venerdì 5 giugno 2015

Le suggestioni emo e new-wave dei (re)offender





Arrivano da Frosinone e sono al loro terzo Ep. I (re)offender, dopo la partecipazione al MEI di Faenza in qualità di vincitori del concorso indetto dall'etichetta PofiRock, sono tornati alla ribalta con cinque canzoni dalle suggestioni new-wave inserite nell'Ep eponimo che arriva dopo il primo esperimento discografico del 2012 e "The pouring rain" dell'anno successivo. Influenze post-rock, shoegaze e sfumature emo sono alla base della musica di questo sestetto formato da Luca Magliocchetti (voce), Marcello Iannotta (chitarra), Giacomo Tiberia (chitarra), Matteo Nizzardo (synth), Ilario Promutico (basso), Luciano Cocco (batteria). I testi in inglese sono visionari e immaginifici mentre la musica, decisa e vitale, lascia un retrogusto amaro e malinconico ma mai opprimente. Chitarre e synth trovano il giusto contraltare in un basso vigoroso e una batteria che batte forte e potente. Cinque brani molto curati e gradevoli, dalle atmosfere a volte cupe ed altre volte solari, compongono l'Ep registrato, mixato e masterizzato nell'estate del 2014 da Paolo Rossi, già al lavoro con Soviet Soviet, Be Forest e molti altri allo Studio Waves di Pesaro.
A presentarci il nuovo lavoro discografico firmato con l'etichetta ferrarese New Model Label e a parlare del futuro sono i (re)offender al gran completo nell'intervista che segue.



Chi sono i (re)offender? 

Ilario Promutico: «Siamo sei persone molto diverse che provano a fare canzoni insieme, cercando di superare attriti, gusti individuali, differenze di età e limiti imposti dalla difficile collocazione geografica».

Da dove deriva il vostro nome e quando avete iniziato?

Marcello Iannotta: «È il titolo di una canzone dei Travis. Ci ha affascinato il concetto di re-iterazione della colpa, se "offender" è il colpevole, "(re)offender" è il recidivo, che continua a commettere errori».
Giacomo Tiberia: «Spesso le persone si affezionano così tanto ai propri errori da non riuscire a smettere di commetterli».
Matteo Nizzardo: «L'essere recidivo è un meccanismo totalmente irrazionale, esattamente come dovrebbe essere il meccanismo che sta alla base della creazione musicale».
Luca Magliocchetti: «Il nostro nome è spesso oggetto di critica; Alessandro Baronciani ci suggerì che sarebbe stato meglio piuttosto chiamarci Golia!».
Giacomo Tiberia: «Esistiamo dal 2011, la nostra base operativa è sempre stata Frosinone, anche se abbiamo registrato i nostri Ep anche a Roma e Pesaro».

La musica per voi è un passatempo oppure pensate di guadagnarvi da vivere suonando? 

Giacomo Tiberia: «Benché oggi in Italia sia difficile riuscire a vivere di musica, ce la stiamo mettendo tutta perché diventi un lavoro».
Luca Magliocchetti: «Pur essendo ancora un passatempo, ci permette di sognare ma non di aspettare».
Matteo Nizzardo: «Il tempo passa anche da solo: è questa la tragedia».

Dopo tre anni di concerti e la partecipazione al Mei nel 2013 perché avete deciso di fissare la vostra musica in un Ep?

Luca Magliocchetti: «Perché volevo fosse qualcosa da tenere in mano e custodire».
Giacomo Tiberia: «Perché ogni Ep è come se fosse stato una fotografia di ciò che eravamo in quel momento».
Matteo Nizzardo: «Perché i concerti sono delle performance e in nessuna performance c'è il concetto dell'arte; quello di solito si trova nei manifesti e, per la musica, si trova nei dischi».
Marcello Iannotta: «Matteo da grande vuole fare l'intellettuale».

Cinque canzoni per dire cosa?

Marcello Iannotta: «"Down for a while" per dire che ogni crisi è un momento di crescita
importante».
Giacomo Tiberia: «"Fool time baby" perché avevamo un grande riff! E la convinzione che c'è sempre spazio per un brano rock».
Ilario Promutico: «"Crumble and fall" perché hai sempre tempo anche se pensi che sia troppo tardi».
Marcello Iannotta: «"Nobody else" perché nessuno conosce veramente nessuno, se non conosce se stesso».
Matteo Nizzardo: «"Meeting of feelings" perché quiete e agitazione sono i due stati correlati di ogni emozione».

Per quanto tempo siete stati assieme a scrivere canzoni?

Marcello Iannotta: «Tanto. Cerchiamo di stare insieme per scriverle e di scriverle per stare insieme».
Giacomo Tiberia: «Frasi ad effetto a parte, secondo noi la differenza tra un gruppo vero e un gruppo di persone che si unisce a fare musica per un altro motivo qualsiasi sta proprio nella quantità di tempo trascorso a scrivere canzoni».
Ilario Promutico e Luciano Cocco: «Oggi le nostre modalità sono cambiate, abbiamo aggiunto anche del lavoro separati, in numeri ristretti di due o tre in sala o anche da soli a casa. Per poi tornare a lavorare tanto tempo sull'arrangiamento tutti insieme».

Chi scrive i testi?

Marcello Iannotta: «Luca, e li canta anche. E spesso con i fogli ci fa di tutto. In alcuni casi la genesi è precedente alla composizione della musica, in altri avviene in parallelo».

Che tipo di strumentazione avete usato per registrare queste canzoni? 

Ilario Promutico: «Due chitarre, un synth, basso e batteria. Spesso per lavorare sulle atmosfere dei brani abbiamo utilizzato effetti analogici e digitali. Adesso stiamo cercando di sperimentare e di interagire anche con l'elettronica».

Mi piace molto "Meeting of feelings", com'è nata e cosa racconta?

Luca Magliocchetti: «È nata per caso, era inverno. Racconta la meraviglia che si prova di fronte all'amore, anche quando porta solo sofferenza».
Ilario Promutico: «Inizialmente non avrebbe dovuto essere un brano su cui puntare i riflettori; invece considerato l'inaspettato risultato finale, unito all'idea di uno storyboard particolarmente azzeccato, abbiamo pensato di realizzare anche un videoclip e si è trasformato nel singolo apripista dell'Ep».

Avete lasciato qualche brano nel cassetto?

Luca Magliocchetti: «Sì. Abbiamo decine di brani esclusi».
Marcello Iannotta: «Lavoriamo su tante canzoni in parallelo, spesso fondendole tra loro; a volte il risultato di un brano completo è una sorta di collage».
Giacomo Tiberia: «Alcune canzoni non erano ancora mature, altre le abbiamo in serbo per un prossimo futuro».

Il passo successivo è un album, quando pensate di inciderlo?

Luca Magliocchetti: «Facendo i debiti scongiuri, contiamo di entrare in studio entro la fine dell'anno».

Cosa deve avere una canzone per poter entrare a far parte di un vostro disco? 

Ilario Promutico: «Innanzitutto non deve essere solo un 'tentativo' di canzone, deve passare al vaglio del tempo. Al di là dell'estemporaneità dell'ispirazione melodica/armonica, deve avere una struttura ed una forma convincenti ed originali, aderenti al concetto artistico che portiamo avanti».
Matteo Nizzardo: «Devo sentirla come irriducibilmente mia, coerente con tutto quello che voglio e che ancora non ho».
Marcello Iannotta: «Deve essere un tassello fondamentale di un quadro d'insieme».
Giacomo Tiberia: «Deve darmi l'idea che il mondo finisca domani».
Luca Magliocchetti: «Deve emozionarmi e convincermi in cuffia di notte».

Chi prende le decisioni e quali sono le dinamiche all'interno del gruppo?

Marcello Iannotta: «Non c'è una vera e propria leadership, cerchiamo di essere autenticamente democratici; ogni volta ci affidiamo a chi ha più esperienza e competenza nel contesto specifico della decisione da prendere».
Giacomo Tiberia: «Per far sì che le nostre discussioni approdino a qualcosa di costruttivo e soprattutto concreto, abbiamo istituito una regola: non iniziare le frasi con "se". Altrimenti le nostre discussioni assomiglierebbero troppo ad una seduta di psicanalisi collettiva!».

Quali musicisti hanno influenzato la vostra musica?

Luca Magliocchetti: «I Suede e i Placebo a cena da Thom Yorke, che quella sera ha ordinato cinese perché non aveva voglia di cucinare».
Giacomo Tiberia: «Gli Smiths, la componente anglosassone è forte nella nostra musica. In generale ci ha influenzato la gran parte dei gruppi shoegaze di casa Creation e non solo: i Ride, i My Bloody Valentine, i Whipping Boy».
Marcello Iannotta: «Sicuramente le band emo americane dei primi anni '90, su tutti Sunny Day Real Estate e i più recenti Pinback. Per quanto riguardo le chitarre anche alcune band indie americane come i Built to Spill e gli Spoon. Ci piacciono in generale le band più sfortunate».
Matteo Nizzardo: «I Death Cab for Cutie. In particolare per il synth; le chitarre dei Low e poi personalmente adoro Justin Bieber. Avrò visto un milione di volte il video in cui vomita sul palco».


Titolo: (re)offender
Gruppo: (re)offender
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi Luca Magliocchetti, Ilario Promutico, Giacomo Tiberia, Marcello Iannotta, Matteo Nizzardo, Luciano Cocco)

01. Down for a while
02. Fool time baby
03. Crumble and fall
04. Nobody else
05. Meeting of feelings



giovedì 21 maggio 2015

I "nuovi" Üstmamò cantano il "Duty free rockets"




"Duty free rockets" segna il ritorno degli Üstmamò. Una reunion al 50% dopo tredici anni di assenza dalle scene musicali. Della band che tanto aveva fatto parlare di sé negli anni '90 sono rimasti Luca Alfonso Rossi e Simone Filippi che ha partecipato alla stesura dei testi. Non c'è più la cantante Mara Redeghieri che si dedica all'insegnamento a tempo ed è impegnata in progetti di studio, recupero e diffusione di brani della tradizione popolare mentre Ezio Bonicelli figura tra gli ospiti del disco. Entrambi hanno però appoggiato il progetto e spronato Rossi a iniziare questa nuova avventura. Inevitabile che due assenze così importanti abbiamo condizionato profondamente il suono e la musica dei nuovi Üstmamò. "Duty free rockets" è molto distante dalla produzione precedente del gruppo. Niente trip-hop, nessuna mescolanza di generi o traccia di elettronica, ma tante chitarre acustiche, slide ed elettriche a creare un tappeto sonoro compatto. Un guitar album, registrato alla svelta con due microfoni a valvole e un Ribbon su computer senza editing invadente, le cui tracce guardano oltre oceano, alla produzione rock americana, al blues di J.J. Cale, al country più cupo. E in queste atmosfere si colloca alla perfezione la voce sussurrata e malinconica di Luca A. Rossi. Un disco piacevole, ben scritto, a tratti sorprendente, con testi scritti unicamente in inglese, che segna il gradito ritorno sulle scene di una parte degli Üstmamò e il futuro è ancora tutto da scrivere.
A parlarci del ritorno e della rinascita degli Üstmamò è Luca A. Rossi nell'intervista che segue. 
 



