primo disco è sempre un passo importante, tante volte lo progetti, lo pianifichi, lo immagini. Poi a un certo punto ti senti pronta, focalizzi le idee su quello che vuoi che sia il tuo biglietto da visita. Ho lavorato tanto per quel disco, registrato a Catania con Daniele Grasso al The Cave Studio, e riascoltandolo oggi credo che non cambierei molto. Sono ancora orgogliosa del lavoro svolto sia in fase di scrittura che poi in fase di arrangiamento e realizzazione. E non è poco, spesso riascoltando cose fatte in passato ci si ritrova a non esserne più tanto convinti, ma a me non è successo».
Tu genovese sei andata a Catania per realizzarlo. Non potevi restare nella città di Tenco, Paoli, Lauzi, De André e Bindi?
«Eh eh, in tanti mi hanno fatto questa domanda. La risposta è piuttosto semplice: la mia città è molto legata al cantautorato classico, io invece mi sono sempre sentita una "cantautrice atipica", molto più influenzata dalle sonorità inglesi e americane, molto attenta alla componente strumentale delle canzoni. Il rischio è quello, in Italia, di risultare né carne né pesce, né cantautrice né musicista rock. In altri paesi questo problema non si è mai posto, e forse piano piano anche qui, almeno in un certo panorama che sento affine, quello indie, le cose stanno cambiando. Insomma, per seguire questo intento - un cantato in italiano che si fonde con sonorità più internazionali e alternative - Catania e quello studio in particolare mi sono sembrati i luoghi giusti».
Come hai anticipato, trovo che il tuo disco abbia un suono molto internazionale. A influenzarti sono stati i tuoi ascolti in età giovanile?
«Assolutamente sì - vedi che tutto torna, per fortuna il mio lavoro viene percepito così come volevo che arrivasse al pubblico -. Sono sempre stata molto curiosa, ho sempre ascoltato con attenzione la musica non italiana, in modo direi tecnico, scoprendo che le sfumature sonore da noi sono poco personalizzate... e questa cosa non mi è mai piaciuta. La mia sfida è quella di plasmare piano piano la mia identità sonora che, unita alla mia voce e alla mia scrittura, possa rappresentarmi. Un po' come è stato per alcuni dei miei ascolti preferiti di sempre: PJ Harvey, Radiohead, Low, etc.».
Che rapporti hai con gli specchi?
«Gli specchi... sono stati il fil rouge del mio primo disco. Specchio inteso come riflettente e generatore di mille punti di vista su me stessa e sulla realtà. Mi piace pensare che, come appunto in una stanza degli specchi, ognuno di noi sia visto dall'esterno in mille modi diversi... come all'interno di un caleidoscopio, la realtà diventa molto più soggettiva e interpretabile».
A volte possono deformare la realtà, i tuoi testi invece sono molto reali…
«I miei testi nascono quasi sempre con un taglio autobiografico, sia che parlino di storie che mi vedono protagonista, sia che riguardino altri soggetti. Tutto filtra attraverso la mia esperienza, per questo poi si percepisce la realtà del racconto. Del resto, per quanto atipica, sono pur sempre cantautrice e mi piace la veste di narratrice di storie».
Dopo un ottimo esordio ci vuole una conferma. A che punto sei con il tuo nuovo disco?
«Ho da poco preso decisioni piuttosto importanti in merito. Non voglio ancora svelare troppo. Per ora posso solo dirti che ho trovato il produttore giusto, con cui faremo un lavoro a quattro mani, e che sarà un disco strano, soprattutto per come è stato concepito e verrà realizzato…».
Resterai fedele alla linea di "Nella stanza degli specchi" oppure punterai a soluzioni diverse?
«Ci saranno soluzioni decisamente diverse, soprattutto negli arrangiamenti: il primo disco è stato suonato, sia in studio che poi nei live, in trio. Quello nuovo mi vedrà finalmente impersonare al cento per cento la mia attitudine di one-girl band. Resterà invece molto forte, rafforzandolo, il rapporto stretto tra il cantato in italiano e le sonorità più anglofone».
La scena musicale femminile genovese sta vivendo un periodo di grande fermento. Secondo te cosa spinge molte ragazze a cantare?
