martedì 11 agosto 2015

Enrico Cazzante, da Le Volpi Blu a Joe Cocker


Enrico Cazzante (copyright Martin Cervelli)


Le esibizioni di Enrico Cazzante a La Garitta di Albissola hanno segnato gli anni '80 e sono state per lungo tempo un appuntamento fisso a cui non si poteva rinunciare. Con i suoi capelli biondi lunghi, la barba e quella voce graffiante ha rappresentato l'anima country/rock delle serate albissolesi e ha fatto conoscere e apprezzare a molti i maggiori successi dello sterminato songbook americano. Oggi, a 65 anni, il cantante, originario di Giusvalla in provincia di Savona, è ancora sulla breccia e ha un calendario fitto di impegni. Che sia in un piccolo locale nel savonese o in una piazzetta invasa da turisti, Cazzante porta in scena, con immutato amore per la musica, i grandi successi del country e del rock americano, da John Fogerty a Joe Cocker, da Merle Haggard a Johnny Cash. Interpretazioni intense, sentite, che trasmettono emozioni e strappano applausi. 
Cazzante festeggia in queste settimane i cinquant'anni di carriera. La sua avventura musicale è iniziata con un gruppo di amici ed è proseguita suonando a fianco di orchestrali famosi come Lello Poggi, Gino Bocchino e Trento Giannelli, da cui ha imparato il mestiere. Nel 1971 è entrato, come chitarrista e secondo cantante, ne Le Volpi Blu, gruppo nato a Savona nei primi anni '60 per iniziativa di Franco Delfino. Quattro anni dopo con la band ha calcato il palco del teatro del Casinò di Sanremo in occasione della venticinquesima edizione del Festival di Sanremo presentando la canzone "Senza impegno". Conclusa l'avventura con Le Volpi Blu nel '79, Cazzante è tornato a cantare la musica country e il rock. Ancora oggi, da solo dietro al microfono con il suo lettore di minidisc per le basi, rilegge con immutata grinta e passione i grandi classici della musica internazionale riuscendo ad attirare l'attenzione anche dei più distratti.
Con Cazzante, nel corso di una calda mattinata estiva davanti a un caffè, abbiamo parlato della sua carriera e della musica degli anni '70.



Enrico, torniamo indietro nel tempo e andiamo al periodo 1971-79 quando suonavi ne Le Volpi Blu. Cosa ti ricordi e come è iniziata quella avventura?

«L'avventura con Le Volpi Blu è stata merito di un provino. Il gruppo era già formato ma dovevano sostituire un elemento. Mi presentai e fui "provinato" da Franco Delfino che era il capo gruppo, arrangiatore e un bravo musicista. L'appuntamento era al Lavagello, a Castelletto d'Orba, e in quell'occasione eseguii, da solo alla chitarra, "Proud Mary", famosa canzone di John Fogerty che propongo ancora oggi nei miei concerti. Terminata l'esecuzione, Delfino mi disse che ero assunto e continuai a suonare nel gruppo per diversi anni».

E nel 1975 arrivò anche la partecipazione al Festival di Sanremo con la canzone "Senza impegno"…

«A presentare il festival c'era Mike Bongiorno insieme a Sabina Ciuffini e fu una delle ultime edizioni che si tennero al teatro del Casinò. In quegli anni era uso fare visita ai presentatori prima dell'esibizione sanremese e così andammo a Milano per incontrare Bongiorno. Mike entrò nella sala armato di taccuino e matita e ci presentò come le Voci Blu, l'unico complesso ligure in gara. Lo correggemmo dicendo che ci chiamavamo Le Volpi Blu e lui ci rispose ‹…e io cosa ho detto, Le Volpi Blu›. Per fortuna poi durante il festival non si sbagliò».

Ricordi qualche altro episodio curioso della vostra partecipazione alla kermesse sanremese?

«Ci fu un altro episodio simpatico che ricordo con piacere. Quell'anno partecipò al Festival anche Angela Luce di Napoli, che alla fine si piazzò al secondo posto. Nel corso della serata lei scenicamente svenne e io a un giornalista che mi aveva fatto una domanda al riguardo feci la battuta ‹al festival è mancata la Luce›. Conservo ancora l'articolo di giornale il cui titolo era ‹Il cantante delle Volpi Blu fa sorridere Sanremo›».

La canzone "Senza impegno" come fu accolta dal pubblico sanremese?

«Era un easy listening che il pubblico accolse bene anche perché in Italia non c'era e non c'è tutt'oggi la maturità per ascoltare cose impegnate. Era una canzoncina di Sanremo, con un arrangiamento peraltro abbastanza complesso. La partitura venne scritta per i Quattro più Quattro di Nora Orlandi che fecero il coro nell'inciso della canzone. Testo e musica furono scritte da Delfino».

La partecipazione al festival cosa vi portò in dote?

«In quel periodo abbiamo fatto un lungo tour in Italia con date in Emilia, Toscana ma soprattutto in Piemonte, dove lavoravamo tantissimo. Al Giardino dei Sogni di Bubbio, a Calamandrana, poi Canelli, Asti, insomma suonavamo in tutte sale più grosse. Ricordo che il Giardino dei Sogni di Bubbio era a cento metri dal cimitero e alla sera si vedevamo i lumini. Immancabili sono state le battute ironiche che facevamo dal palco: dal ‹speriamo che anche i defunti ci ascoltino› al ‹siamo sicuri che la nostra musica piacerà anche a loro›».

Che genere di musica suonavano Le Volpi Blu?

«Era un genere molto commerciale. Io cercavo, scontrandomi con Delfino, di fare delle altre cose ma lui non mi ha mai permesso di uscire da quei canoni e poi c'era l'altro cantante, Manuel Guastavino, molto bravo che purtroppo è mancato poco tempo fa. Manuel aveva una voce tipicamente all'italiana e assomigliava a quella di Roberto Facchinetti, cantante dei Pooh. Inevitabilmente avevamo in repertorio anche tantissimi pezzi dei Pooh. Eravamo due cantanti e ci dividevamo le canzoni. A me lasciavano quelle più grintose».

Cosa ti ha insegnato Franco Delfino?

«Era una persona dal carattere molto spinoso ma mi ha insegnato a lavorare in studio e certi trucchi del mestiere. Mi diceva ‹quando sbagli una frase dal vivo ripeti lo stesso errore nel ritornello e così la gente non se ne accorgerà›. Un insegnamento che metto in pratica ancora oggi».

Avete ancora lavorato insieme dopo l'esperienza con Le Volpi Blu?

«Le strade si sono divise. Io ho collaborato con Delfino in alcune occasioni, quando mi ha chiamato. Voglio bene a Franco ma dato che abbiamo delle idee completamente diverse preferisco che chiami altri bravi cantanti a fare da vocalist. In studio per il genere che fa lui, che oggi è quasi liscio, ci vogliono dei cantanti più tradizionale, più puliti. Usava la bella voce di Manuel proprio perché si adattava di più ad un genere estremamente commerciale. Nel suo studio ricordo che andava un altro bravo cantante savonese Sergio Babboni che ha collaborato con lui. Ormai però sono quattro anni che non vado nel suo studio, non so più niente…».

Ti ricordi come era la scena musicale savonese degli anni '60?

«Erano anni importanti dal punto di vista della formazione di gruppi. Io ho avuto la fortuna, giovanissimo, di lavorare con orchestrali già anziani che mi hanno insegnato molto. Faccio il nome del trombettista Trento Giannelli che era famosissimo ed era soprannominato King Giannell, Gino Bocchino il batterista, Gino Bosano al sax, Lello Poggi il pianista che è mancato recentemente, Pino Pentimalli alle percussioni. Erano persone che facevano il mestiere e mi hanno insegnato, anche un po' drasticamente, a stare sul palco. Si faceva più che altro musica da ballo ma non era liscio. Le sale da ballo lavoravano con complessi che facevano un po' tutti i generi, naturalmente a un certo punto della serata veniva dato spazio al ballo liscio, quindi c'era la serie valzer-valzer-mazurka-polka poi valzer lento-beguine-paso doble, poi si ritornava ai lenti o agli shake. Ricordo il batterista Piero de Luigi che purtroppo non c'è più. Era persona molto esuberante, un bell'uomo, un grande charmeur all'epoca, anche lui mi voleva bene. Dal punto di vista musicale furono anni interessanti perché essendo appassionato carpivo ciò che di costruttivo poteva esserci».

Come vedi la situazione oggi?

«Non bene. Ritengo che ci sia molto fumo e poco arrosto. Oggi si guarda, come purtroppo anche nella società occidentale, all'apparenza e non alla sostanza, a quello che realmente si è. L'immagine è la cosa più importante e la sostanza conta poco. Nei personaggi di oggi c'è una tazzina di talento in un mare di presunzione e la presunzione in questo lavoro bisogna lasciarla da parte perché è il pubblico che stabilisce se l'artista è tale o fa finta. Il lato artistico esce durante le interpretazioni dal vivo, la gente si accorge se si è veri e se si riesce a catturare il cuore. Ascolto ancora parecchia musica e in Italia preferisco le donne perché ritengo che abbiano una maturità maggiore, gli uomini, al contrario, non si impegnano molto. Mannoia e Dolcenera sono molto brave e poi le grandi come Mina e la Vanoni. Iva Zanicchi pensavo si limitasse a fare cose derivate dai gozzovigliamenti emiliani, invece, ho scoperto la sua voce blues in una registrazione e devo dire che è molto brava».

Quanti anni avevi quando hai iniziato a suonare?

«Avevo 15 anni e ho iniziato a suonare con due amici. C'era Pierluigi Carlevaro che è mancato tanti anni fa, era una persona eccezionale, un personaggio incredibilmente intelligente e artisticamente dotato. Abbiamo iniziato insieme a suonare la chitarra e lui dopo soli sette giorni era in grado di destreggiarsi bene con il basso. Era una persona intelligentissima con un braccio offeso dalla poliomielite, con tutto ciò è stato in grado di suonare il basso con estremo gusto e raffinatezza. Poi c'era Adelio Giacchino che si è dedicato alla musica commerciale e ancora oggi è in attività. A completare il nostro primo gruppo c'era un batterista di Valleggia, Giuliano, e credo che a tutt'oggi faccia il parrucchiere per signora».

Ricordi dove vi siete esibiti le prime volte?

«La prima serata l'abbiamo fatta a Stella San Giovanni, il paese di Sandro Pertini, e con noi c'era una cantante di Ellera che si chiamava Orietta Giacchino. Abbiamo suonato davanti alla chiesa con degli amplificatori piccolissimi, uno dei quali me lo aveva portato mio papà da scuola. Mio papà e mia mamma erano insegnati e posso dire di avere avuto due genitori splendidi. La seconda volta abbiamo suonato in frazione Galletti a Giusvalla, in occasione di una festa popolare, grazie anche all'aiuto dei nostri genitori, mio papà e il padre di Pierluigi, che hanno portato gli strumenti con la macchina. Io sono originario di Giusvalla quindi conoscevo bene l'ambiente. Eravamo piuttosto impacciati e timidi. La terza serata si tenne ad Albisola Superiore, nello spiazzo davanti la palestra, in occasione di un festival di voci nuove, parliamo degli anni Sessanta. Abbiamo partecipato e i premi in palio erano dei vasi di ceramica. Insomma in cinquant'anni non è cambiato niente, Albisola è la ceramica».

Oggi hai 65 anni e continui a suonare senza sosta. Cosa ti spinge a proseguire?


