venerdì 29 gennaio 2016

'Del movimento dei cieli' cantan Cané & Marighelli





Isolarsi dal mondo e vivere a contatto con la natura per scrivere musica e su questa innestare parole che parlano di astrologia, filosofia, tarocchi, amore e spiritualità. È quello che hanno fatto Friedrich Cané e Giacomo Marighelli nell'album "Del movimento dei cieli", pubblicato dall'etichetta ferrarese New Model Label. Per trovare la giusta ispirazione Cané è andato a vivere in un casolare abbandonato vicino a Ferrara e seguendo il fluire del tempo, senza sveglie e orologi a scandire le ore e la frenesia della vita moderna, ha composto brani di musica elettronica che abbracciano la sperimentazione, il trip-hop, l'electro-rock e anche la classica contemporanea. Marighelli, artista poliedrico e con diversi album all'attivo a proprio nome, come Margaret Lee e con il progetto Vuoto Pneumatico, ha composto le liriche seguendo un processo di adattamento alle idee sviluppate da Cané. Una condivisione artistica e allo stesso tempo un completamento avvenuto in maniera quasi naturale che ha dato origine a un lavoro non di immediata assimilazione ma assai stimolante e che nasconde diverse chiavi di lettura. Tema centrale dell'album è l'amore, visto nella sua evoluzione e analizzato nella sua capacità di essere motore dell'universo così come elemento fondante dell'esistenza degli individui. L'ascoltatore partecipa ad un viaggio tra lo spazio e il tempo, passando dal macro al micro, dallo spirituale al carnale. Un continuo oscillare in un vortice magmatico e avvolgente che disorienta e non concede punti di ancoraggio. In questo quadro solo i tarocchi sembrano poter regalare una chiave di lettura; le carte sono l'unico mezzo per prendere coscienza del reale e della propria esistenza.
Abbiamo provato a saperne di più intervistando i due artisti.




Giacomo, "Del movimento dei cieli" è il tuo primo esperimento di musica elettronica. Cosa ti ha attirato verso questo genere? 

Marighelli: «Non saprei dirlo con esattezza; era già dal 2012, durante la stesura del disco "Margaret Lee presenta: Giacomo Marighelli", che sentivo mi sarebbe piaciuto realizzare un disco con musica elettronica. Nel frattempo è nata la collaborazione per Vuoto Pneumatico e l'idea è finita in un cassetto anche se già nel disco di Vuoto Pneumatico qualche cosa di elettronico ha iniziato ad emergere. Chiacchierando con l'amico Friedrich Cané, è nata la voglia da parte di entrambi di lanciarci in questa avventura, e la cosa che mi è piaciuta di più è che ho lasciato totalmente a lui la parte della composizione dei brani, ed io mi sono occupato solo dei testi e della voce stessa. Così è nato "Friedrich Cané & Giacomo Marighelli – Del movimento dei cieli"».

Quando si sono incrociate le vostre strade?

Marighelli: «Ci conoscevamo già da anni grazie all'amico comune Eugenio Squarcia, detto Moreau. Friedrich ha registrato due basi elettroniche per le canzoni "Buio asmatico" e "Buon Natale" dell'album "Vuoto Pneumatico"; da lì a poco tempo abbiamo deciso di creare qualche cosa assieme».

Come sono nate le canzoni del disco?

Marighelli: «Per quasi tutto il mese di agosto del 2014 Friedrich ha vissuto in un rudere vicino a Ferrara: disperso dal mondo intero, nascosto anche se vicino ad un centro abitato, senza acqua potabile, tra le stelle, gli alberi e il vento. Ogni sera sono andato a trovarlo, lui mi faceva ascoltare ciò che in giornata aveva composto, mi spiegava il titolo che voleva dargli sotto forma di spiegazione scientifica, ed io estrapolavo i concetti trasportandoli nel quotidiano della vita comune: dal macro al micro. Tutto il disco è collegato dall'inizio alla fine; le canzoni parlano di una storia d'amore, di ciò che possiamo vivere ogni giorno, dell'amore vero, che se si vive pienamente è assoluto nello spazio e nel tempo. Riguardo i titoli ho accennato che era Friedrich ad indicarmeli, perché anche lui stesso è partito da un concept seguendo una linea dritta dal primo ("Nadir") all'ultimo brano ("Zenith"); quindi i titoli sono l'unica parte dei testi che non ho scelto io ma che ho accolto da lui».
Cané: «È stata un'esperienza fuori dal tempo. Ero svincolato dal normale ciclo di vita, dagli orari scanditi dagli impegni. Mangiavo quando avevo fame, dormivo quando avevo sonno. Suonavo per ore, senza sosta, senza accorgermi della luce e del buio. Uscivo di notte per guardare il cielo stellato, per ascoltare i suoni degli animali, del vento, delle foglie. La scaletta del disco è emersa naturalmente: il racconto di un'evoluzione, una storia che ruota intorno alla nascita e allo sviluppo dell'universo, inteso come organismo intelligente. Giacomo ha intuito il parallelismo con la vicenda umana, il riflesso di qualcosa di più grande con il quale è connessa in un intreccio indissolubile».

Siete stati liberi di esprimervi o vi siete influenzati vicendevolmente con consigli, suggerimenti, ascolti e quant'altro?

Marighelli: «Ci siamo lasciati abbastanza liberi, pochi consigli l'uno all'altro. Devo dire che con i testi non ho avuto vincoli o difficoltà a lavorare con lui; l'unico brano in cui Friedrich mi ha chiesto se potevo inserire l'elenco degli elementi è "Elementi in divenire", ed è stato un piacere per me declamarli».
Cané: «Ho cercato di ridurre al minimo il rumore di fondo. Ho scelto l'isolamento e prima di iniziare a scrivere non ho ascoltato musica per circa due mesi. Durante le registrazioni ho letto molto e le idee hanno preso forma. Penso che io e Giacomo ci siamo influenzati a vicenda, anche se forse in modo inconsapevole».

Sul booklet, tra i ringraziamenti compare il nome di Franco Battiato. Un omonimo o un ringraziamento a un artista la cui musica è stata fonte di ispirazione?

Marighelli: «È stata una scelta di Friedrich. Ascolto volentieri Battiato ma non ne sono un seguace e non lo conosco a fondo. Non c'è un periodo artistico che preferisco, anche se uno degli album che conosco meglio è "Gommalacca"».
Cané: «Battiato è un punto di riferimento musicale, ha saputo coniugare sperimentazione e musica colta, attraversando generi molto diversi tra loro e tutto questo nell'ambito del panorama musicale italiano, che di certo non è tra i più ricettivi. Apprezzo molto il periodo elettronico degli anni Settanta, quello rock della seconda metà degli anni Novanta, e le composizioni di musica sacra. A livello sonoro, l'album più incisivo penso sia "Dieci stratagemmi"».

Secondo voi la musica elettronica nel futuro prenderà sempre più il sopravvento oppure rimarrà solo una delle possibili strade da percorrere?

Marighelli: «Il futuro non esiste, chi può dirlo. Secondo me la musica prenderà volti sempre più ancestrali, come una sorta di ritorno alle origini ma con coscienza».
Cané: «L'approccio alla musica elettronica rappresenta una scelta tecnica. Nel momento in cui ti rendi conto che le potenzialità sono infinite, sta a te trovare gli arrangiamenti e i suoni che meglio si adattano alla composizione. Che siano wobbler acidi da drum'n'bass o sezioni di un'orchestra sinfonica, o la combinazione di sonorità diverse, i confini di genere ormai sono stati abbattuti. Questo è il vero cross-over».

Presenterete dal vivo le canzoni dell'album?

Marighelli: «Le stiamo già presentando. Quando i locali sono interessati a proporre concerti di poesia e di arte, allora ci considerano. L'artista Alessandra Naif ci accompagna con la pittura dal vivo, quindi musica e pittura live. Purtroppo in Italia anche se sei un musicista indipendente, devi fare parte di un giro che automaticamente etichetta l'indipendente moderno, o meglio l'"in-dipendente" all'interno di determinati canoni o schemi commerciali. Insomma nulla di diverso da stereotipi di major o gerarchie divisorie».
Cané: «Il disco ha una sua complessità, che per quanto possibile viene riproposta dal vivo. Durante i concerti, ai synth si affiancano il pianoforte e il piano elettrico. Le parti suonate sono quelle che caratterizzano i brani, ma con alcune varianti che le rendono più vive».

Quali sono i vostri punti di riferimento nella vita di tutti i giorni e in ambito musicale?

Marighelli: «Nella vita è vivere, essere me stesso e non ciò che gli altri vogliono che io sia; quindi un costante sviluppo della propria coscienza, impegnandomi a sviluppare e crescere con amore. In ambito musicale, onestamente in questo periodo sono totalmente casuali: vado su Youtube e inizio ad ascoltare i brani suggeriti e da lì continuo per mesi girando attorno a generi anche totalmente differenti. Ho scoperto gruppi fantastici in questa maniera. Ma anche grazie a consigli di amici, basta che ci si mandi un brano durante un discorso via chat o e-mail, ed ecco che si scoprono mondi sconosciuti. Fondamentalmente il mio passato musicale è composto da Nick Cave, Giorgio Gaber, Giorgio Canali, Noir Désir, Fausto Rossi Faust'O, i primi Litfiba, i Bluvertigo, One dimensional man, qualche album dei Marlene Kuntz, quando ero bambino ascoltavo Marilyn Manson, e tanti altri».
Cané: «Amo chi riesce a vedere al di là degli schemi, senza preoccuparsi di essere giudicato. In questo senso, ammiro alcune menti illuminate come quelle di Douglas Hofstadter, di Jiddu Krishnamurti, di Richard Feynman. Nella maggior parte dei casi, rimango impressionato da chi sviluppa concetti radicali. In ambito musicale, gli innovatori come Johann Sebastian Bach, Georg Friedrich Händel, Brian Eno, Peter Gabriel, i Massive Attack, i Radiohead, Björk, David Sylvian. Tra gli italiani Battiato, Benvegnù e Umberto Maria Giardini. Nella vita di tutti i giorni è difficile avere dei punti di riferimento. Mi affido alle stelle mobili più che a quelle fisse, credo negli incontri. Bisogna lasciarsi trasportare dalla corrente, dominarla senza venirne travolti».

Come avete finanziato il vostro disco?

Marighelli: «L'abbiamo finanziato grazie al crowdfunding. Siamo contenti di questa possibilità sostenuta da persone che credono in noi. Sono metodi ottimi, possono aiutare ed essere efficienti. Se mi interesso di arte, inizio io stesso a sostenerla, e queste metodologie online me lo permettono facilmente».
Cané: «Il crowdfunding è uno strumento democratico e consente di confrontarsi con il riscontro del pubblico molto più di quanto faccia un talent show. Intendo dire che chi decide di finanziare un progetto, lo fa perché ci crede davvero: è attivo, curioso, alla continua ricerca di informazioni e stimoli. L'esatto contrario dei passivi come si lasciano anestetizzare da uno schermo televisivo».

Più volte nei testi delle canzoni compaiono i tarocchi. Giacomo, che significato hanno per te e che rapporto hai con l'esoterismo?

