martedì 24 marzo 2015

"Facile o felice" il dubbio di Stefano Marelli






Dalla penna di Stefano Marelli esce un inno alla lentezza, al vivere a una velocità che permetta di vedere e assaporare quello che ci circonda, al saper cogliere sfumature e sentimenti che troppo spesso vengono spazzati via dalla frenesia quotidiana. Con "Facile o felice", il primo album a suo nome dopo l'esperienza con i Finisterre, il cantautore genovese, ma anche architetto diventato vignaiolo, presenta un album prezioso, ironico e vivace, che porta alla ribalta dodici canzoni intense, tutte da assaporare. Un lavoro che ha richiesto tempo, cresciuto nel corso degli anni. Grande importanza è data ai testi ma altrettanta cura è riposta nella ricerca dei suoni e negli arrangiamenti curati dallo stesso Marelli, tranne in due episodi: "Settembre" e "Uguale a te" che risentono del determinante apporto di Stefano Cabrera nell'orchestrazione e arrangiamento degli archi. Testi e musiche viaggiano paralleli nel creare atmosfere rock moderne ma luci soffuse dal sapore vintage regalano atmosfere particolari.
La musica è piena di colori e sfumature grazie ad una produzione attenta a ogni particolare e arricchita dall'uso di numerosi strumenti e da collaborazioni importanti, senza per questo rendere il prodotto finale ridondante, complesso o di difficile ascolto. Mario Arcari con il suo oboe dona momenti di impareggiabile bellezza in "Senza la TV" ma soprattutto in "Immobile", uno dei brani più belli del disco. Gli archi dei Gnu Quartet (Stefano Cabrera, Roberto Izzo, Raffaele Rebaudengo) colorano un paio di episodi mentre, una volta ascoltati, non si possono immaginare i brani senza il prezioso contributo della tromba e del flicorno di Raffaele Kohler. Nel progetto sono coinvolti anche Eros Cristiani (pianoforte, fisarmonica, spinetta), Folco Fedele (batteria e percussioni), Lele Garro (contrabbasso), Luca Falomi (chitarra), Barbara Fumia (Cori).
Con Stefano Marelli abbiamo parlato del disco ma anche di tante altre cose…



Cosa ti ha spinto a lasciare i Finisterre e a intraprendere l'avventura solista?

«Il percorso coi Finisterre è stato fondante per la mia educazione alla musica, all'arrangiamento, alla libertà sonora. Hai presente la fidanzatina del liceo? Tanta ingenuità, qualche errore di prospettiva, valanghe di passione profusa senza risparmio. Poi... siamo diventati grandi e le differenze tra noi hanno aperto percorsi diversi; qualcuno ha scelto di provare a vedere dove l'avrebbero portato. Adesso è il mio turno. Da tempo desideravo riprendere un percorso come cantautore, che in realtà è stato il mio primo affacciarmi al mondo della musica; ad un certo punto è scattato il bisogno di raccontarmi con un linguaggio - anche musicale - più diretto e a quel punto il contenitore Finisterre non bastava più».

Come è nato e di cosa parla "Facile o felice"?

«"Facile o felice" nasce in un periodo piuttosto lungo ma discontinuo, in cui vere e proprie immersioni totali nella composizione si sono alternate a momenti fugaci rubati qua e là, ore notturne sottratte al sonno mentre di giorno la vita continuava con le sue scadenze, l'impegno quotidiano per guadagnarmi la pagnotta. Nonostante ciò, credo che alla fine il risultato non sia affatto frammentario, anzi che vi si possa cogliere un disegno unitario, che ritengo sia dovuto principalmente alle tematiche affrontate nei testi, ma anche alla scelta di avere un suono "da band": una struttura portante molto solida data dal quartetto chitarra-basso-batteria-pianoforte, colorata di volta in volta dagli altri strumenti aggiunti. Il titolo dell'album è arrivato a disco già registrato, sollevando il naso dai fader e dai plug-in e guardando all'insieme con una prospettiva a volo d'uccello; allora le differenze hanno cominciato ad apparire non così significative, si sono palesate le somiglianze, le assonanze; l'idea di una collana di canzoni che raccontano uno sguardo etico, se vuoi, sull'esistenza, dove non è vero che "vale tutto e il contrario di tutto", dove certe posizioni e certe scelte ti collocano necessariamente di qua o di là. Il contrario del relativismo etico tanto di moda in questi anni, insomma; la mia personale strada per la felicità, costellata di scelte scomode e tuttavia senza l'ombra di un rimpianto».

È un album musicalmente molto ricco: archi, tromba, flicorno, oboe e poi pianoforte, tante chitarre. Raccontaci come si sono svolte le sessioni di registrazione…

«Mi ritengo una persona maledettamente perfezionista, alla ricerca del sound giusto per ogni canzone che, in questo senso, è un piccolo mondo a sé. Però non volevo realizzare un disco patchwork: come conciliare queste tensioni opposte? Ho scelto di registrare l'ossatura portante dei brani come un "live in studio", quindi basso (Lele Garro), batteria (Folco Fedele) e chitarra ritmica (io) suonate simultaneamente, in tre ambienti acusticamente distinti ma collegati visivamente e tramite l'ascolto in cuffia. Era per me estremamente importante che la sezione ritmica suonasse "come un sol uomo", perciò ho voluto con me due persone con cui avevamo già diversi concerti all'attivo, e soprattutto accomunati dalla stessa percezione del ritmo. Abbiamo suonato, mangiato e dormito assieme per il tempo necessario a concludere questa prima fase. Il suono del pianoforte apre e chiude il disco; mi sono chiesto perché sia andata così, dato che la chitarra resta il "mio" strumento. Col piano, che non ho mai studiato, ingaggio una battaglia continua per trarne, da autodidatta, rivolti interessanti e per cambiare il mio approccio compositivo costringendomi a uscire dai binari di ciò che mi è noto. In studio però avevo bisogno di qualcuno dotato di tecnica e di intelligenza musicale: in poche parole, di Eros Cristiani che ha suonato pianoforte, piano elettrico (tranne in due pezzi dove mi sono cimentato personalmente al Rhodes), organo e tastiere. Ha anche rispolverato la fisarmonica, per ricostruire, insieme all'oboe di Mario Arcari, l'atmosfera di un'orchestrina di paese all'interno di "Senza la TV"».

Interessante anche il contributo degli archi...

«Gli archi conferiscono un respiro vibrante, quasi solenne ai due brani "romantici" dell'album; i Gnu Quartet hanno eseguito le loro parti con una rapidità tale da lasciarci anche il tempo per un violino solo di Roberto Izzo in "Soltanto un mese". Tromba e flicorno: colori ai quali non saprei più rinunciare, grazie alla genialità di Raffaele Kohler. Musicista dotato di un suono bellissimo e di un'intonazione sorprendente; dal vivo condisce il tutto con una verve da intrattenitore di livello. Completo l'elenco con Barbara Fumia ai cori e Luca Falomi, ottimo chitarrista al quale ho affidato il compito di evocare atmosfere cubane in "Ho visto coppie". Le altre chitarre (acustiche, elettriche, 12 corde) sono suonate da me, scegliendo l'amplificatore giusto e gli effetti indispensabili; avendo a disposizione in studio un Fender Twin Reverb, un Vox AC30 e il mio Fender Hot Rod Deluxe, spesso la scelta è ricaduta su chitarra-in-diretta-nell'ampli, però a volte i miei "pedalacci" si sono rivelati preziosi! Naturalmente il risultato non sarebbe stato lo stesso senza l'alchimia perfetta stabilita con Raffaele Abbate di OrangeHome Records, sia come fonico che come co-produttore: le scelte di registrazione senza compromessi, la cura artigianale riservata alla giusta microfonazione e alla ripresa del suono d'ambiente; entrambi volevamo un suono vero, coinvolgente ed emozionante».

Come dicevi, hai avuto a tuo fianco i Gnu Quartet e Mario Arcari. Che apporto hanno dato al disco e alla tua persona?

«I Gnu Quartet sono musicisti che conosco da tempo, nell'area genovese le strade si incrociano spesso; lavorare in studio con loro è stato eccitante e non posso che confermarne la grande professionalità, precisione e creatività. Gli archi arrangiati dal violoncellista Stefano Cabrera hanno vestito a festa "Settembre" e "Uguale a te". Mario Arcari è arrivato in studio praticamente a sorpresa, complice l'amicizia comune col pianista Eros Cristiani; in lui mi ha colpito la padronanza totale di uno strumento difficile come l'oboe e la capacità di "entrare" nel pezzo già dal primo ascolto. "Immobile" è un brano che mette totalmente a nudo la scrittura e la voce, Mario ha duettato col mio canto come fosse una seconda voce... alla fine, ci siamo ritrovati con una candidatura alla Targa Tenco come miglior canzone! E poi era difficile non pensare che davanti a me c'era la stessa persona che aveva collaborato con due tra gli artisti che amo di più: Fabrizio De Andrè e Ivano Fossati».

Approfondiamo il discorso della candidature alle Targhe Tenco 2014: miglior opera prima e miglior canzone dell'anno con "Immobile". Un buon riconoscimento o speravi in qualcosa in più?

«Un riconoscimento inaspettato, soprattutto per quanto riguarda la candidatura come "Miglior canzone dell'anno". Nell'elenco insieme a me, c'erano dei nomi... Però poi ci si prende gusto, io credo molto nel valore di "Facile o felice" e un'esibizione in finale sul palco dell'Ariston avrebbe sicuramente gratificato il mio ego».

Il disco si apre con la canzone "Lento lento". Proprio questa idea di rallentare il ritmo della vita è un po' il filo conduttore delle canzoni. A che velocità vorresti vivere?

«Amo la lentezza come modalità per conoscere il mondo. Mi concedo il tempo per assaporare più che trangugiare, negli anni ho fatto alcune scelte ben precise che mi hanno condotto ad una vita più adatta alla mia natura, fuori dal perimetro della corsa. Sono scelte che hanno un prezzo, ma lo pago volentieri».

In "Con le mie idee" ironizzi sull'affermazione ‹il lavoro nobilita›. Qual è il tuo punto di vista?

«Non amo molto i luoghi comuni; in genere mi insospettiscono, provo a ricostruirne la storia possibile e spesso emergono i meccanismi di potere e di controllo che li hanno generati. Così un po' per gioco, un po' per convinzione, voglio ribaltare uno dei capisaldi di tanto "nobile" pensiero: il lavoro in sé non nobilita proprio nulla, è casomai l'uomo a rendere nobile e degno l'impiego del proprio tempo in un'attività che, di per sé, sarebbe una condanna».

"Soltanto un mese" termina con il verso ‹E avrò il coraggio che tu non hai potendo scegliere liberamente l'ora di andare incontro agli dei›. Sei favorevole all’eutanasia?

