martedì 17 novembre 2015

Emanuele Dabbono torna con 'La velocità del buio'





Reduce dal successo conquistato con il singolo "Incanto" (disco di platino), firmato insieme a Tiziano Ferro e pubblicato da quest'ultimo nella raccolta "TZN - The best of", Emanuele Dabbono è tornato a far parlare di sé in questi giorni in occasione dell'uscita del suo nuovo album in studio intitolato "La velocità del buio". Il disco, registrato insieme ai Terrarossa (Senio Firmati, Alessandro Guasconi, Giuseppe Galgani) al Virus Studio di Monteriggioni in varie sessioni tra ottobre 2012 e luglio 2015, racchiude undici canzoni composte da Dabbono negli ultimi tre anni. Il cantautore genovese non ha avuto fretta di tornare sugli scaffali dei negozi di dischi, ahimé sempre meno, e sulle piattaforme internet dopo "Trecentoventi", uscito nel 2012. Non perdendo mai il contatto con la realtà e la sua terra, Dabbono in questi anni ha intrapreso un percorso artistico coerente ma variegato che lo ha portato a imbarcarsi in un tour negli States per presentare le canzoni dei due dischi cantati in inglese e usciti sotto lo pseudonimo Clark Kent, ha scritto due libri e ha composto canzoni per altri artisti.
Ora è il tempo de "La velocità del buio", nuovo capitolo nella crescita artistica di Dabbono. Un album di puro rock dalle influenze americane, senza ricorrere a inutili e a volte dannosi featuring che sembrano ormai indispensabili per poter entrare in classifica. Un disco fresco, non ammiccante e con testi per nulla indulgenti verso le semplificazioni della comunicazione moderna. Le canzoni sovente puntano il dito sulla società di oggi e ne mettono in luce le storture e le contraddizioni. Ci sono anche momenti intimi come la ballata "Certe piccole luci" - per chi scrive uno dei brani più belli del disco - in cui aleggia il ricordo del capolavoro springsteeniano "The Promise". Non resta che aspettare il tour di promozione in partenza nei primi mesi del prossimo anno.
Intanto Musica e Disincanti ha intervistato Dabbono dopo lo showcase di presentazione del disco che si è tenuto al circolo Chapeau a Savona.



Sono passati tre anni dal tuo precedente disco. In questo lasso di tempo hai collezionato un tour in America e il successo della collaborazione con Tiziano Ferro. Partiamo dal tour negli States. Cosa ti ha lasciato umanamente e artisticamente questa esperienza?

«Mi ha rafforzato l'idea che devi spendere fino all'ultima goccia di energia quando sei sul palco. Che le contaminazioni con altri stili musicali sono il viatico per crescere e per misurarsi con se stessi. Vedi Paul Simon, artista che amo da sempre e che ha pubblicato due dei suoi più influenti album mischiando musica sudafricana e brasiliana con il suo songwriting tipicamente americano. Là, prima di me a New York, ho diviso il palco con gente che attaccava il sax al delay della chitarra, solo per farti un esempio. Mi ha anche fatto pensare che spesso in Italia si rischia poco, per paura di scontentare i fan, così si ciclostila una canzone ma dopo anni tutto ciò sa di stantio. L'America mi ha dato fiducia e coraggio nei miei mezzi. Mi piace pensare che il mio futuro artistico possa dipanarsi in modo del tutto inaspettato per chi mi ascolterà. Chi l'avrebbe detto anche solo due anni fa che avrei pubblicato un brano solo pianoforte, voce e ghironda e con 40 secondi di coda parlata».

So che hai anche visitato il New Jersey e i luoghi da dove Springsteen ha voluto correre via…

«Abbiamo alloggiato per una settimana ad Hammonton e nei giorni senza concerti facevamo tappe ad Atlantic City, Asbury Park a vedere lo Stone Pony, l'antro di Madame Marie. Mi ha avvicinato ancora di più al Boss, perché ho capito quale fosse la sua urgenza di cercarsi altrove, senza per questo demonizzare le sue radici. Le sue continue parabole sulla strada - credo sia la parola più utilizzata nel suo glossario - hanno preso un significato diverso. Pensavo si trattasse di fuga per sopravvivere. Invece mi è arrivata forte l'idea si trattasse di ricerca di se stesso, per sentirsi finalmente completo. Come dire: ma il mio mondo non può essere davvero tutto qui. Tra una passeggiata di legno davanti all'oceano e sterminati centri commerciali con le fabbriche a vista. Una malinconia che ti riavvicina ai tuoi posti e ridimensiona il sogno americano visto dall'Italia».