Marighelli: «I tarocchi sono uno strumento che uso quotidianamente; parto dal presupposto che il caso non esiste, quindi qualunque carta esca ha una motivazione ben precisa per essere uscita. Attraverso le carte possiamo conoscere meglio noi stessi, capire il proprio inconscio, "mostrarci" cose che senza certi strumenti non vorremmo davvero capire e/o mettere a fuoco. Essendo strumenti (un ponte, un tramite), il tarocco serve come "scusante" per accettare e ammettere determinate parti del proprio inconscio. Questo vale anche leggendoli ad un consultante; lo si può aiutare a prendere coscienza, a capire quali siano i suoi reali problemi, da dove provengono, il perché certi nodi gli impediscano di proseguire nella vita e lo costringano a ristagnare sempre nella stessa situazione. Ecco, le carte sono davvero utili da questo punto di vista. Non esistendo il tempo, non mi interessa leggerle come metodologia divinatoria, cartomanzia, perché tutto ciò che viene detto del futuro condiziona il consultante a tal punto da fare accadere quel futuro, o da non farlo accadere. Presupponiamo che non ci sia un destino, non ci sia il destino, ma ci sia Destino. All'interno di Destino ognuno di noi ha infiniti destini. Quindi in ogni istante stai certamente andando verso una direzione, ma tu quando vuoi puoi cambiarla; quindi se tu mi predici una di quelle infinite linee, magari in quel momento ci stavo anche andando, ma finita la lettura posso benissimo cambiare linea. Quindi è totalmente inutile».

Qual è il filo conduttore del disco?

Marighelli: «L'amore».
Cané: «La fonte d'ispirazione principale è sempre la natura. Rimango meravigliato di fronte alle geometrie, ai colori, ai meccanismi. Facciamo parte di tutto questo, noi siamo l'universo. Possiamo espanderci verso l'orizzonte o condensare la materia in uno spazio infinitesimo. L'evoluzione del cosmo coincide con quella degli esseri viventi».

Quali sono le parole che meglio descrivono le tue canzoni?

Marighelli: «Amore, cosmo, vita e poesia».
Cané: «Pensiero, trasporto, superamento dei confini».

C'è qualche argomento di cui non parlerai mai nelle tue canzoni?

Marighelli: «Non lo so, cerco di non precludere nulla. Adesso sento molta motivazione in argomenti d’amore, non d'amore con la "a" minuscola, ma dell'Amore incondizionato, dell'essere umano, e di tutto ciò che sento fluire con esso, anche del quotidiano».
Cané: «Per questo disco non ho scritto testi, ma non escludo di farlo in futuro. Penso che la libertà di espressione sia fondamentale nelle attività creative, per questo motivo ho apprezzato il lavoro svolto da Giacomo: i suoi testi spesso sono criptici e si prestano a molteplici interpretazioni, la forma metrica è inconsueta e mai banale. Scriverli sotto flusso di coscienza ha contribuito molto al risultato finale. In sintesi, l'unica cosa importante è evitare di produrre banalità. Ma tutto ciò deve avvenire senza sforzo, deve essere un processo spontaneo».

Giacomo, sei un artista poliedrico e nel corso della tua carriera hai percorso molte strade. Una di queste ha portato al progetto Vuoto Pneumatico con Gianni Venturi. È una storia finita o l'album del 2014 avrà un seguito?

Marighelli: «Chi può dirlo. Attualmente mi sto dedicando ad altro, tra cui il primo disco solista firmato come Giacomo Marighelli e che se riesco pubblicherò volentieri entro il 2017».


Titolo: Del movimento dei cieli
Artisti: Friedrich Cané e Giacomo Marighelli
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2015

Tracce
(testi di Giacomo Marighelli; musiche di Friedrich Cané)


01. Nadir
02. Il motore immobile
03. Il demiurgo sulla soglia del tempo
04. Elementi in divenire
05. Azimuth
06. Idrodinamica
07. Fotosintesi
08. Le infinite forme
09. Dybbuk
10. Almucantarat
11. Satellite
12. Ardesia
13. Icosaedro
14. Zenith

sabato 23 gennaio 2016

"Shah mat": per The Chanfrughen è scacco matto





Arrivano da Andora, dall'estremo ponente della provincia di Savona, in Liguria, e "Shah Mat" è il loro secondo disco. Loro sono The Chanfrughen, trio composto da Alessandro Bacher (chitarra), Gianluca Guardone (voce e basso) e Andrea "Felix" Risso (batteria). Archiviato l'esordio discografico del 2014 con "Musiche da inseguimento", il gruppo è tornato al lavoro e ha inciso un disco dalle marcate influenze anni Settanta in cui il funky si sposa con la psichedelia e con incursioni rock blues di notevole impatto. Chitarre taglienti, trame di synth e un retrogusto speziato che porta a oriente sono gli ingredienti di questo lavoro registrato al Greenfog di Genova in presa diretta, come si faceva una volta, senza cuffie e con l’ausilio di strumentazione vintage. Un disco che merita di essere ascoltato e che suona compatto, senza cali di tensione emotiva. Ad arricchire il robusto sound del gruppo ci ha pensato Agostino Macor, già componente della band di rock progressivo La Maschera di Cera, che ha suonato synth, organo e mellotron. Emanuele Miletti ha dato il suo contributo al sitar.
I testi scritti da Gianluca Guardone raccontano personaggi dall'animo corrotto come il sanguinario mercenario di Bordighera in "Delle Fave" o l'egocentrico arrivista "Limonov" ispirato dal romanzo di Emmanuel Carrère, di paradisi fiscali in "Belize", di luoghi lontani nella canzone che dà il titolo al disco, e di problemi attuali come quello dei profughi che scappano dalla guerra e dalla miseria o del tristemente noto "T.S.O." che per The Chanfrughen è diventato Trattamento Sociale Obbligatorio.  
Con l'aiuto dei componenti del gruppo abbiamo andorese siamo andati alla scoperta di "Shah Mat". 



Ragazzi, iniziamo dal nome della vostra band. Cosa significa Chanfrughen e dove lo avete pescato?

Chanfrughen: «A questa domanda rispondiamo insieme, all'unisono, perché siamo sulla stessa barca. Il nome non significa nulla ma nello stesso tempo contiene un suono, un modo di essere e non essere, un modo per definire la nostra attitudine al rumore, all'unione di generi, suoni e cianfrusaglie. Come abbiamo sempre dichiarato, dobbiamo il nostro nome ad un geometra andorese che ancor prima della nostra nascita definiva così noi musicisti».

Incontro fortunato quindi. Passiamo a parlare del vostro secondo disco che si intitola "Shah Mat", espressione di derivazione persiana che descrive una situazione del gioco degli scacchi: il re è morto o meglio scacco matto. Qual è il vostro re morto?

Guardone: «Il re morto non è per me una persona isolata che nella sua torre muove i fili del suo popolo. Esso è morto da tempo facendo spazio a nuove figure che con meno visibilità e più arroganza ci impongono regole da seguire».
Risso: «Ai giorni nostri i re morti sono tanti, si susseguono in continuazione. Un po' li ho uccisi io, un po' si sono autoeliminati. La realtà è un creatura multiforme, bisogna imparare a non avere un re che ci guidi».
Bacher: «Son d'accordo con Gianluca, credo ci siano modi alternativi, più passionali, per vivere al meglio. Recentemente ho scoperto la figura del broker telefonico».

Come si sono svolte le registrazioni?

Bacher: «Il disco è stato registrato in larga parte in presa diretta nell'arco di tre giorni trascorsi al Greenfog Studio di Genova. Ci siamo chiusi tutti in una stanza, come una volta, per cercare di ricreare le atmosfere live dei brani, consapevoli che questo approccio ben si adattava alla nostra attitudine seventies».

Come è cambiato il suono del gruppo con l'inserimento di Agostino Macor?

Chanfrughen: «Intanto diciamo che è un gran simpaticone, molto bravo con i calembour. L'apporto di Ago è stato importante perché coi suoi vari ammennicoli - synth, organo, rhodes, clavinet - ha edulcorato il nostro suono e ci ha permesso di trovare nuove idee per spaziare nei nostri pezzi vecchi e nuovi».

Chi di voi scrive i testi?

Guardone: «Li scrivo io cercando con le mie poche capacità di unire i testi in italiano alla metrica, spesso abbastanza complessa. Suonando anche il  basso, oltre che cantare, devo adattare le parole con un taglia e cuci stile uncinetto. Si parte di solito da un personaggio o da una storia che ci piace o troviamo interessate e poi la sviluppo».

Quali sono le fonti che più hanno ispirato la scrittura delle vostre canzoni?

Chanfrughen: «Siamo partiti da una idea di rock energico e ruspante alla Jon Spencer per poi ritrovarci a suonare in diversi modi, con parti varie che sfiorano il prog, l'acidità chitarristica alla Hendrix, i testi provinciali alla Conte, le ritmiche alla Fela Kuti. Un melting pot che cerca di accontentare tutti i nostri palati, per la verità molto diversi tra loro».

Perché avete deciso di iniziare il disco con una ouverture?

Bacher: «In realtà è nata come parte integrante di "Belize". La canzone prende forma pian piano. Ci piaceva l'idea di un brano che lasciasse all'ascoltatore il tempo di capire di cosa si trattasse. Ci piaceva questa idea di artigianalità delle canzoni, speriamo venga fuori».

Nonostante arriviate dalla provincia nelle vostre canzoni parlate di luoghi lontani: Belize, Armenia, Mar Nero, Samarcanda. Perché vi siete spinti così lontano?

Bacher: «Perché come direbbe Conte: ‹se non ci sei mai stato in un posto lo descrivi meglio›».
Guardone: «Ci piace parlare di perle nascoste, personaggi fuori dal coro. Lontano o vicino, poco conta, è importante l'interesse verso il soggetto».

Chi è il protagonista della canzone "Delle Fave" che dopo aver sparso sangue durante la guerra in Bosnia ha trovato una fine ingloriosa nelle sigarette Marlboro?

Risso: «È Carlo Delle Fave, un folle che in mancanza di sbocchi di vita a Bordighera diventò un mercenario pluriomicida. L'idea di raccontare questo personaggio è nata vedendo il docufilm "Sono stato Dio in Bosnia" che racconta appunto l'epopea di Delle Fave che fece fortuna durante la guerra nell'ex Jugoslavia. Il paradosso è che andò pure in televisione a raccontare la sua storia e Toto Cutugno disse di lui che era un brav'uomo. Persino lo stesso Delle Fave ha sempre evitato di definirsi così. Nulla di più facile nella società dai miti distorti. Si lasciò morire con uno stile di vita autodistruttivo, forse si pentì di quello che aveva combinato in vita».

In "T.S.O." avete trasformato il trattamento sanitario obbligatorio, balzato tristemente alla cronaca negli ultimi tempi, con il trattamento sociale obbligatorio. Per voi dove sta la pazzia?

Guardone: «È folle creare regole che ghettizzano persone dalla sensibilità superiore. C'è la tendenza a ridicolizzare i più sensibili per non dover ammettere sbagli e superficialità di noi cosiddetti normali».

Una canzone l'avete dedicata anche ai "Parassiti", razza umana ben difficile da sconfiggere…

Guardone: «Sono i classici personaggi che trovi sempre inchiodati al bancone del bar, quelli che dai loro racconti ti sembrano che vivano in un romanzo di Jack London però poi li trovi sempre lì».