«Lo spazio dei versi di una canzone è necessariamente ristretto; diciamo che mi piacerebbe portare l'attenzione sui fatti importanti dell'esistenza (la nascita, la morte) e su come troppo spesso questi siano “medicalizzati”, come se l'essere umano fosse programmato così malamente da non essere in condizione di attraversare le fasi che appartengono alla propria natura senza un ausilio "tecnico", specialistico. Estremizzando, qui si parla di un uomo che, pur di riprendersi il controllo della propria vita, sceglie di porvi termine. Il suicidio è un tema letterariamente molto affascinante».

Ti consideri bravo ad imparare dai tuoi errori?

«Non so, mi piace pensarmi così. In "Pensieri inafferrabili" mi riferisco a quella parte di umanità che ha lavorato per spostare il livello di coscienza ad una maggiore profondità; penso a maestri come Gurdjieff o Jodorowsky. Credo nel paradosso come strumento atto a svelare orizzonti nuovi, prospettive inusuali; credo nella possibilità di scoprire continuamente una parte ignota di sé».

È passato un anno dall'uscita del disco, cosa è cambiato nella tua carriera artistica?

«Il cambiamento più significativo consiste nel fatto che ora, quando qualcuno mi chiede se ho qualcosa da fargli ascoltare, posso rispondere: ‹Sì, ho un DISCO!›; a parte questo…».

Sei una persona che guarda molto al passato, a quello che è stato e che non verrà più?

«Di tanto in tanto, poi mi punisco e prometto di smettere».

Quincy Jones, in una recente intervista, riferendosi ai grandi musicisti del passato ha detto: ‹ad accomunarli erano passione e conoscenza della musica. Oggi, tutto è cambiato con la tecnologia e la digitalizzazione. Premi un pulsante e trovi il suono che cercavi. E i giovani non conoscono la musica nera, il jazz e il blues›. Come commenti questo pensiero?

«Ho capito, continui a cercare di farmi confessare che sono un nostalgico... e invece ti rispondo che io non ne so proprio niente, non capisco nemmeno se per le giovani generazioni la musica occupi ancora un luogo di rilevanza o se sia semplicemente meno centrale... Ho l'impressione che l'enorme disponibilità di materiale musicale a costo (apparentemente) nullo sia inversamente proporzionale all'interesse e alla capacità di ricercare la qualità. Tuttavia è probabile che in questo momento stia nascendo un nuovo genio musicale, che lavorerà coi materiali a sua disposizione per creare qualcosa di totalmente nuovo. E noi faremo fatica ad accorgercene».

Alla fine è meglio un buon bicchiere di vino o un bel disco?

«Confesso di avere seri problemi con quella "o" disgiuntiva che hai piazzato in mezzo ai miei grandi amori; perché non coniugare un buon bicchiere di vino "e" un bel disco? Io ci sto provando, da produttore di entrambi. Tra l'altro l'idea non dev'essere così balzana, dato che proprio in questi giorni ho tra le mani un volume di Maurizio Pratelli, "Vini e Vinili", che pare confermare una comunione d'intenti e sentimenti tra questi due mondi. Alla salute!».





Titolo: Facile o felice
Artista: Stefano Marelli (www.stefanomarelli.it)
Etichetta: OrangeHome Records (www.orangehomerecords.com)
Anno di pubblicazione: 2013


Tracce
(musiche e testi di Stefano Marelli)

01. Lento lento
02. Senza la TV
03. Pensieri inafferrabili
04. Settembre
05. Sull'etere
06. Con le mie idee
07. Soltanto un mese
08. Ho visto coppie
09. L'idiota
10. Ti fa male
11. Immobile


mercoledì 18 marzo 2015

"Voodoo Boogie" il piano blues di Henry Carpaneto





«Sono stato sui palchi per cinquant'anni e ho suonato con molti musicisti; Henry, che mi piace chiamare "Cool Henry Blues", ha una grande capacità e un grande talento!». Il settantaduenne chitarrista Bryan Lee introduce con queste parole Henry Carpaneto, eclettico pianista e organista ligure che ha da poco pubblicato il suo primo album, intitolato "Voodoo Boogie". Carpaneto, già componente della band di Guitar Ray, è da anni tra i più apprezzati musicisti in ambito blues a livello europeo e statunitense. Capacità e talento che lo hanno portato a collaborare con grandi nomi del panorama nazionale e internazionale come Jerry Portnoy, Big Pete Pearson, Keith Dunn, Sonny Rhodes, Paul Reddick, Fabio Treves e Deitra Farr. E con Bryan Lee con cui, recentemente, ha girato gli States e si è esibito al prestigioso Jazz Festival di New Orleans.
Il celebre chitarrista, originario del Wisconsin ma da molti anni residente a New Orleans, ha dato un importante contributo firmando molti brani presenti sul disco e partecipando in veste di chitarrista e cantante. Il piano e l'organo Hammond di Carpaneto, a volte al centro della scena in altre occasioni più nascosti a disegnare passaggi di grande gusto, sono protagonisti con classe senza essere mai invadenti. L'impatto sonoro in alcuni episodi è energico e brioso, in altri è di cornice.
Le restanti tracce del disco sono classici come "Steady rolling" di Memphis Slim, "Rock me baby" di B.B. King, "Caldonia" di Louis Jordan e "One room" di Mercy Dee Walton. 
Ad arricchire ulteriormente il disco è la presenza di due ospiti prestigiosi come il chitarrista Otis Grand, che considera Carpaneto il miglior pianista del vecchio continente, e Tony Coleman, già a fianco di B.B. King, Buddy Guy, Albert King e di altri mostri sacri del blues. Nella sala di registrazione della OrangeHome Records Carpaneto è stato affiancato da un trio formato dal batterista Andrea Tassara, dal sassofonista Paolo Maffi e dal contrabbassista Pietro Martinelli
Nell'intervista che segue Carpaneto ha raccontato la genesi del suo primo disco.

 


Henry, per te è un momento ricco di novità e soddisfazioni. Da poco è uscito il disco di Guitar Ray in cui ancora una volta il tuo apporto musicale è stato fondamentale, poi hai collaborato all'album di Nima Marie e adesso "Voodoo Boogie", il tuo disco d'esordio…

«Come dici tu è sicuramente un bel periodo! L'esperienza con i Gamblers è stata fondamentale per la mia formazione. Solo recentemente le strade si sono divise: avevo voglia di esplorare e tuffarmi completamente in un'esperienza "pianistica" sicuramente influenzata dall'ultima tournée che si è sviluppata tra New Orleans e Memphis. Arrivare nella terra di Professor Longhair, James Booker e Fats Domino ti responsabilizza e i dubbi e le perplessità sulle scelte artistiche svaniscono come per magia. Capisci esattamente cosa devi fare, vedi la strada da percorrere, tutto diventa più chiaro.
Nima? Mamma mia che brava! E non avete ancora visto niente. Ha un potenziale incredibile. Lei completa perfettamente il mio progetto».

Non posso non chiederti come è nato questo disco…

«"Voodoo Boogie" è stato un regalo di Bryan Lee. Non era stato concordato. Durante il tour avevamo tre giorni off e lui mi ha detto: ‹Andiamo in studio... Vorrei registrare un piano voce alla vecchia maniera, buona la prima e vediamo cosa succede›. Mi sono trovato in questo studio a New Orleans e Bryan mi ha dato un cd di Memphis Slim. Me lo ha fatto ascoltare tutto e poi mi ha detto: ‹Let's go›. E siamo partiti. Alla fine mi ha fatto dono delle tracce e negli studi della OrangeHome Records abbiamo completato il lavoro introducendo contrabbasso con Pietro Martinelli, batteria con Andrea Tassara e sax con Paolo Maffi. Dopo di che il colpo di scena. Per avere un parere tecnico ho mandato un brano a Otis Grand, col quale ho avuto l'onore di suonare per tredici anni, e si è offre per farmi le chitarre su qualche pezzo. Non contento ha coinvolto Tony Coleman, batterista di B.B. King. Grazie a Otis ho avuto la possibilità di suonare anche con lui a un festival ad Alessandria. Essere sul palco con entrambi e suonare "Sweet little angel" sicuramente ti fa girare la testa».

Come è stato girare gli States suonando con Bryan Lee?

«Suonare con Bryan Lee al Jazz Festival a New Orleans, suonare in Bourbon Street, girare gli States, presenziare ai Blues Memphis Awards - Bryan era invitato in quanto in nomination per essere tra i guests nel cd di Kenny Wayne Shepherd - conoscere Matt "Guitar" Murphy, parlare di musica con lui come se ci conoscessimo da sempre, rappresenta semplicemente un sogno che diventa realtà. Anzi, nei miei sogni mostruosamente proibiti, non mi ero spinto così avanti…».

Collaborerai nuovamente con Bryan Lee?

«Ho sentito recentemente Bryan e proverà a portare il cd ai Blues Memphis Awards. Secondo lui ci sono buone probabilità. Fingers crossed».

Il pubblico americano del blues in cosa differisce da quello italiano?

«Purtroppo il pubblico italiano conosce poco il blues. Dai mass media poco è concesso, se non nulla. Manca la cultura all'ascolto di un genere musicale che ha creato nel tempo tutti gli altri. L'unica fortuna è che oggi grazie ad internet tutto il materiale è rintracciabile e fruibile in un click, cosa che fino a qualche anno fa era impensabile. La differenza quindi tra pubblico americano ed italiano sta proprio nella storia vissuta dell'uno e nel lento recupero e autodidatta dell'altro. Però stiamo recuperando».

Bryan Lee ti ha soprannominato Cool Henry Blues; per Jerry Portnoy sei il suo Piano Man; Otis Grand ha detto che sei uno dei migliori pianisti blues in Europa. Complimenti da montarsi la testa…

«I complimenti fanno sicuramente piacere. Siamo appena partiti e la strada è lunghissima. Quindi piedi ben piazzati per terra, lavoriamo duro, "studio matto e disperatissimo"».

Nel disco suonate anche quattro cover. Quale ti ha emozionato di più e perché?

«Sicuramente "One room country shack". C'è anche un aneddoto carino su quel pezzo. Bryan mi ha fatto ascoltare la versione di Memphis Slim e mi ha detto: ‹Prova a prendere questo feeling›. Allora ho ascoltato e riascoltato il brano, ho provato a mettere le mani sul piano ehhh... non veniva proprio. Allora l'ho riascoltata e ho fatto diverse volte avanti e indietro tra la regia e la sala di presa per riascoltare l'originale, cercare di cogliere quel "respiro" e provare allo stesso tempo a buttare giù alcune idee. A un certo punto ho chiesto al tecnico di farmi ascoltare la canzone e dopo alcuni secondi gli ho detto: ‹…no, non voglio riascoltare il cd, voglio sentire la mia traccia›, e lui ‹guarda che sei tu…›. E in quel momento un po' mi sono "gasato"…».

Suggeriamo a chi ha il piacere di ascoltare "Voodoo Boogie" di non togliere il cd dopo "Blind man love" perché c'è ancora una piccola gustosa sorpresa. Perché hai voluto inserire questa piccola ghost track?