Luca, perché avete deciso di tornare a incidere un disco dopo oltre dieci anni dallo scioglimento del gruppo?

«Perché avevo un sacco di idee e musiche, giri di chitarra, ma specialmente voglia di suonare alla vecchia maniera garage».

Cosa rispondi ai maligni che potrebbero pensare che sia solo una operazione nostalgica?

«I maligni, essendo tali, non si accontentano di una risposta sincera. In ogni modo, se fosse una operazione nostalgica andremmo in giro a suonare le nostre canzoni di venti anni fa. Se i maligni ascoltassero "Duty free rockets" capirebbero che di nostalgico c'è ben poco… lo capirebbero senza bisogno di spiegazioni».

In dieci anni cosa è cambiato nella tua visione del gruppo e della tua musica?

«Non è cambiata solo la mia visione ma il gruppo stesso, siamo rimasti in due e lavoriamo per quattro; questo in studio è anche molto divertente perché ci piace suonare vari strumenti ma dal vivo saremo in quattro: io, Simone Filippi, Mirko Zanni e Mauro Zobbi. La visione della mia musica parte dalle mani e dalle orecchie più che dagli occhi ed è cambiata. Cerco di fare delle cose molto semplici, non mi piacciono gli assolo complessi, ho riascoltato gente come Skip James, J.J. Cale, Elvis, un sacco di cose anni '50 e non mi piacciono molto i dischi che suonano plastificati, che spesso mi sembrano tutti uguali, come le voci trattate con "plug-in" di intonazione, il mio cervello e il mio orecchio le rifiutano, insomma preferisco le piccole imperfezioni delle voci e degli strumenti, siamo uomini, grazie a Dio vivi, con i nostri  difetti e le nostre differenze. In generale più lavoro su una cosa e meno mi piace».

Qual è il messaggio che vuoi trasmettere con le canzoni del nuovo disco?

«Nessun messaggio, ho provato a scrivere testi in italiano ed era evidente che i significati massacrassero la musica, non andava e non mi piaceva. Con l'inglese è stato più naturale e sono nate delle brevi storie. In "I play my chords" descrivo il momento preciso in cui ho composto la canzone, quello che succedeva, da dove arrivava. "Joy" parla di uno che alza gli occhi al cielo e chiede un po' di gioia per lui e gli altri, è la mia preferita. "Duty free rockets" è la storia vera di un gruppo di soldati americani, saltati su una mina anticarro in un'imboscata, da qualche parte in Afghanistan, tutti feriti in modo più o meno grave. Aspettando gli aiuti, a terra, nella polvere e tra le raffiche, uno di loro stava morendo, delirava e diceva frasi scollegate e senza senso. Un suo compagno sopravvissuto ha riportato, in seguito durante un'intervista a un quotidiano, alcune di queste frasi che ho ripreso e utilizzato nel testo. Sono le ultime parole di un soldato che crepa, esploso, nella polvere. Altre parole le ho rubate dalla battaglia di Geonosis di Guerre Stellari. "Tha last trap" parla di guerre sante e il testo è più che eloquente. Sono tutte brevi storie».

Degli Üstmamò degli anni '90 siete rimasti in due. La cantante Mara Redeghieri non vi ha seguito in questa nuova avventura e Ezio Bonicelli ha dato un contributo limitato. Cosa cambia ora nelle dinamiche e nella visione del gruppo?

«In due si lavora bene e ci si mette sempre d'accordo, ovvio che devi lavorare il doppio. Tre è il numero perfetto, dicono… In quattro rimanere insieme più di dieci anni è già una gran cosa. Quindi cambia tutto costantemente, di sicuro i vecchi quattro Üst non avrebbero fatto un disco chiamato "Duty free rockets", con questo immaginario e cantato in inglese».

Gli Ustmamò non sono più una "ghenga" ma tu sei ancora il capo…

«Per forza. A parte gli scherzi, se fossi ancora il capo avrei recuperato tutti e quattro gli Üst…».

La novità più grande è che hai preso il microfono in mano e sei diventato il cantante degli Ustmamò. Scelta obbligata o aspirazione che trova finalmente realizzazione?

«Realizzazione no di sicuro. Appurato che Mara non avrebbe cantato, era evidente che toccava a me. Non mi piace cantare, sono un musicista e mentre facciamo le prove per i concerti non riesco mai ad attaccare con la voce… aspetto sempre e penso ‹ma quando cazzo entra sta voce!?›. Poi rinvengo e attacco. È stato divertente comporre le canzoni chitarra e voce in una legnaia che suonava benissimo, registravo sul telefonino dei provini per memorizzare ed erano fantastici, suonavano anni '50. Bello anche in studio, durante le registrazioni, mi diverto con compressioni ed echi. In ogni caso mi auguro che il prossimo disco lo cantino Mara o Simone che con la voce è fortissimo».

Come e dove si collocano gli Üstmamò nel 2015?

«Non ne ho la più pallida idea. Vorrei solo collocare dei concerti, con Simone alla batteria e alla voce, io voce e chitarra, Mirko Zanni alla chitarra e Mauro Zobbi al basso. In stile blues sporco, reggae roots, old school».

Giovanni Lindo Ferretti ha espresso parole d'elogio per il tuo nuovo progetto: <Da tre settimane ascolto il disco di Luca, mi ha fatto innervosire molto per l'uso dell'inglese, un po' perché non c'è la voce di Mara, poi sorridere perché mi sto abituando alla sua voce. E sono contento per Luca e le sue canzoni cominciano a farmi compagnia…>.

«Ho realizzato il disco anche con l'intento sincero di fare compagnia a qualche mio amico e sono contento che abbia funzionato con Gio e altri, anche Ezio Bonicelli si è fatto parecchi viaggi in auto con "Duty free rockets". Con Giovanni abbiamo parlato dei testi in inglese, stava per massacrarmi poi ha capito che in italiano non avrei mai concluso e si è rassegnato all'idea, credo».

Nel disco compaiono anche due cover: una di J.J. Cale e l'altra è un classico r'n'r. Perché hai fatto questa scelta?

«In effetti  avrei potuto sceglierne altre tremila. "Don't go to strangers" di J.J. Cale l'ascoltavo a 12/13 anni e cercavo di strimpellarla. Casualmente l'ho riascoltata a 47 anni e impulsivamente l'ho registrata in due o tre ore. Fine. "Hambone" uguale, mi piacciono perché sono fatte di tre accordi e una settima, una linea melodica semplice, un riff di chitarra».

Viviamo nel 2015 ma mi pare di capire che il tuo sguardo musicale sia puntato su riferimenti del passato. Mi sbaglio?

«Adesso sì, riferimenti che suonano vecchi, il mio cervello li riconosce e li digerisce meglio. Meno pressione sonora e più aria che si muove. Ogni tanto faccio finta di vivere nel passato. Dipende dal cd che ho sulla Jeep».

L'immagine di copertina fa pensare a una guerra, a esplosioni…

«Sì, anche la realtà spesso fa pensare a una guerra. "Duty free rockets" per una parte è una zona franca da missili e razzi, dove si può stare al riparo, sicuri. Per l'altra parte è una zona franca dove missili e razzi possono essere venduti e comprati in grande quantità, con facilità a basso prezzo e senza dazi. In mezzo è guerra feroce tra le due parti».

Chiudi il disco con due canzoni in cui è protagonista il vento. Cosa rappresenta per te questo elemento naturale?

«Abito in un posto che si chiama La Bora e non è un caso, quando il vento vuole, sa fare male. Esasperato, dopo una settimana di raffiche violente, fredde e rumorose ho messo fuori dalla porta un Marshall valvolare a manetta cercando di sovrastare il suo suono e la sua potenza. Ha vinto lui, sembrava dire ‹tu sparisci!› e questa è la storia della canzone. Il vento rappresenta la forza e la potenza della natura e mi ricorda che non sono niente di molto importane e duraturo. Una foglia».

Trovo che il disco sia molto genuino e trasmetta naturalezza. Non c'è nulla di forzato. Lo è stato anche il processo creativo?

«Sì, il processo creativo è la cosa che ha funzionato meglio, e quando comincia funziona come un orticello, va bagnato e lavorato un po' tutti giorni e se la terra non fa proprio schifo nasce qualcosa. È la cosa che mi piace fare di più. La registrazione della canzone equivale  al congelamento del raccolto».



Titolo: Duty free rockets
Gruppo: Üstmamò
Etichetta: Primigenia Produzioni / Gutenberg Music
Anno di pubblicazione: 2015


Tracce
(musiche e testi di Luca A. Rossi, eccetto dove diversamente indicato)

01. I play my chords
02. Done
03. Don't go to strangers  [J.J. Cale]
04. Joy
05. Hambone  [Carl Perkins, Wayne P. Walker]
06. The last trap
07. Duty free rockets
08. I want to tell you
09. Sad king
10. Wha wha wind
11. When the wind talks to me


 

martedì 12 maggio 2015

Per Luca Casali e la Roots Band è "Time to smile"





Un viaggio in Australia e Nuova Zelanda ti può cambiare la vita. Lo ha capito anche il cantautore riminese Luca Casali che in Oceania non ha fatto solo il turista ma ci ha vissuto per un po' di anni durante i quali ha preso confidenza con l'ambiente e la natura, ha conosciuto luoghi e persone e si è innamorato della musica australiana di Xavier Rudd e John Butler. Tornato a casa, nella riviera romagnola, Casali si è inserito nella scena musicale locale stringendo collaborazioni con diversi artisti e nel 2013, insieme alla The Roots Band composta da Eros Rambaldi e Stefano Cristofanelli, ha iniziato le registrazioni, al Teatro Corte di Coriano, delle canzoni del suo primo album, "Time to smile", che ha visto la luce l'anno seguente. Dagli anni passati in Australia Casali ha portato con sé atmosfere, esperienze, paesaggi e l'amore per la chitarra Weissenborn, strumento caratterizzato da una cassa piccola ma con il manico quadrato vuoto e dotato di una voce melodiosa ed evocativa.
Il tutto è andato a comporre i nove brani inediti, tutti suonati con strumentazione acustica, che fanno viaggiare l'ascoltatore verso luoghi lontani, a contatto diretto con la natura. Canzoni che per atmosfere fanno pensare a nottate passate a suonare davanti a un falò, magari in riva all'oceano, con amici in un clima di serenità.
Nel disco brani energici dalle influenze rock e blues si alternano a ballate più intime e introspettive. Anche i testi scritti da Casali fanno parte di un percorso che prende il via dalla descrizione dell'ipocrisia della società e dei suoi sistemi per poi arrivare a una visione più distesa e in pace con il mondo, in attesa di una nuova primavera.
Luca Casali è il protagonista dell'intervista che segue.




Luca, il tuo disco si intitola "Time to smile" ma sei proprio sicuro che sia tempo di sorridere?

«"Time to smile" vuole regalare una visione positiva per il prossimo futuro, vuole essere un traino per tirarci fuori da questo periodo di staticità sociale. Personalmente il titolo del disco si riferisce anche ad un cambio decisivo di direzione della mia vita».

Prima di pubblicare il tuo album d'esordio hai passato diversi anni in Australia e Nuova Zelanda. Cosa ti ha lasciato questa esperienza nella tua visione della vita e della musica?