Le vostre canzoni sono molto attuali. In "Shah Mat" fate riferimento anche al tragico problema dei profughi: ‹…pazzi d'occidente incontrano chi scappa da levante addosso la miseria della storia, bloccati dalla fame e dalla soia mentre noi... ad ovest... grosse quantità di oppio e derivati, ci consumiamo negli orari sbagliati›. Qual è la vostra idea della situazione attuale?

Chanfrughen: «Non vogliamo occuparci di politica, ci limitiamo nel nostro piccolo a descrivere la realtà. I mercanti che  percorrevano la via della seta compravano le merci migliori arricchendosi e noi ora, dopo millenni di furti, ci lamentiamo di persone che cercano soltanto una parte di vita che gli abbiamo sottratto».

Ho lascito per ultima "Belize" di cui è uscito uno splendido video. Descrivetemi questa canzoni dai confini così lontani…

Bacher: «Il video è stato girato in tre diverse location: a Bergeggi, sul Monte Beigua e al teatro Altrove a Genova. Diciamo grazie a tutti i nostri collaboratori che si sono fatti in quattro per noi e hanno subito anche dei furti sul Beigua! Ma non si sono fermati davanti a nulla».
Guardone: «Il Belize mi ha sempre incuriosito. Un piccolo paradiso fiscale, fuori dai grandi giri, un incrocio di razze e sentimenti, una piccola favola vista oceano, quelle terre romantiche dove vedresti bene Corto Maltese ad accompagnarti».


Titolo: Shah mat
Gruppo: The Chanfrughen
Etichetta: Molecole Produzioni
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi Gianluca Guardone, musiche The Chanfrughen)

01. Voodoo belmopan (ouverture)
02. Belize
03. Parassiti
04. Rhum, spezie, sciac trà
05. Shah mat
06. T.S.O.
07. Delle Fave
08. Limonov



martedì 12 gennaio 2016

Le Mosche augurano "Boa Viagem Capitão"




L'album "Boa Viagem Capitão" segna l'esordio discografico de Le Mosche, formazione che nasce a Bologna ma che guarda a orizzonti molto più ampi. Nelle nove canzoni scritte da Giampiero Lupo, brindisino di nascita, si possono rintracciare i migliori insegnamenti della canzone d'autore doc, influenze jazz, elettroniche e stimolanti inserzioni di musica popolare dell'Italia meridionale. La forte impronta culturale del sud Italia si sposa alla scelta di cambiare continuamente registro e di affidarsi a soluzioni che in alcuni frangenti lasciano piacevolmente spiazzati. Si passa con estrema facilità da canzoni cantate in francese ad altre in italiano o inglese. Non manca un episodio di canzone tradizionale come la rielaborazione del famoso brano pugliese "La rondinella", cantato in dialetto brindisino.
Filo conduttore del disco è il viaggio, non solo fisico ma visto anche come continuo cambiamento e mutare dell'esistenza umana. Emblematica la scelta del gruppo di aprire e chiudere il disco con due recitativi (voce narrante di Simona Sagone) che segnano alla perfezione l'inizio e la fine, per ora, di questa prima esplorazione del mondo e del genere umano.
Un disco piacevole, dal sapore mediterraneo con qualche spruzzata di ritmica sudamericana, che è una buona base di partenza per un viaggio la cui storia è ancora tutta da scrivere e la cui destinazione per ora è ignota.
Le Mosche sono Giampiero Lupo (voce, synth, chitarre, organetto, mandola, castagnole e loops), Mirco Mungari (clarinetto, saz, bouzouki, oud, tamburi a cornice e friscaletto), Giovanna Merico (sax e tamburo a cornice), Lorenzo Mattei (basso e darbouka). Ospiti del disco sono la cantante Claudia De Candia sul brano "Nui" e il batterista Tiziano Schirinzi.
In questa intervista Lupo e Mungari presentano il loro progetto.



Chi sono Le Mosche?

Mungari: «Siamo un gruppo folk-cantautorale che unisce la musica dei cantautori italiani con la tradizione mediterranea, l'elettronica e il jazz».

Quali sono state le vostre esperienze artistiche prima di questo disco d'esordio?

Mungari: «Ricordiamo con affetto un minuscolo garage alla periferia di Bologna, la "saletta", come usavamo chiamarla, in cui davvero tutto è cominciato. Un'estate e un inverno di prove, esperimenti, chiacchiere, litigi, sogni a occhi aperti, duro lavoro: nell'afa e nel freddo si cementava la nostra amicizia e il nostro rapporto artistico. Tutti noi venivamo da esperienze artistiche molto diverse. Giampiero e Lorenzo dal cantautorato e dal rock indipendente, Giovanna dal jazz e io addirittura dalla musica antica e da alcune esperienze di ricerca nella musica etnica».

Dopo questo inizio come è proseguita la vostra avventura nel mondo della musica?

Lupo: «Una volta formatosi, il gruppo è stato impegnato in diversi concerti a Bologna e anche fuori. Durante l'estate 2012 abbiamo autoprodotto una demo di cinque tracce contenenti canzoni inedite e due brani popolari rivisitati. La demo si intitola "Il mio piccolo segreto" e ha visto la collaborazione del sassofonista agrigentino Andrea Francesco Manno. Nel 2013, Le Mosche hanno partecipato con successo a "Musica nelle aie", manifestazione che ha visto l'esibizione di una selezione di gruppi locali per le strade di Faenza. Frutto di questa esperienza è stata la collaborazione con l'etichetta Galletti-Boston che ha selezionato un nostro brano presente nella demo "Il mio piccolo segreto" e lo ha inserito nella compilation "Musica nelle aie 2013". Dopo tanti concerti e tanta esperienza di lavoro in studio, ha visto la luce il primo album della band, "Boa Viagem Capitão", un concept album di dieci canzoni, nove inedite e una della tradizione popolare salentina rivisitata. Il filo conduttore dell'album è il viaggio con le sue mille sfaccettature, narrato attraverso le storie di dieci piccoli invisibili eroi».

Come è nato "Boa Viagem Capitão"?

Mungari: «L'idea di registrare un album sul concetto del viaggio è maturata durante la scelta delle canzoni da inserire nella scaletta del cd. Ci siamo accorti che tutte le canzoni scelte avevano il viaggio come filo conduttore. Ci è sembrato quindi naturale pensare a un concept album che avesse  un incipit, il testo narrato di "Boa Viagem Capitão", delle storie ed un finale, il testo narrato di "Boa Viagem Capitão (outro)". Tecnicamente parlando, l'album è stato registrato da Giampiero Lupo in diverse location, mixato al Pure Rock Studio di Brindisi da Nanni Surace e masterizzato al Nautilus di Milano».

Filo conduttore del disco, si diceva, è il viaggio ma mi piace allargare il discorso al movimento, all'evoluzione. Lo trovi corretto?

Lupo: «Direi senz'altro di sì. Il mutamento è proprio della musica in sé, ed è il presupposto da accettare in ogni esperienza artistica. Non si può viaggiare senza cambiare e cambiarsi, senza evolvere nel senso più semplice del termine: ovunque tu stia andando, il viaggio agisce su di te, e quando arrivi sei una persona diversa rispetto a quando sei partito. Viaggiare significa voler cambiare».

Anche il mare è uno degli elementi più ricorrenti nelle vostre liriche. Che rapporto avete con questo elemento?

Lupo: «Il nostro è un rapporto molto profondo con il mare. È un elemento fondamentale nel viaggio e di questi tempi purtroppo è legato anche al bisogno di alcuni di affrontarlo, con tutti i pericoli che questo comporta, per sfuggire a guerra e fame. Nel nostro piccolo abbiamo voluto raccontare anche questa storia».

Nel disco troviamo canzoni cantate in francese, in inglese, recitativi e anche musica tradizionale. Perché avete voluto variare così tanto nella proposta artistica?

Mungari: «In realtà, non ci siamo preoccupati molto dell'eterogeneità della proposta artistica. Semplicemente ci siamo voluti esprimere nel linguaggio che ci era più congeniale, sia esso narrato o in una lingua diversa dall'italiano. In alcuni casi, si veda "L'aviateur", la storia che viene raccontata decide la lingua da utilizzare. La canzone citata parla appunto di una donna algerina che fugge dall'atrocità della guerra di indipendenza dalla Francia. O in "Nui", un brano che racconta di una donna salentina che vede partire il suo compagno per la guerra».

Non pensi che tutta questa eterogeneità possa rendere difficile all'ascoltatore inquadrare il vostro stile?

Mungari: «Probabilmente è vero, non è facile inquadrare il nostro stile. La cosa però è in parte voluta, perché non amiamo essere costretti all'interno di un solo genere musicale. Inoltre, riteniamo che ciò che mette insieme le diverse proposte artistiche sia appunto il sound che ci caratterizza e che in qualche modo accomuna i diversi pezzi del nostro repertorio».

Perché avete scelto di aprire e chiudere l'album con due recitativi?

Lupo: «Per suggerire una struttura circolare, un frame che traccia anche un percorso. Un inizio e una fine che non coincidono ma si richiamano a vicenda. Inoltre, i due recitativi introducono il tema che accomuna le storie narrate nell'album e chiudono invece con una voce di speranza, forse non una vera chiusura ma un invito a prendere coraggio ed iniziare un nuovo viaggio».

Nel disco proponete una rilettura di "La rondinella", brano della tradizione cantato in dialetto. Che rapporto hai con la musica tradizionale? La ritieni ancora fonte di ispirazione?

Lupo: «Assolutamente sì. Siamo tutti consapevoli di quanta parte della musica tradizionale abbia ispirato la musica odierna di tutti i generi. Il nostro rapporto con la musica tradizionale non è strettamente filologico, ma ci piace prenderla come una fonte di ispirazione per esplorare nuove strade, sia nella tavolozza sonora, con l'utilizzo di strumenti etnici e tradizionale, sia nell'arrangiamento, cercando di modernizzare, senza stravolgere, armonie antiche».

In "Boa Viagem Capitão" cantate: ‹Viaggiare è un atto di tremenda  arroganza, di dolce e inevitabile assurdità›. Vorrei che mi spiegassi questa affermazione…

Lupo: «Come dicevo prima, viaggiare coincide con cambiare. L'atto del cambiamento è insieme un rischio e una responsabilità; chi parte sa di dover mettere qualcosa in discussione, e partendo accetta la rottura col passato. Partire presuppone una decisione, una scelta, e comunque una cesura; qualcosa che era quotidiano viene condannato a diventare ricordo, e qualcosa che era immaginazione è costretto a diventare realtà di ogni giorno. Per viaggiare bisogna correre il rischio dell'abitudine nuova e dell'amore per essa».

In "Santa Lucia" raccontate in pochi versi drammatici lo stato d'animo di una persona che decide di cambiare sesso. Argomento non facile da trattare. Come è nato questo testo?

Lupo: «Il testo è dedicato a una mia amica e l'idea in particolare nasce dal concetto dell'esclusione. Una esclusione che nasce dall'orientamento sessuale e dalla decisione di cambiare sesso. Una volontà che nella nostra società è purtroppo causa di segregazione ed emarginazione. Tuttavia scrivendo il testo ho voluto sottolineare che l'esclusione è spesso superata attraverso l'inclusione all'interno di un gruppo anch'esso soggetto all'emarginazione. La nostra eroina, così come è avvenuto nella realtà, ha trovato sostegno tra gli emigranti che come lei hanno dovuto lasciare la propria casa. È per questo che si immagina, con poca modestia ed un po' di trasgressione, Santa Lucia, patrona transgender degli emigranti».

