La prima cosa che si guarda in un disco è la copertina. Alcune sono vere opere d'arte che meriterebbero formati ben più grandi, altre ti fanno capire subito cosa si cela nei "solchi" digitali del cd, altre ancora passano alla storia come simboli di una generazione o di un momento storico. Ma quando ti capita tra le mani un cd la cui copertina vede protagonisti due orsacchiotti di peluche, un mandolino e una armonica, la curiosità aumenta a dismisura. Se poi a questo aggiungiamo il titolo "Scanzoncina folk" e il nome del gruppo The Lonesome Picking Pines, il gioco è fatto. Non resta che accendere lo stereo e ascoltare questa nuova proposta artistica. Il trio savonese, nato nei primi mesi del 2009 e formato dai fratelli Marco e Andrea Oliveri e dal percussionista e batterista Marco "Poldo" Poggio, è all'esordio discografico e lo fa presentando otto brani originali, più una gustosa ghost track che è la versione in dialetto savonese della canzone "Ohi me mì". Si tratta di un disco fresco, a tratti ironico e condito da una carica di giovanile entusiasmo, anche se non mancano i riferimenti ai problemi della società di oggi. I punti di riferimento delle canzoni si devono cercare nella tradizione musicale del folk/rock di matrice americana e nella scuola cantautorale italiana, i cui insegnamenti sono stati assimilati bene dal gruppo. I brani del disco sono scritti da Marco e Andrea Oliveri e registrati da Alessandro Mazzitelli al "Mazzi's Factory" a Toirano mentre la grafica è di Alex Raso.
Nell'intervista che segue i fratelli Oliveri presentano la loro prima fatica musicale.
Una copertina che raffigura due orsacchiotti e il titolo del disco che è "Scanzoncina folk". L'avete voluta mettere sullo spiritoso la vostra prima fatica discografica?
Marco: «Avevamo pronto il master, ma ciò che ci mancava era una buona idea per il titolo e la
copertina dell'album. Di certo sapevamo quello che non volevamo, ovvero le solite immagini stereotipate solitamente associate alla musica folk e country, come strade polverose di campagna, stivali di pelle e cose del genere. Volevamo qualcosa di più originale, inaspettato, che rompesse un po' con quei canoni. A tutto ciò hanno poi contribuito le idee di Andrea, che sono state determinanti nell'orientare le nostre scelte in quella direzione».
Andrea: «Pensavo ad un titolo breve e conciso e ad una copertina d'impatto che attirassero l'attenzione e fossero anche spiritosi e divertenti. Questo per riflettere non solo il nostro modo d'intendere la musica, ovvero quello di non prendersi troppo sul serio, ma anche per rappresentare quello spirito rustico, sanguigno, diretto e scanzonato che cerchiamo sempre di portare sul palco durante i concerti e che è presente come intenzione in molti episodi del disco. Così ho ideato l'immagine un po' surreale e atipica degli orsacchiotti con in mano i nostri strumenti e mi sono inventato il termine "Scanzoncina folk", che esprime bene tutti questi aspetti».
Prima di questo disco vi chiamavate solo The Lonesome Pines ora siete The Lonesome Picking Pines. Perché questa aggiunta, cosa è cambiato?
Andrea: «Niente di strutturale, siamo sempre gli stessi e ci identifichiamo ancora nel nome originario con cui siamo nati, The Lonesome Pines. Però sul nostro primo disco e sui social networks volevamo un nome che definisse soltanto noi e che superasse i casi di omonimia esistenti con altre band di country e bluegrass, anche se principalmente d'Oltreoceano e quindi relativamente lontane. Così, su mia proposta, abbiamo deciso di aggiungere "picking", termine che suona bene ed è legato ad un modo di suonare di molti musicisti folk americani, stile che anche noi cerchiamo di fare nostro».
In questi mesi vi ho seguito un po' più da vicino e so che avevate iniziato a registrare un disco in inglese prima di optare per la lingua italiana e ricominciare il lavoro completamente da capo. Come è andata effettivamente?
Marco: «Fin dall'inizio, dai nostri primi esperimenti nel proporre canzoni inedite e con i primi demo, abbiamo sempre riscontrato due anime nella nostra produzione: brani in inglese, forse come diretta conseguenza del punto da cui siamo partiti, il folk e il country statunitense; brani in italiano, perché in fondo è la lingua che parliamo quotidianamente e con cui pensiamo. Questa ambivalenza non è scontata, perché, in genere, molti musicisti decidono di fare esclusivamente una cosa oppure l'altra. Così, pensando ad un nostro disco, la prima idea è stata quella di farlo con materiale in inglese, perché era più a tema con il nostro suono. Ma ad un certo punto del lavoro ci siamo resi conto che quel progetto non era poi così maturo, spontaneo e soprattutto originale e adatto ad un primo album. Così, dopo esserci confrontati tra noi e aver ascoltato i consigli di musicisti amici, abbiamo pensato che come inizio sarebbe stato meglio cimentarsi sì con uno stile tutto americano, ma con testi in italiano, nella nostra lingua madre. Questo perché avevamo già pronto il materiale, ma anche perché avrebbe potuto essere un biglietto da visita che testimoniasse da dove proveniamo. Così abbiamo ricominciato daccapo a lavorare alle nuove canzoni».