«La grande passione. Ancora oggi studio e ho l'umiltà di ascoltare i grandi che mi fanno sempre venire la pelle d'oca. I grandi per me sono Joe Cocker, Steve Winwood, B.B. King, Eric Clapton, i cantanti neri. Ascolto quelli per vedere se anche io arrivo con la voce dove il cuore c'è già. L'interpretazione è la cosa principale, è una questione di cuore e di feeling. I suoni sul palco sono l'altra componente fondamentale, senza queste due cose non fai nulla. Io sono puntigliosissimo, ho un impianto vecchio al quale ho chiesto di funzionare ancora e lo fa perfettamente, ha dei suoni meravigliosi. Viaggio con quello che sta nella macchina e lavoro all'antica. Le basi me le registro io, i cori sono di Manuela Cavallero, cantante di Savona che vive a Roma. E vado avanti con tanto entusiasmo».

Quali sono per te i cantautori più significativi della scena italiana?

«Ritengo che i due pilastri del cantautorato italiano siano De André e Fossati. Hanno scritto canzoni veramente eccellenti, restano nelle antologie della musica. Nei miei spettacoli continuo a proporre tre-quattro pezzi di Fossati. Uno dei quali mi fa impazzire tutte le volte che lo canto e si intitola "I treni a vapore", che è stato portato al successo dalla Mannoia. Fossati ritengo non sia un grande cantante ma interpreta le canzoni in maniera sublime. Lavora sui ritardi e sugli anticipi e riesce sempre a cadere nella battuta giusta. È molto bravo ed è un grande intellettuale, è molto colto. A me piacciono questi personaggi. Così come è stato De André».

Recentemente hai fatto un tributo a Joe Cocker, cantante sanguigno e vero, come piacciono a te…


«L'ho fatto alla Sms Serenella a Savona ed è stata una bella serata. Joe Cocker era unico, ha scritto pochissimo ma sapeva interpretare le canzoni come pochi altri. Un cantante bianco con la voce nera. Se senti le sue registrazioni dal vivo ti rendi conto della sua bravura. C'è un brano che continua a farmi impazzire, si intitola semplicemente "Blue Medley" e compare in "Mad Dog & Englishmen". Cocker, con l’arrangiamento di Leon Russell, canta senza interruzione tre classici e ai cori ci sono tra le altre Rita Colidge, che è una grande cantante, e Donna Washburn. A un certo punto Cocker interpreta "I've been loving you too long" di Otis Redding e qui andiamo oltre, si toccano vette difficili da raggiungere. Io suggerirei ai giovani che vogliono cantare di ascoltare questi artisti perché da loro possono imparare molto. Occorre avere l'umiltà di ascoltare i grandi».

Per molti anni sei stato il cantante di punta della Garitta, locale storico di Albissola Marina. Cosa ti ricordi?

«La Garitta è stata determinante anche per la mia vita perché in quel locale ho conosciuto la mamma di mio figlio. La mia avventura in Garitta è iniziata in un modo insolito. Erano gli anni '80 e una sera, al termine di un mio concerto a Celle, si avvicinò una persona presentandosi come il padrone della Garitta. Parlammo e mi diede appuntamento nel locale per il giorno successivo. Mi presentai all'incontro e vidi subito dietro al banco un signore con il volto torvo, molto disturbato dalla cosa. Quando il personaggio che mi aveva assunto uscì, il signore al banco alterandosi mi disse perentorio ‹signor Cazzante venga da me!›. Mi avvicinai e mi mise in guardia dal personaggio che mi aveva ingaggiato dicendomi che si stava approfittando della situazione e che gli doveva un mucchio di soldi. Il barman, che poi scoprii essere il vero padrone, Piero Rizzo, mi invitò a suonare un pezzo… e da quel giorno rimasi a suonare in Garitta per quattro anni tutte le sere».

Oggi il locale, in qualche modo, fa ancora parte della tua vita…

«È un locale bellissimo e sono molto orgoglioso che l'abbia in gestione mio figlio. Mi dispiace solo che non si possa più fare musica. Nonostante abbia muri molto spessi e una volta chiusa la porta non si senta niente c'è chi si è lamentato della musica. Purtroppo oggi la gente preferisce i rumori ai suoni».

Sentendoti cantare dal vivo si intuisce che uno dei tuoi amori è la musica country…

«Mio papà era un grande appassionato di country music, suonava un po' la chitarra e aveva una voce roca. Era amico di un signore che gestiva negli anni '60 un negozio di dischi a Savona, dove una volta c'era Odello Gomme e oggi c'è il locale Fronte del Porto. Un piccolo negozio che aveva però molti dischi di importazione americana. Da lui mio papà comprò dischi di gruppi come i Living Voices e i Sons of the Pioneers che mi fecero appassionare al country e questa passione rimarrà sempre. Il country è poco conosciuto in Italia ma vedo che nelle mie serate gli spettatori lo ascoltano molto volentieri. Johnny Cash, Willie Nelson, Merle Haggard restano un baluardo».

Nomi che portano inevitabilmente dall'altra parte dell'oceano…

«Sono andato due volte in America e dal punto di vista musicale gli americani sono più colti, tengono alle loro tradizioni. Sono andato ad Hot Springs in Arkansas, dove ci sono le terme ed è anche la patria di un famoso attore di film western, Alan Ladd che è stato il protagonista del film "Il cavaliere della valle solitaria", di cui canto ancora oggi la colonna sonora. Ho visto bambini di colore che suonano l'armonica ma lo fanno davvero. Ho incontrato un ragazzo, avrà avuto 14 anni, con una armonica più piccola del solito, accompagnato da un signore sulla settantina alla chitarra, che ha tirato fuori da questo strumento delle cose grandiose».

America, country ma anche la Genova de I Trilli. So che c'era un rapporto di reciproca stima, ci vuoi raccontare qualcosa?

«Pucci era già morto e Pippo aveva aperto un ristorante di classe su un rimorchiatore nel porto di Genova, poco distante dall'Acquario. Sono andato parecchie volte a suonare da lui, si era innamorato di come arrangiavo le sue canzoni. Era un musicista molto colto, suonava bene pianoforte, chitarra e bravo negli arrangiamenti, e mi stimava molto. E cosa importantissima, mi faceva mangiare il pesce fresco».

Hai un sogno nel cassetto?

«Vorrei che una volta mi invitassero a suonare in piazza Sisto IV a Savona. Sì, sarebbe una bella cosa».



mercoledì 1 luglio 2015

La "Scanzoncina folk" dei Lonesome Picking Pines




La prima cosa che si guarda in un disco è la copertina. Alcune sono vere opere d'arte che meriterebbero formati ben più grandi, altre ti fanno capire subito cosa si cela nei "solchi" digitali del cd, altre ancora passano alla storia come simboli di una generazione o di un momento storico. Ma quando ti capita tra le mani un cd la cui copertina vede protagonisti due orsacchiotti di peluche, un mandolino e una armonica, la curiosità aumenta a dismisura. Se poi a questo aggiungiamo il titolo "Scanzoncina folk" e il nome del gruppo The Lonesome Picking Pines, il gioco è fatto. Non resta che accendere lo stereo e ascoltare questa nuova proposta artistica. Il trio savonese, nato nei primi mesi del 2009 e formato dai fratelli Marco e Andrea Oliveri e dal percussionista e batterista Marco "Poldo" Poggio, è all'esordio discografico e lo fa presentando otto brani originali, più una gustosa ghost track che è la versione in dialetto savonese della canzone "Ohi me mì". Si tratta di un disco fresco, a tratti ironico e condito da una carica di giovanile entusiasmo, anche se non mancano i riferimenti ai problemi della società di oggi. I punti di riferimento delle canzoni si devono cercare nella tradizione musicale del folk/rock di matrice americana e nella scuola cantautorale italiana, i cui insegnamenti sono stati assimilati bene dal gruppo. I brani del disco sono scritti da Marco e Andrea Oliveri e registrati da Alessandro Mazzitelli al "Mazzi's Factory" a Toirano mentre la grafica è di Alex Raso. 
Nell'intervista che segue i fratelli Oliveri presentano la loro prima fatica musicale.



Una copertina che raffigura due orsacchiotti e il titolo del disco che è "Scanzoncina folk". L'avete voluta mettere sullo spiritoso la vostra prima fatica discografica?

Marco: «Avevamo pronto il master, ma ciò che ci mancava era una buona idea per il titolo e la
copertina dell'album. Di certo sapevamo quello che non volevamo, ovvero le solite immagini stereotipate solitamente associate alla musica folk e country, come strade polverose di campagna, stivali di pelle e cose del genere. Volevamo qualcosa di più originale, inaspettato, che rompesse un po' con quei canoni. A tutto ciò hanno poi contribuito le idee di Andrea, che sono state determinanti nell'orientare le nostre scelte in quella direzione».
Andrea: «Pensavo ad un titolo breve e conciso e ad una copertina d'impatto che attirassero l'attenzione e fossero anche spiritosi e divertenti. Questo per riflettere non solo il nostro modo d'intendere la musica, ovvero quello di non prendersi troppo sul serio, ma anche per rappresentare quello spirito rustico, sanguigno, diretto e scanzonato che cerchiamo sempre di portare sul palco durante i concerti e che è presente come intenzione in molti episodi del disco. Così ho ideato l'immagine un po' surreale e atipica degli orsacchiotti con in mano i nostri strumenti e mi sono inventato il termine "Scanzoncina folk", che esprime bene tutti questi aspetti».
   
Prima di questo disco vi chiamavate solo The Lonesome Pines ora siete The Lonesome Picking Pines. Perché questa aggiunta, cosa è cambiato?

Andrea: «Niente di strutturale, siamo sempre gli stessi e ci identifichiamo ancora nel nome originario con cui siamo nati, The Lonesome Pines. Però sul nostro primo disco e sui social networks volevamo un nome che definisse soltanto noi e che superasse i casi di omonimia esistenti con altre band di country e bluegrass, anche se principalmente d'Oltreoceano e quindi relativamente lontane. Così, su mia proposta, abbiamo deciso di aggiungere "picking", termine che suona bene ed è legato ad un modo di suonare di molti musicisti folk americani, stile che anche noi cerchiamo di fare nostro».

In questi mesi vi ho seguito un po' più da vicino e so che avevate iniziato a registrare un disco in inglese prima di optare per la lingua italiana e ricominciare il lavoro completamente da capo. Come è andata effettivamente?

Marco: «Fin dall'inizio, dai nostri primi esperimenti nel proporre canzoni inedite e con i primi demo, abbiamo sempre riscontrato due anime nella nostra produzione: brani in inglese, forse come diretta conseguenza del punto da cui siamo partiti, il folk e il country statunitense; brani in italiano, perché in fondo è la lingua che parliamo quotidianamente e con cui pensiamo. Questa ambivalenza non è scontata, perché, in genere, molti musicisti decidono di fare esclusivamente una cosa oppure l'altra. Così, pensando ad un nostro disco, la prima idea è stata quella di farlo con materiale in inglese, perché era più a tema con il nostro suono. Ma ad un certo punto del lavoro ci siamo resi conto che quel progetto non era poi così maturo, spontaneo e soprattutto originale e adatto ad un primo album. Così, dopo esserci confrontati tra noi e aver ascoltato i consigli di musicisti amici, abbiamo pensato che come inizio sarebbe stato meglio cimentarsi sì con uno stile tutto americano, ma con testi in italiano, nella nostra lingua madre. Questo perché avevamo già pronto il materiale, ma anche perché avrebbe potuto essere un biglietto da visita che testimoniasse da dove proveniamo. Così abbiamo ricominciato daccapo a lavorare alle nuove canzoni».
Andrea: «Non è detto che se le canzoni di "Scanzoncina folk" sono in italiano non ci possa essere un nostro progetto in inglese, in futuro. Si tratta di materiale che comunque ci identifica e continuiamo a proporre come repertorio originale durante i live. Forse la ricerca e la sfida nell'abbinare musica e modi di suonare internazionali a testi in italiano è al momento più interessante, ma non escludiamo a priori l'uso della lingua inglese, che comunque manteniamo nelle cover e nei brani di artisti di cui proponiamo le traduzioni. È solo un altro modo di farsi ispirare e di esprimere ciò che siamo e che amiamo».