«Gli anni trascorsi in quelle terre così lontane ed affascinanti mi hanno decisamente segnato e cambiato in maniera radicale. Mi hanno fatto prendere pienamente coscienza di me stesso e di quello che sto cercando. Non solo i luoghi ma anche le persone e le diverse culture con cui ho avuto contatto. È come aver avuto la possibilità di guardare la mia vita ed il mio percorso dall'esterno, un privilegio unico. La musica è la risultante di tutto ciò, la manifestazione esteriore, pubblica».

Dal momento che hai vissuto in quella terra lontana e così affascinante mi viene da chiederti se ti senti più in sintonia con la musica di Xavier Rudd o con quella di Nick Cave?

«Mi sento più in linea con la musica e le sonorità di Rudd, sia per i testi che per l'uso della chitarra Weissenborn. Inoltre le tematiche affrontate da Rudd, quali il legame con la terra, la tutela e la salvaguardia dell'ambiente e la ricerca di una visione positiva del mondo, sono idee che condivido pienamente, in parte anche nei miei brani. Cave, pur essendo un artista indiscusso ha sonorità più cupe e grottesche, affronta tematiche diverse quali il ruolo del divino nella vita dell'uomo descrivendo l'angoscia esistenziale e l'amore perduto. Quindi pur provenienti dalle stesse terre mostrano peculiarità, a mio avviso, molto diverse».

Se non avessi vissuto in Australia la tua musica cosa sarebbe ora?

«Devo molto a quella esperienze e così anche la mia musica. Quegli anni mi hanno aiutato inconsapevolmente a maturare anche dal punto di vista artistico. Senza, forse, non saremmo qui a parlare di "Time to smile"».

Le canzoni del disco portano lontano ma puntano forse più verso un certo folk-blues americano. Mi sbaglio?

«Hai ragione, la matrice fondamentale rimane quella del folk-blues americano ma con l'utilizzo delle percussioni e del contrabbasso il sentiero prende una via diversa, direzione emisfero sud. Quindi le sonorità si addolciscono e diventano più ritmate».

Ascoltando il disco nella sua interezza sembra di percorrere una strada che da ripida e difficile, canzone dopo canzone, diventa più agevole fino a "Spring time" che chiude il tuo lavoro…

«Si parte descrivendo l'ipocrisia della società e dei suoi sistemi, la necessità vitale di un respiro diverso, la ricerca e l'intreccio con la natura più selvaggia, per poi passare e trasformare l'energia in immagini più distese come in un tacito accordo raggiunto con il mondo. Esattamente un personale percorso che si rispecchia anche nella musica».

In questo progetto sei accompagnato dalla Roots Band. Ce la presenti?

«Eros Rambaldi suona il contrabbasso ed è un bravissimo musicista che ha dato un notevole valore aggiunto ai brani grazie alle sue capacità e intuizioni musicali. Stefano Cristofanelli è un percussionista eclettico che riesce a trasmettere ai suoi strumenti musicali la sua passione per la musica».

Perché hai scelto di scrivere in inglese e soprattutto perché non hai allegato al cd un libretto con i testi?

«La scelta della lingua inglese e stata dettata dal luogo dove questi brani sono nati o comunque si sono ispirati, quindi mi sembrava coerente usare questa lingua. Secondariamente, forse, il genere musicale si sposa meglio con la lingua inglese, ma questo non esclude la possibilità che ci possano essere successivi lavori in italiano. Per quanto riguarda il libretto posso dire che non è stato allegato per questioni tecniche. Ci sarebbe voluto un po' più di tempo ed era troppa la voglia di far uscire il disco prima possibile».

Non credi che la scelta di usare essenzialmente strumenti acustici possa in qualche modo limitare le tue possibilità espressive?

«È vero, in qualche modo gli strumenti acustici possono limitare le scelte sonore ma questo disco è nato così, cantato sulla sabbia, in spiaggia, magari davanti ad un falò e sono queste le sonorità e le immagini che volevamo trasmettere».

Penso che ci siate riusciti molto bene. Tra gli strumenti usati spicca la chitarra Weissenborn, uno strumento dal suono melodioso che conosciamo bene per averla vista suonare anche da Ben Harper. Dove l'hai scovata e cosa ti dà questa chitarra?

«La Weissenborn è uno strumento davvero unico ed ancora una volta devo la sua scoperta al mio girovagare per il continente australe dove ho avuto modo di conoscere musicalmente non solo Rudd ma tanti altri artisti minori, buskers di festival locali. È uno strumento molto espressivo, volubile e in grado di trasmettere le emozioni di chi lo suona».

Dall'Australia hai portato con te anche il suono del didjeridoo che devo confessarti è uno strumento che mi affascina…

«Il didj anche se suonato a fiato viene considerato una percussione e si sposa benissimo sia con ambienti sonori acustici che elettronici! Nato dalla tradizione aborigena richiama all'orecchio i suoni e i colori della terra ancestrale».

Secondo te a cosa serve una canzone?

«Una canzone serve a trasmettere emozioni, immagini ed esperienze di vissuti, può far star bene, può incuriosire, deve emozionare e comunque sia darti carica e tempo per andare avanti e riflettere qualunque cosa tu stia facendo nella vita».

Quali sono gli ascolti che hanno maggiormente influenzato l'album?

«Xavier Rudd, John Butler, Eddie Vedder, Tommy Emmanuel, Nick Drake, Pearl Jam, Damien Rice e ce ne sarebbero tanti altri».

Come artista dove ti vedi tra dieci anni?

«È difficile dirlo, la strada del musicista come altre, non è semplice; è fatta di passioni, delusioni, salite e rapide discese. Tra dieci anni suonerò sicuramente, magari con qualche sogno in più nel cassetto realizzato».


Titolo: Time to smile
Artista: Luca Casali & The Roots Band
Etichetta: autoproduzione / New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi di Luca Casali)

01. True song
02. Over the sea
03. Like a breath
04. Found out the way
05. Time to smile
06. And nothing more
07. Siren
08. Without shoes
09. Spring time


lunedì 4 maggio 2015

I "Pensieri verticali" del cantautore Stefano Barotti






Non c'è fretta quando si è alla ricerca della qualità. Lo sa bene Stefano Barotti, tornato discograficamente a far parlare di sé dopo un lungo periodo di assenza. Sette anni in cui il cantautore toscano ha suonato molto dal vivo, ha collaborato con altri artisti, ha composto e registrato le canzoni di "Pensieri verticali", terzo disco della sua carriera. Un importante passo verso una decisa maturità artistica capace di unire il meglio del cantautorato della tradizione italiana con una importante iniezione vitaminizzante di rock, blues e americana.
L'esperienza maturata da Barotti alla corte di Jono Manson (ospite nel brano di apertura), in occasione dei due precedenti capitoli discografici, è servita a creare quel fertile substrato su cui si è andato a innestare felicemente il lavoro con il produttore Raffaele Abbate della OrangeHome Records. Un rapporto di collaborazione che ha trovato il giusto feeling e che ha regalato agli ascoltatori un disco ricco di sfumature, in cui viene valorizzata al meglio la capacità compositiva dell'autore. I brani sono piccole gemme che raccontano emozioni, stati d'animo e cose del vivere comune attraverso una scrittura non complessa. Ballad folk-rock lasciano il passo a brani di matrice pop ("L'uomo armadillo"), a divagazioni blues ("Blues del cuoco"), a incursioni dylaniane ("Nerone"), fino all'esplorazione dei territori della west coast ("Cuore danzante/Sulla pietra del pane sfidando il drago con la spada di San Giorgio") in cui la resofonica di Max De Bernardi regala atmosfere suggestive.
Oltre a Manson e De Bernardi, sono tanti gli ospiti che hanno contribuito alla realizzazione di questo progetto che si colloca tra i più belli e interessanti degli ultimi mesi. Tra questi Paolo Bonfanti con il suo inimitabile tocco chitarristico, John Egenes, Kreg Viesselman ed Henry Carpaneto. A creare una solida base musicale ci hanno pensato Vittorio Alinari (flauto e clarino), Nico Pistolesi (pianoforte e organo Hammond), Luca Silvestri e Matteo Giannetti (basso), Vladimiro Carboni (batteria), Luca D'Alberto (archi) e lo stesso Raffaele Abbate (percussioni e pianoforte).
A presentarci il disco è Stefano Barotti nell'intervista che segue.





Battere il ferro finché è caldo non è un motto che ti si addice. Dal tuo ultimo album sono passati sette anni. Non pensi che nella frenetica società di oggi aspettare così a lungo possa essere controproducente?

«Discograficamente parlando, di caldo in Italia ci sono solo le spiagge estive di Rimini. Questo per dire che non c'è una realtà discografica vera nel nostro paese. A meno che tu non sia un nome e allora ogni anno devi far uscire qualcosa di nuovo, farti un giro a Sanremo o ancora meglio far uscire la tua discografia su "TV Sorrisi e Canzoni" per mantenere caldo il ferro, come dici tu. Anche quando da battere c'è rimasto ben poco. Parlando della società che citi, proprio perché frenetica non credo si siano accorti dell’assenza di Barotti. Proprio perché tutto è così frenetico.
Detto questo, mi sono preso del tempo. Volevo voltare pagina e lavorare al nuovo disco in modo diverso rispetto al passato. Sono passati sette anni ma due li ho passati a produrre "Pensieri verticali". Dopo "Gli ospiti" del 2007 mi sono dedicato alle canzoni, a mettermi in discussione artisticamente e a cambiare direzione».

Cosa hai fatto in tutti questi anni?

«Tanti concerti, collaborazioni. Ho scritto un musical con Roberto Ortolan, amico e chitarrista eccezionale. Diciotto canzoni a tema che raccontano una storia, che spero prima o poi vedrà la luce in teatro grazie ad una produzione. Ho studiato e scritto nuove canzoni. Per fare un disco devi averne almeno venti buone per sceglierne una decina da inserire in un nuovo lavoro».

Quali sono i "Pensieri verticali" che più ti ossessionano?

«In realtà il pensiero verticale non ossessiona. Anzi incuriosisce, innamora. Alla base credo ci siano le "radici e le ali" come cantava qualcuno. Essere curiosi del nuovo mantenendo una buona integrità. Certamente ci sono pensieri più affilati, taglienti come per esempio quelli dettati dal rimpianto, questi tendono ad alzarsi un po' troppo in piedi. In questi casi credo sia importante che uno spermatozoo di pensiero non diventi un Gulliver».

Gli artisti hanno sempre una buona dose di follia in qualche angolo nascosto… Tu come ti senti?

«La mia dose di follia è decisamente implosa. Non amo i merletti e i cappelli e nemmeno i gesti ad effetto. Ho il mio clandestino a bordo che a volte affiora e mi porta altrove. Da ragazzo la prerogativa era quella di non essere uno dei tanti, crescendo sono cambiate molte cose. Credo comunque che avere una vita piena di segnalibri, di canzoni, sia già una forma di follia. Così come raccontare la propria vita a perfetti sconosciuti tutte le sere cantandogliela. Se ci pensi è da incoscienti. Anche se poi le canzoni diventano degli altri, ma questa è un'altra storia».

I tuoi primi due album sono stati prodotti da Jono Manson, "Pensieri verticali" da Raffaele Abbate. Cosa è cambiato nel tuo modo di lavorare e quali sono le differenze di approccio tra i due?