Andrea: «Non è detto che se le canzoni di "Scanzoncina folk" sono in italiano non ci possa essere un nostro progetto in inglese, in futuro. Si tratta di materiale che comunque ci identifica e continuiamo a proporre come repertorio originale durante i live. Forse la ricerca e la sfida nell'abbinare musica e modi di suonare internazionali a testi in italiano è al momento più interessante, ma non escludiamo a priori l'uso della lingua inglese, che comunque manteniamo nelle cover e nei brani di artisti di cui proponiamo le traduzioni. È solo un altro modo di farsi ispirare e di esprimere ciò che siamo e che amiamo».
Nella vostra musica si scorgono marcatamente influenze rock/folk americane e di certa tradizione cantautorale italiana. Quali sono i vostri modelli e chi o quale disco vi ha maggiormente ispirato?
Marco: «Non era nelle nostre intenzioni fare un disco prettamente cantautorale, è indubbio però che affrontare una ballata folk in italiano significa avvicinarsi, come stile, al mondo dei cantautori nostrani come De Andrè, Bubola, Guccini, De Gregori. E questo, nel nostro disco, si sente».
Andrea: «Oltre all'influenza del cantautorato italiano, che in parte ci riguarda, e di realtà nostrane che non fanno principalmente parte di quella schiera, come i Modena City Ramblers e i Gang, credo che ciò che più ha ispirato "Scanzoncina folk" sia stato il suono degli album di Steve Earle, Guy Clark, Townes Van Zandt, John Hiatt e dei grandi classici, da The Band a Dylan, fino a Neil Young e lo Springsteen acustico».
Marco e Andrea oltre a essere la colonna portante dei The Lonesome Picking Pines siete anche fratelli gemelli. Questo aiuta nella gestione di un gruppo o può essere motivo di contrasto?
Marco. «Essere gemelli aiuta nella gestione di un gruppo quando si deve essere uniti e disposti al confronto per prendere decisioni importanti. Questa condivisione di intenti tra noi è così naturale, radicata e istintiva che spesso agiamo senza neppure comunicarcelo direttamente, in quanto conosciamo i nostri diversi caratteri e ci comportiamo di conseguenza, scoprendo spesso, in seguito, di aver pensato la stessa cosa. Per questo, è difficile che ci siano contrasti tra noi. Ma è un rapporto particolare perché, per forza di cose, è nato molto prima della fondazione dei Lonesome Picking Pines».
Vi affidate al parere di Marco Poggio, percussionista del gruppo, quando avete idee contrastanti oppure ve la sbrigate tra di voi?
Marco: «Il parere di Poldo, così è soprannominato il nostro batterista, lo chiediamo sempre e ne abbiamo sempre bisogno, perché non potremmo fare ciò che facciamo senza di lui. Poldo è quasi sempre d'accordo su tutto con noi, un po', forse, anche per carattere. Ovvio che nel caso non sia d'accordo su qualcosa, noi due ascoltiamo anche le sue esigenze e cerchiamo di venirgli incontro. Non lo dico per piaggeria ma perché è già successo. È raro ma succede».
Andrea: «Però, principalmente, quando tra me e Marco ci sono idee contrastanti su qualcosa, la tendenza è quella di sbrigarcela prima tra noi. Ma tutto questo succede spesso senza che noi due lo vogliamo o ce ne accorgiamo. È qualcosa che facciamo istintivamente».
Da buoni fratelli vi siete anche divisi equamente il numero dei brani sul disco. Quando scrivete vi consigliate a vicenda, parlate tra di voi delle vostre idee oppure tutto si svolge in maniera separata?
Marco: «Avviene tutto quello che dici, ma per gradi: l'idea di una canzone infatti arriva sempre da uno solo di noi, che quasi sempre la propone all'altro già finita e pronta per essere suonata. Nel momento di provarla insieme, l'autore spiega le sue idee a riguardo e quello che vuole, ma poi il confronto su pareri e proposte è sempre a quattro mani».
Il disco contiene otto canzoni che in verità sono nove visto che di "Ohi me mì" c'è la versione ufficiale in italiano e la ghost track in dialetto savonese. Chi ha avuto questa idea e da dove nasce questo titolo?