«Abbiamo voluto inserirla come mio modestissimo tributo al New Orleans style, con un riferimento all'inno di New Orleans "Tipitina" di Professor Longhair».

Qual è l'aspetto che preferisci nel suonare il piano o le tastiere all'interno di un gruppo?

«Facendo il gioco delle similitudini mi piace pensare la band come una macchina e gli strumenti le varie parti. Il batterista è il motore. Un buon batterista cambia il suono alla band. Il cantante è il pilota. Il piano rappresenta il gas. Si pone esattamente nel mezzo tra leader e motore. Se tutti in sintonia le sensazioni sono uniche».

Quanto è attuale il blues oggi in Italia e all'estero?

«Sicuramente all'estero (Europa) il blues è più conosciuto. Ci sono più spazi per suonare e manifestazioni ufficiali. A breve sarò in tour in Europa con un artista americano e i concerti si faranno dal lunedì alla domenica. In Italia manca un po' la cultura di andare ad ascoltare le band live. La nota positiva però è questa: quando per caso il pubblico italiano si trova di fronte ad una buona blues band ne rimane estasiato, finalmente colma quel vuoto che aveva dentro e comincia a fare ricerche e lo ritrovi ai concerti».

Jimi Hendrix disse ‹Il blues è semplice da suonare, ma difficile da provare›. Cosa ne pensi di questo frase?

«Secondo me suonare non è facile. Non esiste una musica facile. È facile "strimpellare". Essere comunicativi è difficile. Trasmettere emozioni suonando è difficile. Penso che il grande Jimi si riferisse a questo. Suonare in pubblico è una responsabilità. Si è paladini in quel momento di un messaggio. Se si suona in pubblico solo per gratificare il proprio ego, non si è capito nulla».




Titolo: Voodoo Boogie
Artista: Henry Carpaneto
Etichetta: OrangeHome Records
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche e testi di Bryan Lee, eccetto dove diversamente indicato)

01. Drinking & thinking
02. My brain is gone
03. One room  [Mercy Dee Walton]
04. Angel child
05. Welfare woman
06. Steady rolling  [Memphis Slim]
07. Caldonia  [Louis Jordan]
08. Mambo mamma
09. Turn down the noise
10. Dog & down blues
11. Rock me baby  [B.B. King]
12. Blind man love



giovedì 12 marzo 2015

Edoardo Chiesa e le "Canzoni sull'alternativa"





È una riflessione sul tema della scelta quella che Edoardo Chiesa presenta nel suo album d'esordio intitolato "Canzoni sull'alternativa" che uscirà ufficialmente lunedì 16 marzo. Il musicista savonese, già anima e cofondatore dei Madame Blague, canta storie del quotidiano ed esperienze personali in otto canzoni di matrice pop. Un disco fresco e gradevole che non è stato progettato a tavolino ma che è nato tra le mura domestiche e registrato in garage con l'ausilio di un vecchio Tascam. L'album non per questo è superficiale o poco curato e seppur leggero è solo apparentemente semplice. Il suono è poco prodotto ma allo stesso tempo gode di una certa varietà e spazia tra blues, rock'n'roll, funk, soul e folk. Si tratta di un lavoro in cui il solido impianto ritmico, curato da Corrado Bertonazzi (batteria) e Damiano Ferrando (basso), e le chitarre di Chiesa creano un tappeto sonoro colorato su cui si materializzano racconti, a volte fantasiosi altre volte reali e molto spesso ironici, che hanno come tema dominante la libertà di scelta e il dovere di prendere decisioni, che siano esse quotidiane o straordinarie.
La presentazione ufficiale del disco si terrà sabato 14 marzo nella Sala delle Udienze a Finalborgo. In anteprima abbiamo avuto l'opportunità di incontrare Edoardo e parlare del suo esordio discografico. Il tutto è riportato nell'intervista che segue.



Edoardo, archiviata l'esperienza con i Madame Blague, eccoti in versione solista a presentare il tuo primo disco…

«Ho cominciato a scrivere le canzoni che compongono il disco nell'aprile del 2013, appena uscito l'album dei Madame Blague. Sono brani che sono nati in un breve lasso di tempo, in sei mesi e sono quasi tutti usciti di getto. Avevo anche del materiale di qualche anno prima, esperimenti che avevo fatto iniziando a scrivere in italiano. Non avevo mai pensato a un album completo cantato in italiano anche perché sono sempre stato molto influenzato dalla musica internazionale. Però ci ho preso gusto, le canzoni sono venute fuori, mi sono piaciute e ho deciso di metterle su disco. Diciamo che non sono partito con l'idea di fare un disco ma le canzoni sono nate, me le sono trovate fatte e mi sono divertito un sacco».

Tra l'altro è un disco molto casalingo…

«Sì, praticamente ho fatto tutto home made. Prima ho scritto le canzoni, poi le ho provate e ho registrato traccia su traccia utilizzando il computer e una bella scheda audio. Quindi non c'è stato un lavoro in studio ma casalingo, in garage registrando prima le chitarre, programmando la batteria elettronica e poi piano piano le cose sono venute fuori. In seguito, la batteria è stata registrata dal piacentino Corrado Bertonazzi che ha sentito il materiale inviato per il mixaggio a Daniele Mandelli, fonico che avevo conosciuto ai tempi dei Madame Blague. Gli sono piaciute le canzoni e ha voluto registrare la sua parte, così siamo passati dalla batteria elettronica a quella reale».

Ti sei incontrato con Corrado Bertonazzi?

«No, abbiamo avuto solo un lungo contatto telefonico. Corrado ha ascoltato le mie parti di batteria, ha cercato di capire cosa avevo in mente e ha fatto un bel lavoro anche perché due tracce non avevano batteria e quindi ci ha messo del suo. Allo stesso tempo le parti di basso le ha scritte e registrate Damiano Ferrando che suona con me dal vivo. Anche lui ha fatto un ottimo lavoro. Devo ammettere che ho avuto la fortuna di incontrare bravi musicisti che mi hanno fornito un aiuto importante per la realizzazione di questo progetto».

Nella canzone "Mia paura" troviamo il contributo chitarristico di Marco Cravero

«Ho iniziato a suonare 5/6 anni fa, forse qualcosa in più, e sono andato a scuola di chitarra da Cravero. Mi ha trasmesso la passione per un certo tipo di musica e da quando l'ho conosciuto ho iniziato ad appassionarmi. Gli sono molto affezionato. Nel disco mi ha fatto il regalo di suonare in un brano. È stato molto contento di partecipare e io sono felice del risultato».

Ti ha dato qualche consiglio?

«Mi ha detto che è un lavoro con una buona personalità e mi ha consigliato di portarlo avanti. Mi è stato d'aiuto, abbiamo discusso un po' sul suono di chitarra su quel brano e di altre cose. "Mia paura" è l'unica canzone con un fraseggio blues e anche il suono è diverso rispetto agli altri. Cravero ha voluto che fosse proprio così. Mi ricordo che al primo mixaggio è uscito suono diverso ed è stato molto deciso nel dirmi che non andava bene. Quello pubblicato è invece il suono che voluto da Cravero. È una chitarra differente rispetto alle altre presenti nel disco, sia stilisticamente che a livello di suono».

Il disco ha una durata abbastanza breve e anche le canzoni raramente raggiungono i quattro minuti. Perché questa scelta?

«Ci ragiono a posteriori visto che il disco non è stato pianificato a tavolino. Non progetto mai troppo in questi casi e non ho ancora capito se è pigrizia oppure è proprio la mia indole. Però posso dire che la scelta che caratterizza anche gli arrangiamenti è stata di rimanere sull'essenziale, sul semplice. Quello che mi interessava è che venissero fuori le storie. La musica doveva essere d'aiuto alla voce e al racconto senza per questo però toglierle importanza dal momento che sono musicista. Anche se impazzisco per la chitarra, nel disco non ci sono assolo, mi interessava che il portamento ritmico fosse da cornice ai racconti e la durata breve del disco e delle canzoni è proprio data dal fatto che le storie sono il punto centrale. È un lavoro diretto come nella tradizione pop».

Ci hai spiegato che il disco racconta storie ma c'è un tema centrale, un filo conduttore?

«Sono storie diverse una dall'altra ma hanno al loro interno un senso comune, una appartenenza che viene raccontata in modo esplicito nella prima traccia che si intitola "L'alternativa". C'è sempre il tema della possibilità di scelta che è descritta in maniera più evidente nella canzone che apre il disco ed è più velata nelle altre. È difficile dover scegliere ma abbiamo il dovere di farlo».

Non potevi scrivere un racconto...

«Mi sa che la mia capacità di sintesi non me lo avrebbe permesso. Al liceo i miei temi occupavano sempre una facciata e mi sforzavo di scrivere qualcosa in più. Scrivevo grosso, partivo dalla definizione del vocabolario… no, faccio fatica, tanta».

Quanto c'è di personale nelle canzoni che hai scritto?

«A parte la canzone "Pioveva", che è una storia fantasiosa, le altre sono tutte personali, prendono spunto dai miei pensieri, dagli eventi che mi sono accaduti, da azioni che ho fatto. Non mi è ancora capitato di andare a cercare una storia, una idea fuori dal contesto personale e provare a scriverci una canzone. In questo periodo ci sto pensando e vorrei provare a scrivere da narratore esterno, provare a fare un esercizio di questo tipo e vedere cosa ne viene fuori».

Nel disco parli di alternative. Tu quante ne hai avute nella realizzazione del CD?

«Alternative ne ho avute poche nel senso che sono andato a braccio sotto il profilo musicale e non ho provato molto gli arrangiamenti. Ho lavorato tanto invece sui testi, per capire quale parola potesse essere migliore di un'altra».

Quanto tempo hai dedicato a questo lavoro?

«Le registrazioni sono durate quattro mesi ma non ho lavorato continuativamente».

Anche il suono è essenziale…

«Ho la passione per la musica degli anni '60/'70 e preferisco il suono poco prodotto. Ho cercato di fare altrettanto nel mio disco. Tutte le chitarre e i bassi sono stati registrati senza quasi nessun effetto per dare il giusto grado di calore e di efficacia ritmica».

Dici che ad appassionarti è la musica degli anni '70, quali sono gli ultimi dischi che ha scoperto?

«So che sono arrivato tardi ma in questo periodo sto approfondendo la discografia di Ivano Fossati. Sono innamorato alla follia di questo autore, lo sto scoprendo, poi c’è Lucio Dalla che ritorna. Devo finire di ascoltare un sacco di roba dei Rolling Stones, ci sono dischi vecchi che mi aspettano».

Nel testo della canzone "Noi" si legge <La musica non conta se non ha niente da dire, che siano note o siano parole devono essere sincere avere forza, indipendenza, dignità di costruzione>…

«È una considerazione personale però credo che sia importante che ci sia un contenuto alla base delle cose, che siano note o parole. Un contenuto culturale, un background di idee li senti anche qundo ascolti un ragazzo che suona il pianoforte».