«Jono è un produttore molto "Live". Segue molto l'istinto e tifa per il 2 + 2 fa 4. È molto pratico. Mi ha sempre ricordato quei capi mastro nei cantieri edili che fanno un mazzo così a geometri e architetti. Abbate è più sornione, strategico. Lavora come gioca uno scacchista. Tende a ripulire il suono, lascia poco al caso, e fa si che una sua scelta diventi anche la tua. Ho scelto lui perché appartiene alla "vecchia scuola". Un po' come me. Una canzone deve stare in piedi chitarra e voce, allora puoi cercarle un buon vestito, e il buon vestito può voler dire lasciarla nuda. Il mio modo di lavorare è cambiato molto. La lunga pausa tra i miei ultimi due lavori è stato un mettere a fuoco tutto il percorso. I due dischi americani con Jono, la nuove prospettive e intenzioni musicali. Mettendo me e chi lavora con me a disposizione delle canzoni e non il contrario».

Jono Manson resta comunque figura importante avendo partecipato con voce e chitarra in "L'uomo armadillo", canzone che apre il disco…

«Jono è stato e sarà sempre una figura importante per il mio lavoro. Con lui ormai c'è un'amicizia forte che dura da più di dieci anni. Ci tenevo partecipasse al disco, che ci fosse, nonostante io abbia scelto altre strade rispetto al New Mexico. Ne "L'uomo armadillo" ci sono alcune linee in inglese e con Raffaele Abbate abbiamo pensato di farle cantare a Jono. Tra l'altro l'uomo armadillo è un amico comune. Quindi, un piccolo cerchio che si chiude».

"In soli sei minuti so cambiare il mondo", partendo da cosa?

«Questa linea è rubacchiata. Chiedendo ad un'amica come stava dopo alcuni avvenimenti spiacevoli mi rispose: ‹tranquillo, tra sei minuti mi è passato tutto›. Mi è piaciuto questo dare un tempo a un piccolo dolore per un dispiacere. La capacità di cambiare, sterzare nei momenti minori, e farlo addirittura in fretta credo sia da persone intelligenti. Esistono per tutti i giorni neri, dedicare solo sei minuti alla ripresa mi sembra un buon risultato».

Oltre a Manson hai potuto contare su altri ospiti di riguardo come Max De Bernardi - splendido il suo contributo con la resofonica in "Cuore danzante" -, Paolo Bonfanti e Kreg Viesselman. Cosa ci puoi dire di queste collaborazioni?

«Paolo Bonfanti ha sempre suonato nei miei dischi. Abbiamo diviso spesso il palco. Ad ogni disco Paolo mi torna in mente, perché d'istinto sento le sue chitarre in questa o quella canzone mentre il disco lo sto disegnando ancora. Sono convinto sia uno dei più grandi talenti della sei corde che abbiamo nel paese, e per questo possa giocarsela a testa alta anche all'estero. Max De Bernardi invece l'ho conosciuto solo qualche anno fa ad un festival. Lui è veramente illuminato. Suona sempre quel che non ti aspetti. La sua resofonica in "Cuore danzante" mi dà ancora sorprese nonostante l'abbia ascoltata centinaia di volte. Kreg Viesselman l'ho conosciuto nel 2008. Abbiamo fatto un tour insieme in Italia. Siamo legati da una profonda amicizia, nonostante il mio pessimo inglese e il suo poco italiano. Due anni fa è capitato di suonare ancora insieme mentre registravo "Pensieri verticali", in quei giorni l'ho invitato a partecipare ai cori di "Nerone"».

In "Giudizio non ho" canti in maniera ironica il tuo personale rapporto con tua madre. ‹Ieri ho rivisto mia madre e mi ha detto che non era il caso che a suon di cantare e scrivere mi crescerà il naso› è una delle strofe della canzone che mi porta a chiederti come la musica sia entrata nella tua famiglia…

«Mio padre era un buon chitarrista, adesso non suona da anni ma negli anni '60 con la sua band impazzava sulla costa versiliese. A mia madre piaceva cantare, e spesso da ragazza si impadroniva di qualche microfono quando qualcuno suonava nei locali di Forte Dei Marmi. Si sono conosciuti praticamente su un palco. Quindi non poteva andare altrimenti con me».

Ho notato che nei tuoi testi hai focalizzato la tua attenzione sulle piccole cose, sulla vita di tutti i giorni, sui sentimenti lasciando completamente da parte ogni riferimento all'attualità e alla politica. Sono argomenti che non ti interessano?

«Sono un individualista. Credo fermamente che l'unico modo per cambiare le cose in meglio sia quello di fare del proprio meglio. Quotidianamente. Sembra una frase retorica ma non è così. Per la situazione politica sono molto deluso e arrabbiato ma preferisco scrivere altro. Rincorrere altro. Magari cantare della vita faticosa dei cuochi, o che i poteri forti ci stanno rubando tutti i colori come fossero ladri di arcobaleni. Togliendoci la meraviglia, la speranza della voglia di fare. Sono un contadino, mi piacciono le sfumature e raccontare delle storie».

L'amore però è argomento che hai cantato in una romantica tetralogia stagionale. Qual è la tua stagione preferita e perché è giusto viverla?

«Mi piace cantare d'amore. E mi ha aiutato parecchio scriverne. Continuo a capirci poco. Ma rinchiudere un dolore, la fine di un amore in un foglio di carta mi ha aiutato a superare l'ostacolo. Riguardo le stagioni direi senz'altro la primavera, paragonata al sentimento Amore è quella più affascinante, quando il giorno e la luce cambiano. Sembra arrivare il caldo, ma c'è ancora brezza dopo il tramonto. Come quando ci si innamora di qualcuno, quando tutto è ancora platonico e il gioco deve ancora iniziare».

Il tuo amore e debito verso la musica americana lo paghi con "A cena con Drake". Cosa sarebbe la musica senza la poesia di Nick Drake?

«Non so pensare alla musica senza Nick Drake. Ricordo l'innamoramento con "Bryter layter", e poco dopo il rapimento con "Pink moon". Il suo primo disco l'ho ascoltato per ultimo. Ma l'ho tenuto in casa per anni senza ascoltarlo perché sapevo che dopo quello non ci sarebbe stato altro da ascoltare di Drake. Lui mi ha sempre fatto pensare all'acqua del fiume. Silenziosa, costretta dagli argini ma mai domata. Mai ferma, sempre in movimento. Il suo incalzare con indice e pollice sulle corde è ipnotizzante, non dà fiato, per poi cantarci sopra in modo così largo, affilato ma dolce. La sua musica, le sue canzoni saranno sempre avanti nel tempo. Nel disco gli ho fatto un omaggio di quaranta secondi. Era il minimo per chi ha cambiato la mia prospettiva musicale. Quando dissi ad Ernesto De Pascale che avevo scoperto Nick Drake mi disse ‹son cose che ti cambiano la vita› e il buon Ernesto aveva ragione in pieno».

Nei mesi spesi a registrare e a completare "Pensieri verticali" hai trovato il tempo di partecipare alla produzione del nuovo disco dei Gang. Come è andata?

«Coi Gang va sempre bene. Che sia il palco o uno studio con loro si respira sempre una bella energia. È stata una bella giornata di canzoni. Ho cantato alcune linee, facendo dei cori alla voce di Marino. È un onore partecipare al grande ritorno discografico dei fratelli Severini. Suonavo la loro "Bandito senza tempo" quando avevo vent'anni. Oggi avere il mio nome nel loro disco mi fa capire quanta strada ho fatto».

Spiegaci invece il progetto di abbinare le tue canzoni in veste acustica a vini Triple A...

«Da alcuni anni la Velier di Genova sostiene la mia musica. Tra i loro prodotti ci sono i vini naturali Triple A. Con Luca Gargano (uno dei titolari dell'azienda) abbiamo pensato una formula per rendere al meglio la nostra collaborazione. In pratica parliamo di house concert. Concerti in location private dove chi partecipa può assaggiare i vini Triple A e godersi il concerto pagando un biglietto/offerta. Sono due mondi molto vicini le canzoni e il vino. Specialmente in questo caso, dove sia io per la mia musica che i vignaioli e produttori di questi vini lavoriamo con curiosità e intenzione. Da artigiani. In modo "verticale" insomma».

Ora quanti anni dovremo spettare per avere tra le mani il quarto episodio della storia discografica di Stefano Barotti?

«L'idea è di tornare presto in studio. Ho diverse canzoni buone, e sicuramente questo "Pensieri verticali" ci farà lavorare al meglio per un disco futuro. Con Abbate abbiamo dovuto annusarci artisticamente e conoscerci durante le session. La prossima volta avremo il vento e l'esperienza dalla nostra. Anche un live mi piacerebbe. Con Vladimiro Carboni alla batteria e Luca Silvestri al basso abbiamo raggiunto una buona pasta di suono. Mi piacerebbe averne una testimonianza in un disco».




Titolo: Pensieri verticali
Artista: Stefano Barotti
Produzione artistica: Raffaele Abbate e Stefano Barotti
Etichetta: OrangeHome Records
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi di Stefano Barotti, eccetto dove diversamente indicato)


01. L'uomo armadillo
02. Blues del cuoco
03. La ragazza
04. Vorrei essere
05. Povero è l'amore
06. Giudizio non ho
07. Rose di ottobre
08. A cena con Drake
09. Nerone
10. Ogni cento parole
11. L'arcobaleno rubato
12. Cuore danzante
13. Sulla pietra del pane sfidando il drago con la spada di San Giorgio
14. Girasole  [Stefano Barotti / Carmelo Schininà]



venerdì 24 aprile 2015

I St. Mud Avenue e la musica blues degli anni '20





Arrivano da esperienze diverse e variegate ma hanno in comune l'amore per la buona musica e un pizzico di spregiudicatezza. Si tratta dei cinque musicisti che hanno dato vita al progetto St. Mud Avenue e che da poche settimane hanno pubblicato il loro disco d'esordio eponimo. Nata nel 2013 dall'incontro del chitarrista Stefano Ronchi, componente degli Almalibre di Zibba, e dell'armonicista Fabio "Kid" Bommarito, leader dei Kid Blues Combo, la band si è trasformata in un quintetto con gli ingressi di Flavia Barbacetto, già con il trio vocale torinese The Blue Dolls e con il gruppo fiorentino Swing in Blue, del violoncellista e compositore Stefano Cabrera, componente del Gnu Quartet, e del contrabbassista Pietro Martinelli. L'esordio live nella versione quintetto ha avuto luogo a giugno del 2014 in occasione della finale italiana dell'International Blues Challenge che ha visto i St. Mud Avenue conquistare il secondo posto nella competizione.
I St. Mud Avenue sono un gruppo molto speciale che è riuscito a far convivere footdrums, chitarre resofoniche, ritmi ipnotici tipici della tradizione stomp, armoniche, sonorità che rimandano alla musica degli anni '20 del Mississippi, con il violoncello e il contrabbasso. L'utilizzo di percussioni suonate con i piedi, l'uso di bancali di legno e valigie a mo' di grancasse, e la registrazione completamente analogica hanno permesso di rendere ancora più reale e credibile la musica presentata in questo cd. Accanto alla tradizione si muove veloce il violoncello che rappresenta la novità di questo interessante lavoro discografico. A influenzare maggiormente la band sono state le produzioni del re della chitarra ragtime Blind Blake, Mississippi John Hart, il padre del Texas blues Blind Lemon Jefferson, John Lee Hooker, l'ineguagliabile Robert Johnson, il maestro della armonica blues Slim Harpo.
I dodici brani del disco sono equamente divisi tra cover e canzoni originali scritte da Stefano Ronchi, già conosciuto dagli amanti del blues per il suo disco solista dal titolo "I'm ready".
A presentarci il progetto St. Mud Avenue sono lo stesso Ronchi e Fabio "Kid" Bommarito. 