Nella vostra musica si scorgono marcatamente influenze rock/folk americane e di certa tradizione cantautorale italiana. Quali sono i vostri modelli e chi o quale disco vi ha maggiormente ispirato?

Marco: «Non era nelle nostre intenzioni fare un disco prettamente cantautorale, è indubbio però che affrontare una ballata folk in italiano significa avvicinarsi, come stile, al mondo dei cantautori nostrani come De Andrè, Bubola, Guccini, De Gregori. E questo, nel nostro disco, si sente».
Andrea: «Oltre all'influenza del cantautorato italiano, che in parte ci riguarda, e di realtà nostrane che non fanno principalmente parte di quella schiera, come i Modena City Ramblers e i Gang, credo che ciò che più ha ispirato "Scanzoncina folk" sia stato il suono degli album di Steve Earle, Guy Clark, Townes Van Zandt, John Hiatt e dei grandi classici, da The Band a Dylan, fino a Neil Young e lo Springsteen acustico».

Marco e Andrea oltre a essere la colonna portante dei The Lonesome Picking Pines siete anche fratelli gemelli. Questo aiuta nella gestione di un gruppo o può essere motivo di contrasto?

Marco. «Essere gemelli aiuta nella gestione di un gruppo quando si deve essere uniti e disposti al confronto per prendere decisioni importanti. Questa condivisione di intenti tra noi è così naturale, radicata e istintiva che spesso agiamo senza neppure comunicarcelo direttamente, in quanto conosciamo i nostri diversi caratteri e ci comportiamo di conseguenza, scoprendo spesso, in seguito, di aver pensato la stessa cosa. Per questo, è difficile che ci siano contrasti tra noi. Ma è un rapporto particolare perché, per forza di cose, è nato molto prima della fondazione dei Lonesome Picking Pines».

Vi affidate al parere di Marco Poggio, percussionista del gruppo, quando avete idee contrastanti oppure ve la sbrigate tra di voi?

Marco: «Il parere di Poldo, così è soprannominato il nostro batterista, lo chiediamo sempre e ne abbiamo sempre bisogno, perché non potremmo fare ciò che facciamo senza di lui. Poldo è quasi sempre d'accordo su tutto con noi, un po', forse, anche per carattere. Ovvio che nel caso non sia d'accordo su qualcosa, noi due ascoltiamo anche le sue esigenze e cerchiamo di venirgli incontro. Non lo dico per piaggeria ma perché è già successo. È raro ma succede».
Andrea: «Però, principalmente, quando tra me e Marco ci sono idee contrastanti su qualcosa, la tendenza è quella di sbrigarcela prima tra noi. Ma tutto questo succede spesso senza che noi due lo vogliamo o ce ne accorgiamo. È qualcosa che facciamo istintivamente».

Da buoni fratelli vi siete anche divisi equamente il numero dei brani sul disco. Quando scrivete vi consigliate a vicenda, parlate tra di voi delle vostre idee oppure tutto si svolge in maniera separata?

Marco: «Avviene tutto quello che dici, ma per gradi: l'idea di una canzone infatti arriva sempre da uno solo di noi, che quasi sempre la propone all'altro già finita e pronta per essere suonata. Nel momento di provarla insieme, l'autore spiega le sue idee a riguardo e quello che vuole, ma poi il confronto su pareri e proposte è sempre a quattro mani».

Il disco contiene otto canzoni che in verità sono nove visto che di "Ohi me mì" c'è la versione ufficiale in italiano e la ghost track in dialetto savonese. Chi ha  avuto questa idea e da dove nasce questo titolo?

Andrea: «Si tratta di un'espressione dialettale che ho sempre ascoltato esclamare da mia nonna quando qualcosa non andava. È come dire "ahimé", "poveri noi" e, pensando all'attuale situazione socio-politica italiana, mi è tornata utile perché mi sembrava azzeccata ad esprimere il senso di incertezza, molto diffuso in questi tempi, di cui parla la canzone. Dapprima è nata in italiano, poi, durante le registrazioni del disco, mi sono accorto che poteva essere adattata in dialetto savonese. Così, ci ho messo mano e l'ho registrata velocemente anche in quella versione. Nonostante fosse un esperimento nuovo, siamo rimasti da subito soddisfatti del nuovo adattamento e, indecisi su quale versione scegliere per l'album, le abbiamo inserite entrambe. L'idea di aggiungere il brano in dialetto come ghost track ci divertiva perché immaginiamo possa essere una sorpresa per gli ascoltatori più attenti. Ci fa piacere che tu l'abbia colta, vuol dire che hai sentito davvero tutto il disco, fino in fondo».

Marco, nei testi delle tue canzoni sono presenti parole come tempeste, guai quotidiani, morte. Sei la metà "nera" dei "Pini"?

Marco: «Spero di no! Mi piace scoprire i lati nascosti delle cose, l'altra faccia della medaglia, per questo scrivo canzoni che in apparenza possono sembrare poco rassicuranti. In "Semina il vento e raccogli tempeste" racconto di sogni e di successo da un punto di vista meno facile, quello di chi si mette in gioco ma poi perde la partita, vuoi per la fatalità del destino o per altre circostanze. Di tutt'altro spirito è "Dacci oggi il nostro guaio quotidiano", costruita sul gioco di parole, l'ironia e il sarcasmo. È ovvio che non invoco né auguro a nessuno di avere un guaio per ogni giorno, ma in questo caso cerco di sdrammatizzare la realtà con una sorta di preghiera "blues" semiseria, per riderci un po' su. L'unica canzone un po' "nera", come dici tu, è "Lenta morte di un soldato": in due parole, la storia di un giovane soldato americano che torna a casa vivo dall'Iraq ma, a seguito di quell'esperienza, diventa prigioniero della sua mente e condannato della sua coscienza. Purtroppo si tratta di una storia vera che ho letto su un quotidiano e che mi ha colpito profondamente. Così ho deciso di raccontarla... non è colpa mia se la realtà in questi casi è tragica».

C'è anche una donna in una delle tue canzoni ma anche in questo caso c'è uno specchio rotto e sette anni di sventura. Ancora una visione pessimistica?

Marco: «"Sette lunghi anni" ha una storia strana. L'ho scritta anni fa e con il passare del tempo è mutata, soprattutto sul piano delle parole. Ma dall'inizio è sempre stata una canzone nata da un'idea più o meno precisa, che poi è sfuggita al mio controllo ed è come se si fosse scritta da sola. Non credo però ci sia del pessimismo, piuttosto un tipo di suggestione che contrassegna la realtà come qualcosa di fatale: ad esempio, un cuore già di per sé complicato e l'incontro di una o più donne che arriva a complicare ulteriormente le cose. Da lì, la visione scaramantica che tira in ballo la sfortuna, ma anche la volontà di rompere le "catene" di quella scaramanzia, che in fondo è solo paura di qualcosa che non si conosce e accettare così che qualche disegno o un destino si compia, nel bene o nel male».

Andrea, chi è questa "Mary Rose" che descrivi così bene nella canzone eponima?

Andrea: «Mary Rose è una ragazza che ho visto per caso ad Acqui Terme qualche tempo fa. Era una fanciulla piuttosto attraente e ho immaginato quali pensieri potessero suscitare in un uomo che la incontrasse. Pensieri non propriamente romantici, anzi, spesso inconfessabili. Il rapporto tra un uomo e una donna, in fondo, è fatto anche di questo e l'ho voluto mettere in una canzone».

Con "Fuorilegge" dai una visione amara della società di oggi. Anche tu ti senti in qualche modo un fuorilegge?

Andrea: «Più che di una visione amara della società odierna, con "Fuorilegge" volevo parlare della situazione dei lavoratori, tassati ingiustamente da un sistema che dovrebbe tutelarli, ma, per paradosso, è proprio esso a metterli maggiormente in difficoltà. Secondo me oggi siamo tutti un po' fuorilegge, soprattutto chi vuole vivere libero».

È rimasto qualcosa nel cassetto alla fine di questa esperienza in studio?

Andrea: «Di inedito non abbiamo lasciato nulla. Già durante la preparazione del disco, in sala  prove, ci siamo volutamente concentrati su un ristretto numero di brani e abbiamo lavorato miratamente a quelli, perché sentivamo che rispecchiavano al meglio quello che siamo oggi e come suoniamo. In fondo, è stato quello l'obiettivo principale dell'intero lavoro: pensare ad un insieme di canzoni come ad una carta d'identità, un biglietto da visita. Per questo abbiamo anche scelto di registrare molte canzoni in presa diretta, dal vivo, facendo pochi ritocchi qua e là e con poche sovraincisioni».
Marco: «Non volevamo troppe canzoni in scaletta per il nostro primo album, così non abbiamo messo troppa carne al fuoco. Quando siamo entrati in studio avevamo già chiara l'idea che tutto il materiale che avremmo registrato avrebbe composto l'intera tracklist del disco, così non abbiamo dovuto scartare nessun brano».

Quale è stato il momento più difficile che avete affrontato nella produzione del disco?

Marco: «Trattandosi della nostra prima esperienza discografica, completamente autoprodotta, la parte più difficile del lavoro sono state le fasi più specifiche e tecniche, alle quali non si pensa mai troppo approfonditamente ma che bisogna curare nel minimo dettaglio: il tipo di packaging, la quantità di copie da stampare, i tempi di realizzazione, la parte burocratica. Anche decidere l'immagine per la copertina, il titolo, il logo da usare, le foto e i caratteri del libretto ci ha tenuti molto impegnati. Ci siamo quindi appoggiati a persone più esperte di noi in quei campi, che fortunatamente si sono rese molto disponibili e collaborative e ci hanno consigliato e aiutato. Come Alex Raso, che si è occupato della grafica».

In questi anni vi siete fatti le ossa suonando a rassegne, festival e in locali di quasi tutto il nord Italia. A luglio sarete nuovamente tra i protagonisti della due giorni di Pusiano insieme a tanti grandi della canzone cantautorale italiana e americana. Che effetto fa aver diviso il palco con gente come Phil Cody, Dan Stuart, Chuck Prophet?