Perché in copertina avete scelto di rendere omaggio a Salgueiro Maia, l'eroe della Rivoluzione dei Garofani del 1974 in Portogallo?

Lupo: «L'idea è nata in noi da un'inquadratura di un film. Una colonna di carri armati sta per entrare nel centro di Lisbona all'alba del 25 aprile 1974, portando nel vivo la Rivoluzione dei Garofani; i mezzi però si arrestano davanti ad un semaforo rosso. Un giovane capitano domanda stizzito il perché di quella sosta, e un soldato imbarazzato gli risponde che ‹c'è il semaforo rosso, capitano. Non dobbiamo dare nell'occhio›. Per noi quella scena surreale è una sorta di archetipo di ogni viaggio impossibile, assurdo, scomodo. Quel giovane capitano dal volto pacifico era Fernando José Salgueiro Maia, l'eroe silenzioso della rivoluzione portoghese, colui che con la sua mite pazienza riuscì a riportare la democrazia nel suo paese senza sparare una pallottola, e finì dimenticato nell'ingratitudine senza mai reclamare nulla. Ci sembrava doveroso omaggiarlo in qualche modo, perché una delle prime scintille che hanno dato vita all'idea del nostro album è scaturita proprio dai discorsi su quella irreale rivoluzione, sul viaggio interiore di una generazione di capitani di vent'anni che scelgono di non sparare più un colpo seguendo le loro coscienze».

In quasi tutti i testi delle canzone ho scorto un fondo di amarezza e disillusione. Solo nel recitativo finale sembra esserci speranza per il viaggiatore...

Lupo: «Veniamo dal sud, anche il bassista ormai si sta adeguando. Il disincanto, la fatica del quotidiano, l'emarginazione più o meno palese fanno parte del nostro vissuto e della memoria delle nostre terre. Il viaggio, per chi viene da sud, è anche una terribile necessità di vita. Nel nostro piccolo noi quattro siamo tutti in qualche modo emigranti, abbiamo dovuto accettare il viaggio e il cambiamento per costruire i nostri sogni. Questo si riverbera nella nostra musica, insieme con la speranza, esile ma tenace, che ogni viaggio porta comunque con sé».

Dove vi porterà il vostro viaggio?

Mungari: «Kavafis diceva: ‹Quando parti per Itaca devi augurarti che il viaggio sia lungo / fertile in avventure ed esperienze›. Non ci domandiamo, oggi, dove approderemo; preferiamo goderci il paesaggio dal ponte di prua e imparare qualcosa in ogni porto in cui getteremo l'ancora».



Titolo: Boa Viagem Capitão
Gruppo: Le Mosche
Anno di produzione: 2015
Etichetta: New Model Label

Tracce
(musiche e testi di Giampiero Lupo, eccetto dove diversamente indicato)

01. Boa Viagem Capitão
02. L'aviateur (Nuara)
03. Santa Lucia
04. Una mattina
05. Renata
06. La rondinella  [tradizionale]
07. Nui
08. Ritorni
09. La vertigine azzurra
10. Boa Viagem Capitão (outro)




martedì 29 dicembre 2015

Sergio Arturo Calonego, tra premi e Marcel Dadi






Sergio Arturo Calonego torna con "Dadigadì". Dopo l'apprezzato album d'esordio, "Marinere", uscito nel 2013, il cantautore e chitarrista milanese riprende la strada della sperimentazione musicale e propone un disco sfaccettato, ricco nella sua essenzialità e denso di emozioni. Il nuovo cd è composto da otto canzoni in cui la chitarra acustica recita un ruolo da indiscussa protagonista e le parole sono piccoli cameo che regalano luci e riflessi emozionali. Calonego, premiato nel corso dell'anno con la targa "miglior chitarrista acustico emergente 2015" dall'Atkins Dadi Guitar Players Association, rende omaggio a Marcel Dadi, chitarrista francese scomparso prematuramente, e seduce l'ascoltatore con note e accordi che richiamano atmosfere arabeggianti ("Duende"), tzigane ("Dancera") e blues ("Delta"). Un album rilassante, da gustare accompagnato da distillati pregiati e profumi speziati alla luce soffusa di qualche candela. 
Come nel precedente capitolo musicale, Calogeno per la sua chitarra si affida all'accordatura DADGAD (Re-La-Re-Sol-La-Re) di cui Pierre Bensusan è maestro indiscusso. Una accordatura aperta che offre la possibilità di esplorare soluzioni sonore e intervalli non abituali. Tutte le canzoni dell'album sono registrate senza sovraincisioni e Armando Illario arricchisce con la sua fisarmonica la canzone "Dancera".
Calonego ci racconta il suo 2015, anno ricco di soddisfazioni, musica e riconoscimenti. 




Si va a chiudere un anno ricco di soddisfazioni durante il quale hai vinto il premio "miglior chitarrista emergente dell'anno" nell'ambito della ventiduesima convention dell'A.D.G.P.A. che si è tenuta a Conegliano. Come si è svolto il concorso?

«Permettimi di spendere due parole su A.D.G.P.A. per chi, non frequentando il mondo della chitarra acustica, non conosce questa realtà. A.D.G.P.A. è un'associazione culturale che nasce in Francia alla fine degli anni '80 come fan club legato al grande chitarrista francese Marcel Dadi, un vero innovatore molto legato a Chet Atkins, che ha ampliato il linguaggio della chitarra. Dadi ha perso la vita nel 1994 a causa di un incidente aereo. L'A.D.G.P.A. italiana nasce agli inizi degli anni '90 grazie all'avvocato milanese Marino Vignali e ad alcuni amanti della chitarra acustica che, amici di Marcel Dadi, coinvolgono nel progetto alcuni padrini illustri fra i quali i chitarristi Franco Cerri e Riccardo Zappa. La mia partecipazione al concorso è stata frutto di una coincidenza: stavo registrando il mio secondo disco. Mancava credo un mese alla fine del bando di concorso ed ho inviato due brani che non avevo ancora finito di mixare. Da lì sono arrivato in finale. Il giorno della finale pensavo a tutto tranne che avrei vinto la targa di miglior chitarrista. Sono completamente autodidatta, non provengo da studi classici né accademici. La verità è che avevo delle storie da raccontare per cui non mi sono fatto troppe domande: sono salito sul palco e ho suonato i miei due brani con la massima naturalezza. Pensa che quaranta minuti prima della finale ero ancora nella piscina dell'hotel. Poi, chiaramente, la gioia è stata grandissima».

Quali canzoni hai presentato nel corso della manifestazione?

«Due brani strumentali: "Dissonata" e "Dadigadì", brano quest'ultimo che dà il titolo al mio secondo disco».

Grazie a questo successo a fine ottobre sei stato ospite del festival francese di Issoudun dedicato alla chitarra. Che ricordi hai di questa avventura?

«Ho ricordi dolci di questo mio soggiorno in Francia. È stata un'avventura nata, almeno inizialmente, senza alcuna progettazione. Vincendo "Rendez Vous" e la targa A.D.G.P.A. a Conegliano, ho avuto l'onore di rappresentare il mondo della chitarra acustica italiana in uno dei più prestigiosi festival europei. Avevo già suonato all'estero, in Svizzera, Belgio e per due anni anche in Islanda ma in questo caso il sapore del viaggio era tutta un'altra cosa. Ho ricordi di strade baciate dal sole di un autunno clemente mentre mi domando: ‹…ma cosa sto andando a fare?›. Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che sono andato al festival della Guitare de Issoudun non perfettamente consapevole di quello che stavo per fare. La delegazione A.D.G.P.A. Italia mi ha raggiunto il giorno del concerto e l'unica persona che conoscevo era Francois Sciortino che è uno dei più bravi e conosciuti chitarristi acustici francesi. Francois è un grandissimo musicista, oggi anche un amico, l'ho conosciuto a Conegliano proprio in occasione della finale».

Come ha reagito il pubblico francese sentendo le tue canzoni?

«Premetto che, un po' per indole e un po' per esperienza (ho alle spalle ormai quasi 700 esibizioni), non sento molto la pressione dei concerti anche se importanti, per cui, quando è stato il mio turno, sono salito sul palco e ho fatto quello che dovevo fare: ho suonato. Avevo preparato la scaletta da mesi per cui, musicalmente parlando, tutto è andato come speravo che andasse. C'è però un aneddoto, che è anche un ricordo bellissimo, che mi piace condividere: suonavo nel teatro del centro dei congressi di Issoudun, alla fine del mio set il pubblico applaudiva e io, dopo aver ringraziato, mi sono diretto nel backstage. A questo punto è accaduta una cosa non prevista. Mi ha raggiunto un addetto al palco e mi ha detto: ‹Monsieur Calonegò, ils vous appellent›. In effetti dal backstage ho avvertito un rumore, come una ritmica sorda, ovattata ma decisamente convinta e muscolare. Era il pubblico del teatro che stava chiamando il bis. Lo stava chiamando con forza, lo stava pretendendo. Ho capito immediatamente dallo sguardo dell'uomo di palco che non dovevo farmi attendere troppo per cui ho preso la chitarra e sono ritornato sul palco, stupito, lusingato e quasi intontito. Non avevo pensato a un'eventualità del genere per cui non mi ero preparato né la cosa giusta da dire né il brano da eseguire. Credo di aver ripetuto diverse volte "grazie" come un automa e poi ho eseguito un brano, "Darandel", che non avevo inserito in scaletta. Avrò sempre negli occhi la fotografia di questi volti che chiedono il bis a me che, giusto qualche anno fa, ho cominciato a giocare con la chitarra acustica quasi per caso nel bagno di casa. Mi sono sentito adottato. Ho un ricordo splendido di questo mio soggiorno francese».

Nelle ultime settimane è arrivato anche il tuo nuovo disco. Come è nato "Dadigadì"?

«"Dadigadì" è nato esattamente come il mio primo disco, "Marinere". Entrambi li definirei dischi di "testimonianza" più che di "proposta" perché l'intenzione di fotografare il mio momento musicale prevale su qualsiasi logica di proposta commerciale. Volevo un disco che raccontasse le storie e le suggestioni che mi dominano senza cadere nell'autocompiacimento o nell'accademico. Credo di esserci riuscito».

Come si sono svolte le sessioni di registrazione?

«Da quando produco i miei dischi mi sono imposto una regola ferrea: tre giorni di registrazione per la chitarra e due per curare le voci e mixaggio finale. Lo faccio per una questione di costi ma anche per un romanticismo che mi lega a certi dischi del passato a cui sono affezionato e per la convinzione che è il modo migliore che fa per me. Per fare questo, quindi, di solito lavoro moltissimo prima in modo da arrivare alla registrazione con una pre produzione solida e con il minimo margine di dubbio. Quando i brani mi convincono ritmicamente, armonicamente e melodicamente mi prendo un paio di mesi per imparare a suonarli con disinvoltura. A questo punto registro».

Il titolo ha parecchie suggestioni e richiami. A partire dalla tua accordatura preferita, la DADGAD, fino ad arrivare a Marcel Dadi, grande chitarrista fingerstyle francese. Quale ha la meglio o c'è dell'altro?