Andrea: «Si tratta di un'espressione dialettale che ho sempre ascoltato esclamare da mia nonna quando qualcosa non andava. È come dire "ahimé", "poveri noi" e, pensando all'attuale situazione socio-politica italiana, mi è tornata utile perché mi sembrava azzeccata ad esprimere il senso di incertezza, molto diffuso in questi tempi, di cui parla la canzone. Dapprima è nata in italiano, poi, durante le registrazioni del disco, mi sono accorto che poteva essere adattata in dialetto savonese. Così, ci ho messo mano e l'ho registrata velocemente anche in quella versione. Nonostante fosse un esperimento nuovo, siamo rimasti da subito soddisfatti del nuovo adattamento e, indecisi su quale versione scegliere per l'album, le abbiamo inserite entrambe. L'idea di aggiungere il brano in dialetto come ghost track ci divertiva perché immaginiamo possa essere una sorpresa per gli ascoltatori più attenti. Ci fa piacere che tu l'abbia colta, vuol dire che hai sentito davvero tutto il disco, fino in fondo».
Marco, nei testi delle tue canzoni sono presenti parole come tempeste, guai quotidiani, morte. Sei la metà "nera" dei "Pini"?
Marco: «Spero di no! Mi piace scoprire i lati nascosti delle cose, l'altra faccia della medaglia, per questo scrivo canzoni che in apparenza possono sembrare poco rassicuranti. In "Semina il vento e raccogli tempeste" racconto di sogni e di successo da un punto di vista meno facile, quello di chi si mette in gioco ma poi perde la partita, vuoi per la fatalità del destino o per altre circostanze. Di tutt'altro spirito è "Dacci oggi il nostro guaio quotidiano", costruita sul gioco di parole, l'ironia e il sarcasmo. È ovvio che non invoco né auguro a nessuno di avere un guaio per ogni giorno, ma in questo caso cerco di sdrammatizzare la realtà con una sorta di preghiera "blues" semiseria, per riderci un po' su. L'unica canzone un po' "nera", come dici tu, è "Lenta morte di un soldato": in due parole, la storia di un giovane soldato americano che torna a casa vivo dall'Iraq ma, a seguito di quell'esperienza, diventa prigioniero della sua mente e condannato della sua coscienza. Purtroppo si tratta di una storia vera che ho letto su un quotidiano e che mi ha colpito profondamente. Così ho deciso di raccontarla... non è colpa mia se la realtà in questi casi è tragica».
C'è anche una donna in una delle tue canzoni ma anche in questo caso c'è uno specchio rotto e sette anni di sventura. Ancora una visione pessimistica?
Marco: «"Sette lunghi anni" ha una storia strana. L'ho scritta anni fa e con il passare del tempo è mutata, soprattutto sul piano delle parole. Ma dall'inizio è sempre stata una canzone nata da un'idea più o meno precisa, che poi è sfuggita al mio controllo ed è come se si fosse scritta da sola. Non credo però ci sia del pessimismo, piuttosto un tipo di suggestione che contrassegna la realtà come qualcosa di fatale: ad esempio, un cuore già di per sé complicato e l'incontro di una o più donne che arriva a complicare ulteriormente le cose. Da lì, la visione scaramantica che tira in ballo la sfortuna, ma anche la volontà di rompere le "catene" di quella scaramanzia, che in fondo è solo paura di qualcosa che non si conosce e accettare così che qualche disegno o un destino si compia, nel bene o nel male».
Andrea, chi è questa "Mary Rose" che descrivi così bene nella canzone eponima?
Andrea: «Mary Rose è una ragazza che ho visto per caso ad Acqui Terme qualche tempo fa. Era una fanciulla piuttosto attraente e ho immaginato quali pensieri potessero suscitare in un uomo che la incontrasse. Pensieri non propriamente romantici, anzi, spesso inconfessabili. Il rapporto tra un uomo e una donna, in fondo, è fatto anche di questo e l'ho voluto mettere in una canzone».
Con "Fuorilegge" dai una visione amara della società di oggi. Anche tu ti senti in qualche modo un fuorilegge?
Andrea: «Più che di una visione amara della società odierna, con "Fuorilegge" volevo parlare della situazione dei lavoratori, tassati ingiustamente da un sistema che dovrebbe tutelarli, ma, per paradosso, è proprio esso a metterli maggiormente in difficoltà. Secondo me oggi siamo tutti un po' fuorilegge, soprattutto chi vuole vivere libero».
È rimasto qualcosa nel cassetto alla fine di questa esperienza in studio?
Andrea: «Di inedito non abbiamo lasciato nulla. Già durante la preparazione del disco, in sala prove, ci siamo volutamente concentrati su un ristretto numero di brani e abbiamo lavorato miratamente a quelli, perché sentivamo che rispecchiavano al meglio quello che siamo oggi e come suoniamo. In fondo, è stato quello l'obiettivo principale dell'intero lavoro: pensare ad un insieme di canzoni come ad una carta d'identità, un biglietto da visita. Per questo abbiamo anche scelto di registrare molte canzoni in presa diretta, dal vivo, facendo pochi ritocchi qua e là e con poche sovraincisioni».