Porterai il disco dal vivo?

«Lo presentiamo dal vivo in diversi modi. Principalmente in trio con Damiano Ferrando al basso e Marco Carini alla batteria. Ma anche in formazione ridotta perché oggi ci sono tanti spazi che richiedono il "poco rumore". Quindi magari ci saranno occasioni voce e chitarra, oppure contrabbasso, cajon, e voce. Qualche data c'è già. Lo presenteremo in trio il 14 marzo a Finalborgo nella Sala delle Udienze, poi ad aprile saremo al Raindogs a Savona, abbiamo una data a Padova a maggio. Speriamo di girare tanto».

Oltre a comporre e suonare so che insegni musica…

«Insegno da tre anni chitarra moderna a Celle nella scuola della banda musicale G. & L. Mordeglia e da quest'anno alla Finalborgo School of Music».

A livello di produzione e grafica ha collaborato l'Alienogatto. Ci vuoi spiegare chi è?

«Questo è un segreto. Diciamo che da quando ho iniziato a fare il disco ho avuto il confronto diretto con le persone a me più vicine e care. L’Alienogatto è una persona della mia vita con cui condivido tutto e che mi ha supportato in questo progetto sin dall'inizio».

Parliamo ora della copertina…

«Direi che rispecchia il sound del disco, è fresca e colorata, varia e fatta a mano. La copertina non è altro che la fotografica del coperchio della confezione di Natale dei Ferrero Rocher che abbiamo dipinto con colori acrilici. Per tre anni è rimasta appesa in cucina, poi un giorno ho capito che quel coperchio colorato poteva essere la copertina. Ha avuto una genesi particolare e mi piace molto. Un po' mi ha ispirato la copertina di "Making mirrors" di Gotye, uno dei miei dischi contemporanei che preferisco».

C'è una canzone che ti ha fatto tribolare?

«Sicuramente "Pioveva" e non sono ancora contento. Mi piace tantissimo e nel disco rende molto bene ma secondo me avrebbe bisogno di un altro vestito, di più spazio per le parole. Mi spiego, nel disco è molto veloce e invece la storia deve avere più atmosfera e lentezza. Mi piacerebbe avere la possibilità di raccontarla maggiormente e fare entrare chi l'ascolta e invece nel disco ho paura che vada troppo dritta. Dal vivo la presenteremo in un modo completamente diverso».

Secondo te è normale avere ripensamenti a disco appena concluso?

«Per me sì. Da musicista mi diverto a giocare con le canzoni e se le registrassi ora cambierei sicuramente delle cose, non perché ho dei dubbi ma perché mi piace sperimentare, giocare con i suoni».

Quante takes hai registrato delle canzoni del disco?

«Non ho mai finito un pezzo in una versione differente. Solo "Nati vecchi" è stata ritoccata quando l'abbiamo mixata. Abbiamo capito che mancava un po' di corpo e abbiamo aggiunto una chitarra».

C'è qualcuno che ti ha seguito e consigliato nelle varie fasi di crescita del disco?

«È stato un percorso lineare, forse non velocissimo ma piano piano è cresciuta la convinzione nelle canzoni. Parlando e facendole sentire ricevevano buone critiche e piacevano e questo mi ha spinto ad andare avanti. Il confronto l'ho avuto con la mia ragazza che ha seguito questo progetto dall'inizio ed è stata dietro a tutto. È stata la mia valvola di sfogo, l'ho messa sotto torchio, è stata disponibile e si è divertita. Mi ha detto cosa andava e non, e continua a farlo. È stata di grande aiuto…».


Titolo: Canzoni sull'alternativa
Artista: Edoardo Chiesa
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2015


Tracce
(musiche e testi di Edoardo Chiesa)

01. L'alternativa
02. Se non fossi già stato qui
03. Ti rispondo
04. Mia paura
05. Pioveva
06. Noi
07. Queste quattro sfere sporche
08. Nati vecchi

martedì 24 febbraio 2015

"Dietro il Mondo" eretico dei Laik-Oh!






Con "Dietro il Mondo" i Laik-Oh! aprono la finestra su un universo visionario dominato da atmosfere cupe e sinistre e in cui l'uomo deve fare i conti con le proprie paure e disillusioni. La band mantovana, al suo esordio discografico, lo descrive in sette canzoni dalla grande potenza evocativa e con un suono suggestivo che abbraccia l'elettronica e pesca in ambito dubstep e alternative. Un suono sperimentale, pulsante e in continuo movimento che plasma le storie e i racconti in un unicum dal sapore amaro. Canzoni che raccontano lo sconforto dell'uomo nel momento in cui si rende conto che i cardini della società e i concetti su cui ha basato la sua esistenza sono illusori e menzogneri. Solo in rari frangenti del disco i Laik-Oh! fanno entrare un piccolo sprazzo di luce, di speranza, in questo mondo e in questa società disillusa.
Bastano pochi secondi di ascolto del disco per ritrovarsi immersi al centro di questo universo, avvolti da abiti pesanti, dalle tinte scure e carichi di disillusioni. Con "Secoli di stragi", canzone che apre il disco, i Laik-Oh! puntano il dito contro ogni genere di violenza giustificata da moventi religiosi. E proprio la laicità e la profonda delusione nei confronti delle autorità eclesistiche sono uno dei punti di partenza da cui si sviluppa il pensiero del gruppo. Nel disco si affronta anche il tema del viaggio e dell'Oriente, visto come possibile via di fuga da questa società.
Il gruppo, nato agli inizi del 2012, è composto da Mattia Bortesi (voce e sintetizzatori), Michele "Panf" Mantovani (chitarra, sintetizzatori, loops e beats), Luca Peshow (basso e cori).
Ed è stato Mattia Bortesi a rispondere alle domande dell'intervista che ci fa scoprire questa nuova interessante realtà musicale.




Inizio questa intervista chiedendoti il significato del nome del vostro gruppo…

«"Laik-Oh!" significa sostanzialmente laico, ovvero "aconfessionale". Una scelta figlia del fatto che l'essere slegati da qualsiasi autorità ecclesiastica (ma potrei dire anche l'esserne profondamente delusi) era un po' uno degli aspetti che avevamo maggiormente in comune fin dagli inizi».

Quando è nato il gruppo?

«La band è nata tra il 2011 e il 2012 in una sala prove, scaldata con una stufetta a kerosene, che era anche difficilissima da raggiungere perché la macchina si impantanava nel fango. Michele, detto "Panf", voleva iniziare un proprio progetto electro-rock e ha chiesto a Luca di suonare il basso. Dopo qualche prova, però, si sono resi conto che serviva una voce e altre mani per suonare, così la mia insistente autocandidatura - suonavo già con Luca in un altro progetto - è risultata fatale».

Venite tutti da esperienze in ambito rock ma nel vostro disco puntate con decisione sull'elettronica con influenze dubstep e alternative. È questo l’ambito musicale in cui vi sentite più a vostro agio?

«In effetti si può dire che i nostri primi progetti musicali siano stati tutti molto più rock di questo. Ma se c’è una cosa scomoda da fare è sicuramente classificare questo disco. In "Dietro il Mondo" abbiamo sperimentato tanto: si alternano momenti più rock a parallele digressioni più ambient e annacquate in una ritmica electro. Il difficile poi è stato inserire, in tutto ciò, i testi in italiano in grado di tradurre in parola delle tonalità di lamento e di disillusione».

Quali sono le linee guida dell'album e quale messaggio porta con sé?

«I brani di "Dietro il Mondo" raccontano lo sconforto che accompagna l'uomo nel momento in cui si accorge quanto siano illusori e preconfezionati alcuni concetti e istituzioni cardine della società. La prima amarezza è immediata e riguarda non solo la fede cattolica ma tutti i teologismi, i loro soprusi e le violenze che, purtroppo, sono anche oggi di grandissima attualità. C'è poi anche il tema del viaggio, del tentativo di trovare nell'Oriente o nella natura (e nelle stagioni) qualcosa che possa risollevare da questa infelicità. A tratti è quindi un racconto molto leopardiano che ricama, tra musica e testi, delle atmosfere sinistre, tendenti all'eretico».

Sulla copertina campeggia una geisha che si specchia seduta sul mondo e l'oriente torna alla ribalta con la canzone "Asian trip". Cosa rappresenta per voi l'oriente, artisticamente e anche dal punto di vista umano?

«La dicotomia Oriente-Occidente è uno degli aspetti più limitanti che stanno in questo mondo, "Dietro il Mondo" per l'appunto. La nostra occidentalità traduce tutto ciò che vediamo, ne cambia i colori e i sapori. Purtroppo nell'estremo oriente non ci siamo mai stati ma è bello pensare che un viaggio l'abbia potuto fare l'uomo protagonista del nostro album. La geisha in copertina poi è proprio bella (due di noi se la sono già fatta tatuare) e vestendosi con il pianeta Terra simboleggia al massimo questi concetti».

Continuiamo a parlare della canzone "Asian trip pt. 1" in cui c'è un ospite speciale, Michele Negrini in arte Mud dei Terzobinario. Quando si sono incrociate le vostre strade?

«Michele Negrini è un cantante, è una voce. Però non solo: ha insegnato canto a Luca e a me, è il mio vicino di casa e sono innumerevoli ormai le occasioni artistiche in cui le nostre strade si sono incrociate. Musicalmente siamo distanti da lui - Mud potremmo definirlo un "cantautore alternative-pop" - però la richiesta di questo featuring ci è venuta spontanea. Sapevamo che con le sue sperimentazioni vocali il brano sarebbe potuto diventare molto bello, e così è stato! Il mio rapporto da vicino di casa con Michele Negrini va raccontato. Di solito ci si chiede il burro o la farina oppure ci si denuncia perché il cane fa i bisogni nell'altro cortile o uno ascolta la musica ad un volume esagerato; in questo caso, invece, ha vinto la musica: noi abbiamo chiesto una voce a Mud per il nostro primo lavoro e lui a me una chitarra per il suo primo album, "D'amore e di fango", uscito pochi giorni fa».

Nel disco si possono trovare riferimenti a John Hopkins, Moderat ma anche indierock italiano come Afterhours e Teatro degli Orrori. Chi di voi detta la rotta e su quali insegnamenti avete costruito la vostra unione?

«"Panf" negli ultimi anni è diventato progressivamente un divoratore d'elettronica. È lui che traccia la rotta compositiva della band. Naturalmente gli altri membri danno il loro contributo e mentre il brano cresce si arricchisce di sfaccettature che arrivano dai vari insegnamenti musicali ricevuti. In realtà l'indierock italiano ormai non lo ascoltiamo praticamente più! Gruppi come il Teatro degli Orrori però sono stati fondamentali per farci incontrare e conoscere come persone dato che diversi anni fa, proprio in quei "poghi" sudati, abbiamo iniziato a fraternizzare. Ora siamo sicuramente su altri ascolti ma se ti dovessi dire un gruppo che all'inizio ha influenzato maggiormente la band direi gli Aucan».