«"Dadigadì" è una visione ma anche una direzione precisa. È un richiamo fortissimo all'accordatura che utilizzo, la DADGAD, ma vuole anche essere una citazione affettiva di Marcel Dadi. Dico citazione affettiva o sentimentale perché suono la chitarra utilizzando tecniche lontane dal mondo sonoro di Dadi che era decisamente più orientato al fingerpicking puro e quindi legato alla tradizione di campioni quali Chet Atkins e Merle Travis».

Curiosamente i titoli delle canzoni iniziano tutti con la lettera "D". Perché questa scelta?

«Nella notazione musicale ideata da Guido D'Arezzo la lettera "D" identifica per convenzione il "re" ( A=la,  B=si, C=do D=re, E=mi, F=fa, G=sol ). Essendo totalmente immerso in questo colore ho voluto estendere questo simbolismo anche nei titoli dei singoli brani».

C'è un tema che accomuna i brani del disco?

«Direi che, a livello personale, il legame è fortissimo perché in qualche modo rappresenta il viaggio che ho intrapreso con il mio strumento. Sono stato simpaticamente definito "acoustic sailor" per questo mio essere collegamento fra il mondo della canzone d'autore e quello dei chitarristi. Ti dico senz'altro che questo cd è composto da suggestioni e intuizioni che mi legano a questo strumento e in qualche modo questo disco è una mappa del viaggio che ho fatto fino ad oggi sulla chitarra acustica».

Hai in programma un tour per promuovere l'album?

«Un vero e proprio tour no. Non ho ancora le dimensioni per poter immaginare un vero tour ed io stesso sono lontano da questo tipo di liturgie. Sono tutto sommato una "faccenda di nicchia", fino ad oggi ho vissuto di "richieste". Mi chiamano, suono. Devo dire che negli ultimi due anni ho suonato davvero tanto e ben oltre le aspettative ma quando è successo è stato quasi sempre per l'intuizione e il coraggio di promoters o gestori di locali che sono rimasti incuriositi dal mio viaggio e che lo hanno voluto proporre nei loro luoghi. La mia proposta musicale è trasversale, posso suonare praticamente ovunque: il luogo ideale per questa musica è il teatro ma non stono in una chiesa, nei jazz club e funziono molto bene anche in luoghi all'aperto se amplificati, ovviamente. Pensa che ho suonato anche in alcuni festival rock per non parlare di open act a musicisti in piazze in alcuni casi davanti a migliaia di persone. Suonando da solo ho costi decisamente abbordabili e l'unica mia richiesta formale nella scheda tecnica è avere una sedia senza braccioli, non mi serve altro. La verità è che suono se vengo richiesto e se questo non succede suono a casa, nel mio bagno dove è nata e continua ad evolversi la mia musica. Sono un fissato della composizione, non sono un forzato dei concerti».

In un paio di brani torna a galla la tua anima blues con un cantato profondo che si inserisce in pieno nella tradizione americana. Ti vedresti protagonista di un disco blues, a costo di mettere in secondo piano la chitarra?

«No».

Come in "Marinere", il tuo album del 2013, anche in "Dadigadì" le canzoni proposte sono otto. È il tuo numero fortunato o c'è un motivo preciso?

«Il numero 8 simbolicamente rappresenta l'infinito e la perfezione ma il vero motivo per cui i miei dischi contengono otto brani è perché non amo i dischi troppo lunghi. Ho in casa alcuni dischi che ascolto in certi momenti, ma in quei momenti ascolto solo quelli. Penso a miei dischi con la medesima attitudine. Li vedo adatti al viaggio, a certi tramonti e a quei momenti in cui desideri restare solo con te stesso».

Come vedi il tuo futuro da artista?

«Credo che il mio prossimo disco sarà di carta e avrà le pagine. È da tempo che desidero regalare ai miei tre bimbi un racconto che possano leggere quando saranno più grandi, in cui possano leggere del bellissimo viaggio che il loro papà ha fatto nella musica. Un racconto fatto di aneddoti e personaggi che ho conosciuto. Persone la cui conoscenza mi ha arricchito e quindi musicisti, alcuni noti altri meno ma non meno importanti o determinanti nel mio percorso. Dal punto di vista musicale invece credo che il mio futuro sarà legato all'evoluzione che avrò sullo strumento. Sono più simile a uno studioso della chitarra acustica che a una pop-star. Una cosa che farò di sicuro sarà acquistare una bella telecamera così se non riceverò proposte per concerti continuerò a proporre a chi mi segue su internet il mio percorso evolutivo senza drammi o ansie da prestazione. Le cose, se succedono da sole, vengono decisamente meglio».

Adesso svelaci un segreto. Da dove deriva il tuo soprannome "Fiesta"?

«Da ragazzo la chitarra dei miei sogni era una Fender Stratocaster del '64 colore "fiesta red" che è un rosso che con il tempo assume sfumature arancioni/rosa salmone. Tutto qui. L'unico esotismo di cui subisco veramente il fascino è la danza che si può generare sul manico di una chitarra».



Titolo: Dadigadì
Artista: Sergio Arturo Calonego
Anno di pubblicazione: 2015
Etichetta: autoproduzione

Tracce
(musiche e testi di Sergio Arturo Calonego)

01. Dadigadì
02. Dissonata
03. Delta
04. Dancera
05. Dea
06. Duende
07. Darlin'
08. Darandèl



sabato 28 novembre 2015

Zibba presenta il suo "Farsi male tour 2015/2016"





È partito dal piccolo e raccolto Teatro Sacco di Savona il nuovo tour di Zibba che lo vedrà sulla strada almeno fino al mese di febbraio (altre date si stanno aggiungendo in questi giorni). Il cantautore varazzino presenta le canzoni del suo ultimo disco, intitolato "Muoviti svelto" e pubblicato a fine marzo e brani della produzione passata. Ad accompagnarlo, inaspettatamente, non ci sono i vecchi compagni degli Almalibre che hanno contribuito anche alla produzione dell'ultimo album. Zibba ha deciso, infatti, di intraprendere un "giro" in solitaria, armato della sua chitarra, di un loop e di qualche marchingegno elettronico. Una situazione intima, raccolta, emozionante e tutta da assaporare. In qualche modo in controtendenza con la grande visibilità che l'artista ha conquistato in questi anni con una produzione discografica sempre su ottimi livelli che hanno portato alla vittoria della Targa Tenco, alla partecipazione al Festival di Sanremo, alle collaborazioni con Eugenio Finardi, Emma (nell'album "Adesso" pubblicato il 27 novembre), Jovanotti, Cristiano De Andrè, Jack Savoretti, Alex Britti, Patty Pravo e Niccolò Fabi. Un concerto che taglia le distanze e riavvicina Zibba al suo pubblico più appassionato.
Lo abbiamo incontrato in questi giorni e davanti a un caffè abbiamo parlato del tour, della sua vita, delle collaborazioni, di Sanremo e dei talent show. Il tutto è racchiuso in questa intervista. 




Il tuo nuovo tour ha preso il via nei giorni scorsi al Teatro Sacco di Savona…

«È sempre bello suonare nella provincia dove sei nato anche se capita di rado. Suonare live è uno degli aspetti che amo di più del mio mestiere e altre date si stanno aggiungendo in città importanti come Bologna, Roma e Firenze». 

Il pubblico savonese ha risposto molto bene e i biglietti sono andati esauriti in pochissimo tempo…

«Ciò conferma che puoi anche essere profeta in patria, dipende da cosa profetizzi. Credo che essere onesti e persone pulite serva a far capire a chi ti sta attorno che fai questo mestiere con sincerità. Quindi mi fa piacere che la mia provincia continui a venirmi ad ascoltare, vuol dir che sto lanciando il messaggio giusto». 

Questa volta hai scelto di portare in tour uno spettacolo senza gli Almalibre…

«Sul palco ci sono solo io e il concerto è diviso in momenti. Il primo mi vede impegnato con la chitarra acustica, nel secondo utilizzo un loop per creare tutta una serie di suoni. Infine, nella terza parte uso delle basi che ho ricostruito e che sono tratte dalle canzoni degli ultimi due album. Basi che vengono comunque filtrate dall'amplificatore della chitarra. È un discorso legato all'elettronica che da alcuni anni mi affascina e che credo prenderà sempre più piede nella mia produzione futura». 

In questo tour quindi sarai da solo sul palco ma come vedi il tuo futuro prossimo?

«Continuerò ad avere accanto compagni di viaggio. Suonerò ancora con Andrea Balestrieri, con Stefano Riggi e sarò felice di accogliere chi verrà ma ora non sto a preoccuparmi della band perché è un discorso più ampio che comprende anche la produzione di nuove canzoni. Adesso sono concentrato sul tour perché nei prossimi quattro mesi mi "vestirò" di questo nuovo abito. Una volta si andava a suonare e lo spettacolo si adattava al clima della serata, oggi, invece, tutti i tour hanno una loro veste ben precisa». 

Questo tour si intitola "Farsi male" come la canzone che apre il disco e che canti insieme a Niccolò Fabi…

«Sono molto legato emotivamente a questa canzone e in qualche modo il tour ruota attorno a questo concetto. Era importante fare questo tour perché è da questa estate che siamo fermi per un cambio di staff. Sono contento di tornare a esibirmi dal vivo perché adesso ne ho proprio voglia». 

Raccontaci qualcosa di questa collaborazione…

«Fabi è una persona che ho sempre stimato e mi piace molto come scrive. Ha una penna particolarmente emotiva e mi ritrovo nelle sue canzoni, mi sono specchiato sempre nelle frasi che lui ha usato. Quando poi è nato questo brano mi è quasi venuto naturale farlo sentire a Niccolò. Gli è piaciuto e in studio a Roma l'abbiamo messo a punto. Sono contento di questa collaborazione anche perché 6-7 anni fa, quando incontrai Niccolò in un locale a Roma, gli dissi che ero un suo grande ammiratore. Non mi conosceva, gli ho spiegato che ero un cantautore e che mi sarebbe piaciuto un giorno collaborare con lui. Mi rispose: ‹sono sicuro che prima o poi le nostre sensibilità si incontreranno in qualcosa di magico›. E così è stato, ci siamo ritrovati». 

In questo periodo ti senti più autore o cantante?

«In questo momento mi piace di più scrivere. Quando sei sul palco è sempre bellissimo ma c'è anche il rovescio della medaglia fatto di viaggi, trasferte, prove e difficoltà da affrontare. Ogni tanto ripenso ad alcune esperienze di scrittura fatte quest'anno e le ricordo con grande piacere».

Zibba a Loano il 30 aprile 2011 (copyright Martin Cervelli)
In particolare?

«Quando sono stato a casa di Patty Prato a Roma. Ci siamo bevuti un bicchiere di champagne, abbiamo chiacchierato della musica degli anni '60, del suo incontro con Jimi Hendrix e abbiamo scritto una canzone insieme. Ecco, quello è stato uno dei momenti più belli della mia vita. Tutte le volte che sono a Roma ci vediamo, è una persona strepitosa. È bellissimo scrivere perché mi dà questa opportunità». 

Come avvengono queste sedute di scrittura?

«Sono un autore atipico perché voglio scrivere con l'artista e non per l'artista. Il rapporto che si instaura è impagabile. Metti a confronto due sensibilità, due umanità, in qualche modo ci si arricchisce vicendevolmente e la canzone che nasce parla di questo incontro, di questa fusione di modi di pensare. È più figo che suonare la chitarra in un pub». 

Nel 2014 hai partecipato al Festival di Sanremo. Vorresti rifare questa esperienza?