Andrea: «L'opportunità, concessaci da Andrea Parodi della Pomodori Music, di partecipare sia al "Buscadero Day" di Pusiano, sia al "Townes Van Zandt International Festival" di Figino Serenza, entrambe manifestazioni in cui si ritrovano artisti nazionali e internazionali che propongono il nostro stesso genere, è una bella responsabilità e un onore, ma noi la vediamo anche come un'occasione eccitante e divertente. Innanzitutto, per il privilegio di incontrare un certo tipo di pubblico, appassionato di musica americana, ma anche per entrare in contatto e confrontarci con i musicisti che amiamo e con cui ci si sente in sintonia».
Marco: «Suonare nella stessa manifestazione in cui sono in cartellone gli artisti che hai nominato tu, oppure anche nomi di spicco come Elliott Murphy, Mary Gauthier e Greg Trooper è un'occasione di crescita su tutti i piani: osservi da vicino questi professionisti e impari qualcosa, li ascolti suonare dal vivo, cogli la loro naturalezza sul palco e cerchi di interiorizzarla, capisci ciò che significa la vita on the road. Ma ti rendi conto anche della loro umiltà, umanità e curiosità nel voler incontrare la gente. In quei momenti si capisce cosa significa essere un artista, ci si sente uniti in una grande famiglia. Sono sensazioni uniche che arricchiscono».

Quali sono i programmi futuri e cosa fate nella vita oltre a suonare?

Marco: «Nei nostri programmi futuri c'è senz'altro la volontà di portare in giro il nostro disco,
presentarlo dal vivo, ma anche via radio e attraverso recensioni, farlo ascoltare al maggior numero di persone possibile, stringere rapporti, collaborazioni, crearci opportunità, anche al di fuori dei confini regionali. In quanto alle nostre attività nella vita, oltre a suonare, io sono diventato giornalista pubblicista dopo aver curato due siti d'informazione per la Cooperativa Editoriale "ABC - Idee per la comunicazione" di Savona e attualmente sono alla ricerca di collaborazioni; Andrea invece è responsabile della comunicazione e, mentre cerca lavoro, studia all'Università di Genova per laurearsi in Lingue e Letterature straniere; Poldo, invece, collabora come redattore, recensendo dischi e concerti per due magazine online specializzate in musica, "Extra! Magazine" e "Roots Highway". Recentemente ha iniziato a lavorare per una ditta di Cairo Montenotte che si occupa di installazione ed assistenza di software ad uso ospedaliero».



Titolo: Scanzoncina folk
Gruppo: The Lonesome Picking Pines
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2015

Tracce

01. Semina il vento e raccogli tempeste  [Marco Oliveri]
02. Mary Rose  [Andrea Oliveri]
03. Fuorilegge  [Andrea Oliveri]
04. Dacci oggi il nostro guaio quotidiano  [Marco Oliveri]
05. Lenta morte di un soldato  [Marco Oliveri]
06. Ohi me mì  [Andrea Oliveri]
07. Sette lunghi anni  [Marco Oliveri]
08. Waltzeranti stanchi  [Andrea Oliveri]


 
Versione live 2010 al Circolo Italo Calvino a Loano

venerdì 5 giugno 2015

Le suggestioni emo e new-wave dei (re)offender





Arrivano da Frosinone e sono al loro terzo Ep. I (re)offender, dopo la partecipazione al MEI di Faenza in qualità di vincitori del concorso indetto dall'etichetta PofiRock, sono tornati alla ribalta con cinque canzoni dalle suggestioni new-wave inserite nell'Ep eponimo che arriva dopo il primo esperimento discografico del 2012 e "The pouring rain" dell'anno successivo. Influenze post-rock, shoegaze e sfumature emo sono alla base della musica di questo sestetto formato da Luca Magliocchetti (voce), Marcello Iannotta (chitarra), Giacomo Tiberia (chitarra), Matteo Nizzardo (synth), Ilario Promutico (basso), Luciano Cocco (batteria). I testi in inglese sono visionari e immaginifici mentre la musica, decisa e vitale, lascia un retrogusto amaro e malinconico ma mai opprimente. Chitarre e synth trovano il giusto contraltare in un basso vigoroso e una batteria che batte forte e potente. Cinque brani molto curati e gradevoli, dalle atmosfere a volte cupe ed altre volte solari, compongono l'Ep registrato, mixato e masterizzato nell'estate del 2014 da Paolo Rossi, già al lavoro con Soviet Soviet, Be Forest e molti altri allo Studio Waves di Pesaro.
A presentarci il nuovo lavoro discografico firmato con l'etichetta ferrarese New Model Label e a parlare del futuro sono i (re)offender al gran completo nell'intervista che segue.



Chi sono i (re)offender? 

Ilario Promutico: «Siamo sei persone molto diverse che provano a fare canzoni insieme, cercando di superare attriti, gusti individuali, differenze di età e limiti imposti dalla difficile collocazione geografica».

Da dove deriva il vostro nome e quando avete iniziato?

Marcello Iannotta: «È il titolo di una canzone dei Travis. Ci ha affascinato il concetto di re-iterazione della colpa, se "offender" è il colpevole, "(re)offender" è il recidivo, che continua a commettere errori».
Giacomo Tiberia: «Spesso le persone si affezionano così tanto ai propri errori da non riuscire a smettere di commetterli».
Matteo Nizzardo: «L'essere recidivo è un meccanismo totalmente irrazionale, esattamente come dovrebbe essere il meccanismo che sta alla base della creazione musicale».
Luca Magliocchetti: «Il nostro nome è spesso oggetto di critica; Alessandro Baronciani ci suggerì che sarebbe stato meglio piuttosto chiamarci Golia!».
Giacomo Tiberia: «Esistiamo dal 2011, la nostra base operativa è sempre stata Frosinone, anche se abbiamo registrato i nostri Ep anche a Roma e Pesaro».

La musica per voi è un passatempo oppure pensate di guadagnarvi da vivere suonando? 

Giacomo Tiberia: «Benché oggi in Italia sia difficile riuscire a vivere di musica, ce la stiamo mettendo tutta perché diventi un lavoro».
Luca Magliocchetti: «Pur essendo ancora un passatempo, ci permette di sognare ma non di aspettare».
Matteo Nizzardo: «Il tempo passa anche da solo: è questa la tragedia».

Dopo tre anni di concerti e la partecipazione al Mei nel 2013 perché avete deciso di fissare la vostra musica in un Ep?

Luca Magliocchetti: «Perché volevo fosse qualcosa da tenere in mano e custodire».
Giacomo Tiberia: «Perché ogni Ep è come se fosse stato una fotografia di ciò che eravamo in quel momento».
Matteo Nizzardo: «Perché i concerti sono delle performance e in nessuna performance c'è il concetto dell'arte; quello di solito si trova nei manifesti e, per la musica, si trova nei dischi».
Marcello Iannotta: «Matteo da grande vuole fare l'intellettuale».

Cinque canzoni per dire cosa?

Marcello Iannotta: «"Down for a while" per dire che ogni crisi è un momento di crescita
importante».
Giacomo Tiberia: «"Fool time baby" perché avevamo un grande riff! E la convinzione che c'è sempre spazio per un brano rock».
Ilario Promutico: «"Crumble and fall" perché hai sempre tempo anche se pensi che sia troppo tardi».
Marcello Iannotta: «"Nobody else" perché nessuno conosce veramente nessuno, se non conosce se stesso».
Matteo Nizzardo: «"Meeting of feelings" perché quiete e agitazione sono i due stati correlati di ogni emozione».

Per quanto tempo siete stati assieme a scrivere canzoni?

Marcello Iannotta: «Tanto. Cerchiamo di stare insieme per scriverle e di scriverle per stare insieme».
Giacomo Tiberia: «Frasi ad effetto a parte, secondo noi la differenza tra un gruppo vero e un gruppo di persone che si unisce a fare musica per un altro motivo qualsiasi sta proprio nella quantità di tempo trascorso a scrivere canzoni».
Ilario Promutico e Luciano Cocco: «Oggi le nostre modalità sono cambiate, abbiamo aggiunto anche del lavoro separati, in numeri ristretti di due o tre in sala o anche da soli a casa. Per poi tornare a lavorare tanto tempo sull'arrangiamento tutti insieme».

Chi scrive i testi?

Marcello Iannotta: «Luca, e li canta anche. E spesso con i fogli ci fa di tutto. In alcuni casi la genesi è precedente alla composizione della musica, in altri avviene in parallelo».

Che tipo di strumentazione avete usato per registrare queste canzoni? 

Ilario Promutico: «Due chitarre, un synth, basso e batteria. Spesso per lavorare sulle atmosfere dei brani abbiamo utilizzato effetti analogici e digitali. Adesso stiamo cercando di sperimentare e di interagire anche con l'elettronica».

Mi piace molto "Meeting of feelings", com'è nata e cosa racconta?

Luca Magliocchetti: «È nata per caso, era inverno. Racconta la meraviglia che si prova di fronte all'amore, anche quando porta solo sofferenza».
Ilario Promutico: «Inizialmente non avrebbe dovuto essere un brano su cui puntare i riflettori; invece considerato l'inaspettato risultato finale, unito all'idea di uno storyboard particolarmente azzeccato, abbiamo pensato di realizzare anche un videoclip e si è trasformato nel singolo apripista dell'Ep».

Avete lasciato qualche brano nel cassetto?

Luca Magliocchetti: «Sì. Abbiamo decine di brani esclusi».
Marcello Iannotta: «Lavoriamo su tante canzoni in parallelo, spesso fondendole tra loro; a volte il risultato di un brano completo è una sorta di collage».
Giacomo Tiberia: «Alcune canzoni non erano ancora mature, altre le abbiamo in serbo per un prossimo futuro».

Il passo successivo è un album, quando pensate di inciderlo?

Luca Magliocchetti: «Facendo i debiti scongiuri, contiamo di entrare in studio entro la fine dell'anno».

Cosa deve avere una canzone per poter entrare a far parte di un vostro disco? 

Ilario Promutico: «Innanzitutto non deve essere solo un 'tentativo' di canzone, deve passare al vaglio del tempo. Al di là dell'estemporaneità dell'ispirazione melodica/armonica, deve avere una struttura ed una forma convincenti ed originali, aderenti al concetto artistico che portiamo avanti».
Matteo Nizzardo: «Devo sentirla come irriducibilmente mia, coerente con tutto quello che voglio e che ancora non ho».
Marcello Iannotta: «Deve essere un tassello fondamentale di un quadro d'insieme».
Giacomo Tiberia: «Deve darmi l'idea che il mondo finisca domani».
Luca Magliocchetti: «Deve emozionarmi e convincermi in cuffia di notte».

Chi prende le decisioni e quali sono le dinamiche all'interno del gruppo?

Marcello Iannotta: «Non c'è una vera e propria leadership, cerchiamo di essere autenticamente democratici; ogni volta ci affidiamo a chi ha più esperienza e competenza nel contesto specifico della decisione da prendere».
Giacomo Tiberia: «Per far sì che le nostre discussioni approdino a qualcosa di costruttivo e soprattutto concreto, abbiamo istituito una regola: non iniziare le frasi con "se". Altrimenti le nostre discussioni assomiglierebbero troppo ad una seduta di psicanalisi collettiva!».

Quali musicisti hanno influenzato la vostra musica?

Luca Magliocchetti: «I Suede e i Placebo a cena da Thom Yorke, che quella sera ha ordinato cinese perché non aveva voglia di cucinare».
Giacomo Tiberia: «Gli Smiths, la componente anglosassone è forte nella nostra musica. In generale ci ha influenzato la gran parte dei gruppi shoegaze di casa Creation e non solo: i Ride, i My Bloody Valentine, i Whipping Boy».
Marcello Iannotta: «Sicuramente le band emo americane dei primi anni '90, su tutti Sunny Day Real Estate e i più recenti Pinback. Per quanto riguardo le chitarre anche alcune band indie americane come i Built to Spill e gli Spoon. Ci piacciono in generale le band più sfortunate».
Matteo Nizzardo: «I Death Cab for Cutie. In particolare per il synth; le chitarre dei Low e poi personalmente adoro Justin Bieber. Avrò visto un milione di volte il video in cui vomita sul palco».