Il disco si apre con "Secoli di stragi". Una canzone e un titolo che sono un biglietto da visita impegnativo, non credi?

«Il brano "Secoli di stragi", del quale c'è anche il bellissimo videoclip realizzato da Giovanni Tutti, è sicuramente un inizio tosto e impegnativo! Sia per il testo che per l'argomento che tratta, ovvero tutte quelle occasioni nella storia dell'uomo nelle quali si è abusato di un movente religioso per spargere sangue e morte, dalle crociate in avanti. Il tema è forte così come lo sono le immagini del video ma noi siamo fortemente convinti di questo e penso che la cosa traspaia abbastanza facilmente».

Le atmosfere restano cupe ne "Il racconto dell’uomo deluso" come in "Assalto all’inverno". Perché tutta questa disillusione? Sono i tempi che portano questi pensieri o alla base ci sono esperienze personali?

«Ovviamente non ci siamo imposti queste tonalità noire e pessimiste a tavolino. Sono sensazioni che sono venute fuori pian piano, dai tempi in cui stiamo vivendo e dalle esperienze che tutti i giorni ci troviamo ad affrontare e a conoscere. Tutto questo ha generato delle tinte che non potevano non colorare i nostri brani».

Nella società di oggi chi è il "Neopagano"?

«Oddio, spero non esista. Però è una sorta di provocazione. Vengono ancora perseguite idee talmente vetuste che non mi sorprenderei se si ricominciasse a leggere il futuro guardando nelle interiora degli animali. Tornare al paganesimo nel ventunesimo secolo in quest'ottica non è poi così impossibile, gli altari mediatici sui quali praticare i sacrifici non mancano».

Avete lasciato qualche brano nel cassetto?

«Pochi, qualcosa di vecchio che abbiamo ripreso e aggiornato. Ora stiamo più che altro suonando live ma in testa c'è l'idea di tornare a comporre, magari qualcosa di diverso che segni un'evoluzione. Il futuro è comunque tutto da scrivere».

In quali territori musicali vi piacerebbe sperimentare?

«Già si sperimenta a cavallo di due o tre territori. L'augurio che ci facciamo è quello di poter ritagliare più tempo per comporre ancora tanto e creare un ambiente musicale più circoscritto e magari più elettronico». 


Titolo: Dietro il Mondo
Gruppo: Laik-Oh!
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche di Laik-Oh!, testi di Mattia Bortesi)

01. Secoli di stragi
02. Assalto all'inverno
03. Asian trip pt. 1
04. Il racconto dell'uomo deluso
05. Neopagano
06. Asian trip pt. 2
07. Nel temporale




lunedì 16 febbraio 2015

Cristina Nico, dal Premio Bindi a "Mandibole"





Con l'album "Mandibole" Cristina Nico ci porta in fondo al mare a scoprire l'abisso. Un luogo oscuro dove esperienze personali, ossessioni interiori, gioie e soprattutto dolori regalano una visione disincantata del vivere attuale. La cantautrice genevose, vincitrice della decima edizione del prestigioso Premio Bindi con la canzone "Le creature degli abissi", lo fa con testi amari, caustici, intrisi di malinconia ma allo stesso tempo conditi con una buona dose di ironia e sarcasmo. Una scrittura ispirata, poetica e immediata in cui si rintraccia l'urgenza espressiva dell'esordio ma allo stesso tempo è evidente quanto il tutto sia stato meditato, studiato e "lavorato". Vibrante è l'interpretazione da parte della Nico che asseconda con maestria vocale i momenti minimali e quelli più intensi del disco. Musicalmente si rimane in ambito rock, forse non convenzionale ma le chitarre elettriche ricordano, in alcuni frangenti, sonorità degli anni '70 e creano un substrato pulsante e vivo. Un disco che merita l'ascolto e che è capace di stimolare la curiosità in chi ha voglia di esplorare gli abissi.
Ci ha pensato poi Tristan Martinelli, coproduttore del disco insieme alla Nico e in precedenza a fianco di Numero 6, Dejan e L'Orso Glabro, a dare una impronta decisa alle canzoni, registrate al  Greenfog Studio di Genova da Mattia Cominotto e masterizzate da Raffaele Abbate alla OrangeHome Records. Al disco hanno contribuito anche Jacopo Ristori (violoncello), Alessandro Alecsovitz (violino), Enrico Bovone (batteria e percussioni), Mattia Cominotto (chitarra e cori), Sabrina Napoleone e Valentina Amandolese (cori).
L'album, pubblicato dopo i precedenti Ep autoprodotti "Cinnamomo" del 2006 e "Daimones" del 2010, è l'argomento principale dell'intervista ma Cristina Nico ci regala anche un quadro molto interessante della sua visione della società di oggi.




Quali sono i pregi di Cristina Nico?

«Dio bono, cominciamo bene! In questo momento ogni mio pregio mi sembra abbia il suo corrispettivo in un difetto e viceversa. Comunque ci provo: il sense of humour (quando sono in buona), una discreta onestà (che non ha nulla a che fare con la coerenza), l'istinto di sopravvivenza (che non vuol dire saper vivere), una buona immaginazione (o sono solo allucinazioni?)».

…e i difetti?

«A volte vedo prima gli aspetti negativi della realtà (il che vuol dire però gioire alla grande di fronte alla bellezza anche di piccole cose). Mugugno parecchio. Sono piuttosto schizofrenica, mi butto giù un sacco oppure mi esalto».

Da poche settimane hai pubblicato il tuo primo disco, "Mandibole". Perché dovremmo ascoltarlo?

«Perché ci ho investito i miei risparmi. E perché è un bel disco, suvvia».

Il disco si apre con "Creature degli abissi" che ha la struttura di una ouverture, quasi fosse l’inizio di un concept album che poi alla fine non si sviluppa, almeno non completamente. Mi sbaglio?

«È un'ouverture, è vero. È uno dei pezzi che ho scritto quando gli altri inclusi nel disco erano già stati composti. Più che alludere ad un concept, è una dichiarazione poetica, una sorta di lettera di presentazione su quello che ci si può aspettare da me e quello che non posso fare attraverso la mia musica e il mio modo di essere».

In un verso di "Formaldeide" parli di <artisti occidentali annoiati e stanchi>. E quindi dove possiamo trovare artisti attivi e pieni di energia?

«Chissà... forse dove c'è meno disincanto, dove c'è più speranza di creare qualcosa attraverso delle idee forti di cambiamento perché magari la libertà non è una cosa scontata. Penso ad un artista (visivo) come il cinese Ai Weiwei, che da una parte sa sfruttare i media, innestarsi sul percorso già battuto dall'arte concettuale occidentale. Ma la pelle l'ha rischiata davvero per denunciare la mancanza di libertà e informazione nel suo paese e, per chi lo conosce, i messaggi delle sue opere sono delicati e potenti assieme».

Mi ha fatto riflettere l’incipit di "Cocoprosit". <Non sprecare il tempo in cose necessarie ma inutili che non nutrono il tuo spirito>. Mi sono divertito a elencarne un po’. Possiamo sapere quali sono invece le cose che tu consideri inutili ma necessarie?

«Credo ce ne siano tante di cose 'inutili ma necessarie'. Prendi il lavoro: sono poche le persone che riescono a vivere facendo un mestiere che le appaghi davvero. Però portare a casa la pagnotta è una necessità, no? Solo che non si può pretendere dal lavoro una piena soddisfazione di bisogni più profondi, chiamiamoli pure spirituali o anche semplicemente morali, emotivi, affettivi. Non voglio sminuire l'importanza del lavoro, tutt'altro, ma credo ci siano delle false mitologie in merito, accresciute dal fatto che molti non lavorano o si trovano a lavorare in condizioni assurde, che creano ancora più frustrazione e false aspettative…».

Il concetto viene ribadito in "Giorno dopo giorno" quando dici di non perdere energie e di concentrarsi su una sola via. Tu hai trovato la tua via oppure i testi delle canzoni sono lo specchio di uno tuo smarrimento esistenziale?

«La mia via è lo smarrimento esistenziale!».

Che significato ha la lucertola di "Cocoprosit"?

«È un animale reale e simbolico assieme. È la lucertola che realmente ho visto spesso sulla tomba di mia madre e a cui ho dato un ruolo di tramite, di messaggero fra il mondo dei vivi e dei morti, della luce e delle ombre. Da bambina le lucertole mi affascinavano perché le vedevo palpitare, per via di quel movimento respiratorio rapidissimo, sembra che si gonfino e si sgonfino continuamente, come dei piccoli mantici».

Le "Mandibole" sono un accessorio meccanico che non ha distinzione di classe, non credi?

«Sì. È un accessorio meccanico, primitivo, che ci accomuna a quasi tutti gli altri animali. Ci servono per mordere, masticare, lacerare, urlare... a volte anche il nostro modo di assimilare concetti, informazioni è un po' meccanico. Inghiottiamo quello che ci mettono in bocca, come quegli uccellini che stanno a fauci spalancate in attesa che i genitori le riempiano di cibo predigerito. Ma prima o poi bisogna imparare a scegliere il 'cibo' giusto, masticarlo e digerirlo».

Sei meteoropatica?

«Un poco... il mio umore è piuttosto 'nivuro' in quelle giornate in cui il cielo sembra essere pesante, appeso, in attesa di scaricarsi in pioggia. Ma in "Meteoropatia" prendo anche un po' in giro coloro che si beano di certi atteggiamenti post-esistenzialisti, me stessa in primis».

Nel disco si affrontano e si confrontano un "io" molto personale e un esterno. È il tuo mondo contro quello che c’è al di fuori?

«Non direi 'contro': c'è il mio mondo che cerca di incontrare quello esterno, anche se a volte tende a rintanarsi in se stesso. Nelle canzoni di "Mandibole" parto spesso da un 'io' che poi diventa 'noi', in questo senso credo sia un disco tanto lirico quanto corale. Non amo le visioni dall'alto, mi sono più congeniali quelle dal basso e dall'interno».

Perché hai scelto di chiudere il disco con la cover di "Mother stands for comfort" di Kate Bush?

«Perché volevo includere un omaggio a un'artista che forse non è tra le mie prime ispirazioni ma che ammiro molto, anche se le sue sonorità sono apparentemente lontane dalle mie: sia io che Tristan siamo più influenzati dalle sonorità degli anni Sessanta e Settanta. La cosa curiosa è che nel fare la cover di "Mother stands for comfort" abbiamo preso un pezzo degli anni Ottanta e ne abbiamo fatto un pezzo anni Novanta!».

Sei nata a Genova ma so che le tue origini sono più lontane… Cosa ti hanno lasciato, a livello umano e naturalmente musicale?