Marco: «Non volevamo troppe canzoni in scaletta per il nostro primo album, così non abbiamo messo troppa carne al fuoco. Quando siamo entrati in studio avevamo già chiara l'idea che tutto il materiale che avremmo registrato avrebbe composto l'intera tracklist del disco, così non abbiamo dovuto scartare nessun brano».
Quale è stato il momento più difficile che avete affrontato nella produzione del disco?
Marco: «Trattandosi della nostra prima esperienza discografica, completamente autoprodotta, la parte più difficile del lavoro sono state le fasi più specifiche e tecniche, alle quali non si pensa mai troppo approfonditamente ma che bisogna curare nel minimo dettaglio: il tipo di packaging, la quantità di copie da stampare, i tempi di realizzazione, la parte burocratica. Anche decidere l'immagine per la copertina, il titolo, il logo da usare, le foto e i caratteri del libretto ci ha tenuti molto impegnati. Ci siamo quindi appoggiati a persone più esperte di noi in quei campi, che fortunatamente si sono rese molto disponibili e collaborative e ci hanno consigliato e aiutato. Come Alex Raso, che si è occupato della grafica».
In questi anni vi siete fatti le ossa suonando a rassegne, festival e in locali di quasi tutto il nord Italia. A luglio sarete nuovamente tra i protagonisti della due giorni di Pusiano insieme a tanti grandi della canzone cantautorale italiana e americana. Che effetto fa aver diviso il palco con gente come Phil Cody, Dan Stuart, Chuck Prophet?
Andrea: «L'opportunità, concessaci da Andrea Parodi della Pomodori Music, di partecipare sia al "Buscadero Day" di Pusiano, sia al "Townes Van Zandt International Festival" di Figino Serenza, entrambe manifestazioni in cui si ritrovano artisti nazionali e internazionali che propongono il nostro stesso genere, è una bella responsabilità e un onore, ma noi la vediamo anche come un'occasione eccitante e divertente. Innanzitutto, per il privilegio di incontrare un certo tipo di pubblico, appassionato di musica americana, ma anche per entrare in contatto e confrontarci con i musicisti che amiamo e con cui ci si sente in sintonia».
Marco: «Suonare nella stessa manifestazione in cui sono in cartellone gli artisti che hai nominato tu, oppure anche nomi di spicco come Elliott Murphy, Mary Gauthier e Greg Trooper è un'occasione di crescita su tutti i piani: osservi da vicino questi professionisti e impari qualcosa, li ascolti suonare dal vivo, cogli la loro naturalezza sul palco e cerchi di interiorizzarla, capisci ciò che significa la vita on the road. Ma ti rendi conto anche della loro umiltà, umanità e curiosità nel voler incontrare la gente. In quei momenti si capisce cosa significa essere un artista, ci si sente uniti in una grande famiglia. Sono sensazioni uniche che arricchiscono».
Quali sono i programmi futuri e cosa fate nella vita oltre a suonare?
Marco: «Nei nostri programmi futuri c'è senz'altro la volontà di portare in giro il nostro disco,
presentarlo dal vivo, ma anche via radio e attraverso recensioni, farlo ascoltare al maggior numero di persone possibile, stringere rapporti, collaborazioni, crearci opportunità, anche al di fuori dei confini regionali. In quanto alle nostre attività nella vita, oltre a suonare, io sono diventato giornalista pubblicista dopo aver curato due siti d'informazione per la Cooperativa Editoriale "ABC - Idee per la comunicazione" di Savona e attualmente sono alla ricerca di collaborazioni; Andrea invece è responsabile della comunicazione e, mentre cerca lavoro, studia all'Università di Genova per laurearsi in Lingue e Letterature straniere; Poldo, invece, collabora come redattore, recensendo dischi e concerti per due magazine online specializzate in musica, "Extra! Magazine" e "Roots Highway". Recentemente ha iniziato a lavorare per una ditta di Cairo Montenotte che si occupa di installazione ed assistenza di software ad uso ospedaliero».
Titolo: Scanzoncina folk
Gruppo: The Lonesome Picking Pines
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2015
Tracce
01. Semina il vento e raccogli tempeste [Marco Oliveri]
02. Mary Rose [Andrea Oliveri]
03. Fuorilegge [Andrea Oliveri]
04. Dacci oggi il nostro guaio quotidiano [Marco Oliveri]
05. Lenta morte di un soldato [Marco Oliveri]
06. Ohi me mì [Andrea Oliveri]
07. Sette lunghi anni [Marco Oliveri]
08. Waltzeranti stanchi [Andrea Oliveri]
Versione live 2010 al Circolo Italo Calvino a Loano
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