«Assolutamente sì, me la ricordo con gioia e con grande piacere perché è stato tutto molto professionale. È un palco importante e ti ritrovi a suonare con dietro una orchestra di cinquanta elementi, figo! Di tutto lo show mi interessa poco, non ne faccio parte e me ne sto un po' in disparte. È così anche quando vado in TV, non è il mio mondo». 

Se all'inizio della tua carriera ti avessero proposto di partecipare a un talent show avresti accettato?

«A vent'anni sicuramente sì perché all'epoca poteva essere un trampolino di lancio per fare poi quello che è adesso il mio lavoro. I talent sono una "figata" perché hanno riportato la musica in televisione. Che musica? La musica di oggi. Non si può pretendere che nei talent venga proposta la musica di cinquant'anni fa o vengano cantate le canzoni di De Andrè, passa la musica di adesso, che forse è "musichina", lo so, ma è quella che sta vendendo. Vai a vedere quanto vendono i cantautori. Te lo posso dire io, poco. Adesso il pubblico televisivo vuole quel tipo di canzoni. Comunque i talent sono una ottima cosa anche se a volte sarebbe bello se mettessero in scena un po' più di talento». 

Sei da poco diventato papà. Come è cambiato il tuo modo di vedere il mondo?

«Diventare papà apre una finestra gigante nella tua vita. Fa entrare il sole e tutto si illumina. È tutto più chiaro e puoi riordinare meglio le idee, il tuo tempo. È bello, credo che essere genitori sia l'unica cosa importante della vita. Quando hai un figlio è tutto più semplice. È pacificante, finalmente hai fatto quello che la natura ti dice di fare e dopo tutto riprende la sua posizione. Cominci a dar peso alle cose vere, quelle che contano». 

A dicembre sarai nuovamente ospite del festival "Su la Testa" di Albenga organizzato dall'associazione Zoo…

«Con grande piacere perché devi sapere che "Su la Testa" e Davide Geddo dell'associazione Zoo sono stati anche i miei spacciatori di fidanzate. La mia ex fidanzata, Alice, l'ho conosciuta tramite loro in un club ad Alassio, mia moglie, invece, era la presentatrice del "Su la Testa", ora non presenta più e fa la mamma. L'ho conosciuta sul palco tante edizioni fa. Entrambi eravamo fidanzati ma io ci provai spudoratamente e gli ero anche antipatico perché nonostante fossi fidanzato ci provavo con lei ma la trovavo così bella, infatti poi l'ho sposata. Ci torno quindi molto volentieri». 

Come vedi il tuo futuro artistico?

«Vorrei provare la strada del Festival di Sanremo anche quest'anno, però senza ansie particolari. Ci proverò come ci ho provato l'anno scorso e continuerò a farlo da qui alla morte perché è bello partecipare e ti dà un po' di aiuto a livello di promozione. Hai i riflettori addosso per qualche mese e aiuta a fare meglio il mio lavoro. Spero però di non dover fare subito un altro disco ma se dovessi andare al Festival probabilmente sarei costretto». 

Quindi hai già un po' di canzoni nel cassetto?

«Attraverso un periodo molto creativo, scrivo parecchio e ho un sacco di canzoni pronte». 

Per quale artista ti piacerebbe scrivere?

«Quest'anno sono stato fortunato. Volevo scrivere per Emma e l'ho fatto e spero di scrivere ancora per lei e con lei perché è forte, simpaticissima e canta bene. Mi sarebbe piaciuto comporre con Britti e sta succedendo. Stiamo lavorando al suo album doppio di cui una parte è già uscita e l'altra sarà pubblicata a marzo. Prossimamente mi piacerebbe scrivere qualcosa con Mengoni. Nell'ultimo album ha fatto tante belle cose, si sta muovendo in una buona direzione. Sta diventando un artista più completo o forse lo era già e solo adesso lo riconosciamo come tale. Ad ogni modo mi piacerebbe conoscerlo. Ma ce ne sono tanti. Penso a cosa sarebbe scrivere con Vasco, ascoltare i suoi racconti… Potrebbe essere una esperienza fighissima». 

Zibba a Loano il 30 aprile 2011 (copyright Martin Cervelli)
Un mostro sacro, come potrebbe essere Battiato…

«Io e Battiato in una stanza a scrivere una canzone sarebbe incredibile. A me piacciono gli artisti borderline e lui lo è. Sono meno affascinato dagli artisti che cantano canzoncine belle ma che in realtà non trasmettono emozioni. Ogni tanto mi capita di incontrare qualcuno e capisco che insieme non potrebbe mai nascere qualcosa perché non c'è affinità. Invece più uno è artisticamente "pazzo" e più mi stimola perché potrebbe venir fuori qualcosa di figo». 

Come e quando scrivi le tue canzoni?

«Per scrivere mi devo saturare di una convinzione, di una idea. Quando continuo a vedere una stessa espressione in tante persone, in tanti volti, dopo un po' sento l'esigenza di togliermela di dosso e lo faccio scrivendone. Ho bisogno di scrivere una frase per dimenticarmi di questa idea, è come se l'archiviassi in un cassetto. Se non lo facessi ne sentirei il peso». 

Facciamo un passo indietro e parliamo di "Muoviti svelto", il tuo ultimo album in cui ti sei circondato di tanti amici…

«Ci sono tanti ospiti importanti. C'è Omar Pedrini che è un caro amico, con la sue canzoni, ai tempi dei Timoria, e le sue poesie mi ha cambiato il modo di pensare la musica e quindi per me è stato importantissimo; c'è Patrick Benifei che è una delle voci più interessanti che abbiamo in Italia e sono contento che abbia partecipato sul brano "La medicina e il dolore"; c'è Bunna che è un caro amico ed è recentemente diventato papà per la seconda volta. Pensa che la canzone che canta Bunna, "Le distanze", l'ho dedicata a lui, ho immaginato che Bunna la cantasse a suo figlio e quando l'ho scritta lui non era ancora papà. Buffo! C'è Leo Pari con cui continuo a lavorare con piacere». 

Che valore ha per te questo disco?

«Resta ad oggi il mio disco più importante e continuerà ad esserlo perché ha significato tanto. La storia dietro questo album è lunghissima, molto bella, difficile, complicata, ed è tutto racchiuso lì dentro e spero che qualcuno riesca a capirlo ascoltandolo. Contiene dieci canzoni, dieci fotografie molto nitide di un momento della mia vita, di una determinata emotività e i testi racchiudono un messaggio. Prima di tutto un forte messaggio per me stesso, un monito. È come per i tatuaggi, quando mi faccio scrivere rock'n'roll sulla mano è per ricordarmi perché sto facendo tutto ciò, perché mi piace questa vita, perché l'unico modo interessante di vivere è non avere un modo di vivere la vita, lasciare che il tutto abbia influenza, che tutto sia valido. Il regalo più grande di questo lavoro è proprio quello di poter fare la vita che credo vorrebbero fare in tanti. Vivo attraverso la valorizzazione delle mie capacità sperando che questo basti per darmi sostentamento. È una sfida ma non vedevo altra alternativa».


Titolo: Muoviti svelto
Artista: Zibba & Almalibre
Anno di pubblicazione: 2015
Etichetta: Warner Chappell Music

Tracce
(musiche e testi di Zibba)

01. Farsi male
02. Muoviti svelto
03. Ovunque
04. Il sorriso altrove
05. Che ore sono
06. La medicina e il dolore
07. Le distanze
08. Santaclara
09. Il giorno dei santi
10. Vengo da te


martedì 17 novembre 2015

Emanuele Dabbono torna con 'La velocità del buio'





Reduce dal successo conquistato con il singolo "Incanto" (disco di platino), firmato insieme a Tiziano Ferro e pubblicato da quest'ultimo nella raccolta "TZN - The best of", Emanuele Dabbono è tornato a far parlare di sé in questi giorni in occasione dell'uscita del suo nuovo album in studio intitolato "La velocità del buio". Il disco, registrato insieme ai Terrarossa (Senio Firmati, Alessandro Guasconi, Giuseppe Galgani) al Virus Studio di Monteriggioni in varie sessioni tra ottobre 2012 e luglio 2015, racchiude undici canzoni composte da Dabbono negli ultimi tre anni. Il cantautore genovese non ha avuto fretta di tornare sugli scaffali dei negozi di dischi, ahimé sempre meno, e sulle piattaforme internet dopo "Trecentoventi", uscito nel 2012. Non perdendo mai il contatto con la realtà e la sua terra, Dabbono in questi anni ha intrapreso un percorso artistico coerente ma variegato che lo ha portato a imbarcarsi in un tour negli States per presentare le canzoni dei due dischi cantati in inglese e usciti sotto lo pseudonimo Clark Kent, ha scritto due libri e ha composto canzoni per altri artisti.
Ora è il tempo de "La velocità del buio", nuovo capitolo nella crescita artistica di Dabbono. Un album di puro rock dalle influenze americane, senza ricorrere a inutili e a volte dannosi featuring che sembrano ormai indispensabili per poter entrare in classifica. Un disco fresco, non ammiccante e con testi per nulla indulgenti verso le semplificazioni della comunicazione moderna. Le canzoni sovente puntano il dito sulla società di oggi e ne mettono in luce le storture e le contraddizioni. Ci sono anche momenti intimi come la ballata "Certe piccole luci" - per chi scrive uno dei brani più belli del disco - in cui aleggia il ricordo del capolavoro springsteeniano "The Promise". Non resta che aspettare il tour di promozione in partenza nei primi mesi del prossimo anno.
Intanto Musica e Disincanti ha intervistato Dabbono dopo lo showcase di presentazione del disco che si è tenuto al circolo Chapeau a Savona.



Sono passati tre anni dal tuo precedente disco. In questo lasso di tempo hai collezionato un tour in America e il successo della collaborazione con Tiziano Ferro. Partiamo dal tour negli States. Cosa ti ha lasciato umanamente e artisticamente questa esperienza?

«Mi ha rafforzato l'idea che devi spendere fino all'ultima goccia di energia quando sei sul palco. Che le contaminazioni con altri stili musicali sono il viatico per crescere e per misurarsi con se stessi. Vedi Paul Simon, artista che amo da sempre e che ha pubblicato due dei suoi più influenti album mischiando musica sudafricana e brasiliana con il suo songwriting tipicamente americano. Là, prima di me a New York, ho diviso il palco con gente che attaccava il sax al delay della chitarra, solo per farti un esempio. Mi ha anche fatto pensare che spesso in Italia si rischia poco, per paura di scontentare i fan, così si ciclostila una canzone ma dopo anni tutto ciò sa di stantio. L'America mi ha dato fiducia e coraggio nei miei mezzi. Mi piace pensare che il mio futuro artistico possa dipanarsi in modo del tutto inaspettato per chi mi ascolterà. Chi l'avrebbe detto anche solo due anni fa che avrei pubblicato un brano solo pianoforte, voce e ghironda e con 40 secondi di coda parlata».