«Credo che finalmente le donne nella musica si siano prese il loro spazio. Non sono più soltanto le cantanti in band prettamente maschili, ma sono diventate autrici, musiciste e produttrici. Si sporcano le mani insomma, forse stupendo gli ascoltatori abituati a vederle più relegate in vesti meno attive. Io mi sento totalmente partecipe di questa "rivoluzione" iniziata ormai da diverso tempo, e ne sono orgogliosa».
Sei stata tra le fondatrici dell'associazione Lilith che tutti gli anni organizza un festival tutto al femminile a Genova. Quali sono i progetti futuri e quale artista ti piacerebbe che partecipasse alla prossima edizione?
«Proprio per i motivi descritti prima è nata qualche anno fa l'associazione culturale Lilith, fondata insieme a due colleghe genovesi, Sabrina Napoleone (presidente dell'associazione) e Cristina Nicoletta. Oltre a essere musiciste ci siamo sentite in dovere di diventare organizzatrici di eventi, che creassero il giusto spazio per la canzone d'autrice (ma non solo). Oltre al Lilith Festival, che giunge quest'anno alla quarta edizione e che l'anno scorso ha offerto alla città di Genova una tre giorni completamente gratuita che ha visto sul palco in piazza De Ferrari cantautrici emergenti e le tre madrine d'eccezione Cristina Donà, Marina Rei e Paola Turci, quest'anno abbiamo creato alla Claque una rassegna cui teniamo molto, Lilith Nest, sempre con la preziosa collaborazione di Douce Pâtisserie Café, partner ormai storico del Lilith Festival. Volevamo creare un nido presso la Claque, per ospitare tutte le voci a nostro avviso più rappresentative della scena nazionale attuale, abbiamo già ospitato Levante e Iacampo e nei prossimi mesi ci saranno tante altre sorprese. Insomma, non ci fermiamo mai. Stiamo anche chiudendo la lista delle partecipanti del Lilith 2014. Il sogno, per le prossime edizioni è quello di avere una delle mie artiste preferite, PJ Harvey... magari non sarà quest'estate ma non smetto di sognarlo».
Titolo: Nella stanza degli specchi Artista: Valentina Amandolese Etichetta: Dcave Records Anno di pubblicazione: 2011
Tracce
(testi e musiche di Valentina Amandolese, eccetto dove diversamente indicato)
01. Cosmico blu
02. Stringi i denti Valentina
03. Imago
04. Osmosi
05. Bold as love [Jimi Hendrix]
06. Nessun biglietto per il mare
07. In terza persona
08. Lo stesso viaggio
Tra l'infinita produzione discografica che ha invaso in questi ultimi anni piattaforme digitali e stores, è sempre più facile che possano sfuggire all'attenzione generale lavori degni di nota. Come è appunto l'album "Piccole partenze" del cantautore casertano Vitrone. Un lavoro raffinato di un artista arrivato alla maturità dopo esperienze come voce di una band metal, i T.R.B., leader del gruppo folk-rock Nafta e come fondatore del duo Vitronemaltempo. Assai apprezzato da Fausto Mesolella che lo ha invitato al Premio Bianca D'Aponte, Vitrone, all'anagrafe Gennaro Vitrone, è tornato sulla scena musicale in veste di solista come già gli era accaduto all'inizio della sua carriera. Il musicista casertano aveva infatti dato alle stampe due album nel classico stile cantautorale prodotti da Ferdinando Ghidelli ("Dapprincipio" del 2001 e "Stravagando" del 2003).
Quindici mesi di lavorazione in casa e in studio sotto la direzione del produttore Mimmo Cappuccio (James Senese, Enzo Avitabile), hanno dato vita a un disco a forte impronta intimista che percorre strade già conosciute senza cadere però in ripetizioni scontate. Effetti, campionamenti, un pizzico di elettronica rendono il disco molto interessante, attuale e per nulla scontato. A impreziosire l'album ci sono collaborazioni illustri come quelle con Vittorio Remino, già bassista
degli Avion Travel, Marta Argenio e Maurizio Stellato fondatori dei The
Actions, la tromba di Almerigo Pota, il pianista Fabio Tommasone, il cui
apporto è fondamentale in quasi tutte le canzoni del disco. E poi con lo
scrittore Ivan Montanaro e l'attore-autore teatrale Roberto Solofria.
Gennaro, sei tornato al tuo progetto solista dopo una parentesi di cinque anni in cui sei stato impegnato con Vitronemaltempo. Cosa è cambiato nel tuo approccio alla musica?