Cinque musicisti liguri che hanno la bussola puntata verso il profondo sud degli Stati Uniti. Come è iniziato questo viaggio?

Bommarito: «Questo viaggio è iniziato parlando con Stefano del fatto che volevamo fare qualcosa di grezzo, sporco, "ignorante",  molto "Mississippi". Così abbiamo iniziato a buttare giù un po' di brani, riarrangiati in chiave elettrica con l'uso di un bancale al posto della stompbox, di una valigia usata al posto della cassa e di amplificatori per un suono bello grezzo e siamo andati avanti così per un po'. Nel frattempo a Stefano è venuto in mente di inserire, prima un contrabbasso e poi un violoncello e una seconda voce femminile. All'inizio ero un po' scettico sull'uso anche di questi strumenti nel progetto ma da subito la cosa ha preso una forma, un'identità, fino a divenire la full band con cui abbiamo registrato il disco, quindi con Pietro Martinelli, Stefano Cabrera e Flavia Barbacetto. Un viaggio che stiamo facendo insieme a ritroso nel tempo, alla ricerca di materiale sempre più vecchio da riarrangiare alla St. Mud».

Venite tutti da esperienze musicali in ambiti differenti ma cosa avete in comune che vi ha spinti a dare vita a questo progetto?

Bommarito: «Sicuramente in comune abbiamo una grande passione per la musica e un certo spirito di avventura, un pizzico di spregiudicatezza e… molta simpatia».

Chi di voi è stato il motore di tutto il progetto?

Bommarito: «Indiscutibilmente Stefano a cui è venuta l'idea e probabilmente, ascoltando il mio modo di suonare, il mio "paraculismo" da palcoscenico e la mia spregiudicatezza soprattutto col pubblico femminile, ha pensato che insieme potevamo fare tanto. Poi l'ingresso degli altri componenti ha portato un valore aggiunto elevatissimo e suonare con simili professionisti, almeno per me, è un onore e una scuola ogni giorno».

Stefano, sei chitarrista di Zibba e prima di questo disco hai esplorato i sentieri del blues con un album che ha riscosso grandi apprezzamenti da parte della critica. Con il progetto St. Mud Avenue vai ancora più a fondo nella tradizione rurale americana scrivendo sei dei dodici brani che compongono il disco… È oltreoceano il tuo Eden musicale?

Ronchi: «Per me il blues è il miglior modo per esprimermi musicalmente. Ovviamente nel tempo è cambiata la ricerca, l'interesse, l'approfondimento. Per questo il disco dei St. Mud è così diverso dal mio disco precedente. Fa tutto parte di un percorso personale, al quale si abbina una appassionante e appassionata ricerca storica e filologica».

Pensate che sia ancora attuale il blues rurale, lo stomp, il ragtime che presentate nel disco?

Ronchi: «Attuale è una parola grossa, piuttosto direi che va abbastanza di moda. Penso che la differenza tra chi segue una moda e chi vive questa musica stia nel fatto di saperla anche interpretare. Noi abbiamo scelto di inserire, ad esempio, il violoncello. Per molti potrebbe essere una follia e un'assurdità storica, ma per noi è solamente il modo più efficace per dare il nostro contributo e lasciare un piccolo, minuscolo segno personale nel percorso storico di questa musica meravigliosa. E poi a me viene spontaneo scrivere brani in quello stile, è una cosa semplice e naturale. Mi sento veramente nostalgico».

Qualcuno potrebbe obiettare che è musica già sentita. Voi come rispondete?

Ronchi: «E cosa non lo è oggi? È già stato detto praticamente tutto, suonato tutto. Si può solo scegliere di suonare quello che piace di più, cercando di farlo bene. E che dia soddisfazione prima di tutto a chi lo suona».

Nell'album avete inserito anche sei cover. Perché avete scelto quelle canzoni e cosa rappresentano per voi?

Ronchi: «La scelta delle canzoni si è basata principalmente sull'attività live. Nel senso che abbiamo scelto di inserire i brani che, eseguiti dal vivo, ci davano più soddisfazione e rendevano meglio l'idea delle nostre sonorità. Anche perché la maggior parte di questi sono audacemente rivisitati e riarrangiati. Scelta piuttosto coraggiosa, ma senza dubbio personale e caratteristica».

Tra queste manca però "They're red hot" di Robert Johnson che avete però registrato in un video. Perché l'avete lasciata fuori?

Bommarito: «È stata la nostra "palestra", ha dato il la a tutto il progetto. È bello viverla così e poi inserire nel disco altri brani».

Per dare ancora di più l'idea del suono anni '20/'30 avete optato per una registrazione completamente analogica utilizzando apparecchiature d'annata… Come sono avvenute le registrazioni?

Ronchi: «Per rendere l'idea, anche se molto lontanamente, ci siamo affidati al TUP Studio di Brescia che ha messo a disposizione, oltre a strumenti e microfoni antichi, anche una sala abbastanza spaziosa per poter registrare tutti e cinque insieme. In questo poi è stato bravissimo il fonico, sia nel posizionamento dei microfoni, sia nella fase di mixaggio. È veramente molto difficile amalgamare il suono di strumenti acustici senza fare un polpettone sonoro, siamo stati davvero fortunati a rivolgerci alla persona giusta. E poi è stato bello trascorrere due giorni in studio, dormendoci anche e portando a letto l'odore di valvole calde dopo una giornata di lavoro. Non capita spesso, davvero una bella esperienza».

E non manca qualche rumore di sottofondo come cani che abbaiano, porte che cigolano. Il tutto richiama a certe registrazioni "sporche" del passato…

Bommarito: «L'aver inserito questi "rumori" è stato divertentissimo anche perché al momento della registrazione sono venuti fuori da soli, sai quei guizzi di pazzia che ogni tanto vengono? I cigolii sono fatti col violoncello e ricordano un cancello o una porta ma a me piace vederli come il rumore di una vecchia altalena che cigola col vento sotto il porticato di una vecchia casa di legno… e il cane… beh il cane sono io, a guardia della casa».

Cosa significa vivere nel 2015 in Liguria e fare musica di quasi cent'anni fa ottanta nata a migliaia di chilometri di distanza?

Bommarito: «Per me significa suonare una musica che mi piace un sacco e che mi dà modo non solo di suonare ma di esprimere anche delle emozioni».

Che tipologia di pubblico vi aspettate ai vostri concerti?

Bommarito: «Tutte le persona che hanno voglia di divertirsi e ascoltare un po' di sano blues suonato bene, credo».

Prima di registrare avete approfondito l’argomento ascoltando dischi o leggendo libri?

Ronchi: «Ovviamente per suonare ogni tipo di musica devi averla prima ascoltata… Per me e per Kid è stato un po' più semplice perché proveniamo da questa musica, o comunque da generi che ne sono parenti stretti. Per gli altri componenti del gruppo è stato interessante approfondire ed entrare nel fango, sporcarsi un po'. I libri al riguardo mi interessano molto, non ne sono stato un cultore in passato ma mi sono promesso da tempo di approfondire anche questo aspetto. Più si conosce la storia e la biografia di un artista e meglio si può comprendere la sua musica».

C'è un aneddoto o un momento particolare nel corso delle registrazioni in cui avete capito che la strada era quella giusta?

Bommarito: «Quando abbiamo trovato le maschere da lottatori di wrestling. Quella è stata la svolta! A parte gli scherzi, l'odore dello studio e le sensazioni provate quando siamo entrati ci hanno fatto ben sperare. Quando poi abbiamo iniziato a registrare tutti insieme con strumentazione d'annata, a sentire che i brani venivano bene già alla prima e vedere il viso soddisfatto di Pier in regia mentre ascoltava i suoni, allora abbiamo capito che stavamo facendo un bel lavoro e alla fine abbiamo registrato dodici brani in due giorni».

Dopo questo disco tornerete ognuno ai propri impegni o pensate di portare avanti questo progetto?

Ronchi: «Assolutamente! Ognuno di noi è impegnato su altri fronti ma questo progetto non lo molliamo, anzi. Stiamo lavorando sodo per portarlo in giro il più possibile e farlo conoscere, sia online che dal vivo. Ciò vuol dire che troverete i St. Mud Avenue in giro per locali in formazione duo, trio, quartetto o full band! Preparatevi all'invasione acustica di tanta musica "vecchia"».


Titolo: St. Mud Avenue
Gruppo: St. Mud Avenue
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2015

Tracce
(musiche e testi di Stefano Ronchi, eccetto dove diversamente indicato)

01. Rainy day rag
02. Strange kind of lovin’
03. Six feet under
04. Hipshake  [Slim Harpo]
05. Free
06. Up above my head  [Sister Rosetta Tharpe]
07. You’re gonna need somebody on your bond  [Blind Willie Johnson]
08. Born in Mississippi
09. I want a limousine
10. Some of these days  [Sophie Tucker]
11. I’m so lonesome I could cry  [Hank Williams]
12. Cannonball rag  [Merle Travis]



sabato 11 aprile 2015

II liquore di Mefisto creato da Le Ristampe di Tex






Sonorità tex-mex, ispirazioni cantautorali ed espressività teatrale sono gli ingredienti magici de "Il liquore di Mefisto", spettacolo e disco de Le Ristampe di Tex. L'ensemble ligure guidato da Augusto Forin e Sandro Signorile è nato a metà degli anni Novanta e dopo un periodo di pausa è tornato sulle scene con un progetto che ha già ottenuto grande successo di pubblico sui palchi liguri. Una rappresentazione musical-teatrale in cui l'imbonitore Jean-Pierre Lozano esalta le virtù di un portentoso liquore capace di alleviare qualsiasi tipo di male, fisico o mentale. Per entrare in possesso della ricetta segreta del liquore di Mefisto ha dovuto cedere la sua anima al diavolo ma ne è valsa la pena. Le proprietà delle erbe contenute nel distillato sono descritte dalla sciamana Patrizia Litolatta Biaghetti che associa le loro caratteristiche a quelle degli strumenti musicali. Nello spettacolo gli interventi recitativi e le parti musicali cedono il passo l'un l'altro in un susseguirsi di storie e racconti.
La musica è di frontiera e le sonorità tex-mex si legano all'arte cantautorale e ad accenni, seppur volutamente limitati, alla terra natia, alla Liguria. Un impasto originale, un distillato sonoro capace di evocare i grandi spazi delle praterie americane come le atmosfere raccolte dei centri storici liguri.
In queste settimane è stato pubblicato, in tiratura limitata di cinquanta copie, il disco che racchiude parte dello spettacolo e dà una visione d'insieme sulla musica e sull'ispirazione del gruppo.
Nel CD, registrato dal tecnico Alessandro Mazzitelli, suonano Augusto Forin (voce e chitarra), Sandro Signorile (mandola, dulcimer, lap steel), Davide Baglietto (cornamusa, flauti e percussioni), Dario Camuffo (cori), Marco Cambri (voce in "Motto de tera") mentre Jean-Pierre Lozano e Patrizia Litolatta Biaghetti sono le voci narranti.
Con Sandro Signorile abbiamo parlato de Le Ristampe di Tex, della sua passione per le musiche di confine e di suoi progetti futuri.