«Tre nonni su quattro erano calabresi. Terre aspre che improvvisamente si aprono in piane verdissime, fiumare limacciose dove vivono grandi granchi, gli incendi che di notte illuminavano i dorsi dei monti... e poi le spiagge di Capo Vaticano, quasi selvagge prima dell'arrivo massiccio del turismo: queste le 'visioni', forse un po' bucoliche, che si sono impresse nei miei paesaggi interiori, che hanno composto il mio Sud come luogo mentale e quasi metafisico. I canti liturgici e le musiche eseguite dalle bande di paese nelle processioni poi su di me avevano grande suggestione: nel ritornello de 'La litania dei pesci' le voci femminili del coro richiamano quella vocalità particolare delle donne che eseguivano i canti alla Madonna nelle processioni. Però nelle mie radici c'è anche la memoria della malinconia, della povertà, del disagio patito dai miei nonni e zii migranti».

Come si fa ad essere cantautrici a Genova? Non trovi che il passato della "scuola genovese" sia ingombrante e che inevitabilmente si tenda a fare confronti con il passato?

«Certo, è un passato importante. Ma le cantautrici di questa nuova ondata genovese secondo me hanno seguito percorsi che si spostano un po' dal solco della vecchia scuola, sia per sonorità che per modalità di scrittura, anche se c'è grande rispetto del passato. Forse anche perché di donne cantautrici, ahimé, è rimasta poca traccia. In un certo senso siamo potenzialmente più libere dei colleghi maschietti».

Hai dei riti precisi nella scrittura delle canzoni?

«No, a volte ho una frase o un'immagine che comincia a girarmi nella testa, altre volte parto da un riff di chitarra o un'armonia. Mi son accorta che spesso gli spunti arrivano in maniera inconscia da conversazioni noiose e da pasti consumati in fretta».

Secondo te le donne hanno più sensibilità nello scrivere canzoni?

«Ma no, non credo proprio. Credo, questo sì, che ci sia una sensibilità leggermente diversa, ma niente di fisiologico. È solo questione di educazione, di ruoli sociali, che portano ancora ad esprimerci e filtrare le nostre emozioni e i nostri pensieri in modo un po' diverso dagli uomini. Cosa che magari finisce per portarti ad essere estremamente lirica e intimista o molto incazzata e dirompente!»

Se potessi vestire per un giorno i panni di un musicista chi sarebbe e perché?

«Un bravo pianista classico, che sa leggere la musica».




Titolo: Mandibole
Artista: Cristina Nico
Etichetta: OrangeHome Records
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi di Cristina Nicoletta, eccetto dove diversamente indicato)

01. Le creature degli abissi
02. Formaldeide
03. L'inopportuna
04. Cocoprosit
05. Giorno dopo giorno
06. La litania dei pesci
07. Mandibole
08. Metereopatia
09. Mother stands for comfort  [Kate Bush]



mercoledì 4 febbraio 2015

"Tramps & Thieves", l'esordio dei Four Tramps




Classic rock americano, esplosivo rock inglese anni '60/'70, una spruzzata di punk e una solida base di malinconico blues. Sono questi gli ingredienti di "Tramps & Thieves", album d'esordio dei Four Tramps, pubblicato in questi giorni dall'etichetta ferrarese New Model Label. La band emiliana è nata nel 2011 dall'incontro di diverse anime con alle spalle percorsi artistici differenti. Questa eterogeneità di stili e di influenze si riversano inevitabilmente anche nella musica e nelle canzoni che compongono il disco, registrato a partire da febbraio del 2014 al Vox Recording Studio di Reggio Emilia. È un album ricco e vario, ma allo stesso tempo omogeneo nell'approccio, nelle linee melodiche e negli assolo, e per quella ispirazione blues che permea tutto il disco. Una musica che si tinge inevitabilmente delle influenze di Muddy Waters, Doors, The Who, dei Rolling Stones degli esordi. Le canzoni raccontano invece la condizione degli ultimi, di coloro che non hanno più il controllo della propria esistenza e a cui è stato portato via tutto, di chi deve vedersela con il proprio demonio e la propria solitudine. E così i Four Tramps ci raccontano i drammi di persone anziane costrette a fare i conti con la violenza della natura, di altre travolte da dissesti finanziari o dall'assurdo diffondersi di armi in una società sempre più dominata dalla violenza. Canzoni che pongono interrogativi sul mondo e sull'attualità senza tralasciare però momenti più surreali e spensierati.
Il gruppo è composto da Simone Montruccoli (voce, chitarra e armonica), Davide Guzzon (chitarra, slide e cori), Elia Braglia (basso e cori), Joe Osiris (batteria). 
Con Simone Montruccoli abbiamo approfondito la conoscenza della band e abbiamo parlato del disco d'esordio dei Four Tramps.



Il progetto Four Tramps è nato nel 2011 e ora ecco il vostro primo disco. Cosa avete fatto in questi anni e quando avete seriamente pensato di registrare il disco?

«Noi tutti veniamo da realtà diverse, da generi musicali diversi, e ognuno ha dei gusti personali a volte anche abbastanza discordanti con gli altri membri. Agli inizi, durante la realizzazione dei primi pezzi, abbiamo sperimentato molto, spaziando tra più sottogeneri del rock. Canzoni di chiara natura punk rock (da dove alcuni di noi provengono), brani più grunge o indie, classic rock, ma anche i primi accenni di blues. Da lì abbiamo registrato nella nostra sala prove una demo distribuendola gratuitamente ai nostri primi concerti. Lo sperimentare dei primi anni ci ha portati verso un'unica direzione, quella attuale, che definiamo rock d’ispirazione anni '60/'70 a forti tinte blues. Dopo aver suonato nei vari locali della zona, e messo da parte qualcosa a livello economico e di esperienza artistica, abbiamo pensato che era giunto il momento di registrare un disco "fatto bene" in uno studio di registrazione adeguato. Così nel 2014 abbiamo registrato il nostro primo album ufficiale "Tramps & Thieves"».

Chi sono i Four Tramps e perché questo nome?

«Alcuni di noi sono amici di vecchia data, altri si sono conosciuti grazie a collaborazioni passate quando si suonava rispettivamente in altre band e il nostro membro più giovane è stato trovato tramite un annuncio su un giornale locale. La scelta del nome è stata lunga e difficile. Sul piatto avevamo tante proposte. Alla fine si è scelto il nome attuale un po' per ricordare il tema del "viaggiatore" e delle "esperienze" vissute in giro per il mondo, raccontate spesso nei nostri brani, e un po' per evidenziare il nostro occhio critico nei confronti di quello che attualmente succede nella società. Per qualcuno di noi anche la citazione "Tramps like us, baby we were born to run" di un noto brano di Springsteen ha avuto la sua influenza».

Perché avete registrato un disco quando ai giorni d'oggi lo comprano in pochissimi?

«In primis per soddisfazione personale. Non tutte le band, grazie al cielo, si formano con l'unico intento di sfondare e ottenere successo. È semplicemente la cosa più divertente al mondo, e creare qualcosa, in questo caso un album, dà molta soddisfazione. Se questo sforzo poi lo si riesce a vendere viene da sé che tale soddisfazione aumenta. Inoltre se si vuole suonare il più possibile anche in territori al di fuori della propria provincia, è necessario avere un qualcosa da far ascoltare per presentarsi e promuovere la propria band. La concorrenza è tantissima, e anche nei piccoli club non è più così facile entrare nella programmazione stagionale. Sulla fiducia non ti fanno esibire. Avremmo potuto sfruttare solo il mondo digitale ma il fascino dell'oggetto fisico per noi, e ci rendiamo conto per pochissimi altri, è unico e inimitabile».

Come sono nate le undici canzoni del cd?

«Generalmente partiamo da un riff di chitarra o una sequenza di accordi, poi insieme in studio cerchiamo di costruire tutta la canzone. Poi, con l'aggiunta di un testo, si prova a completare e aggiustare l'opera cercando di capire l’intensità necessaria con la quale suonare ciò che si canta, raggiungendo un equilibrio emotivo tra musica e canto. I testi a volte suonano di critica su alcune questioni della nostra società, altri sono indubbiamente più spensierati o surreali, spesso conditi da ironia, e altri trattano questioni private e fatti di cronaca».

Cosa rappresenta per voi il blues?

«Il blues è il primo punto di un albero genealogico, un nonno che ti racconta la sua saggezza e le sue esperienze, un manuale d'istruzioni fondamentale dal quale attingere per il concepimento della musica pop/rock, ma anche il manuale per cantare con l'anima e con la credibilità necessaria».

Quali sono gli artisti blues che amate di più e come li avete scoperti?

«Credo che ognuno di noi sia entrato nel mondo del blues seguendo quei musicisti rock, in particolare della scena inglese, che a loro volta hanno fatto sentire al mondo intero, a modo loro, quei riff. Ovviamente Rolling Stones, Led Zeppelin, Eric Clapton e molti altri. Ma se torniamo all'America di colore, sicuramente i grandi nomi come Muddy Waters, John Lee Hooker e il leggendario Robert Johnson li apprezziamo molto, e ovviamente il rispetto è infinito per questi miti. Per venire a conoscenza di questa musica non possiamo certo dire che siano stati i mass media attuali ad aiutarci. Abbiamo però fratelli più grandi e anche genitori che ci hanno indirizzati "bene", fortunatamente. Viviamo in una provincia in cui la musica dal vivo si riesce ancora a fare, e soprattutto c'è una scena blues molto attiva. Artisti locali come il grandissimo Johnny La Rosa e tante altre band che oltre ad eseguire magnifici brani propri, suonano grandi classici di artisti americani e inglesi. Possiamo dire quindi che probabilmente ci siamo nati e ci viviamo tutti i giorni col blues. Certo deve comunque interessarti la musica dal vivo e bisogna frequentare i posti giusti».

Oltre al blues, la vostra musica subisce l'influenza del rock di matrice anni '60/'70. Perché la vostra musica guarda al passato? Non vi piace il presente e il futuro che verrà?

«Il presente non ci fa impazzire. Ci sono tante band dei giorni nostri che ascoltiamo e apprezziamo. Ma in linea di massima tra i gruppi più in voga e noti degli anni 2000 c’è poco che ci convince. Più interessante scoprire band o artisti che fanno parte di qualche nicchia ma che mantengono standard qualitativi alti. I grandi nomi degli anni '70 probabilmente avevano (o hanno, per quelli che ci sono ancora) una cosa che adesso non è più così diffusa: il carisma! Ancora oggi sono i grandi nomi del passato a riempire gli stadi e i festival, e a fare concerti lunghi non meno di due ore».

Da una parte il Mississippi e dall’altra il vostro Po. Ci vuole sempre un grande fiume per avere certe atmosfere?

«Diciamo che dalle nostre parti si gioca spesso con questa associazione Mississippi e Po, e sono tante le manifestazioni musicali blues sulle rive del nostro grande fiume, come il noto "Rootsway - Roots'n'Blues & Food Festival". La suggestione e l'atmosfera speciale che si crea durante questi eventi estivi è davvero affascinante. Se non ci fosse il fiume, sarebbe quindi uguale? Per noi no».