Titolo: (re)offender
Gruppo: (re)offender
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi Luca Magliocchetti, Ilario Promutico, Giacomo Tiberia, Marcello Iannotta, Matteo Nizzardo, Luciano Cocco)

01. Down for a while
02. Fool time baby
03. Crumble and fall
04. Nobody else
05. Meeting of feelings



giovedì 21 maggio 2015

I "nuovi" Üstmamò cantano il "Duty free rockets"




"Duty free rockets" segna il ritorno degli Üstmamò. Una reunion al 50% dopo tredici anni di assenza dalle scene musicali. Della band che tanto aveva fatto parlare di sé negli anni '90 sono rimasti Luca Alfonso Rossi e Simone Filippi che ha partecipato alla stesura dei testi. Non c'è più la cantante Mara Redeghieri che si dedica all'insegnamento a tempo ed è impegnata in progetti di studio, recupero e diffusione di brani della tradizione popolare mentre Ezio Bonicelli figura tra gli ospiti del disco. Entrambi hanno però appoggiato il progetto e spronato Rossi a iniziare questa nuova avventura. Inevitabile che due assenze così importanti abbiamo condizionato profondamente il suono e la musica dei nuovi Üstmamò. "Duty free rockets" è molto distante dalla produzione precedente del gruppo. Niente trip-hop, nessuna mescolanza di generi o traccia di elettronica, ma tante chitarre acustiche, slide ed elettriche a creare un tappeto sonoro compatto. Un guitar album, registrato alla svelta con due microfoni a valvole e un Ribbon su computer senza editing invadente, le cui tracce guardano oltre oceano, alla produzione rock americana, al blues di J.J. Cale, al country più cupo. E in queste atmosfere si colloca alla perfezione la voce sussurrata e malinconica di Luca A. Rossi. Un disco piacevole, ben scritto, a tratti sorprendente, con testi scritti unicamente in inglese, che segna il gradito ritorno sulle scene di una parte degli Üstmamò e il futuro è ancora tutto da scrivere.
A parlarci del ritorno e della rinascita degli Üstmamò è Luca A. Rossi nell'intervista che segue. 
 



Luca, perché avete deciso di tornare a incidere un disco dopo oltre dieci anni dallo scioglimento del gruppo?

«Perché avevo un sacco di idee e musiche, giri di chitarra, ma specialmente voglia di suonare alla vecchia maniera garage».

Cosa rispondi ai maligni che potrebbero pensare che sia solo una operazione nostalgica?

«I maligni, essendo tali, non si accontentano di una risposta sincera. In ogni modo, se fosse una operazione nostalgica andremmo in giro a suonare le nostre canzoni di venti anni fa. Se i maligni ascoltassero "Duty free rockets" capirebbero che di nostalgico c'è ben poco… lo capirebbero senza bisogno di spiegazioni».

In dieci anni cosa è cambiato nella tua visione del gruppo e della tua musica?

«Non è cambiata solo la mia visione ma il gruppo stesso, siamo rimasti in due e lavoriamo per quattro; questo in studio è anche molto divertente perché ci piace suonare vari strumenti ma dal vivo saremo in quattro: io, Simone Filippi, Mirko Zanni e Mauro Zobbi. La visione della mia musica parte dalle mani e dalle orecchie più che dagli occhi ed è cambiata. Cerco di fare delle cose molto semplici, non mi piacciono gli assolo complessi, ho riascoltato gente come Skip James, J.J. Cale, Elvis, un sacco di cose anni '50 e non mi piacciono molto i dischi che suonano plastificati, che spesso mi sembrano tutti uguali, come le voci trattate con "plug-in" di intonazione, il mio cervello e il mio orecchio le rifiutano, insomma preferisco le piccole imperfezioni delle voci e degli strumenti, siamo uomini, grazie a Dio vivi, con i nostri  difetti e le nostre differenze. In generale più lavoro su una cosa e meno mi piace».

Qual è il messaggio che vuoi trasmettere con le canzoni del nuovo disco?

«Nessun messaggio, ho provato a scrivere testi in italiano ed era evidente che i significati massacrassero la musica, non andava e non mi piaceva. Con l'inglese è stato più naturale e sono nate delle brevi storie. In "I play my chords" descrivo il momento preciso in cui ho composto la canzone, quello che succedeva, da dove arrivava. "Joy" parla di uno che alza gli occhi al cielo e chiede un po' di gioia per lui e gli altri, è la mia preferita. "Duty free rockets" è la storia vera di un gruppo di soldati americani, saltati su una mina anticarro in un'imboscata, da qualche parte in Afghanistan, tutti feriti in modo più o meno grave. Aspettando gli aiuti, a terra, nella polvere e tra le raffiche, uno di loro stava morendo, delirava e diceva frasi scollegate e senza senso. Un suo compagno sopravvissuto ha riportato, in seguito durante un'intervista a un quotidiano, alcune di queste frasi che ho ripreso e utilizzato nel testo. Sono le ultime parole di un soldato che crepa, esploso, nella polvere. Altre parole le ho rubate dalla battaglia di Geonosis di Guerre Stellari. "Tha last trap" parla di guerre sante e il testo è più che eloquente. Sono tutte brevi storie».

Degli Üstmamò degli anni '90 siete rimasti in due. La cantante Mara Redeghieri non vi ha seguito in questa nuova avventura e Ezio Bonicelli ha dato un contributo limitato. Cosa cambia ora nelle dinamiche e nella visione del gruppo?

«In due si lavora bene e ci si mette sempre d'accordo, ovvio che devi lavorare il doppio. Tre è il numero perfetto, dicono… In quattro rimanere insieme più di dieci anni è già una gran cosa. Quindi cambia tutto costantemente, di sicuro i vecchi quattro Üst non avrebbero fatto un disco chiamato "Duty free rockets", con questo immaginario e cantato in inglese».

Gli Ustmamò non sono più una "ghenga" ma tu sei ancora il capo…

«Per forza. A parte gli scherzi, se fossi ancora il capo avrei recuperato tutti e quattro gli Üst…».

La novità più grande è che hai preso il microfono in mano e sei diventato il cantante degli Ustmamò. Scelta obbligata o aspirazione che trova finalmente realizzazione?

«Realizzazione no di sicuro. Appurato che Mara non avrebbe cantato, era evidente che toccava a me. Non mi piace cantare, sono un musicista e mentre facciamo le prove per i concerti non riesco mai ad attaccare con la voce… aspetto sempre e penso ‹ma quando cazzo entra sta voce!?›. Poi rinvengo e attacco. È stato divertente comporre le canzoni chitarra e voce in una legnaia che suonava benissimo, registravo sul telefonino dei provini per memorizzare ed erano fantastici, suonavano anni '50. Bello anche in studio, durante le registrazioni, mi diverto con compressioni ed echi. In ogni caso mi auguro che il prossimo disco lo cantino Mara o Simone che con la voce è fortissimo».

Come e dove si collocano gli Üstmamò nel 2015?

«Non ne ho la più pallida idea. Vorrei solo collocare dei concerti, con Simone alla batteria e alla voce, io voce e chitarra, Mirko Zanni alla chitarra e Mauro Zobbi al basso. In stile blues sporco, reggae roots, old school».

Giovanni Lindo Ferretti ha espresso parole d'elogio per il tuo nuovo progetto: <Da tre settimane ascolto il disco di Luca, mi ha fatto innervosire molto per l'uso dell'inglese, un po' perché non c'è la voce di Mara, poi sorridere perché mi sto abituando alla sua voce. E sono contento per Luca e le sue canzoni cominciano a farmi compagnia…>.

«Ho realizzato il disco anche con l'intento sincero di fare compagnia a qualche mio amico e sono contento che abbia funzionato con Gio e altri, anche Ezio Bonicelli si è fatto parecchi viaggi in auto con "Duty free rockets". Con Giovanni abbiamo parlato dei testi in inglese, stava per massacrarmi poi ha capito che in italiano non avrei mai concluso e si è rassegnato all'idea, credo».

Nel disco compaiono anche due cover: una di J.J. Cale e l'altra è un classico r'n'r. Perché hai fatto questa scelta?

«In effetti  avrei potuto sceglierne altre tremila. "Don't go to strangers" di J.J. Cale l'ascoltavo a 12/13 anni e cercavo di strimpellarla. Casualmente l'ho riascoltata a 47 anni e impulsivamente l'ho registrata in due o tre ore. Fine. "Hambone" uguale, mi piacciono perché sono fatte di tre accordi e una settima, una linea melodica semplice, un riff di chitarra».

Viviamo nel 2015 ma mi pare di capire che il tuo sguardo musicale sia puntato su riferimenti del passato. Mi sbaglio?

«Adesso sì, riferimenti che suonano vecchi, il mio cervello li riconosce e li digerisce meglio. Meno pressione sonora e più aria che si muove. Ogni tanto faccio finta di vivere nel passato. Dipende dal cd che ho sulla Jeep».

L'immagine di copertina fa pensare a una guerra, a esplosioni…

«Sì, anche la realtà spesso fa pensare a una guerra. "Duty free rockets" per una parte è una zona franca da missili e razzi, dove si può stare al riparo, sicuri. Per l'altra parte è una zona franca dove missili e razzi possono essere venduti e comprati in grande quantità, con facilità a basso prezzo e senza dazi. In mezzo è guerra feroce tra le due parti».

Chiudi il disco con due canzoni in cui è protagonista il vento. Cosa rappresenta per te questo elemento naturale?

«Abito in un posto che si chiama La Bora e non è un caso, quando il vento vuole, sa fare male. Esasperato, dopo una settimana di raffiche violente, fredde e rumorose ho messo fuori dalla porta un Marshall valvolare a manetta cercando di sovrastare il suo suono e la sua potenza. Ha vinto lui, sembrava dire ‹tu sparisci!› e questa è la storia della canzone. Il vento rappresenta la forza e la potenza della natura e mi ricorda che non sono niente di molto importane e duraturo. Una foglia».

Trovo che il disco sia molto genuino e trasmetta naturalezza. Non c'è nulla di forzato. Lo è stato anche il processo creativo?

«Sì, il processo creativo è la cosa che ha funzionato meglio, e quando comincia funziona come un orticello, va bagnato e lavorato un po' tutti giorni e se la terra non fa proprio schifo nasce qualcosa. È la cosa che mi piace fare di più. La registrazione della canzone equivale  al congelamento del raccolto».