«Già nell'album "Ancora quadri alle pareti" del 2008 di Vitronemaltempo
c'era la consapevolezza di voler proporre una canzone d'autore che
vivesse il contesto, attualizzata, dove era importante sottrarre piuttosto
che aggiungere. Lo stesso concetto l'ho reso ancora più estremo in
"Piccole partenze". I testi sono essenziali, minimali. Stesso discorso per gli
arrangiamenti. La forma canzone c'è in alcuni brani, ma non c'è in
altri, al ritornello ho preferito un tema. Credo sia un lavoro istintivo
ma anche elaborato».
Di cosa parla il tuo nuovo disco?
«Il disco parla di piccole e grandi storie, spesso sotto forma di
metafora. In "Torno al giardino", per esempio, il pretesto di una storia
d'amore diventa marginale quando parlo di tornare alle radici. Una frase a
cui sono molto legato è ‹guardo i fiori toccati dal
vento, colorati coriandoli nel cielo e i frutti cadere dagli
alberi, marcire›».
È un disco introspettivo, crepuscolare, dipinto a tinte pastello. Quanto c'è di autobiografico nelle canzoni che lo compongono?
«Era esattamente quello che volevo realizzare, un lavoro introspettivo
ma allo stesso tempo fruibile. Qualche brano è autobiografico come, per
esempio, "Inverno". In altri sono partito da una attenta osservazione per poi andare a descrivere i
personaggi, come la ragazza di "Piccole partenze", che ho conosciuto
veramente. Era esattamente così, impaurita ma decisa a lasciare il suo
paese, il suo guscio. Ora è una donna realizzata, credo viva a Milano».
Sotto il profilo prettamente musicale hai usato molti effetti e riverberi, specialmente in ambito vocale e chitarristico. Perché?
«In effetti è così: loop, voci filtrate e campionamenti
rappresentano un elemento importante nel mio sound. È così è anche per il
mio chitarrista Gianpiero Cunto, era così nel progetto Vitronemaltempo ed è così
con Vitrone. In "Vitronemaltempo" l'uso dell'elettronica era ancora più
presente, il produttore di quell'album aveva lavorato tra gli altri con Massive Attack e Almamegretta. La sua impronta si sente, sono molto
fiero di quel disco, ci aprì le porte dei più grandi concorsi
nazionali. Di quell'album ho ripreso la canzone "Arcobaleni" che ho completamente riarrangiato per il disco "Piccole partenze"».
Vi ho trovato un pizzico del Riccardo Sinigallia del periodo dei Tiromancino, qualche spruzzata di Niccolò Fabi e Pacifico, una buona iniezione di Battiato, specialmente nella canzone "Inverno". Cosa ho sbagliato e di chi mi sono dimenticato?
«Tutti gli artisti che hai
nominato sono per me un punto di riferimento, Battiato su
tutti. Aggiungerei anche Virginiana Miller, Verdena e Avion Travel, tra le band
straniere Beatles, ancora Beatles e sempre Beatles. John Lennon su
tutti, gigantesco, ma anche Radiohead e Depeche Mode».
Perché hai scelto di far recitare a Roberto Solofria un prologo alla title track?
«Roberto è un autore e attore teatrale che come me è di Caserta e vive a Caserta, città di grande fermento culturale. La sua voce impostata si
prestava benissimo al testo regalatomi dallo scrittore Ivan Montanaro».
Mi commenti la frase che si trova al centro del libretto ‹… partenza il rumore della cerniera della valigia che chiude…›.
«Questa frase rappresenta la voglia di mettersi in
gioco, rappresenta il movimento, il viaggio, la ricerca. Piccole grandi
partenze».
Da dove parti e cosa ti lasci indietro?
«Sicuramente il mio è stato un percorso artistico particolare. Ho fatto parte
di una rock metal band, T.R.B., da metà degli anni '80 fino al
1992, realizzando una compilation in Inghilterra e un album "Love on the
rocks" distribuito allora dall'etichetta fiorentina Contempo Records. Ho tanti ricordi bellissimi. Poi è stata la volta della folk-rock band Nafta, con cui ho suonato in centinaia
di concerti, fino ad approdare nel 2001 ai primi progetti solisti».
Qual è il messaggio del brano "Odio"? A me ha dato l'idea di essere una denuncia del problema dello smaltimento dei rifiuti che assilla da tempo tutta la Campania. Sbaglio?