Sandro, raccontaci come è nato il progetto Le Ristampe di Tex…

«La basi le abbiamo gettate intorno al 1995/96, in occasione di alcune session fatte a casa di Marco Spiccio, medico e musicista della zona genovese. Eravamo io, Augusto Forin e Max Manfredi. Poi Max ha seguito la sua imponente carriera solista, io mi sono avvicinato al filone irlandese che per me è sempre stato importante e poi c'è stata l'esperienza con i Vagabond Shoes, Augusto ha portato avanti i suoi progetti ma alla fine eccoci nuovamente qui con uno spettacolo e un disco».

Chi ha avuto l'idea di chiamare questo progetto Le Ristampe di Tex?

«Il nome è stato proposto da Augusto ed è stato scelto per acclamazione».

Parliamo subito di "Il liquore di Mefisto", spettacolo musical-teatrale che presentate ormai da un paio di anni...

«Lo spettacolo è stato perfezionato nel corso del tempo con aggiunte e sottrazioni, fino ad arrivare alla versione definitiva. Così è stato anche per quanto riguarda la composizione dell'organico. Con noi hanno sempre suonato musicisti che per sopravvenuti impegni non hanno portato avanti un rapporto continuativo ma ora abbiamo trovato la giusta solidità. La formazione attuale vede Davide Baglietto, vero signore del vento che batte feroce il border, Mirco Pagano al cajon, Augusto alla chitarra, io alla mandola e poi ci sono due voci recitanti: la sciamana Patrizia Litolatta Biaghetti che cura il male di vivere con i suoi antichi rimedi e Jean-Pierre Lozano, sangue misto di culture che ci porta dove vuole recitando anche in spagnolo e francese, è un vero diavolo buono e terribile».

Qual è il filo conduttore dello spettacolo?

«Abbiamo preso come protagonista la figura benevolmente diabolica di Mefisto per raccontare storie. Mefisto propaganda le virtù del suo liquore e nel farlo non ha limiti di spazio e di tempo: incontra Warren Zevon, Joe Strummer insieme a Jodorowsky, qualche nostro musicista e amico che non è più con noi. Passa dal West ad ambientazioni opposte, sbaglia autobus e incontra Mick Jagger, sale sulla dirigenza di Ombre Rosse… È un modo per raccontare storie e lascia tantissimo spazio a una visione fatalista della vita e anche della musica, però è una fatalità ironica. Emblematica è la frase ‹mio marito ha finito i soldi, io ho finito l'amore› che troviamo pronunciata da una donna dell'est in "Bella signora". Lo spettacolo è una esplosione di ironia in cui racchiudiamo tutte le note dolenti - io ci metto anche l'Inter -, citazioni di frasi assurde, di film che hanno segnato non solo la mia vita ma di tanti».

In questi giorni è uscito anche il vostro disco. Nell'album, così come nello spettacolo, sono preponderanti le sonorità tex-mex, perché questa influenza?

Sandro Signorile (ph Martin Cervelli)
«Per noi musicisti e per me in particolare il punto di partenza è stato "Showtime" di Ry Cooder. Questo disco ha sconvolto i miei gusti musicali, ci trovi sonorità che fanno pensare quasi al liscio ma non lo sono e capisci che in realtà si tratta del "confine", quel confine che da geografico si trasforma e prepotente entra nella tua vita e nel tuo modo di essere. Queste sonorità hanno avuto degli applicativi anche nella musica italiana e mi viene da pensare a Bubola e a De André. E non si può negare, basta ascoltare la traduzione di "Romance in Durango" di Dylan. E così ne Le Ristampe di Tex abbiamo provato a vedere cosa poteva succedere mescolando la musica d'autore con il tex-mex. Ricordo ancora che avevamo bisogno di un fisarmonicista e nella prima formazione avevamo coinvolto Luca Delbene che a quel tempo era mio collega in consiglio comunale».

Chi ha scritto i brani?

«I testi delle canzoni sono per la maggior parte di Augusto mentre i testi dei recitativi sono miei. In più nel disco c'è una poesia di Patrizia intitolata "Cinquantaparole" su cui ho suonato una slide. Parlando delle parti recitate ho mutuato un lavoro che per me potrebbe avere interessanti sviluppi, un po' alla John Trudell. Nel disco, diversamente dallo spettacolo, ho creato delle musiche che contestualizzano e accompagnano il recitato, come fosse una canzone. Per quanto riguarda il resto, alcuni brani provengono dalle vecchie session, alcuni pezzi sono di Augusto come per esempio "Giuda", canzone viscerale che non aveva mai inciso. Il testo di "Il mestiere" è di Ivano Malcotti, che è un paroliere genovese, mentre la musica l'ho composta principalmente io, anche se mette male dare una paternità precisa alle composizioni perché sono idee che vengono sviluppate all'interno del gruppo».

Discorso a parte merita secondo me "Motto de tera", canzone recitata in dialetto ligure…

«È una canzone che arriva da precedenti session e l'abbiamo inserita nel disco perché la presentiamo abitualmente anche dal vivo. In questo caso a cantare è Marco Cambri. Nello spettacolo proponiamo due brani in ligure. Il primo, introduttivo, si intitola "Che notte scura" e lo esegue Augusto e la chiusura è affidata a "Motto de tera". Sarebbe interessante implementare il discorso ma non vogliamo correre il rischio di essere gli ennesimi "rievocatori"».

Cosa c'entra il genovese con il tex-mex?

«Perché siamo quasi tutti profondamente liguri e me ne sono accorto da quando vivo in Valle Bormida. Abbiamo il nostro confine come è musica di confine il tex-mex».

Mi pare di capire che il disco da poco pubblicato sia una sorta di pre-release…

«È una anteprima che abbiamo tirato in cinquanta copie. Grazie alla perizia tecnica di Augusto e Patrizia e la disponibilità del mio socio, Giovanni Ruggiero, abbiamo stampato in digitale la copertina, tagliato il cartonato e assemblato il tutto. È di livello professionale e lo riteniamo soddisfacente dal punto di vista artistico e del suono ma è a nostro uso e consumo. Ci dà la possibilità di farlo sentire e magari convincere qualcuno a investire nel progetto».

Magari anche per assicurarvi qualche data fuori provincia…

«Sarei curioso di vedere quale possa essere l'accoglienza da parte di un pubblico diverso da quello savonese. Ci piacerebbe poter presentare "Il liquore di Mefisto" in qualche piccolo teatro off. Sono convinto che ci sia qualcosa di artisticamente valido da esportare…».

Tu e Augusto Forin siete entrambi amanti di fumetti. In quali personaggi vi identificate?

«Siamo appassionati di Tex ma anche di Corto Maltese di Hugo Pratt. Dato il mio spirito dualistico credo di potermi identificare in Mefisto, l'antagonista di Tex, mentre Augusto è un Tex tranquillo e rassicurante che non perde mai la calma ed il tempo sul palco».

In parallelo porti avanti l'attività all'interno dei Celtic String Border…

«Anche questo progetto deve capire cosa vuole fare da grande. Abbiamo varie idee nel cassetto, speriamo di riuscire a realizzare un prodotto originale in breve tempo. In questo caso aspetto però quello che decide Bobo (Roberto Storace, ndr). Con noi in pianta stabile c'è anche Fiorenzo Ermellino che suona percussioni e concertina. Suoniamo canzoni tradizionali irlandesi molto belle, poi ogni tanto a me scappa una slide che forse non c'entra molto ma me lo permettono».

Come mai la musica irlandese è così seguita?

«È una musica liberatoria, l'ho sempre amata. Ricordo che frequentavo le medie quando comprai "Alla fiera dell'est" di Branduardi. Ascoltai tantissimo quel disco, mi innamorai di quelle sonorità che ritrovai poi in Alan Stivell "À L’Olympia". Poi fu la volta dei Planxty. Andy Irvine l'ho conosciuto di persona e siamo andati a suonare in Irlanda con varie formazioni. Questa musica ci è esplosa nel sangue, non c'è una spiegazione. Ce l'hai dentro e ti senti elettrizzato quando la suoni».

Attualmente su chi si concentrano i tuoi ascolti musicali?

«Faccio molta fatica ad aprirmi alla musica di oggi, mi ancoro ad alcuni miti. Seguo con piacere le produzioni di T Bone Burnett e ho trovato emotivamente appagante la colonna sonora del film "A proposito di Davis" dei fratelli Coen. Inoltre apprezzo i Mumford & Sons, The Lumineers, insomma gruppi molto vivi nella cui produzione trovo la prosecuzione di un certo discorso artistico del passato. Mi piace ancora tanto il vecchio Dylan che per me sarà sempre quello di "Hard Rain" e della Rolling Thunder Revue, con un sacco di chitarre, a volte non proprio perfette e quell'impatto scenico e sonoro con la gente che impazziva e Dylan che decideva di fare il pezzo in un'altra tonalità…sono nostalgico».




Titolo: Il liquore di Mefisto
Gruppo: Le Ristampe di Tex
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2015


Tracce


01. Caldo
02. Il mestiere
03. Bella signora
04. La valsa - Cinquantaparole
05. Da
06. Il Kid
07. Fasce laterali
08. Il topo
09. Valzer di Ciotto
10. Giuda
11. Motto de tera



martedì 24 marzo 2015

"Facile o felice" il dubbio di Stefano Marelli






Dalla penna di Stefano Marelli esce un inno alla lentezza, al vivere a una velocità che permetta di vedere e assaporare quello che ci circonda, al saper cogliere sfumature e sentimenti che troppo spesso vengono spazzati via dalla frenesia quotidiana. Con "Facile o felice", il primo album a suo nome dopo l'esperienza con i Finisterre, il cantautore genovese, ma anche architetto diventato vignaiolo, presenta un album prezioso, ironico e vivace, che porta alla ribalta dodici canzoni intense, tutte da assaporare. Un lavoro che ha richiesto tempo, cresciuto nel corso degli anni. Grande importanza è data ai testi ma altrettanta cura è riposta nella ricerca dei suoni e negli arrangiamenti curati dallo stesso Marelli, tranne in due episodi: "Settembre" e "Uguale a te" che risentono del determinante apporto di Stefano Cabrera nell'orchestrazione e arrangiamento degli archi. Testi e musiche viaggiano paralleli nel creare atmosfere rock moderne ma luci soffuse dal sapore vintage regalano atmosfere particolari.
La musica è piena di colori e sfumature grazie ad una produzione attenta a ogni particolare e arricchita dall'uso di numerosi strumenti e da collaborazioni importanti, senza per questo rendere il prodotto finale ridondante, complesso o di difficile ascolto. Mario Arcari con il suo oboe dona momenti di impareggiabile bellezza in "Senza la TV" ma soprattutto in "Immobile", uno dei brani più belli del disco. Gli archi dei Gnu Quartet (Stefano Cabrera, Roberto Izzo, Raffaele Rebaudengo) colorano un paio di episodi mentre, una volta ascoltati, non si possono immaginare i brani senza il prezioso contributo della tromba e del flicorno di Raffaele Kohler. Nel progetto sono coinvolti anche Eros Cristiani (pianoforte, fisarmonica, spinetta), Folco Fedele (batteria e percussioni), Lele Garro (contrabbasso), Luca Falomi (chitarra), Barbara Fumia (Cori).
Con Stefano Marelli abbiamo parlato del disco ma anche di tante altre cose…



Cosa ti ha spinto a lasciare i Finisterre e a intraprendere l'avventura solista?