Titolo: Duty free rockets
Gruppo: Üstmamò
Etichetta: Primigenia Produzioni / Gutenberg Music
Anno di pubblicazione: 2015


Tracce
(musiche e testi di Luca A. Rossi, eccetto dove diversamente indicato)

01. I play my chords
02. Done
03. Don't go to strangers  [J.J. Cale]
04. Joy
05. Hambone  [Carl Perkins, Wayne P. Walker]
06. The last trap
07. Duty free rockets
08. I want to tell you
09. Sad king
10. Wha wha wind
11. When the wind talks to me


 

martedì 12 maggio 2015

Per Luca Casali e la Roots Band è "Time to smile"





Un viaggio in Australia e Nuova Zelanda ti può cambiare la vita. Lo ha capito anche il cantautore riminese Luca Casali che in Oceania non ha fatto solo il turista ma ci ha vissuto per un po' di anni durante i quali ha preso confidenza con l'ambiente e la natura, ha conosciuto luoghi e persone e si è innamorato della musica australiana di Xavier Rudd e John Butler. Tornato a casa, nella riviera romagnola, Casali si è inserito nella scena musicale locale stringendo collaborazioni con diversi artisti e nel 2013, insieme alla The Roots Band composta da Eros Rambaldi e Stefano Cristofanelli, ha iniziato le registrazioni, al Teatro Corte di Coriano, delle canzoni del suo primo album, "Time to smile", che ha visto la luce l'anno seguente. Dagli anni passati in Australia Casali ha portato con sé atmosfere, esperienze, paesaggi e l'amore per la chitarra Weissenborn, strumento caratterizzato da una cassa piccola ma con il manico quadrato vuoto e dotato di una voce melodiosa ed evocativa.
Il tutto è andato a comporre i nove brani inediti, tutti suonati con strumentazione acustica, che fanno viaggiare l'ascoltatore verso luoghi lontani, a contatto diretto con la natura. Canzoni che per atmosfere fanno pensare a nottate passate a suonare davanti a un falò, magari in riva all'oceano, con amici in un clima di serenità.
Nel disco brani energici dalle influenze rock e blues si alternano a ballate più intime e introspettive. Anche i testi scritti da Casali fanno parte di un percorso che prende il via dalla descrizione dell'ipocrisia della società e dei suoi sistemi per poi arrivare a una visione più distesa e in pace con il mondo, in attesa di una nuova primavera.
Luca Casali è il protagonista dell'intervista che segue.




Luca, il tuo disco si intitola "Time to smile" ma sei proprio sicuro che sia tempo di sorridere?

«"Time to smile" vuole regalare una visione positiva per il prossimo futuro, vuole essere un traino per tirarci fuori da questo periodo di staticità sociale. Personalmente il titolo del disco si riferisce anche ad un cambio decisivo di direzione della mia vita».

Prima di pubblicare il tuo album d'esordio hai passato diversi anni in Australia e Nuova Zelanda. Cosa ti ha lasciato questa esperienza nella tua visione della vita e della musica?

«Gli anni trascorsi in quelle terre così lontane ed affascinanti mi hanno decisamente segnato e cambiato in maniera radicale. Mi hanno fatto prendere pienamente coscienza di me stesso e di quello che sto cercando. Non solo i luoghi ma anche le persone e le diverse culture con cui ho avuto contatto. È come aver avuto la possibilità di guardare la mia vita ed il mio percorso dall'esterno, un privilegio unico. La musica è la risultante di tutto ciò, la manifestazione esteriore, pubblica».

Dal momento che hai vissuto in quella terra lontana e così affascinante mi viene da chiederti se ti senti più in sintonia con la musica di Xavier Rudd o con quella di Nick Cave?

«Mi sento più in linea con la musica e le sonorità di Rudd, sia per i testi che per l'uso della chitarra Weissenborn. Inoltre le tematiche affrontate da Rudd, quali il legame con la terra, la tutela e la salvaguardia dell'ambiente e la ricerca di una visione positiva del mondo, sono idee che condivido pienamente, in parte anche nei miei brani. Cave, pur essendo un artista indiscusso ha sonorità più cupe e grottesche, affronta tematiche diverse quali il ruolo del divino nella vita dell'uomo descrivendo l'angoscia esistenziale e l'amore perduto. Quindi pur provenienti dalle stesse terre mostrano peculiarità, a mio avviso, molto diverse».

Se non avessi vissuto in Australia la tua musica cosa sarebbe ora?

«Devo molto a quella esperienze e così anche la mia musica. Quegli anni mi hanno aiutato inconsapevolmente a maturare anche dal punto di vista artistico. Senza, forse, non saremmo qui a parlare di "Time to smile"».

Le canzoni del disco portano lontano ma puntano forse più verso un certo folk-blues americano. Mi sbaglio?

«Hai ragione, la matrice fondamentale rimane quella del folk-blues americano ma con l'utilizzo delle percussioni e del contrabbasso il sentiero prende una via diversa, direzione emisfero sud. Quindi le sonorità si addolciscono e diventano più ritmate».

Ascoltando il disco nella sua interezza sembra di percorrere una strada che da ripida e difficile, canzone dopo canzone, diventa più agevole fino a "Spring time" che chiude il tuo lavoro…

«Si parte descrivendo l'ipocrisia della società e dei suoi sistemi, la necessità vitale di un respiro diverso, la ricerca e l'intreccio con la natura più selvaggia, per poi passare e trasformare l'energia in immagini più distese come in un tacito accordo raggiunto con il mondo. Esattamente un personale percorso che si rispecchia anche nella musica».

In questo progetto sei accompagnato dalla Roots Band. Ce la presenti?

«Eros Rambaldi suona il contrabbasso ed è un bravissimo musicista che ha dato un notevole valore aggiunto ai brani grazie alle sue capacità e intuizioni musicali. Stefano Cristofanelli è un percussionista eclettico che riesce a trasmettere ai suoi strumenti musicali la sua passione per la musica».

Perché hai scelto di scrivere in inglese e soprattutto perché non hai allegato al cd un libretto con i testi?

«La scelta della lingua inglese e stata dettata dal luogo dove questi brani sono nati o comunque si sono ispirati, quindi mi sembrava coerente usare questa lingua. Secondariamente, forse, il genere musicale si sposa meglio con la lingua inglese, ma questo non esclude la possibilità che ci possano essere successivi lavori in italiano. Per quanto riguarda il libretto posso dire che non è stato allegato per questioni tecniche. Ci sarebbe voluto un po' più di tempo ed era troppa la voglia di far uscire il disco prima possibile».

Non credi che la scelta di usare essenzialmente strumenti acustici possa in qualche modo limitare le tue possibilità espressive?

«È vero, in qualche modo gli strumenti acustici possono limitare le scelte sonore ma questo disco è nato così, cantato sulla sabbia, in spiaggia, magari davanti ad un falò e sono queste le sonorità e le immagini che volevamo trasmettere».

Penso che ci siate riusciti molto bene. Tra gli strumenti usati spicca la chitarra Weissenborn, uno strumento dal suono melodioso che conosciamo bene per averla vista suonare anche da Ben Harper. Dove l'hai scovata e cosa ti dà questa chitarra?

«La Weissenborn è uno strumento davvero unico ed ancora una volta devo la sua scoperta al mio girovagare per il continente australe dove ho avuto modo di conoscere musicalmente non solo Rudd ma tanti altri artisti minori, buskers di festival locali. È uno strumento molto espressivo, volubile e in grado di trasmettere le emozioni di chi lo suona».

Dall'Australia hai portato con te anche il suono del didjeridoo che devo confessarti è uno strumento che mi affascina…

«Il didj anche se suonato a fiato viene considerato una percussione e si sposa benissimo sia con ambienti sonori acustici che elettronici! Nato dalla tradizione aborigena richiama all'orecchio i suoni e i colori della terra ancestrale».

Secondo te a cosa serve una canzone?

«Una canzone serve a trasmettere emozioni, immagini ed esperienze di vissuti, può far star bene, può incuriosire, deve emozionare e comunque sia darti carica e tempo per andare avanti e riflettere qualunque cosa tu stia facendo nella vita».

Quali sono gli ascolti che hanno maggiormente influenzato l'album?

«Xavier Rudd, John Butler, Eddie Vedder, Tommy Emmanuel, Nick Drake, Pearl Jam, Damien Rice e ce ne sarebbero tanti altri».

Come artista dove ti vedi tra dieci anni?

«È difficile dirlo, la strada del musicista come altre, non è semplice; è fatta di passioni, delusioni, salite e rapide discese. Tra dieci anni suonerò sicuramente, magari con qualche sogno in più nel cassetto realizzato».


Titolo: Time to smile
Artista: Luca Casali & The Roots Band
Etichetta: autoproduzione / New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi di Luca Casali)

01. True song
02. Over the sea
03. Like a breath
04. Found out the way
05. Time to smile
06. And nothing more
07. Siren
08. Without shoes
09. Spring time


lunedì 4 maggio 2015

I "Pensieri verticali" del cantautore Stefano Barotti






Non c'è fretta quando si è alla ricerca della qualità. Lo sa bene Stefano Barotti, tornato discograficamente a far parlare di sé dopo un lungo periodo di assenza. Sette anni in cui il cantautore toscano ha suonato molto dal vivo, ha collaborato con altri artisti, ha composto e registrato le canzoni di "Pensieri verticali", terzo disco della sua carriera. Un importante passo verso una decisa maturità artistica capace di unire il meglio del cantautorato della tradizione italiana con una importante iniezione vitaminizzante di rock, blues e americana.
L'esperienza maturata da Barotti alla corte di Jono Manson (ospite nel brano di apertura), in occasione dei due precedenti capitoli discografici, è servita a creare quel fertile substrato su cui si è andato a innestare felicemente il lavoro con il produttore Raffaele Abbate della OrangeHome Records. Un rapporto di collaborazione che ha trovato il giusto feeling e che ha regalato agli ascoltatori un disco ricco di sfumature, in cui viene valorizzata al meglio la capacità compositiva dell'autore. I brani sono piccole gemme che raccontano emozioni, stati d'animo e cose del vivere comune attraverso una scrittura non complessa. Ballad folk-rock lasciano il passo a brani di matrice pop ("L'uomo armadillo"), a divagazioni blues ("Blues del cuoco"), a incursioni dylaniane ("Nerone"), fino all'esplorazione dei territori della west coast ("Cuore danzante/Sulla pietra del pane sfidando il drago con la spada di San Giorgio") in cui la resofonica di Max De Bernardi regala atmosfere suggestive.
Oltre a Manson e De Bernardi, sono tanti gli ospiti che hanno contribuito alla realizzazione di questo progetto che si colloca tra i più belli e interessanti degli ultimi mesi. Tra questi Paolo Bonfanti con il suo inimitabile tocco chitarristico, John Egenes, Kreg Viesselman ed Henry Carpaneto. A creare una solida base musicale ci hanno pensato Vittorio Alinari (flauto e clarino), Nico Pistolesi (pianoforte e organo Hammond), Luca Silvestri e Matteo Giannetti (basso), Vladimiro Carboni (batteria), Luca D'Alberto (archi) e lo stesso Raffaele Abbate (percussioni e pianoforte).
A presentarci il disco è Stefano Barotti nell'intervista che segue.





Battere il ferro finché è caldo non è un motto che ti si addice. Dal tuo ultimo album sono passati sette anni. Non pensi che nella frenetica società di oggi aspettare così a lungo possa essere controproducente?

«Discograficamente parlando, di caldo in Italia ci sono solo le spiagge estive di Rimini. Questo per dire che non c'è una realtà discografica vera nel nostro paese. A meno che tu non sia un nome e allora ogni anno devi far uscire qualcosa di nuovo, farti un giro a Sanremo o ancora meglio far uscire la tua discografia su "TV Sorrisi e Canzoni" per mantenere caldo il ferro, come dici tu. Anche quando da battere c'è rimasto ben poco. Parlando della società che citi, proprio perché frenetica non credo si siano accorti dell’assenza di Barotti. Proprio perché tutto è così frenetico.
Detto questo, mi sono preso del tempo. Volevo voltare pagina e lavorare al nuovo disco in modo diverso rispetto al passato. Sono passati sette anni ma due li ho passati a produrre "Pensieri verticali". Dopo "Gli ospiti" del 2007 mi sono dedicato alle canzoni, a mettermi in discussione artisticamente e a cambiare direzione».