Nel disco non mancano canzoni di denuncia come "22 crickett". Ci raccontate da dove nasce e quale significato ha?

«La canzone nasce da un fatto di cronaca vera, sentito semplicemente al telegiornale. È una sorta di denuncia alla cultura americana dell'armamento incontrollato della società civile. Pare che avere un'arma nel comodino sia un fatto normale. E la cosa che più ci ha colpito è la vendita on-line di queste "armi da bambino" come i pink rifle, che sono vere e proprie armi, non giocattoli. Quindi l'incidente è all'ordine del giorno. Non è il fatto di essere antiamericani, ma il fatto di denunciare come anche nella nostra società Occidentale, considerata democratica e avanzata, ci siano enormi buchi neri e contraddizioni».

Con "Morning spread blues" puntate l’indice contro certa finanza. Ma alla maggioranza dei giovani d'oggi siete sicuri che interessi qualcosa?

«Negli ultimi anni l'economia e la capienza delle nostre tasche sono influenzate da quella cosa astratta e gestita da poche persone al mondo che si chiama finanza. Dubitiamo che un ragazzo di 16/20 anni dia il giusto peso a questo concetto. Ma prima o poi ci si accorge che le cose non vanno proprio bene. Sicuramente avrebbe più "appeal" parlare, o meglio, "rappare" di sesso, droga, ragazze, fare video con culi al vento, collane d'oro, eccetera eccetera… Ma i nostri modelli sono altri. E il discorso della "Rivoluzione delle Coscienze" alla Joe Strummer (col dovuto rispetto) ci interessa di più».

In "Tremblin' land blues" parlate del terremoto che ha colpito la vostra regione. In voi che segni ha lasciato questa tragica esperienza?

«Nessuno di noi è residente nei paesi maggiormente colpiti dal sisma. Ma ognuno di noi ha amici o parenti che hanno subìto danni alle proprie case o ai luoghi di lavoro. È stato un momento davvero scioccante per la nostra comunità e ancora oggi si vedono i segni. La canzone si ispira a un fatto vero che abbiamo visto in un servizio giornalistico televisivo. Protagonista, suo malgrado, una signora anziana che viveva sola in casa. La casa è crollata e lei si è salvata per miracolo. I vigili del fuoco l'hanno portata al sicuro mentre lei continuava a chiedere di essere riportata a casa, senza rendersi conto che casa sua non c’era più. Impossibile non emozionarsi e commuoversi».

È proprio vero che le disgrazie come le emozioni forti fanno scrivere buona musica?

«Se uno ha qualcosa da dire o da raccontare, sicuramente ci mette più impegno e attenzione, ha maggiormente voglia di essere ascoltato e capito. Però non bisogna speculare su alcune cose e sulle disgrazie. Non deve essere quello l'obiettivo. È un concetto di sensibilità alla vita quello che deve trapelare».

A chiudere il disco una gradevole rilettura di "Summertime blues" di Eddie Cochran. Cosa vi ha spinti a scegliere questa canzone?

«È indubbiamente uno dei brani più belli ed emozionanti della storia del rock'n'roll. Probabilmente tutti i grandi l'hanno eseguito almeno una volta nella vita. È una canzone piena di vita ed energia, che in tutte le salse emoziona davvero tanto. Dal vivo la suoniamo spesso ed è solitamente molto apprezzata. Quindi abbiamo deciso di farla nostra anche nel disco».

Qual è la vostra situazione preferita: in studio o live? E perché?

«Credo che senza ombra di dubbio i live siano il nostro habitat naturale. Ci piace suonare dal vivo e vorremmo farlo molto più di quanto già non facciamo. Ci sono posti in cui sappiamo che il pubblico ha un calore estremo. In quei momenti ci esaltiamo e ci permettiamo di improvvisare, suonare finché abbiamo energie in corpo con la consapevolezza di essere artefici di un bellissimo clima di festa. Quelli sono i momenti più belli. In studio è tutto diverso. È sicuramente una situazione dove si deve lavorare per migliorare i brani che si hanno, le proprie capacità, ed è una sorta di cantiere per ottenere canzoni nuove. È divertente ma non mancano a volte, come crediamo sia del tutto normale, momenti di tensione e contrasto fra di noi. Le "pause pizza" aiutano a stemperare sempre il clima».

E adesso quali sono i vostri programmi?

«Noi abbiamo un unico grande obiettivo: quello di esibirci il più possibile e anche al di fuori dei nostri confini regionali. Da pochissimo tempo stiamo collaborando con l'etichetta emiliana New Model Label per la promozione e la distribuzione dell'album in formato digitale. Speriamo quindi di aumentare il nostro bacino di utenze, con la speranza di ottenere più visibilità e incrementare notevolmente il numero dei nostri concerti».



Titolo: Tramps & Thieves
Gruppo: Four Tramps
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2015

Tracce
(musiche e testi di Simone Montruccoli, eccetto dove diversamente indicato)

01. 22 Crickett (my first rifle)  [Davide Guzzon e Simone Montruccoli]
02. Moonshiner in love
03. Tramps & Thieves
04. The girl of abnormal dreams
05. Last day of freedom  [Simone Montruccoli e Elia Braglia]
06. Tremblin' land blues  [Davide Guzzon e Simone Montruccoli]
07. Mr Jameson (Irish drunken blues)  [Simone Montruccoli e Elia Braglia]
08. Morning spread blues  [Davide Guzzon]
09. Buster blues
10. Revolution tonight
11. Me & the devil #2
12. Summertime blues  [Eddie Cochran]




mercoledì 28 gennaio 2015

Benvenuti nel "Luna Park" di Davide Solfrini






È una giostra di periferia in cui si incontrano personaggi che si dibattono tra speranze e distruzione, altri in cerca di riscatto o semplicemente impegnati a portare avanti la loro esistenza nel ricordo dell'infanzia e della giovinezza, altri ancora alle prese con storie d'amore ormai finite e consumate. Un mondo piccolo, a tratti caotico e grottesco che Davide Solfrini colloca sotto i riflettori di "Luna Park", il suo secondo album dopo "Muda" e i precedenti due Ep autoprodotti "Shiva e il monolocale" e "Circadian Blues". Un luna park poco appariscente che si può incontrare in una delle tante località della riviera adriatica che perdono la luce dei riflettori nei mesi invernali ma altrettanto bene lo si può immaginare alla periferia di una cittadina degli Stati Uniti. E proprio con la musica d'oltreoceano che Solfrini paga il debito accumulato in tanti anni di ascolti musicali.
Il musicista di Cattolica mette sul piatto una scrittura a tratti malinconica ma nello stesso tempo vigorosa e piacevole che trova ispirazione nelle grandi ballate rock del passato e nelle sonorità di matrice "americana" su cui si innestano però nuovi interessanti spunti. Ne sono esempio le sperimentazioni rythm'n'noise di "Mi piace il blues" o l'electro/wave di "Luna Park", canzone che trasporta l'ascoltatore su una pista da dancefloor.
Nel disco Solfrini suona chitarre elettriche e acustiche, tastiere, programming e si fa aiutare da Gabriele Palazzi Rossi e Francesco R. Cola alla batteria, da Omar Bologna alla chitarra, da Paolo Beccari all'armonica e da Valentina Solfrini ai cori. Il disco è pubblicato dalla etichetta New Model Label.
È lo stesso Davide Solfrini a farci scoprire il suo "Luna Park".




Chi è Davide Solfrini?

«Un folle lucido che pensa di avere qualcosa da dire e decide comunque di seguire la sua vocazione, nonostante le sue scarsissime capacità di gestire media e comunicazione, in un periodo dove tutto sembra avverso per chi vuole far musica e una persona su dieci pubblica un disco».

Quale è stato il tuo incontro con la musica e come sei arrivato a fare il musicista?

«Ho scoperto la musica grazie ai dischi di mio padre e poi, fin dai tempi delle elementari, ero più attratto da Video Music piuttosto che dai cartoni animati. Il bisogno di imbracciare una chitarra è stato quasi fisiologico anche se pur sempre da autodidatta».

Citando il finale della canzone “Bruno”, di cosa non hai voglia?

«In quella canzone, senza celebrare o criticare nessuno, guardo la vita di un tossicodipendente degli anni del "boom" dell'eroina in Italia, quando fare il "drogato" era un vero e proprio lavoro a tempo pieno e la guardo con un po' di immedesimazione. Chi imboccava quella strada infatti rinunciava a tutto ciò che era una vita "normale" (famiglia, affetti, lavoro, veri amici, vita sociale) e tante volte guardando queste persone (e soprattutto questa persona, realmente esistita), pur non avendo mai fatto parte di quegli ambienti, mi sono sentito un po' come loro, con un bisogno, una pulsione a mandare tutto e tutti a quel paese e a rinchiudermi in me stesso, per dedicarmi a qualcosa di autodistruttivo e alienante. E "beati loro" che almeno sapevano che nel loro caso quella pulsione era l'eroina, perché io, nel mio caso, non ho ancora capito da dove viene! È il mio desiderio di dire: "Si, sono anche io un drogato e non ho voglia di pensare al lavoro, al futuro, agli altri, a me stesso… non ho voglia punto e basta, senza perché e senza sentirmi in colpa"».

In "Elvis" lanci il messaggio "Pagate meglio il dj!" e i musicisti nel 2015 che fine fanno?

«Se la passano peggio dei drogati di cui parlavo sopra ma hanno ancora la forza di sopravvivere. Siamo personaggi borderline e troviamo nel narcisismo la forza, nel bene e nel male, di esistere».

Canti "Mi piace il blues" ma il disco ha molto poco blues al suo interno. Lo tieni per il prossimo disco o è un genere che non ti attrae?

«Il blues lo apprezzo, mi piacciono John Lee Hooker, i Canned Heat , J.J. Cale e tanti altri, ma di certo non sarebbe un buon mezzo o un buon supporto per il mio tipo di testi o di sentire la musica. È molto improbabile che in futuro dalle mie corde esca un disco blues».

Qual è il tuo "Luna Park" preferito?

«Youtube».

Dici che "Ci vuole tempo" ma per fare cosa?

«Per fare le cose belle, quelle che ci soddisfano, ci insegnano e ci cambiano. Leggere un libro, educare un cane, fare un disco, crescere un figlio, studiare un argomento, conoscere una persona… Purtroppo molti vivono in un'ottica secondo la quale se l'obiettivo non è ben chiaro, vicino e facilmente raggiungibile tutto ciò che si fa è uno spreco di tempo e di energia».

Chi sono i protagonisti delle tue canzoni?

«Personaggi più o meno borderline, ma, positivi o negativi che siano, hanno una parte di loro nella quale mi identifico, e soprattutto una parte che rappresenta in maniera scomoda un po' tutto il genere umano».

A cosa serve una canzone?