«Il problema in Campania è gravissimo, la realtà supera
l'immaginazione. Magari si trattasse solo di spazzatura, qui ci sono rifiuti tossici e
tantissimi morti di tumore. Quando ho scritto il testo di "Odio" il problema non era
ancora emerso in tutta la sua gravità. In realtà nel testo parlo di un fatto
realmente accaduto. Mi trovavo in macchina, in tangenziale nella zona di Napoli e oltre al cemento, alle macchine e alle case a ridosso dell'autostrada, si vedeva in
lontananza uno spicchio di verde, riflettevo e pensavo quanto
l'ambiente, in quel caso claustrofobico e degradato, possa cambiare una
persona, abbruttirla fino a generare odio».
Qual è la tua donna vestita di nero (dal brano "Sentinelle")?
«Nell'immaginario mi sono ispirato a un personaggio di Camilleri, quelle donne siciliane scolpite nella pietra. Nella realtà la
nonna di mia moglie era così, viveva in un paesino della Lucania, dove
tra l'altro hanno girato il film "Basilicata coast to coast". Una persona
incredibile, forte e saggia, le ho voluto molto bene».
Come suonerà questo disco dal vivo?
«Sarà un sound elettro-acustico. La formazione sarà ridotta all'osso, anche per
motivi di budget visto che i locali pagano sempre meno. Ci saranno due chitarristi: mio cugino Gianpiero Cunto che è con me da quasi dieci anni, e Dario Crocetta, entrato da
pochissimo nel progetto e che nei live assicura una spinta fondamentale. Fiore all'occhiello sarà Mimì Ciaramella, batterista storico
degli Avion Travel».
Sul libretto, nel consueto angolo dei ringraziamenti, spendi parole di affetto per Fausto Mesolella. Qual è il tuo rapporto con lui e quali consigli preziosi ti ha dato?
«Con Fausto ci conosciamo da quasi trent'anni. Nel 1991 produsse e suonò
alcune chitarre nell'album di rock duro "Love on the rocks" dei T.R.B., eravamo dei ragazzini. È una persona a cui voglio veramente bene, un
grande professionista, instancabile, uno dei più grandi chitarristi
italiani di sempre. Ho avuto l'onore di dividere il palco con lui. Ci sono due brani prodotti da lui nel 2011 ancora nel cassetto. I consigli che mi
ha dato sono di natura tecnica, preziosi. Mi ha fatto anche capire che
oggi l'ultimo avamposto dei sentimenti sono le donne, sono loro che sono
ancora capaci di slanci, non ne avevo dubbi».
Chiudo con una domanda cattiva: ha ancora senso fare dischi in un momento in cui se ne vendono sempre meno?
«Secondo me sì. Un disco è la fotografia di quello che sei nel momento in cui lo realizzi. È un fine insomma, la quadratura. La crisi delle vendite è allo stesso tempo un bene e un male. È un bene perché i personaggi di plastica se ne vanno a quel paese e poi perché, visto che non c'è più nulla da perdere, si osa di più. È un male perchè vent'anni di berlusconismo ci hanno portati alla cultura del karaoke e quindi al non approfondimento. Sicuramente il problema è planetario ma in Italia si è sentito di più proprio per i motivi che ho spiegato prima. Per promuovere un album oggi c'è un solo modo: suonare dal vivo e vendere il disco...».
Titolo: Piccole partenze Artista: Vitrone Etichetta: autoproduzione Anno di pubblicazione: 2013
La Liguria non è solo terra di grandi cantautori ma anche di ottimi bluesmen. La conferma arriva da Guitar Ray & The Gamblers che hanno pubblicato a metà gennaio il loro nuovo disco intitolato "Photograph". L'album è prodotto dal cantautore canadese Paul Reddick e contiene dieci inediti che uniscono il blues della tradizione a sonorità moderne. Brani in cui Ray Scona esalta il suo tocco chitarristico elegante, preciso e capace di improvvise e coinvolgenti accelerazioni. Un album riuscito, gradevole in ogni suo capitolo e capace di incuriosire anche chi non è appassionato di blues. Le canzoni, molte delle quali scritte da Paul Reddick, spaziano dal blues morbido al R&B, dal rock con incursioni funky, fino al territorio delle ballate.