Cosa hai fatto in tutti questi anni?

«Tanti concerti, collaborazioni. Ho scritto un musical con Roberto Ortolan, amico e chitarrista eccezionale. Diciotto canzoni a tema che raccontano una storia, che spero prima o poi vedrà la luce in teatro grazie ad una produzione. Ho studiato e scritto nuove canzoni. Per fare un disco devi averne almeno venti buone per sceglierne una decina da inserire in un nuovo lavoro».

Quali sono i "Pensieri verticali" che più ti ossessionano?

«In realtà il pensiero verticale non ossessiona. Anzi incuriosisce, innamora. Alla base credo ci siano le "radici e le ali" come cantava qualcuno. Essere curiosi del nuovo mantenendo una buona integrità. Certamente ci sono pensieri più affilati, taglienti come per esempio quelli dettati dal rimpianto, questi tendono ad alzarsi un po' troppo in piedi. In questi casi credo sia importante che uno spermatozoo di pensiero non diventi un Gulliver».

Gli artisti hanno sempre una buona dose di follia in qualche angolo nascosto… Tu come ti senti?

«La mia dose di follia è decisamente implosa. Non amo i merletti e i cappelli e nemmeno i gesti ad effetto. Ho il mio clandestino a bordo che a volte affiora e mi porta altrove. Da ragazzo la prerogativa era quella di non essere uno dei tanti, crescendo sono cambiate molte cose. Credo comunque che avere una vita piena di segnalibri, di canzoni, sia già una forma di follia. Così come raccontare la propria vita a perfetti sconosciuti tutte le sere cantandogliela. Se ci pensi è da incoscienti. Anche se poi le canzoni diventano degli altri, ma questa è un'altra storia».

I tuoi primi due album sono stati prodotti da Jono Manson, "Pensieri verticali" da Raffaele Abbate. Cosa è cambiato nel tuo modo di lavorare e quali sono le differenze di approccio tra i due?

«Jono è un produttore molto "Live". Segue molto l'istinto e tifa per il 2 + 2 fa 4. È molto pratico. Mi ha sempre ricordato quei capi mastro nei cantieri edili che fanno un mazzo così a geometri e architetti. Abbate è più sornione, strategico. Lavora come gioca uno scacchista. Tende a ripulire il suono, lascia poco al caso, e fa si che una sua scelta diventi anche la tua. Ho scelto lui perché appartiene alla "vecchia scuola". Un po' come me. Una canzone deve stare in piedi chitarra e voce, allora puoi cercarle un buon vestito, e il buon vestito può voler dire lasciarla nuda. Il mio modo di lavorare è cambiato molto. La lunga pausa tra i miei ultimi due lavori è stato un mettere a fuoco tutto il percorso. I due dischi americani con Jono, la nuove prospettive e intenzioni musicali. Mettendo me e chi lavora con me a disposizione delle canzoni e non il contrario».

Jono Manson resta comunque figura importante avendo partecipato con voce e chitarra in "L'uomo armadillo", canzone che apre il disco…

«Jono è stato e sarà sempre una figura importante per il mio lavoro. Con lui ormai c'è un'amicizia forte che dura da più di dieci anni. Ci tenevo partecipasse al disco, che ci fosse, nonostante io abbia scelto altre strade rispetto al New Mexico. Ne "L'uomo armadillo" ci sono alcune linee in inglese e con Raffaele Abbate abbiamo pensato di farle cantare a Jono. Tra l'altro l'uomo armadillo è un amico comune. Quindi, un piccolo cerchio che si chiude».

"In soli sei minuti so cambiare il mondo", partendo da cosa?

«Questa linea è rubacchiata. Chiedendo ad un'amica come stava dopo alcuni avvenimenti spiacevoli mi rispose: ‹tranquillo, tra sei minuti mi è passato tutto›. Mi è piaciuto questo dare un tempo a un piccolo dolore per un dispiacere. La capacità di cambiare, sterzare nei momenti minori, e farlo addirittura in fretta credo sia da persone intelligenti. Esistono per tutti i giorni neri, dedicare solo sei minuti alla ripresa mi sembra un buon risultato».

Oltre a Manson hai potuto contare su altri ospiti di riguardo come Max De Bernardi - splendido il suo contributo con la resofonica in "Cuore danzante" -, Paolo Bonfanti e Kreg Viesselman. Cosa ci puoi dire di queste collaborazioni?

«Paolo Bonfanti ha sempre suonato nei miei dischi. Abbiamo diviso spesso il palco. Ad ogni disco Paolo mi torna in mente, perché d'istinto sento le sue chitarre in questa o quella canzone mentre il disco lo sto disegnando ancora. Sono convinto sia uno dei più grandi talenti della sei corde che abbiamo nel paese, e per questo possa giocarsela a testa alta anche all'estero. Max De Bernardi invece l'ho conosciuto solo qualche anno fa ad un festival. Lui è veramente illuminato. Suona sempre quel che non ti aspetti. La sua resofonica in "Cuore danzante" mi dà ancora sorprese nonostante l'abbia ascoltata centinaia di volte. Kreg Viesselman l'ho conosciuto nel 2008. Abbiamo fatto un tour insieme in Italia. Siamo legati da una profonda amicizia, nonostante il mio pessimo inglese e il suo poco italiano. Due anni fa è capitato di suonare ancora insieme mentre registravo "Pensieri verticali", in quei giorni l'ho invitato a partecipare ai cori di "Nerone"».

In "Giudizio non ho" canti in maniera ironica il tuo personale rapporto con tua madre. ‹Ieri ho rivisto mia madre e mi ha detto che non era il caso che a suon di cantare e scrivere mi crescerà il naso› è una delle strofe della canzone che mi porta a chiederti come la musica sia entrata nella tua famiglia…

«Mio padre era un buon chitarrista, adesso non suona da anni ma negli anni '60 con la sua band impazzava sulla costa versiliese. A mia madre piaceva cantare, e spesso da ragazza si impadroniva di qualche microfono quando qualcuno suonava nei locali di Forte Dei Marmi. Si sono conosciuti praticamente su un palco. Quindi non poteva andare altrimenti con me».

Ho notato che nei tuoi testi hai focalizzato la tua attenzione sulle piccole cose, sulla vita di tutti i giorni, sui sentimenti lasciando completamente da parte ogni riferimento all'attualità e alla politica. Sono argomenti che non ti interessano?

«Sono un individualista. Credo fermamente che l'unico modo per cambiare le cose in meglio sia quello di fare del proprio meglio. Quotidianamente. Sembra una frase retorica ma non è così. Per la situazione politica sono molto deluso e arrabbiato ma preferisco scrivere altro. Rincorrere altro. Magari cantare della vita faticosa dei cuochi, o che i poteri forti ci stanno rubando tutti i colori come fossero ladri di arcobaleni. Togliendoci la meraviglia, la speranza della voglia di fare. Sono un contadino, mi piacciono le sfumature e raccontare delle storie».

L'amore però è argomento che hai cantato in una romantica tetralogia stagionale. Qual è la tua stagione preferita e perché è giusto viverla?

«Mi piace cantare d'amore. E mi ha aiutato parecchio scriverne. Continuo a capirci poco. Ma rinchiudere un dolore, la fine di un amore in un foglio di carta mi ha aiutato a superare l'ostacolo. Riguardo le stagioni direi senz'altro la primavera, paragonata al sentimento Amore è quella più affascinante, quando il giorno e la luce cambiano. Sembra arrivare il caldo, ma c'è ancora brezza dopo il tramonto. Come quando ci si innamora di qualcuno, quando tutto è ancora platonico e il gioco deve ancora iniziare».

Il tuo amore e debito verso la musica americana lo paghi con "A cena con Drake". Cosa sarebbe la musica senza la poesia di Nick Drake?

«Non so pensare alla musica senza Nick Drake. Ricordo l'innamoramento con "Bryter layter", e poco dopo il rapimento con "Pink moon". Il suo primo disco l'ho ascoltato per ultimo. Ma l'ho tenuto in casa per anni senza ascoltarlo perché sapevo che dopo quello non ci sarebbe stato altro da ascoltare di Drake. Lui mi ha sempre fatto pensare all'acqua del fiume. Silenziosa, costretta dagli argini ma mai domata. Mai ferma, sempre in movimento. Il suo incalzare con indice e pollice sulle corde è ipnotizzante, non dà fiato, per poi cantarci sopra in modo così largo, affilato ma dolce. La sua musica, le sue canzoni saranno sempre avanti nel tempo. Nel disco gli ho fatto un omaggio di quaranta secondi. Era il minimo per chi ha cambiato la mia prospettiva musicale. Quando dissi ad Ernesto De Pascale che avevo scoperto Nick Drake mi disse ‹son cose che ti cambiano la vita› e il buon Ernesto aveva ragione in pieno».

Nei mesi spesi a registrare e a completare "Pensieri verticali" hai trovato il tempo di partecipare alla produzione del nuovo disco dei Gang. Come è andata?

«Coi Gang va sempre bene. Che sia il palco o uno studio con loro si respira sempre una bella energia. È stata una bella giornata di canzoni. Ho cantato alcune linee, facendo dei cori alla voce di Marino. È un onore partecipare al grande ritorno discografico dei fratelli Severini. Suonavo la loro "Bandito senza tempo" quando avevo vent'anni. Oggi avere il mio nome nel loro disco mi fa capire quanta strada ho fatto».

Spiegaci invece il progetto di abbinare le tue canzoni in veste acustica a vini Triple A...

«Da alcuni anni la Velier di Genova sostiene la mia musica. Tra i loro prodotti ci sono i vini naturali Triple A. Con Luca Gargano (uno dei titolari dell'azienda) abbiamo pensato una formula per rendere al meglio la nostra collaborazione. In pratica parliamo di house concert. Concerti in location private dove chi partecipa può assaggiare i vini Triple A e godersi il concerto pagando un biglietto/offerta. Sono due mondi molto vicini le canzoni e il vino. Specialmente in questo caso, dove sia io per la mia musica che i vignaioli e produttori di questi vini lavoriamo con curiosità e intenzione. Da artigiani. In modo "verticale" insomma».

Ora quanti anni dovremo spettare per avere tra le mani il quarto episodio della storia discografica di Stefano Barotti?

«L'idea è di tornare presto in studio. Ho diverse canzoni buone, e sicuramente questo "Pensieri verticali" ci farà lavorare al meglio per un disco futuro. Con Abbate abbiamo dovuto annusarci artisticamente e conoscerci durante le session. La prossima volta avremo il vento e l'esperienza dalla nostra. Anche un live mi piacerebbe. Con Vladimiro Carboni alla batteria e Luca Silvestri al basso abbiamo raggiunto una buona pasta di suono. Mi piacerebbe averne una testimonianza in un disco».