So che hai anche visitato il New Jersey e i luoghi da dove Springsteen ha voluto correre via…

«Abbiamo alloggiato per una settimana ad Hammonton e nei giorni senza concerti facevamo tappe ad Atlantic City, Asbury Park a vedere lo Stone Pony, l'antro di Madame Marie. Mi ha avvicinato ancora di più al Boss, perché ho capito quale fosse la sua urgenza di cercarsi altrove, senza per questo demonizzare le sue radici. Le sue continue parabole sulla strada - credo sia la parola più utilizzata nel suo glossario - hanno preso un significato diverso. Pensavo si trattasse di fuga per sopravvivere. Invece mi è arrivata forte l'idea si trattasse di ricerca di se stesso, per sentirsi finalmente completo. Come dire: ma il mio mondo non può essere davvero tutto qui. Tra una passeggiata di legno davanti all'oceano e sterminati centri commerciali con le fabbriche a vista. Una malinconia che ti riavvicina ai tuoi posti e ridimensiona il sogno americano visto dall'Italia».

Dabbono allo Chapeau a Savona
Parliamo ora della tua collaborazione con Tiziano Ferro. Come è nata?

«Le nostre storie musicali si incontrarono parecchi anni fa e ricevetti persino i suoi complimenti durante la finale di X Factor per il mio inedito "Ci troveranno qui". Ma dai complimenti alla proposta di lavoro sono passati sei anni, due libri, quattro dischi in top ten - due in italiano e due in inglese - e il tour negli States. Ora sono sotto contratto con lui, è il mio editore. Quando arrivò la sua domanda ‹hai qualcosa da farmi ascoltare con la stessa tenerezza che ho scoperto nel tuo brano "Irene"?› ero in una pizzeria. Mi catapultai a casa e gli mandai quella che poi sarebbe diventata nella voce di Michele Bravi "Non aver paura mai" per Sony Music».

Collaborazione che ha portato poi al successo con "Incanto"…

«Sì, quello fu l'inizio. Da lì a un paio di mesi, venne fuori  proprio "Incanto", e con quel brano è davvero cambiato tutto. Disco di platino, numero 1 in air play radio, video e classifica, superospite a Sanremo - dove Tiziano ha persino fatto il mio nome -, pubblicità per Perugina e stralci del testo negli omonimi cartigli dei Baci, alla finale di Amici, tradotta in spagnolo, cantata come pezzo di chiusura in tutti gli stadi del suo tour e sta per uscire di nuovo nel "Live a San Siro" che sta per pubblicare in doppio cd/dvd. Una gioia incommensurabile e inaspettata per un brano tipicamente folk irlandese. Da musicista, dettaglio per me non trascurabile è la produzione a Los Angeles di Michele Canova con Vinnie Colaiuta alla batteria e Michael Landau alle chitarre».

Svelaci qualcosa su Tiziano Ferro…

«È una persona estremamente leale e profonda. Stiamo scrivendo e mettendo da parte per il futuro canzoni di ogni genere. Abbiamo tante cose in comune dal punto di vista personale, l'odio per la falsità e l'arrivismo, e questo pur provenendo da ambienti musicali molto diversi - lui la black music, io il rock -, o forse la nostra forza insieme è proprio questa complementarietà».

Cosa ti ha insegnato questa esperienza?

«Il valore della pazienza. Che quando cerchi la bellezza non devi avere fretta, ma devi prima sentirla. Deve essere vera perché sia poi condivisa. Fregarsene delle mode. Che la vita può cambiare in cinque minuti un martedì qualsiasi di novembre alle ore 17».

Passiamo a parlare di "La velocità del buio", il tuo nuovo disco registrato insieme ai Terrarossa. Che significato hai dato a questo titolo?

«Ho riflettuto sul fatto che l'ignoranza, l'indifferenza, l'arroganza, la superficialità sono malattie che si diffondono a macchia d'olio con una velocità spaventosa. Sembra abbiano le fibre ottiche. Sono loro il buio. Come il "Nulla" de "La storia infinita" che voleva mangiarsi la Fantasia perché i bambini avevano rinunciato lentamente a sognare».

Emanuele Dabbono il 6 novembre allo Chapeau
Nella foto di copertina si legge, su un vetro appannato, la scritta "Shine", brillare… Curiosa la contrapposizione tra il buio del titolo e il significato di questa parola. Che cosa significa?

«Sì, è la cura a quanto detto sopra. Quelle certe piccole luci che vanno cercate nel quotidiano ad ogni costo. Ad ogni occasione. La bellezza è dietro l'angolo e va difesa, va trasmessa a chi verrà dopo. Io non credo ai vittimisti, ai teorici della crisi. Ho la speranza o la genuina ingenuità che tutti ci possiamo stringere in un "problem solving" collettivo. Per farlo però bisogna calare la maschera, guardarsi allo specchio e riconoscersi. Cambiarsi, non soltanto i vestiti la mattina ma magari trovando un modo moderno e sincero di pensarci vicini».

Trovo che in molte delle tue nuove canzoni tu esprima una critica severa alla società odierna. Il disco inizia con la canzone "Il mio paese in maschera" in cui canti un elenco di travestimenti coinvolgendo personaggi improbabili. È uno spaccato della società dell'apparire in cui viviamo?

«È un omaggio al Dylan di "Desolation Row". Ognuno dei personaggi citati è qualcuno di reale. È una specie di ironico o tragicomico indovina chi alla ricerca del politico, del cantante, della star o dell'amico a cui mi riferisco».

In "Odio (la logica del business)" ti scagli contro il mercato della musica ma alla fine ti arrendi dicendo che tutti ne fanno parte …

«Non è una resa, è una constatazione. Partecipiamo in modo attivo e quotidianamente alla vessazione della cultura in tutti i suoi aspetti. Alzi la mano chi non ha mai scaricato nella sua vita un brano, un programma illegalmente. Se ci pensi è anche da vigliacchi. Si è disposti a pagare magari 40 euro per una cena che dura lo spazio di mezza sera e a non pagare un cd da 15 euro che dura lo spazio di una vita, e che spesso non ti tradirà mai. Io per esempio ero quello che stava con l'audiocassetta HF da 90 minuti pronta in pausa per registrare le canzoni che passava la radio e le volevo tenere per me».

Anche nella canzone "La velocità del buio" regali uno spaccato della società tutt'altro che roseo...

«Mi piaceva contrapporre un testo duro a una musica solare per dire che è meglio sbrigarsi a trovare cosa ci rende felici. L'orologio e le persone negative ci corrono dietro come vampiri moderni e come dice Ivano Fossati ‹non si regala il tempo e la compagnia›».

"Certe piccole luci" è una bellissima canzone dedicata a tua figlia che deve nascere tra poco. Una ballata che trovo molto springsteeniana …

«Mi fai un complimento bellissimo e ti ringrazio. Se potessi avere una canzone di Bruce mi piacerebbe leggere il mio nome dietro "My city of ruins"».

"Prendono il niente che c'è e lo chiamano civiltà", mi ha colpito questa tua frase in "Atlantide". Ce la vuoi commentare?

«Parla del tentativo di camuffare l'impoverimento culturale con gigabyte di tecnologia. Altro non fa che isolarci fianco a fianco su ideali panchine, senza rivolgerci sguardo o parola, ma chini sui nostri smartphone a controllare le notifiche di un niente che ci inghiotte e lo fa senza dare nell'occhio. È il pezzo più duro di tutto il disco».

Carmen Consoli nel corso della sua recente esibizione al Premio Tenco ha affermato che è giusto fare la spia, denunciare. La tua canzone "Cemento" va in quella direzione…

«Puoi giurarci. Mi ispirò una poesia di Pasolini contro l'omertà e ne venne fuori la canzone più di protesta dell'album. Come vedi, poter esprimere senza freno le proprie idee sia nei testi che nella musica, incurante di mode o logiche radiofoniche è una libertà e un privilegio che non mi scordo di aver conquistato. E sono grato ogniqualvolta, tutto questo raggiunga anche solo la sensibilità di una persona. Springsteen lo chiamava "sentimento da riconoscimento". Io di lui mi fiderei».




Titolo: La velocità del buio
Artista: Emanuele Dabbono & Terrarossa
Anno di pubblicazione: 2015
Etichetta: Edel


Tracce
(musiche e testi di Emanuele Dabbono)

01. Il mio paese in maschera
02. Odio (la logica del business)
03. Piccoli passi
04. La velocità del buio
05. Certe piccole luci
06. Un'idea non muore mai
07. Wiskey e cenere
08. Le cose che sbaglio
09. Atlantide
10. Cemento
11. Alla fine


mercoledì 11 novembre 2015

Rocco Rosignoli e le canzoni di "Scansadiavoli"




Una chitarra acustica, microfoni sapientemente posizionati all'interno di un oratorio e canzoni che scavano nella memoria, nelle proprie paure e nelle proprie fobie. Sono questi gli elementi che caratterizzano "Scansadiavoli", il terzo disco del cantautore e chitarrista parmigiano Rocco Rosignoli. Un progetto pregevole, intimista e molto coraggioso ai tempi d'oggi in cui non sembrano esserci né voglia né tempo per approfondire e capire la poetica di certe creazioni. Ed è un peccato perché "Scansadiavoli" è un bell'album, coerente e senza cadute di stile, in cui Rosignoli, con una sapiente e matura capacità di unire musica e parole, trova il coraggio di rivelare i suoi "diavoli" e la lotta che quotidianamente, questa volta tutti, siamo obbligati a fare per esorcizzarli o meglio per scansarli. Dieci capitoli in cui l'autore indaga le proprie paure, le illumina, le rende riconoscibili, le svela e le condivide con l'ascoltare rendendole meno terribili e più facili da affrontare. Temi che non avrebbero potuto essere espressi con produzioni complesse e articolate e Rosignoli, con l'aiuto del fido Ribamar Poletti, ha scelto l'unica via praticabile per mettere in primo piano le parole e i testi delle canzoni e per non perdere il centro di gravità. Lo ha fatto grazie ad una produzione minimalista, ridotta all'osso, in cui sono protagoniste voce e chitarra acustica. L'unica concessione, anche in questo caso però non prodotta artificialmente in studio, è stata la scelta di creare un suono molto "aperto", catturato con il sapiente lavoro di posizionamento dei microfoni in un ambiente caratteristico come un oratorio, in questo caso quello dell'Assunta di Sala Baganza. Il risultato è molto gradevole e per il musicista parmigiano è un nuovo punto di partenza. 
Nell'intervista che segue Rosignoli ci parla della genesi del suo nuovo disco e degli avvenimenti che lo hanno ispirato. 





"Scansadiavoli" è il tuo terzo progetto discografico in studio. Quali sono le esperienze o gli avvenimenti della tua vita che hanno ispirato questo disco?

«Le prime canzoni di questo disco le ho scritte poco dopo la pubblicazione di "Testuggini". Uscivo da un periodo un po' duro, e pur tra tante difficoltà, e in una situazione piuttosto precaria, sentivo molto chiaramente di rinascere. Ho lasciato la città di Milano, ho preso casa nella mia Parma, e ho potuto ricominciare a frequentare spesso il mio Appennino. Mi sono come ricollegato a me stesso, ho riscoperto le mie priorità, e per quanto possibile ho "scansato" i miei diavoli».

Da dove hai preso il titolo dell'album?

«L'ho trovato in autostrada, tipo un cagnolino. "Scansadiavoli" è il nome di un rio che passa sotto la A15 Parma-La Spezia, che a volte percorro per raggiungere la mia casa di montagna, anche se di solito faccio la statale, è molto più bella. Ho sempre trovato il nome di quel rio molto evocativo, e richiamava la genesi del mio album. Le foto di copertina e del libretto sono state scattate proprio su quel rio, dalla bravissima Martina Aki, la mia fotografa "ufficiale", che a questo giro ha anche curato ottimamente la grafica del prodotto. Nel disco c'è anche un brano che porta il titolo "Scansadiavoli": è tra gli ultimi nati, e l'ho composto a titolo già deciso. Non è il pezzo che dà il titolo al disco, bensì viceversa».