In questa nuova avventura Ray Scona (voce e chitarra) si è fatto accompagnare dai fidi Gamblers: il bassista Gabriele "Gab D" Dellepiane, il tastierista Henry Carpaneto e il batterista Marco Fuliano. "Photograph" è arricchito inoltre dall'armonica di Fabio Treves, uno dei
bluesmen italiani più celebrati, dagli archi dei genovesi Gnu Quartet
che vantano collaborazioni con Niccolò Fabi, Federico Sirianni e Simone
Cristicchi.
Guitar Ray & The Gamblers vantano un curriculum di tutto rispetto avendo collaborato tra gli altri con mostri sacri di fama internazionale come Big Pete Pearson, con il quale hanno inciso anche un disco, Otis Grand, Jerry Portnoy, armonicista di Muddy Waters ed Eric Clapton.
Con Ray Scona abbiamo parlato di "Photograph", il quinto album della carriera.
Ray, spiegaci come è nato l'album "Photograph"?
«Da un desiderio di rinnovamento e dalla voglia di trovare un suono riconoscibile per Guitar Ray & The Gamblers. Questo era l'obiettivo. Abbiamo quindi lavorato su brani originali e arrangiamenti che potessero essere la "fotografia" mia e di questa band».
"I'm goin, I'm goin" parla di partenze, di viaggio; "I heard that train go by" di un treno che divide due persone. Sono il viaggio, gli addii, le separazioni il filo conduttore di questo disco?
«Sì, ma non solo. Se vuoi una bella foto, devi saper mettere a fuoco quello che davvero ti interessa. Ho scelto di raccontare storie che conosco bene per essere in grado di mettere a fuoco quello che mi sta a cuore. Nello specifico "I'm goin, I'm goin" racconta il viaggio che contempla un ritorno. Mentre il suono del treno di "I heard that train go by" porta con sé un biglietto di sola andata».
In "Everybody wants to win" avete usato i fiati e il groove ricorda l'Albert King degli anni '70. Sei d'accordo?
«Assolutamente sì. Avevo già fatto un tributo ad Albert King nel mio album "Poorman Blues" con il brano "A.K. Stomp". Qui invece il riferimento è forte, ma come in tutto l'album siamo partiti da lì cercando di trovare un modo che ci fosse congeniale per suonare oggi un brano con quell'impronta. E comunque il suo periodo Stax è il mio preferito».
Trovo che sia molto riuscito il brano "You're the one". I Gnu Quartet hanno dato un tocco unico alla canzone. Come vi è venuta l'idea di avvalervi della loro collaborazione?
«Cercavamo qualcosa che desse un colore particolare a questo brano e così abbiamo deciso di sperimentare. Sin dall'introduzione è stata messa cura sulla scelta dei suoni da utilizzare, un lavoro che Simone Carbone ha fatto con grande gusto. Ma il brano necessitava di qualcosa che fosse davvero speciale, e così abbiamo pensato all'inserimento degli archi. L'arrangiamento scritto da Stefano Cabrera dei Gnu Quartet, si è rivelato come un bellissimo vestito da sera, indossato da una bella donna, ai miei occhi una meraviglia».
Il video di "He thinks of you", che trovo molto bello, si chiude con l'inquadratura di un foglio su cui c'è scritta la data 24-11-1984. Che significato ha?
«Sempre per restare fedele a quanto dicevamo prima, il brano che fa da colonna sonora a queste bellissime immagini, è stato rivisitato con sonorità più attuali rispetto alla sua versione originale, quella contenuta nel cd per intenderci. Ci serviva una data sulla fotografia per riuscire a far comprendere la storia che viene raccontata nel video di "He thinks of you", e avevamo una scelta obbligata sulla decade. Io ho scelto mese e giorno».
Il disco si chiude con "Bella bambina", un brano acustico cantato da Paul Reddick in italiano. Come è nata l'idea di questa canzone dall'atmosfera notturna?
«"Bella Bambina" è stato un regalo inaspettato. Il brano è nato in inglese con l'eccezione delle parole "Bella Bambina", ed è stato divertente sentirlo cantare in italiano. Io e Paul, quasi per scherzo, avevamo già provato a suonarlo, ma non era comunque in programma di registrarlo. Era uno degli ultimi giorni in studio e per quel giorno avevamo finito di registrare. Era molto tardi e dopo una cena abbastanza impegnativa, Paul mi ha chiesto di provare a fare un take con la band. Hanno collegato un paio di panoramici e quello che è successo lo abbiamo messo sul disco».
