Lasciatemelo dire, "Terribilmente démodé" è uno dei dischi di musica tradizionale più belli dell'anno. Giuseppe "Spedino" Moffa regala uno spaccato della provincia molisana, della vita in un piccolo centro contadino, come la natia Riccia, che scorre a un ritmo più lento e rilassato rispetto alla frenesia caotica dei grandi centri urbani. È la vita di comunità, quella che si ritrova magari nell'unico bar del paese e che non lascia indietro chi è meno fortunato. L'album è ancorato alla tradizione per tematiche e ambientazione ma allo tempo offre una visione più ampia e aperte al mondo. Il suono degli strumenti tradizionali, tra cui la zampogna che Moffa suona con maestria, si mischia e si ibrida con accenni di blues, gospel e spiritual dando vita a un impasto sonoro affascinante e suggestivo. E così, nel disco si possono incontrare il canto devozionale del pellegrinaggio verso il Santuario della Madonna di Montevergine che trova espressione in una ambientazione americana con tanto di coro gospel, strumentali per zampogna, brani della tradizione molisana raccolti nel corso di approfondite ricerche sul campo e composizioni originali cantate in dialetto. La tradizione di Moffa non è sterile revival ma la riproposizione contemporanea della cultura musicale di una comunità antica e radicata sul suo territorio.
Moffa, chitarrista con alle spalle studi classici e zampognaro appassionato, ha anche arrangiato il disco con la direzione artistica di
Primiano di Biase, già collaboratore di Neri Marcorè ed Edoardo De
Angelis, che ha suonato anche pianoforte, organo Hammond e Rhodes
piano. Ad aiutare Moffa in studio sono stati i fedeli Co.mpari: Vincenzo Gagliani
al tamburello, Domenico Mancini al violino, Felice Zaccheo al mandolino,
Gianluca Casadei alla fisarmonica, Simone Talone alle percussioni, Guerino Taresco
e Renato Gattone al contrabbasso, Gian Michele Montanaro a voce e cucchiai. Tra gli ospiti anche Massimo Giuntini dei Modena City Ramblers e Alessandro
D'Alessandro dell'OrchestraBottoni.
Con Moffa abbiamo parlato del disco che i giurati del Premio Tenco hanno inserito nella cinquina dei migliori dischi in dialetto pubblicati nel 2015. Giuseppe, in "Terribilmente démodé" racconti la vita di un paese molisano di provincia. Qualcuno si chiederà cosa c'è di così interessante da cantare…
«La provincia rappresenta, almeno geograficamente, la gran parte del territorio italiano. Quest'area, nel suo insieme così vasta, contiene un ricco patrimonio di diversità che, nel bene e nel male, per molti aspetti è lontano dalla vita che si vive nelle poche grandi città. Rappresenta quindi secondo me una importante realtà che tutta l'Italia ha dietro le spalle, ma è come se non abbia voce, mentre invece potrebbe avere tante cose interessanti da raccontare».
Con le tue canzoni regali uno spaccato reale di questa società dove il bar è forse l'unico vero centro di aggregazione e dove il ritmo di vita è diverso da quello frenetico della città. Sei riuscito però ad evitare l'operazione nostalgia di un illusorio ritorno alle radici della vita paesana. Come ci sei riuscito?
«Nel centro abitato di Riccia sono aperti più di venti bar e tutti possono contare su un certo numero di frequentatori, poiché il bar rimane tuttora il principale centro di aggregazione dove la maggior parte della gente trascorre il suo tempo libero, a chiacchierare, bere, giocare a carte, e stare in compagnia. Quindi il rischio di incorrere in un atteggiamento nostalgico è scongiurato per via del fatto che la realtà cantata è proprio quella attuale».
La spiritualità e la devozione religiosa sono da sempre elementi del cantato tradizionale, in particolare del sud Italia, ma dalle tue canzoni viene fuori anche un altro aspetto non meno importante: la vita della comunità e l'esistenza quotidiana delle persone. Con quale occhio guardi queste persone e con che spirito canti la tua gente?