Quali sono i diavoli che hai voluto esorcizzare con questo nuovo lavoro?


«Sono tanti. Sono quelli che impediscono di vivere la vita nella sua pienezza. È quel pensiero improvviso che spezza un sorriso sul nascere, quell'ansia che dal nulla ci coglie e ci impedisce di star bene con noi, con gli altri. Sono diavoli che si annidano nelle nostre case, nelle nostre vite, e a cui non possiamo propriamente sfuggire: scansarli, forse, ci è concesso».

È l'amore l'ingrediente segreto per battere i diavoli?

«Non credo ci siano ingredienti segreti. L'amore ci può aiutare, ma può anche alimentarli. L'amore è vissuto dalle persone, e ogni persona ha i suoi diavoli. Può anche accadere che due persone che si amano tantissimo abbiano dei diavoli che si aizzano a vicenda. L'amore non è una cura universale, è qualcosa che si vive, qualcosa di provvisorio e fragile, che va tenuto insieme con grande sforzo e dedizione».

Musicalmente hai cambiato direzione. Dopo due dischi caratterizzati da ricchi arrangiamenti hai voluto ridurre tutto all'essenziale. Una scelta fatta per quale motivo?

«Da diversi anni sono tantissime le situazioni in cui mi esibisco voce e chitarra. Cerco di non limitarmi a strappare qualche accordo, ma così come mi impegno a inventare armonie e melodie che non siano scontate, cerco di lavorare sulla chitarra classica sfruttandone al massimo le sfumature, naturalmente entro i miei limiti di strumentista. Limiti che ogni giorno mi sforzo di valicare. Ho qualche dote, ma non sono uno di quelli a cui vien tutto naturale, le mie giornate sono fatte di molto studio ed esercizio. Le canzoni più recenti sono state pensate e proposte dal vivo nella mia veste di chitarrista-cantante. La canzone in sé è tanto più riuscita quanto più è efficace la fusione tra testo e musica, e in questo caso la fusione tra componente musicale e letteraria si è verificata, ripetuta, limata, adagiata sulle mie dita e sulle mie labbra. La comunione delle due componenti si è incarnata in questo mio atto molto fisico, molto terreno. In fase di pre-produzione, ho provato ad arrangiare le canzoni aggiungendo altri strumenti, ma ogni idea mi sembrava impoverire un'identità che le canzoni già possedevano. A quel punto l'idea dell'album voce e chitarra è sorta da sé».

Penso che sia una scelta che possa facilitare anche l'esperienza live, non credi?

«Sicuramente. Per chi, come me, cerca di fare della musica l'attività principale, è oggi una scelta obbligata ridurre all'osso la formazione. Oggi locali, associazioni, comuni, hanno disponibilità economiche sempre più esigue, e per suonare in giro senza rimetterci è necessario adattarsi. Il gioco è vincente se riesci a farlo senza impoverire il risultato, elevando quello che chiamano "valore aggiunto" alla sua massima potenza. Un traguardo a cui è obbligatorio puntare, ma che non è scontato raggiungere».

In questo caso il "togliere" ha dato maggiore profondità al lavoro e ha messo in primo piano i testi. Come ti è venuta l'idea?

«Non è stata un'idea solo mia. L'ho maturata confrontandomi con Alice, la mia compagna, e con Ribamar Poletti (www.uditofino.it), co-produttore di questo disco, ma mio alleato da sempre. Proprio sua è stata l'idea di scegliere un ambiente dal suono caratteristico e ben definito, che oltre a dare rilievo ai testi enfatizza sia la voce che la chitarra».

Curiosa la scelta di registrare il disco in presa diretta all'interno dell'Oratorio dell'Assunta di Sala Baganza. Per cacciare i diavoli bisogna cospargersi con l'acqua santa?

«Io sono un ateo molto convinto. Ti dirò che credevo che quell'oratorio fosse sconsacrato. Solo durante le riprese mi hanno detto che, anche se appartiene al Comune, è un edificio ancora sacro. Per me è stato molto emozionante incidere lì, perché è dove nell'ormai lontano 2007 ho per la prima volta lavorato come musicista professionista, per un progetto non mio. La prima volta che percepivo un compenso per fare musica! Devo ringraziare per questo Cristina Merusi, il sindaco di Sala Baganza, sempre disponibile e premurosa nei miei confronti, e Nicola Maestri, amico scrittore, che è stato un tramite prezioso».

Ambientazione che ha permesso di ricreare un suono molto particolare, aperto, e trovo che il riverbero naturale che si ascolta durante l'esecuzione regali atmosfere molto belle…

«Sì, Ribamar ha usato sei microfoni, piazzati sapientemente. Nessun trucco, quello che si sente nel disco è esattamente quello che è stato suonato, così come è stato suonato». 

‹…i miei diavoli vengono in pace ogni giorno per stringere mani e caffè›. Trovo che sia un spaccato forte della società attuale…

«Mi fai un grande complimento, grazie. La frase in realtà nasce in maniera molto intima, in mattine oscure in cui non sai spiegarti quello che senti, non sai metterlo a fuoco. E a volte, dove non arriva la ragione, il pensiero ci arriva appoggiandosi al linguaggio e alle immagini. Queste immagini si costruiscono con gli elementi dell'esperienza, che è un patrimonio individuale che si intreccia con uno comune, di esperienze di tutti. Ho dato un volto al mio malessere. È molto bello quando un sentimento misteriosamente profondo arriva a essere avvertito come collettivo».

La pioggia, la neve, il gelo fanno capolino in quasi tutte le canzoni del tuo disco. È un disco "crepuscolare" che trova la sua luce calda nell'ultima strofa della canzone che dà il titolo al disco:‹Forse domani, scansati tutti i diavoli, saremo soli lungo il rio che scende, io, te e la gatta, lei che ci difende, e tu, che l'accarezzi sotto il tavolo›...

«Parte del disco nasce durante il 2014, anno molto piovoso, molto umido, che ho passato in gran parte in montagna, con un'estate senza sole, e in una Parma surreale, sconvolta da un'alluvione drammatica, che da più di un secolo non la colpiva. È tutto entrato nelle canzoni così, di prepotenza e quasi senza che me ne accorgessi. Ti confesso poi che quella del "crepuscolo" è una mia ossessione antica. Il crepuscolo è quel momento di luce incerta, in cui il sole non è in cielo ma lo illumina di là dall'orizzonte. E può preludere all'alba o seguire il tramonto. E davvero, oggi non so se la notte stia finendo o debba ancora iniziare. Magari la gatta potrebbe dirmelo, i felini la san lunga. Peccato non possano parlare». 

"Il corpo di Pamela" è la canzone più irriverente del disco che riporta alla tua giovinezza. Da dove l'hai ripescata?

«L'amico Alessio Lega ha scritto una canzone molto bella, intitolata "Risaie", che a un certo punto parla del corpo di Silvana Mangano. Mi ha emozionato la capacità evocativa di questa icona di bellezza, la forza poetica del suo nome cantato, il suo essere il riferimento erotico di un'intera generazione. Ho pensato all'immaginario erotico della mia generazioni, e il corpo che lo incarna con prepotenza sfacciata è per tanti quello di Pamela Anderson. Questa canzone parla di lei, di me che ragazzetto la guardavo lubrico, della voglia d'amore che abbiamo tutti, della paura di non trovarlo mai e di invecchiare aspettandolo nonostante i trucchi per non darla vinta al tempo che la bella Pamela ha tentato di sfruttare ben più di me».

Faccio un passo indietro. Prima di questo disco hai pubblicato "La bella che guarda il mare", un live per la sezione di Sala Baganza dell'ANPI. Ce ne parli?

«Nell'agosto del 2013 ho avuto la possibilità di fare un mio concerto nella cornice della festa ANPI di Sala Baganza. Ho voluto portare un programma dedicato all'occasione, inserendo canti di resistenza, ma anche canzoni che parlassero del periodo, oltre ad alcuni brani del mio disco "Testuggini", allora in promozione. La sezione ANPI diede a me l'incarico di trovare un service per la serata, e io naturalmente chiamai Ribamar. Oltre a gestire il banco suoni, lui decise di registrare la serata, e in seguito la mixò, ne distillò le parti migliori e me ne fece dono. Siccome era un dono, decisi di donarla a mia volta: quel live è in free download sul mio sito, www.roccorosignoli.com. È anche il mattoncino che umilmente metto per tenere viva la memoria, che proprio per il suo valore inestimabile non può avere un prezzo».

In queste settimane si è parlato tanto del processo allo scrittore Erri De Luca, colpevole, secondo l'accusa, di istigazione al sabotaggio della linea ferroviaria TAV in Val di Susa. De Luca è stato assolto ma cosa ne pensi del fatto che in Italia si rischia il processo se si esprimono le proprie idee?

«Il 18 ottobre, ho preso parte attiva in un reading a sostegno di De Luca. Mi sento dalla sua parte. Credo che il TAV sia un'opera che fa gli interessi di pochi ai danni di molti, giustificata tramite una fede neoliberista che dà per certo un riverbero positivo della crescita delle attività commerciali sul benessere delle popolazioni. Un pensiero che si è ripetutamente dimostrato falso, e che ciononostante è tornato prepotentemente in auge negli ultimi anni, anche se i danni che ha prodotto sono sotto gli occhi di tutti. Io mi rifiuto di ragionare in questo modo, per pura razionalità prima che per fede politica. Buona parte dei media sembra dipingere un quadro in cui un paese è fermato nella sua necessaria corsa verso il progresso da duecento paesani che lo tengono in ostaggio; ma io rifiuto l'idea stessa di progresso, che è ottocentesca, teleologica. E, cosa ancor più importante, la vita del paese non dipende dal TAV; la vita di chi vive in Val di Susa forse sì, se è vero come pare che i lavori di escavazione porterebbero alla luce materiali gravemente tossici. A me De Luca come scrittore nemmeno piace, ma in questo caso ha prestato la sua notorietà a una causa a cui manca una voce che in tanti siano disposti ad ascoltare. Credo che abbia fatto una cosa giusta, che un giudice ha anche sentenziato essere legale. Ma (e qui mi ricollego al tema della Resistenza), come ci ha insegnato chi è caduto per opporsi alla dittatura, la legalità e la giustizia non sempre coincidono. A volte è giusto opporsi a leggi inique. De Luca si è esposto, e si è assunto tutte le responsabilità che ne derivavano. E questo è un esempio virtuoso, e oggi ne mancano».


Titolo: Scansadiavoli
Artista: Rocco Rosignoli
Anno di pubblicazione: 2015
Etichetta: autoproduzione


Tracce
(musiche e testi di Rocco Rosignoli, eccetto dove diversamente indicato)

01. Fisterra
02. La grandinata
03. Dicembre
04. I diavoli
05. Autunno
06. Tunguska
07. Il corpo di Pamela
08. Barricate - I. Jamie Foyers  [Ewan McColl]
                        II. A las barricadas  [anonimo]
                        III. In morte di Picelli  [Rosignoli - Ewan McColl]
09. Giordano Bruno
10. Scansadiavoli