«Mi pare che una volta Miles Davis abbia detto <Se devi chiedere cos’è il jazz allora non lo saprai mai>. Io riutilizzo questo concetto dicendo che <Se devi chiedere a cosa serve una canzone significa che per te non servirà mai a nulla>. Super citazioni a parte solo chi nell'adolescenza o da giovane ha comprato un disco, lo ha ascoltato per giorni fino a lasciare che questo cambiasse la sua percezione delle cose conosce la risposta a questa domanda, io a parole non so dartela».

Ti ricordi la prima canzone che hai scritto?

«Era orribile, tante parole per non dire assolutamente nulla».

C'è un artista con il quale ti piacerebbe collaborare?

«Ce ne sono tanti, dai Flor che dopo anni sono tornati sulle scene a personaggi del calibro di Bersani o Dente. Artisti che non si siedono sugli allori ma cercano in continuazione nuove strade e nuovi stimoli».

Guarderai il Festival di Sanremo?

«Probabilmente non lo guarderò ma tanto alle mie orecchie in un modo o nell'altro arriverà e onestamente non so nemmeno io cosa ne penso. È un aspetto del mondo musicale italiano del quale bisogna tenere conto, ma io non ho più le energie né per valutarlo, né per misurarmici. Ipocrisie a parte: non mi piace ma se qualcuno mi mandasse a San Remo non direi certo di no».

Se avessi la possibilità di scegliere il tuo destino su cosa punteresti?

«Musica, suonare con una band elettrica e soprattutto pubblicare più album possibili».

Qual è la tua idea di qualità della vita?

«Essere padroni del proprio tempo».




Titolo: Luna Park
Artista: Davide Solfrini
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2015


Tracce
(testi e musiche di Davide Solfrini)

01. Cenere
02. Luna Park
03. Bruno
04. Mi piace il blues
05. Ballata
06. Lavanderia
07. Mai più ogni cosa
08. Elvis
09. Hardcore
10. Ci vuole tempo






mercoledì 21 gennaio 2015

"La parte migliore" donata da Sabrina Napoleone






"La parte migliore", album d'esordio della cantautrice genovese Sabrina Napoleone, è un viaggio alla scoperta dell'intimità dell'uomo tra canzoni potenti e momenti riflessivi e più raccolti. Il disco, il primo da solista dopo l'esperienza formativa a metà anni '90 con gli Aut-Aut (all'attivo l'Ep "Aria di Vetro" e il disco "Anacronismi"), mette sul piatto dieci canzoni viscerali che raccontano con sensibilità le disillusioni dei tempi che stiamo vivendo. È un album a tratti ruvido, visionario, dalle atmosfere vagamente psichedeliche, denso di citazioni filosofiche (la Napoleone è laureata con lode in Filosofia), in cui la canzone d'autore si unisce alla sperimentazione elettroacustica di matrice rock, in cui il noise va a braccetto con certe influenze alt-rock degli anni '90 e in cui la rabbia e la speranza sono facce di una stessa medaglia.
Tema centrale del disco è la mancanza, la perdita, la privazione della fede, dell'amore, della libertà, delle certezze ma anche della vita stessa, come celebra la Napoleone in "Fire", brano che apre il disco. Sentimenti ed esperienze di vita che la quarantunenne artista genovese racconta e descrive da una prospettiva non convenzionale. La privazione, materiale o spirituale che sia, non è vista dall'autrice sempre come un fattore negativo. Anzi, la parte migliore rappresenta proprio quella capacità di condividere senza avvertire il peso della privazione o della rinuncia.  
Sul piano musicale grande merito va anche a Giulio Gaietto che cura la produzione artistica e contribuisce suonando basso, synth, chitarra elettrica e soundscapes. Completano l'organico Marco Topini alle chitarre, Osvaldo Loi al piano, al synth e agli archi, Jess alla batteria.
Nell'intervista che segue parliamo con Sabrina del suo disco, che ha fatto parte dei candidati al Premio Tenco 2014 nella categoria Opere Prime, e del recente tour a fianco di Lene Lovich, artista di culto della scena new wave.




Sono tempi difficili e nel tuo disco d'esordio traspare evidente una buona dose di disagio nei rapporti con gli altri e con il quotidiano. È proprio una vita così complicata?

«La nostra vita è così complessa che il solo tentativo di osservare il dedalo di relazioni tra noi e l'ambiente che ci circonda (sia sociale che naturale) provoca un violento senso di vertigine. Forse è per questo che tutti noi la accettiamo passivamente, senza porci troppe o ripetute domande. Il nostro atteggiamento nei confronti degli altri e del mondo è per lo più pratico ed acritico. Naturalmente se ci soffermassimo su ogni dettaglio e cercassimo di comprendere le ragioni di tutto resteremmo paralizzati. Ogni tanto però credo sia bene dare un'occhiata all'abisso, a quello dentro di noi e a quello che sta fuori. Solo ogni tanto».

L'argomento centrale del disco è la privazione, in tutte le sue sfaccettature. Quale parte migliore dovremmo lasciare al prossimo?

«Sì, ogni brano porta in scena la perdita o la privazione, ma non sempre in senso negativo o pessimistico. La parte migliore di noi è quella che non conosce il valore delle cose e divide, dona, condivide, senza avvertire il peso della privazione. È la parte di noi che sta al di là di concetti quali egoismo e altruismo. Al prossimo dovremmo insegnare a coltivare quella parte di sé e a difenderla affinché nessuno possa svilirla, umiliarla e sottrarle a forza la propria purezza, la propria fiducia».

Da chi hai appreso questo insegnamento?

«È un insegnamento che hanno impresso a fuoco dentro di me i miei genitori. Li ringrazio per questo, ma li rimprovero per non avere protetto e non avermi insegnato a proteggere ciò che mi stavano donando».

A un approccio molto superficiale sembrerebbe un disco "buonista", dai buoni intendimenti. Invece c'è rabbia e sofferenza nelle tue parole…

«Il titolo potrebbe trarre in inganno, ma la copertina disegnata da Priscilla Jamone già lascia intuire che non ci si addentrerà in un mondo fatato e rassicurante».

Così come rabbia c'è nella musica aspra, a tratti dura e noise. Da chi ti sei lasciata ispirare?

«Non c'è stato un riferimento diretto, ma so che ogni cosa che ho ascoltato nella vita ha lasciato traccia. La cosa principale è che ho cercato di essere, anche acusticamente, fedele alle emozioni che volevo esprimere. Giulio Gaietto, che ha curato la produzione artistica de "La Parte Migliore", e con cui collaboro da sempre, ha compreso questa mia esigenza. Se potessimo dare volume a quello che abbiamo in testa, ai nostri pensieri, ebbene credo che difficilmente sarebbero armonici. Per questo il rumore è una componente essenziale della mia musica».

Il disco inizia con "Fire", una breve canzone in cui immagini il giorno della tua morte…

«L'album inizia dalla fine. Mi immagino indifesa, esposta... Bisogna essere totalmente inermi ed inerti per permettere agli altri di entrare per intero nel nostro mondo più intimo. Quando compongo e quando mi esibisco non ho filtri, vorrei non ne avesse neppure chi ascolta, ma so che ci vuole molto tempo e coraggio per liberarsi dai cliché, per essere liberi».

In "Dorothy" prendi una posizione netta contro l'accettazione passiva dei dogmi religiosi e ideologici. Qual è il tuo rapporto con la religione e la chiesa?

«Il mio misticismo ha rischiato di essere annientato dalla dottrina. Come molti italiani ho ricevuto un'educazione cattolica ma ho sempre preferito il dubbio e la ricerca alla verità assoluta. Una nota opera del pittore spagnolo Francisco Goya si intitola "Il Sonno della Ragione Genera Mostri"». 

Sei andata alla messa di Natale?

«No, non sono andata alla messa di Natale. Sono stata a casa con le persone che amo».

"È Primavera", brano che affronta alcuni aspetti della Primavera Araba, si chiude con la citazione "È primavera… svegliatevi bambine" tratta da "Mattinata fiorentina", canzone cantata negli anni Trenta dallo chansonnier Odoardo Spadaro. Secondo te le bambine, in questo caso la parte femminile del mondo arabo, hanno in mano la soluzione per riportare finalmente la pace?

«Certamente nessuno può dire quale sia la soluzione. Tuttavia l'esclusione di metà della popolazione dal mondo della cultura e della politica non arricchisce né l'una né l'altra».

Chi sono le "coscine di pollo" cantate in "Insomnia"?

«Siamo io, tu e tutti quelli che conosciamo. Ci lasciamo cullare ed addormentare. Goya l'ho già citato ma ci fa compagnia anche qui».

Non pensi che la vita senza bellezza sia triste e grigia?

«Certo abbiamo bisogno di bellezza così come di amore. Ci riappacifica con il mondo. Talvolta la scoviamo dove non avremmo mai pensato e non vogliamo più separarcene. Forse la Gorgone Medusa era tanto bella da rendere impossibile a chi l'avesse vista di allontanarsi da lei».

È curioso come a Genova, storicamente patria di grandi cantautori, in questi anni sia nato un movimento di cantautrici molto interessante. È la vostra rivincita?

«Le donne sono autrici della propria musica da poco tempo, in Italia con un ritardo ulteriore rispetto ai paesi anglofoni. Semplicemente prima non c'erano cantautrici. A Genova siamo parecchie e molte di noi collaborano. La musica sta vivendo una nuova stagione malgrado il mercato musicale sia nel caos».

Nelle ultime settimane hai accompagnato in tour Lene Lovich. Come è nata questa collaborazione e cosa ti ha dato a livello professionale e umano?

«Ho incontrato Lene a Genova a giugno durante il Lilith Festival. È un'artista eccezionale ed una persona meravigliosa. Quest'avventura, che ha portato me e la mia band a condividere alcuni importanti palchi da nord a sud Italia, con Lene & band, ha lasciato molti bei ricordi a tutti noi. Siamo stati bene assieme tutti abbiamo imparato ed insegnato qualcosa. Niente divismi o invidie solo un grande rispetto e stima reciproca e naturalmente buon rock».

Ora cosa dobbiamo aspettarci?

«Continueremo a suonare in giro, in preparazione ci sono un paio di tour con qualche data all'estero, grazie anche alla mia etichetta OrangeHome Records che sta lavorando al booking, ma sto già pensando al nuovo album. Ho un bisogno fortissimo di continuare il discorso iniziato, di dare un altro sguardo all'abisso assieme a chi vorrà seguirmi. Non posso prevedere i tempi ma spero non siano lunghissimi. Visto che siamo nel periodo dei buoni propositi spero di terminare almeno la fase di composizione e pre produzione entro il 2015».



Titolo: La parte migliore
Artista: Sabrina Napoleone
Etichetta: OrangeHome Records
Anno di pubblicazione: 2014 


Tracce
(testi di Sabrina Napoleone, musiche di Sabrina Napoleone e Giulio Gaietto)

01. Fire
02. L'indovino islandese
03. Prima dell'alba
04. La parte migliore
05. Dorothy
06. È primavera
07. Insomnia
08. Medusa
09. Pugno di mosche
10. Epochè