Dabbono allo Chapeau a Savona
Parliamo ora della tua collaborazione con Tiziano Ferro. Come è nata?

«Le nostre storie musicali si incontrarono parecchi anni fa e ricevetti persino i suoi complimenti durante la finale di X Factor per il mio inedito "Ci troveranno qui". Ma dai complimenti alla proposta di lavoro sono passati sei anni, due libri, quattro dischi in top ten - due in italiano e due in inglese - e il tour negli States. Ora sono sotto contratto con lui, è il mio editore. Quando arrivò la sua domanda ‹hai qualcosa da farmi ascoltare con la stessa tenerezza che ho scoperto nel tuo brano "Irene"?› ero in una pizzeria. Mi catapultai a casa e gli mandai quella che poi sarebbe diventata nella voce di Michele Bravi "Non aver paura mai" per Sony Music».

Collaborazione che ha portato poi al successo con "Incanto"…

«Sì, quello fu l'inizio. Da lì a un paio di mesi, venne fuori  proprio "Incanto", e con quel brano è davvero cambiato tutto. Disco di platino, numero 1 in air play radio, video e classifica, superospite a Sanremo - dove Tiziano ha persino fatto il mio nome -, pubblicità per Perugina e stralci del testo negli omonimi cartigli dei Baci, alla finale di Amici, tradotta in spagnolo, cantata come pezzo di chiusura in tutti gli stadi del suo tour e sta per uscire di nuovo nel "Live a San Siro" che sta per pubblicare in doppio cd/dvd. Una gioia incommensurabile e inaspettata per un brano tipicamente folk irlandese. Da musicista, dettaglio per me non trascurabile è la produzione a Los Angeles di Michele Canova con Vinnie Colaiuta alla batteria e Michael Landau alle chitarre».

Svelaci qualcosa su Tiziano Ferro…

«È una persona estremamente leale e profonda. Stiamo scrivendo e mettendo da parte per il futuro canzoni di ogni genere. Abbiamo tante cose in comune dal punto di vista personale, l'odio per la falsità e l'arrivismo, e questo pur provenendo da ambienti musicali molto diversi - lui la black music, io il rock -, o forse la nostra forza insieme è proprio questa complementarietà».

Cosa ti ha insegnato questa esperienza?

«Il valore della pazienza. Che quando cerchi la bellezza non devi avere fretta, ma devi prima sentirla. Deve essere vera perché sia poi condivisa. Fregarsene delle mode. Che la vita può cambiare in cinque minuti un martedì qualsiasi di novembre alle ore 17».

Passiamo a parlare di "La velocità del buio", il tuo nuovo disco registrato insieme ai Terrarossa. Che significato hai dato a questo titolo?

«Ho riflettuto sul fatto che l'ignoranza, l'indifferenza, l'arroganza, la superficialità sono malattie che si diffondono a macchia d'olio con una velocità spaventosa. Sembra abbiano le fibre ottiche. Sono loro il buio. Come il "Nulla" de "La storia infinita" che voleva mangiarsi la Fantasia perché i bambini avevano rinunciato lentamente a sognare».

Emanuele Dabbono il 6 novembre allo Chapeau
Nella foto di copertina si legge, su un vetro appannato, la scritta "Shine", brillare… Curiosa la contrapposizione tra il buio del titolo e il significato di questa parola. Che cosa significa?