Paul Reddick, oltre ad essere produttore del disco, ha scritto anche alcuni testi della canzoni. Come si è sviluppata questa collaborazione e quanto ha inciso sull'uscita del disco?
«Ho conosciuto Paul nell'aprile del 2010, quando la band lo ha accompagnato nel suo tour europeo. Ci siamo divertiti un mondo. Mi piace moltissimo il suo modo di scrivere ed il suo approccio alla musica. Quando ho pensato a questo progetto mi è venuto immediatamente in mente il suo nome. Abbiamo parlato e Paul si è subito entusiasmato all'idea. Ha scritto praticamente tutti i testi, a parte "Everybody wants to win" che è stato scritto da Pete Pearson».
Oltre a Gnu Quartet, tra gli ospiti c'è anche Fabio Treves. Cosa mi puoi dire di questo incontro?
«Io lo conoscevo da sempre, lui mi ha conosciuto 25 anni fa. Fabio era ospite di una rassegna organizzata nella riviera ligure, dove abbiamo suonato insieme per la prima volta. Ho militato poi nella Treves Blues Band dal 1991 al 1993, ed è nata una bellissima amicizia. Casa Treves mi ha sempre sostenuto durante tutti questi anni di carriera, e oggi, insieme a Gab D, ho l'onore di essere stato invitato a prendere parte al suo tour teatrale che celebra i 40 anni di carriera della Treves Blues Band. Un incontro come ne capitano pochi».
Qual è il brano a cui sei più legato e perché?
«Questo è un album molto importante per me, e i brani hanno tutti un forte significato perché raccontano di me, del mio vissuto. Ma un sapore speciale è quello di "He think of you". Credo sia la fotografia più riuscita di questo album. Quando relazionarsi in questo mondo per qualcuno diventa più difficile che per altri, il bisogno di avere un legame che possa renderti felice, a volte non riesce ad essere soddisfatto. Si può però pensare a qualcuno che forse un giorno potrai conoscere, e che potrà scoprire come sei, ed amarti».
Quando sono state scritte queste canzoni?
«Ho cominciato a lavorare all'album agli inizi del 2012 e siamo entrati in studio nel febbraio del 2013. Non proprio una passeggiata».
Perché la scelta di una copertina in bianco e nero quando le canzoni hanno, al contrario, "colori" a volte unici e sfumature che personalmente mi piacciono molto?
«Ad aprile del 2013 avevamo in programma un tour europeo con Big Pete Pearson, a cui ha preso parte anche Michele Bonivento, che poi ha dato un contributo molto importante all'album, e noi eravamo in piena produzione. È stato un tour speciale perché in programma avevamo anche una data al Baltic Blues Festival di Eutin in Germania, dove eravamo headliners con Pete, ma in cartellone anche come Guitar Ray & The Gamblers. Quindi abbiamo avuto la possibilità di suonare live per la prima volta i brani del disco. Un momento importante per vedere la reazione del pubblico al nuovo spettacolo. Lo show è stato molto emozionante e di grande impatto. Ho avuto la copertina del magazine che si è occupato della rassegna. La foto sulla cover del cd, è uno scatto della fotografa tedesca Beate Grams di quello show, ed era uno scatto in bianco e nero, carico di significato. Mi è piaciuta l'idea che i colori fossero una cosa da scoprire».
Quali sono stati i tre incontri fondamentali della vostra carriera?
«Davvero difficile rispondere. Ognuno degli artisti che abbiamo accompagnato, o con cui abbiamo collaborato, hanno lasciato un segno. Ho imparato a suonare la lap-steel dal grande Sonny Rhodes nel lontano 2001. Accompagnare in tour Jerry Pornoy, che ha suonato nella Muddy Waters Band, nei dischi e nei tour di Eric Clapton, è stata una scuola incredibile. Collaborare con ognuno di loro è stata una bellissima esperienza, ma se devo scegliere tre nomi allora ti dico Fabio Treves, per il rapporto di amicizia che ci lega, Otis Grand, che ha prodotto i miei primi due cd, e Paul Reddick a cui ho affidato la produzione artistica di "Photograph"».
Titolo: Photograph Artista: Guitar Ray & The Gamblers Etichetta: autoproduzione Anno di pubblicazione: 2014