«Il percorso coi Finisterre è stato fondante per la mia educazione alla musica, all'arrangiamento, alla libertà sonora. Hai presente la fidanzatina del liceo? Tanta ingenuità, qualche errore di prospettiva, valanghe di passione profusa senza risparmio. Poi... siamo diventati grandi e le differenze tra noi hanno aperto percorsi diversi; qualcuno ha scelto di provare a vedere dove l'avrebbero portato. Adesso è il mio turno. Da tempo desideravo riprendere un percorso come cantautore, che in realtà è stato il mio primo affacciarmi al mondo della musica; ad un certo punto è scattato il bisogno di raccontarmi con un linguaggio - anche musicale - più diretto e a quel punto il contenitore Finisterre non bastava più».

Come è nato e di cosa parla "Facile o felice"?

«"Facile o felice" nasce in un periodo piuttosto lungo ma discontinuo, in cui vere e proprie immersioni totali nella composizione si sono alternate a momenti fugaci rubati qua e là, ore notturne sottratte al sonno mentre di giorno la vita continuava con le sue scadenze, l'impegno quotidiano per guadagnarmi la pagnotta. Nonostante ciò, credo che alla fine il risultato non sia affatto frammentario, anzi che vi si possa cogliere un disegno unitario, che ritengo sia dovuto principalmente alle tematiche affrontate nei testi, ma anche alla scelta di avere un suono "da band": una struttura portante molto solida data dal quartetto chitarra-basso-batteria-pianoforte, colorata di volta in volta dagli altri strumenti aggiunti. Il titolo dell'album è arrivato a disco già registrato, sollevando il naso dai fader e dai plug-in e guardando all'insieme con una prospettiva a volo d'uccello; allora le differenze hanno cominciato ad apparire non così significative, si sono palesate le somiglianze, le assonanze; l'idea di una collana di canzoni che raccontano uno sguardo etico, se vuoi, sull'esistenza, dove non è vero che "vale tutto e il contrario di tutto", dove certe posizioni e certe scelte ti collocano necessariamente di qua o di là. Il contrario del relativismo etico tanto di moda in questi anni, insomma; la mia personale strada per la felicità, costellata di scelte scomode e tuttavia senza l'ombra di un rimpianto».

È un album musicalmente molto ricco: archi, tromba, flicorno, oboe e poi pianoforte, tante chitarre. Raccontaci come si sono svolte le sessioni di registrazione…

«Mi ritengo una persona maledettamente perfezionista, alla ricerca del sound giusto per ogni canzone che, in questo senso, è un piccolo mondo a sé. Però non volevo realizzare un disco patchwork: come conciliare queste tensioni opposte? Ho scelto di registrare l'ossatura portante dei brani come un "live in studio", quindi basso (Lele Garro), batteria (Folco Fedele) e chitarra ritmica (io) suonate simultaneamente, in tre ambienti acusticamente distinti ma collegati visivamente e tramite l'ascolto in cuffia. Era per me estremamente importante che la sezione ritmica suonasse "come un sol uomo", perciò ho voluto con me due persone con cui avevamo già diversi concerti all'attivo, e soprattutto accomunati dalla stessa percezione del ritmo. Abbiamo suonato, mangiato e dormito assieme per il tempo necessario a concludere questa prima fase. Il suono del pianoforte apre e chiude il disco; mi sono chiesto perché sia andata così, dato che la chitarra resta il "mio" strumento. Col piano, che non ho mai studiato, ingaggio una battaglia continua per trarne, da autodidatta, rivolti interessanti e per cambiare il mio approccio compositivo costringendomi a uscire dai binari di ciò che mi è noto. In studio però avevo bisogno di qualcuno dotato di tecnica e di intelligenza musicale: in poche parole, di Eros Cristiani che ha suonato pianoforte, piano elettrico (tranne in due pezzi dove mi sono cimentato personalmente al Rhodes), organo e tastiere. Ha anche rispolverato la fisarmonica, per ricostruire, insieme all'oboe di Mario Arcari, l'atmosfera di un'orchestrina di paese all'interno di "Senza la TV"».

Interessante anche il contributo degli archi...

«Gli archi conferiscono un respiro vibrante, quasi solenne ai due brani "romantici" dell'album; i Gnu Quartet hanno eseguito le loro parti con una rapidità tale da lasciarci anche il tempo per un violino solo di Roberto Izzo in "Soltanto un mese". Tromba e flicorno: colori ai quali non saprei più rinunciare, grazie alla genialità di Raffaele Kohler. Musicista dotato di un suono bellissimo e di un'intonazione sorprendente; dal vivo condisce il tutto con una verve da intrattenitore di livello. Completo l'elenco con Barbara Fumia ai cori e Luca Falomi, ottimo chitarrista al quale ho affidato il compito di evocare atmosfere cubane in "Ho visto coppie". Le altre chitarre (acustiche, elettriche, 12 corde) sono suonate da me, scegliendo l'amplificatore giusto e gli effetti indispensabili; avendo a disposizione in studio un Fender Twin Reverb, un Vox AC30 e il mio Fender Hot Rod Deluxe, spesso la scelta è ricaduta su chitarra-in-diretta-nell'ampli, però a volte i miei "pedalacci" si sono rivelati preziosi! Naturalmente il risultato non sarebbe stato lo stesso senza l'alchimia perfetta stabilita con Raffaele Abbate di OrangeHome Records, sia come fonico che come co-produttore: le scelte di registrazione senza compromessi, la cura artigianale riservata alla giusta microfonazione e alla ripresa del suono d'ambiente; entrambi volevamo un suono vero, coinvolgente ed emozionante».

Come dicevi, hai avuto a tuo fianco i Gnu Quartet e Mario Arcari. Che apporto hanno dato al disco e alla tua persona?

«I Gnu Quartet sono musicisti che conosco da tempo, nell'area genovese le strade si incrociano spesso; lavorare in studio con loro è stato eccitante e non posso che confermarne la grande professionalità, precisione e creatività. Gli archi arrangiati dal violoncellista Stefano Cabrera hanno vestito a festa "Settembre" e "Uguale a te". Mario Arcari è arrivato in studio praticamente a sorpresa, complice l'amicizia comune col pianista Eros Cristiani; in lui mi ha colpito la padronanza totale di uno strumento difficile come l'oboe e la capacità di "entrare" nel pezzo già dal primo ascolto. "Immobile" è un brano che mette totalmente a nudo la scrittura e la voce, Mario ha duettato col mio canto come fosse una seconda voce... alla fine, ci siamo ritrovati con una candidatura alla Targa Tenco come miglior canzone! E poi era difficile non pensare che davanti a me c'era la stessa persona che aveva collaborato con due tra gli artisti che amo di più: Fabrizio De Andrè e Ivano Fossati».

Approfondiamo il discorso della candidature alle Targhe Tenco 2014: miglior opera prima e miglior canzone dell'anno con "Immobile". Un buon riconoscimento o speravi in qualcosa in più?

«Un riconoscimento inaspettato, soprattutto per quanto riguarda la candidatura come "Miglior canzone dell'anno". Nell'elenco insieme a me, c'erano dei nomi... Però poi ci si prende gusto, io credo molto nel valore di "Facile o felice" e un'esibizione in finale sul palco dell'Ariston avrebbe sicuramente gratificato il mio ego».

Il disco si apre con la canzone "Lento lento". Proprio questa idea di rallentare il ritmo della vita è un po' il filo conduttore delle canzoni. A che velocità vorresti vivere?

«Amo la lentezza come modalità per conoscere il mondo. Mi concedo il tempo per assaporare più che trangugiare, negli anni ho fatto alcune scelte ben precise che mi hanno condotto ad una vita più adatta alla mia natura, fuori dal perimetro della corsa. Sono scelte che hanno un prezzo, ma lo pago volentieri».

In "Con le mie idee" ironizzi sull'affermazione ‹il lavoro nobilita›. Qual è il tuo punto di vista?

«Non amo molto i luoghi comuni; in genere mi insospettiscono, provo a ricostruirne la storia possibile e spesso emergono i meccanismi di potere e di controllo che li hanno generati. Così un po' per gioco, un po' per convinzione, voglio ribaltare uno dei capisaldi di tanto "nobile" pensiero: il lavoro in sé non nobilita proprio nulla, è casomai l'uomo a rendere nobile e degno l'impiego del proprio tempo in un'attività che, di per sé, sarebbe una condanna».

"Soltanto un mese" termina con il verso ‹E avrò il coraggio che tu non hai potendo scegliere liberamente l'ora di andare incontro agli dei›. Sei favorevole all’eutanasia?

«Lo spazio dei versi di una canzone è necessariamente ristretto; diciamo che mi piacerebbe portare l'attenzione sui fatti importanti dell'esistenza (la nascita, la morte) e su come troppo spesso questi siano “medicalizzati”, come se l'essere umano fosse programmato così malamente da non essere in condizione di attraversare le fasi che appartengono alla propria natura senza un ausilio "tecnico", specialistico. Estremizzando, qui si parla di un uomo che, pur di riprendersi il controllo della propria vita, sceglie di porvi termine. Il suicidio è un tema letterariamente molto affascinante».

Ti consideri bravo ad imparare dai tuoi errori?

«Non so, mi piace pensarmi così. In "Pensieri inafferrabili" mi riferisco a quella parte di umanità che ha lavorato per spostare il livello di coscienza ad una maggiore profondità; penso a maestri come Gurdjieff o Jodorowsky. Credo nel paradosso come strumento atto a svelare orizzonti nuovi, prospettive inusuali; credo nella possibilità di scoprire continuamente una parte ignota di sé».

È passato un anno dall'uscita del disco, cosa è cambiato nella tua carriera artistica?

«Il cambiamento più significativo consiste nel fatto che ora, quando qualcuno mi chiede se ho qualcosa da fargli ascoltare, posso rispondere: ‹Sì, ho un DISCO!›; a parte questo…».

Sei una persona che guarda molto al passato, a quello che è stato e che non verrà più?

«Di tanto in tanto, poi mi punisco e prometto di smettere».

Quincy Jones, in una recente intervista, riferendosi ai grandi musicisti del passato ha detto: ‹ad accomunarli erano passione e conoscenza della musica. Oggi, tutto è cambiato con la tecnologia e la digitalizzazione. Premi un pulsante e trovi il suono che cercavi. E i giovani non conoscono la musica nera, il jazz e il blues›. Come commenti questo pensiero?