Titolo: Pensieri verticali
Artista: Stefano Barotti
Produzione artistica: Raffaele Abbate e Stefano Barotti
Etichetta: OrangeHome Records
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi di Stefano Barotti, eccetto dove diversamente indicato)


01. L'uomo armadillo
02. Blues del cuoco
03. La ragazza
04. Vorrei essere
05. Povero è l'amore
06. Giudizio non ho
07. Rose di ottobre
08. A cena con Drake
09. Nerone
10. Ogni cento parole
11. L'arcobaleno rubato
12. Cuore danzante
13. Sulla pietra del pane sfidando il drago con la spada di San Giorgio
14. Girasole  [Stefano Barotti / Carmelo Schininà]



venerdì 24 aprile 2015

I St. Mud Avenue e la musica blues degli anni '20





Arrivano da esperienze diverse e variegate ma hanno in comune l'amore per la buona musica e un pizzico di spregiudicatezza. Si tratta dei cinque musicisti che hanno dato vita al progetto St. Mud Avenue e che da poche settimane hanno pubblicato il loro disco d'esordio eponimo. Nata nel 2013 dall'incontro del chitarrista Stefano Ronchi, componente degli Almalibre di Zibba, e dell'armonicista Fabio "Kid" Bommarito, leader dei Kid Blues Combo, la band si è trasformata in un quintetto con gli ingressi di Flavia Barbacetto, già con il trio vocale torinese The Blue Dolls e con il gruppo fiorentino Swing in Blue, del violoncellista e compositore Stefano Cabrera, componente del Gnu Quartet, e del contrabbassista Pietro Martinelli. L'esordio live nella versione quintetto ha avuto luogo a giugno del 2014 in occasione della finale italiana dell'International Blues Challenge che ha visto i St. Mud Avenue conquistare il secondo posto nella competizione.
I St. Mud Avenue sono un gruppo molto speciale che è riuscito a far convivere footdrums, chitarre resofoniche, ritmi ipnotici tipici della tradizione stomp, armoniche, sonorità che rimandano alla musica degli anni '20 del Mississippi, con il violoncello e il contrabbasso. L'utilizzo di percussioni suonate con i piedi, l'uso di bancali di legno e valigie a mo' di grancasse, e la registrazione completamente analogica hanno permesso di rendere ancora più reale e credibile la musica presentata in questo cd. Accanto alla tradizione si muove veloce il violoncello che rappresenta la novità di questo interessante lavoro discografico. A influenzare maggiormente la band sono state le produzioni del re della chitarra ragtime Blind Blake, Mississippi John Hart, il padre del Texas blues Blind Lemon Jefferson, John Lee Hooker, l'ineguagliabile Robert Johnson, il maestro della armonica blues Slim Harpo.
I dodici brani del disco sono equamente divisi tra cover e canzoni originali scritte da Stefano Ronchi, già conosciuto dagli amanti del blues per il suo disco solista dal titolo "I'm ready".
A presentarci il progetto St. Mud Avenue sono lo stesso Ronchi e Fabio "Kid" Bommarito. 



Cinque musicisti liguri che hanno la bussola puntata verso il profondo sud degli Stati Uniti. Come è iniziato questo viaggio?

Bommarito: «Questo viaggio è iniziato parlando con Stefano del fatto che volevamo fare qualcosa di grezzo, sporco, "ignorante",  molto "Mississippi". Così abbiamo iniziato a buttare giù un po' di brani, riarrangiati in chiave elettrica con l'uso di un bancale al posto della stompbox, di una valigia usata al posto della cassa e di amplificatori per un suono bello grezzo e siamo andati avanti così per un po'. Nel frattempo a Stefano è venuto in mente di inserire, prima un contrabbasso e poi un violoncello e una seconda voce femminile. All'inizio ero un po' scettico sull'uso anche di questi strumenti nel progetto ma da subito la cosa ha preso una forma, un'identità, fino a divenire la full band con cui abbiamo registrato il disco, quindi con Pietro Martinelli, Stefano Cabrera e Flavia Barbacetto. Un viaggio che stiamo facendo insieme a ritroso nel tempo, alla ricerca di materiale sempre più vecchio da riarrangiare alla St. Mud».

Venite tutti da esperienze musicali in ambiti differenti ma cosa avete in comune che vi ha spinti a dare vita a questo progetto?

Bommarito: «Sicuramente in comune abbiamo una grande passione per la musica e un certo spirito di avventura, un pizzico di spregiudicatezza e… molta simpatia».

Chi di voi è stato il motore di tutto il progetto?

Bommarito: «Indiscutibilmente Stefano a cui è venuta l'idea e probabilmente, ascoltando il mio modo di suonare, il mio "paraculismo" da palcoscenico e la mia spregiudicatezza soprattutto col pubblico femminile, ha pensato che insieme potevamo fare tanto. Poi l'ingresso degli altri componenti ha portato un valore aggiunto elevatissimo e suonare con simili professionisti, almeno per me, è un onore e una scuola ogni giorno».

Stefano, sei chitarrista di Zibba e prima di questo disco hai esplorato i sentieri del blues con un album che ha riscosso grandi apprezzamenti da parte della critica. Con il progetto St. Mud Avenue vai ancora più a fondo nella tradizione rurale americana scrivendo sei dei dodici brani che compongono il disco… È oltreoceano il tuo Eden musicale?

Ronchi: «Per me il blues è il miglior modo per esprimermi musicalmente. Ovviamente nel tempo è cambiata la ricerca, l'interesse, l'approfondimento. Per questo il disco dei St. Mud è così diverso dal mio disco precedente. Fa tutto parte di un percorso personale, al quale si abbina una appassionante e appassionata ricerca storica e filologica».

Pensate che sia ancora attuale il blues rurale, lo stomp, il ragtime che presentate nel disco?

Ronchi: «Attuale è una parola grossa, piuttosto direi che va abbastanza di moda. Penso che la differenza tra chi segue una moda e chi vive questa musica stia nel fatto di saperla anche interpretare. Noi abbiamo scelto di inserire, ad esempio, il violoncello. Per molti potrebbe essere una follia e un'assurdità storica, ma per noi è solamente il modo più efficace per dare il nostro contributo e lasciare un piccolo, minuscolo segno personale nel percorso storico di questa musica meravigliosa. E poi a me viene spontaneo scrivere brani in quello stile, è una cosa semplice e naturale. Mi sento veramente nostalgico».

Qualcuno potrebbe obiettare che è musica già sentita. Voi come rispondete?

Ronchi: «E cosa non lo è oggi? È già stato detto praticamente tutto, suonato tutto. Si può solo scegliere di suonare quello che piace di più, cercando di farlo bene. E che dia soddisfazione prima di tutto a chi lo suona».

Nell'album avete inserito anche sei cover. Perché avete scelto quelle canzoni e cosa rappresentano per voi?

Ronchi: «La scelta delle canzoni si è basata principalmente sull'attività live. Nel senso che abbiamo scelto di inserire i brani che, eseguiti dal vivo, ci davano più soddisfazione e rendevano meglio l'idea delle nostre sonorità. Anche perché la maggior parte di questi sono audacemente rivisitati e riarrangiati. Scelta piuttosto coraggiosa, ma senza dubbio personale e caratteristica».

Tra queste manca però "They're red hot" di Robert Johnson che avete però registrato in un video. Perché l'avete lasciata fuori?

Bommarito: «È stata la nostra "palestra", ha dato il la a tutto il progetto. È bello viverla così e poi inserire nel disco altri brani».

Per dare ancora di più l'idea del suono anni '20/'30 avete optato per una registrazione completamente analogica utilizzando apparecchiature d'annata… Come sono avvenute le registrazioni?

Ronchi: «Per rendere l'idea, anche se molto lontanamente, ci siamo affidati al TUP Studio di Brescia che ha messo a disposizione, oltre a strumenti e microfoni antichi, anche una sala abbastanza spaziosa per poter registrare tutti e cinque insieme. In questo poi è stato bravissimo il fonico, sia nel posizionamento dei microfoni, sia nella fase di mixaggio. È veramente molto difficile amalgamare il suono di strumenti acustici senza fare un polpettone sonoro, siamo stati davvero fortunati a rivolgerci alla persona giusta. E poi è stato bello trascorrere due giorni in studio, dormendoci anche e portando a letto l'odore di valvole calde dopo una giornata di lavoro. Non capita spesso, davvero una bella esperienza».

E non manca qualche rumore di sottofondo come cani che abbaiano, porte che cigolano. Il tutto richiama a certe registrazioni "sporche" del passato…

Bommarito: «L'aver inserito questi "rumori" è stato divertentissimo anche perché al momento della registrazione sono venuti fuori da soli, sai quei guizzi di pazzia che ogni tanto vengono? I cigolii sono fatti col violoncello e ricordano un cancello o una porta ma a me piace vederli come il rumore di una vecchia altalena che cigola col vento sotto il porticato di una vecchia casa di legno… e il cane… beh il cane sono io, a guardia della casa».

Cosa significa vivere nel 2015 in Liguria e fare musica di quasi cent'anni fa ottanta nata a migliaia di chilometri di distanza?

Bommarito: «Per me significa suonare una musica che mi piace un sacco e che mi dà modo non solo di suonare ma di esprimere anche delle emozioni».

Che tipologia di pubblico vi aspettate ai vostri concerti?

Bommarito: «Tutte le persona che hanno voglia di divertirsi e ascoltare un po' di sano blues suonato bene, credo».

Prima di registrare avete approfondito l’argomento ascoltando dischi o leggendo libri?

Ronchi: «Ovviamente per suonare ogni tipo di musica devi averla prima ascoltata… Per me e per Kid è stato un po' più semplice perché proveniamo da questa musica, o comunque da generi che ne sono parenti stretti. Per gli altri componenti del gruppo è stato interessante approfondire ed entrare nel fango, sporcarsi un po'. I libri al riguardo mi interessano molto, non ne sono stato un cultore in passato ma mi sono promesso da tempo di approfondire anche questo aspetto. Più si conosce la storia e la biografia di un artista e meglio si può comprendere la sua musica».

C'è un aneddoto o un momento particolare nel corso delle registrazioni in cui avete capito che la strada era quella giusta?

Bommarito: «Quando abbiamo trovato le maschere da lottatori di wrestling. Quella è stata la svolta! A parte gli scherzi, l'odore dello studio e le sensazioni provate quando siamo entrati ci hanno fatto ben sperare. Quando poi abbiamo iniziato a registrare tutti insieme con strumentazione d'annata, a sentire che i brani venivano bene già alla prima e vedere il viso soddisfatto di Pier in regia mentre ascoltava i suoni, allora abbiamo capito che stavamo facendo un bel lavoro e alla fine abbiamo registrato dodici brani in due giorni».

Dopo questo disco tornerete ognuno ai propri impegni o pensate di portare avanti questo progetto?

Ronchi: «Assolutamente! Ognuno di noi è impegnato su altri fronti ma questo progetto non lo molliamo, anzi. Stiamo lavorando sodo per portarlo in giro il più possibile e farlo conoscere, sia online che dal vivo. Ciò vuol dire che troverete i St. Mud Avenue in giro per locali in formazione duo, trio, quartetto o full band! Preparatevi all'invasione acustica di tanta musica "vecchia"».


Titolo: St. Mud Avenue
Gruppo: St. Mud Avenue
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2015

Tracce
(musiche e testi di Stefano Ronchi, eccetto dove diversamente indicato)

01. Rainy day rag
02. Strange kind of lovin’
03. Six feet under
04. Hipshake  [Slim Harpo]
05. Free
06. Up above my head  [Sister Rosetta Tharpe]
07. You’re gonna need somebody on your bond  [Blind Willie Johnson]
08. Born in Mississippi
09. I want a limousine
10. Some of these days  [Sophie Tucker]
11. I’m so lonesome I could cry  [Hank Williams]
12. Cannonball rag  [Merle Travis]