«Sì, è la cura a quanto detto sopra. Quelle certe piccole luci che vanno cercate nel quotidiano ad ogni costo. Ad ogni occasione. La bellezza è dietro l'angolo e va difesa, va trasmessa a chi verrà dopo. Io non credo ai vittimisti, ai teorici della crisi. Ho la speranza o la genuina ingenuità che tutti ci possiamo stringere in un "problem solving" collettivo. Per farlo però bisogna calare la maschera, guardarsi allo specchio e riconoscersi. Cambiarsi, non soltanto i vestiti la mattina ma magari trovando un modo moderno e sincero di pensarci vicini».

Trovo che in molte delle tue nuove canzoni tu esprima una critica severa alla società odierna. Il disco inizia con la canzone "Il mio paese in maschera" in cui canti un elenco di travestimenti coinvolgendo personaggi improbabili. È uno spaccato della società dell'apparire in cui viviamo?

«È un omaggio al Dylan di "Desolation Row". Ognuno dei personaggi citati è qualcuno di reale. È una specie di ironico o tragicomico indovina chi alla ricerca del politico, del cantante, della star o dell'amico a cui mi riferisco».

In "Odio (la logica del business)" ti scagli contro il mercato della musica ma alla fine ti arrendi dicendo che tutti ne fanno parte …

«Non è una resa, è una constatazione. Partecipiamo in modo attivo e quotidianamente alla vessazione della cultura in tutti i suoi aspetti. Alzi la mano chi non ha mai scaricato nella sua vita un brano, un programma illegalmente. Se ci pensi è anche da vigliacchi. Si è disposti a pagare magari 40 euro per una cena che dura lo spazio di mezza sera e a non pagare un cd da 15 euro che dura lo spazio di una vita, e che spesso non ti tradirà mai. Io per esempio ero quello che stava con l'audiocassetta HF da 90 minuti pronta in pausa per registrare le canzoni che passava la radio e le volevo tenere per me».

Anche nella canzone "La velocità del buio" regali uno spaccato della società tutt'altro che roseo...

«Mi piaceva contrapporre un testo duro a una musica solare per dire che è meglio sbrigarsi a trovare cosa ci rende felici. L'orologio e le persone negative ci corrono dietro come vampiri moderni e come dice Ivano Fossati ‹non si regala il tempo e la compagnia›».

"Certe piccole luci" è una bellissima canzone dedicata a tua figlia che deve nascere tra poco. Una ballata che trovo molto springsteeniana …

«Mi fai un complimento bellissimo e ti ringrazio. Se potessi avere una canzone di Bruce mi piacerebbe leggere il mio nome dietro "My city of ruins"».

"Prendono il niente che c'è e lo chiamano civiltà", mi ha colpito questa tua frase in "Atlantide". Ce la vuoi commentare?

«Parla del tentativo di camuffare l'impoverimento culturale con gigabyte di tecnologia. Altro non fa che isolarci fianco a fianco su ideali panchine, senza rivolgerci sguardo o parola, ma chini sui nostri smartphone a controllare le notifiche di un niente che ci inghiotte e lo fa senza dare nell'occhio. È il pezzo più duro di tutto il disco».

Carmen Consoli nel corso della sua recente esibizione al Premio Tenco ha affermato che è giusto fare la spia, denunciare. La tua canzone "Cemento" va in quella direzione…

«Puoi giurarci. Mi ispirò una poesia di Pasolini contro l'omertà e ne venne fuori la canzone più di protesta dell'album. Come vedi, poter esprimere senza freno le proprie idee sia nei testi che nella musica, incurante di mode o logiche radiofoniche è una libertà e un privilegio che non mi scordo di aver conquistato. E sono grato ogniqualvolta, tutto questo raggiunga anche solo la sensibilità di una persona. Springsteen lo chiamava "sentimento da riconoscimento". Io di lui mi fiderei».




Titolo: La velocità del buio
Artista: Emanuele Dabbono & Terrarossa
Anno di pubblicazione: 2015
Etichetta: Edel


Tracce
(musiche e testi di Emanuele Dabbono)

01. Il mio paese in maschera
02. Odio (la logica del business)
03. Piccoli passi
04. La velocità del buio
05. Certe piccole luci
06. Un'idea non muore mai
07. Wiskey e cenere
08. Le cose che sbaglio
09. Atlantide
10. Cemento
11. Alla fine


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