«Ho capito, continui a cercare di farmi confessare che sono un nostalgico... e invece ti rispondo che io non ne so proprio niente, non capisco nemmeno se per le giovani generazioni la musica occupi ancora un luogo di rilevanza o se sia semplicemente meno centrale... Ho l'impressione che l'enorme disponibilità di materiale musicale a costo (apparentemente) nullo sia inversamente proporzionale all'interesse e alla capacità di ricercare la qualità. Tuttavia è probabile che in questo momento stia nascendo un nuovo genio musicale, che lavorerà coi materiali a sua disposizione per creare qualcosa di totalmente nuovo. E noi faremo fatica ad accorgercene».

Alla fine è meglio un buon bicchiere di vino o un bel disco?

«Confesso di avere seri problemi con quella "o" disgiuntiva che hai piazzato in mezzo ai miei grandi amori; perché non coniugare un buon bicchiere di vino "e" un bel disco? Io ci sto provando, da produttore di entrambi. Tra l'altro l'idea non dev'essere così balzana, dato che proprio in questi giorni ho tra le mani un volume di Maurizio Pratelli, "Vini e Vinili", che pare confermare una comunione d'intenti e sentimenti tra questi due mondi. Alla salute!».





Titolo: Facile o felice
Artista: Stefano Marelli (www.stefanomarelli.it)
Etichetta: OrangeHome Records (www.orangehomerecords.com)
Anno di pubblicazione: 2013


Tracce
(musiche e testi di Stefano Marelli)

01. Lento lento
02. Senza la TV
03. Pensieri inafferrabili
04. Settembre
05. Sull'etere
06. Con le mie idee
07. Soltanto un mese
08. Ho visto coppie
09. L'idiota
10. Ti fa male
11. Immobile


mercoledì 18 marzo 2015

"Voodoo Boogie" il piano blues di Henry Carpaneto





«Sono stato sui palchi per cinquant'anni e ho suonato con molti musicisti; Henry, che mi piace chiamare "Cool Henry Blues", ha una grande capacità e un grande talento!». Il settantaduenne chitarrista Bryan Lee introduce con queste parole Henry Carpaneto, eclettico pianista e organista ligure che ha da poco pubblicato il suo primo album, intitolato "Voodoo Boogie". Carpaneto, già componente della band di Guitar Ray, è da anni tra i più apprezzati musicisti in ambito blues a livello europeo e statunitense. Capacità e talento che lo hanno portato a collaborare con grandi nomi del panorama nazionale e internazionale come Jerry Portnoy, Big Pete Pearson, Keith Dunn, Sonny Rhodes, Paul Reddick, Fabio Treves e Deitra Farr. E con Bryan Lee con cui, recentemente, ha girato gli States e si è esibito al prestigioso Jazz Festival di New Orleans.
Il celebre chitarrista, originario del Wisconsin ma da molti anni residente a New Orleans, ha dato un importante contributo firmando molti brani presenti sul disco e partecipando in veste di chitarrista e cantante. Il piano e l'organo Hammond di Carpaneto, a volte al centro della scena in altre occasioni più nascosti a disegnare passaggi di grande gusto, sono protagonisti con classe senza essere mai invadenti. L'impatto sonoro in alcuni episodi è energico e brioso, in altri è di cornice.
Le restanti tracce del disco sono classici come "Steady rolling" di Memphis Slim, "Rock me baby" di B.B. King, "Caldonia" di Louis Jordan e "One room" di Mercy Dee Walton. 
Ad arricchire ulteriormente il disco è la presenza di due ospiti prestigiosi come il chitarrista Otis Grand, che considera Carpaneto il miglior pianista del vecchio continente, e Tony Coleman, già a fianco di B.B. King, Buddy Guy, Albert King e di altri mostri sacri del blues. Nella sala di registrazione della OrangeHome Records Carpaneto è stato affiancato da un trio formato dal batterista Andrea Tassara, dal sassofonista Paolo Maffi e dal contrabbassista Pietro Martinelli
Nell'intervista che segue Carpaneto ha raccontato la genesi del suo primo disco.

 


Henry, per te è un momento ricco di novità e soddisfazioni. Da poco è uscito il disco di Guitar Ray in cui ancora una volta il tuo apporto musicale è stato fondamentale, poi hai collaborato all'album di Nima Marie e adesso "Voodoo Boogie", il tuo disco d'esordio…

«Come dici tu è sicuramente un bel periodo! L'esperienza con i Gamblers è stata fondamentale per la mia formazione. Solo recentemente le strade si sono divise: avevo voglia di esplorare e tuffarmi completamente in un'esperienza "pianistica" sicuramente influenzata dall'ultima tournée che si è sviluppata tra New Orleans e Memphis. Arrivare nella terra di Professor Longhair, James Booker e Fats Domino ti responsabilizza e i dubbi e le perplessità sulle scelte artistiche svaniscono come per magia. Capisci esattamente cosa devi fare, vedi la strada da percorrere, tutto diventa più chiaro.
Nima? Mamma mia che brava! E non avete ancora visto niente. Ha un potenziale incredibile. Lei completa perfettamente il mio progetto».

Non posso non chiederti come è nato questo disco…

«"Voodoo Boogie" è stato un regalo di Bryan Lee. Non era stato concordato. Durante il tour avevamo tre giorni off e lui mi ha detto: ‹Andiamo in studio... Vorrei registrare un piano voce alla vecchia maniera, buona la prima e vediamo cosa succede›. Mi sono trovato in questo studio a New Orleans e Bryan mi ha dato un cd di Memphis Slim. Me lo ha fatto ascoltare tutto e poi mi ha detto: ‹Let's go›. E siamo partiti. Alla fine mi ha fatto dono delle tracce e negli studi della OrangeHome Records abbiamo completato il lavoro introducendo contrabbasso con Pietro Martinelli, batteria con Andrea Tassara e sax con Paolo Maffi. Dopo di che il colpo di scena. Per avere un parere tecnico ho mandato un brano a Otis Grand, col quale ho avuto l'onore di suonare per tredici anni, e si è offre per farmi le chitarre su qualche pezzo. Non contento ha coinvolto Tony Coleman, batterista di B.B. King. Grazie a Otis ho avuto la possibilità di suonare anche con lui a un festival ad Alessandria. Essere sul palco con entrambi e suonare "Sweet little angel" sicuramente ti fa girare la testa».

Come è stato girare gli States suonando con Bryan Lee?

«Suonare con Bryan Lee al Jazz Festival a New Orleans, suonare in Bourbon Street, girare gli States, presenziare ai Blues Memphis Awards - Bryan era invitato in quanto in nomination per essere tra i guests nel cd di Kenny Wayne Shepherd - conoscere Matt "Guitar" Murphy, parlare di musica con lui come se ci conoscessimo da sempre, rappresenta semplicemente un sogno che diventa realtà. Anzi, nei miei sogni mostruosamente proibiti, non mi ero spinto così avanti…».

Collaborerai nuovamente con Bryan Lee?

«Ho sentito recentemente Bryan e proverà a portare il cd ai Blues Memphis Awards. Secondo lui ci sono buone probabilità. Fingers crossed».

Il pubblico americano del blues in cosa differisce da quello italiano?

«Purtroppo il pubblico italiano conosce poco il blues. Dai mass media poco è concesso, se non nulla. Manca la cultura all'ascolto di un genere musicale che ha creato nel tempo tutti gli altri. L'unica fortuna è che oggi grazie ad internet tutto il materiale è rintracciabile e fruibile in un click, cosa che fino a qualche anno fa era impensabile. La differenza quindi tra pubblico americano ed italiano sta proprio nella storia vissuta dell'uno e nel lento recupero e autodidatta dell'altro. Però stiamo recuperando».

Bryan Lee ti ha soprannominato Cool Henry Blues; per Jerry Portnoy sei il suo Piano Man; Otis Grand ha detto che sei uno dei migliori pianisti blues in Europa. Complimenti da montarsi la testa…

«I complimenti fanno sicuramente piacere. Siamo appena partiti e la strada è lunghissima. Quindi piedi ben piazzati per terra, lavoriamo duro, "studio matto e disperatissimo"».

Nel disco suonate anche quattro cover. Quale ti ha emozionato di più e perché?

«Sicuramente "One room country shack". C'è anche un aneddoto carino su quel pezzo. Bryan mi ha fatto ascoltare la versione di Memphis Slim e mi ha detto: ‹Prova a prendere questo feeling›. Allora ho ascoltato e riascoltato il brano, ho provato a mettere le mani sul piano ehhh... non veniva proprio. Allora l'ho riascoltata e ho fatto diverse volte avanti e indietro tra la regia e la sala di presa per riascoltare l'originale, cercare di cogliere quel "respiro" e provare allo stesso tempo a buttare giù alcune idee. A un certo punto ho chiesto al tecnico di farmi ascoltare la canzone e dopo alcuni secondi gli ho detto: ‹…no, non voglio riascoltare il cd, voglio sentire la mia traccia›, e lui ‹guarda che sei tu…›. E in quel momento un po' mi sono "gasato"…».

Suggeriamo a chi ha il piacere di ascoltare "Voodoo Boogie" di non togliere il cd dopo "Blind man love" perché c'è ancora una piccola gustosa sorpresa. Perché hai voluto inserire questa piccola ghost track?

«Abbiamo voluto inserirla come mio modestissimo tributo al New Orleans style, con un riferimento all'inno di New Orleans "Tipitina" di Professor Longhair».

Qual è l'aspetto che preferisci nel suonare il piano o le tastiere all'interno di un gruppo?

«Facendo il gioco delle similitudini mi piace pensare la band come una macchina e gli strumenti le varie parti. Il batterista è il motore. Un buon batterista cambia il suono alla band. Il cantante è il pilota. Il piano rappresenta il gas. Si pone esattamente nel mezzo tra leader e motore. Se tutti in sintonia le sensazioni sono uniche».

Quanto è attuale il blues oggi in Italia e all'estero?

«Sicuramente all'estero (Europa) il blues è più conosciuto. Ci sono più spazi per suonare e manifestazioni ufficiali. A breve sarò in tour in Europa con un artista americano e i concerti si faranno dal lunedì alla domenica. In Italia manca un po' la cultura di andare ad ascoltare le band live. La nota positiva però è questa: quando per caso il pubblico italiano si trova di fronte ad una buona blues band ne rimane estasiato, finalmente colma quel vuoto che aveva dentro e comincia a fare ricerche e lo ritrovi ai concerti».

Jimi Hendrix disse ‹Il blues è semplice da suonare, ma difficile da provare›. Cosa ne pensi di questo frase?

«Secondo me suonare non è facile. Non esiste una musica facile. È facile "strimpellare". Essere comunicativi è difficile. Trasmettere emozioni suonando è difficile. Penso che il grande Jimi si riferisse a questo. Suonare in pubblico è una responsabilità. Si è paladini in quel momento di un messaggio. Se si suona in pubblico solo per gratificare il proprio ego, non si è capito nulla».




Titolo: Voodoo Boogie
Artista: Henry Carpaneto
Etichetta: OrangeHome Records
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche e testi di Bryan Lee, eccetto dove diversamente indicato)

01. Drinking & thinking
02. My brain is gone
03. One room  [Mercy Dee Walton]
04. Angel child
05. Welfare woman
06. Steady rolling  [Memphis Slim]
07. Caldonia  [Louis Jordan]
08. Mambo mamma
09. Turn down the noise
10. Dog & down blues
11. Rock me baby  [B.B. King]
12. Blind man love