«Tutti gli aspetti della vita che sono descritti nelle canzoni rappresentano l'ambito in cui sono nato e ho passato buona parte della mia esistenza quotidiana, ed amo farne l'argomento delle canzoni che scrivo perché fanno parte di me. Non posso avere lo sguardo di un osservatore nei confronti di un mondo a cui sicuramente appartengo, quindi posso guardare e cantare la mia gente al massimo con un po' di autocritica».
Nell'album troviamo brani tradizionali e altri originali scritti da te che escono però dai confini musicali della tua terra e abbracciano sonorità gospel e blues. Come è potuto accadere?
«La musica afroamericana, soprattutto il blues, fa parte della mia vita tanto quanto la tradizione popolare. Ascolto Ray Charles da quando ero bambino, ho imparato a cantare ascoltando Ella Fitzgerald e a suonare la chitarra con B.B. King».
Non mancano inoltre arrangiamenti orchestrali. Come si colloca questa scelta in un disco dialettale di musica a forte impronta tradizionale?
«Mi sono diplomato in chitarra al conservatorio e quindi è stato inevitabile l'incontro con la musica classica. Più in generale, non riesco a pensare ad una musica suddivisa in generi, ma la considero piuttosto come un calderone di espressioni diverse che possono mescolarsi tranquillamente».
Il disco si apre con "Thank you Lord for givin' us Madonna di Montevergine". Canzone che unisce un famoso spiritual con la devozione popolare. Come ti è venuta questa idea?
«Sono sempre stato attratto dalla spiritualità fortemente espressiva della religiosità popolare, che ritrovo nei nostri canti di pellegrinaggio così come negli spirituals dei neri d'America. Ho pensato di unire questi mondi; così l'introduzione intonata da Gian Michele Montanaro, che è un canto devozionale del pellegrinaggio verso il santuario della Madonna di Montevergine, si unisce al suono della zampogna, strumento utilizzato tra l'altro nelle novene natalizie. Il tutto poi si fonde in un'ambientazione americana con il coro gospel. Il titolo è simpaticamente nato dalla traduzione di un'espressione tipica dialettale molisana: ‹Grazie segnore che ce ha mannate a Madonne›».
Non tutto però è molisano nel disco. "All'acque all'acque li funtanelle" è una canzone che ha origini diverse. Perché l'hai voluta inserire?
«La canzone ha sicuramente origini diverse, ma io l'ho imparata sentendola cantare nel mio dialetto. Citando le note del libretto del disco: ‹"All'acque all'acque li funtanelle" è un canto narrativo che nella celebre raccolta di Costantino Nigra ("I canti popolari del Piemonte", 1888, ora Einaudi, 2009) è classificato con il titolo "La bevanda sonnifera". Il grande corpus di storie epiche e drammatiche che si è diffuso dal Nord Italia in tutta la penisola grazie soprattutto alla vita di trincea durante la prima guerra mondiale. Così anche nella versione riccese registrata nei primi anni duemila grazie alla memoria delle anziane contadine Maria Maglieri "Jarosse" (1925 - 2005) e Filomena Ciocca "Luccechente" (1925)›. Quindi anche se in origine la canzone non era molisana, nel tempo lo è diventata, come succede spesso nei repertori tramandati oralmente».
Sono sicuramente molisane invece "A scalelle" e "U vecchie azzennarelle" che ricordiamo in una nota versione di Matteo Salvatore… Ce ne parli?
«"A scalelle" ha un testo diffusissimo in tutto il sud Italia, dove viene cantata in varie forme e melodie, ad esempio sul ritmo della tammurriata oppure come canto satirico. Questa versione in particolare l'ho ritrovata a Jelsi, paese limitrofo al mio, e in questo caso il tono lirico ne fa, secondo me, una delle canzoni d'amore più belle della tradizione. "U vecchie azzennarelle" fa parte del grandissimo repertorio di canzoni satiriche del Fortore Molisano. Ci troviamo geograficamente, ed anche culturalmente, molto vicino ad Apricena, paese di Matteo Salvatore. Il repertorio del grandissimo cantastorie, che ci ha regalato delle perle uniche nella storia, è ricchissimo di canzoni satiriche, tra cui una delle numerose versioni esistenti di questa canzone».
Tra gli ospiti del disco ci sono anche Massimo Giuntini dei Modena City Ramblers e Alessandro D'Alessandro dell'OrchestraBottini. Come sono nate queste collaborazioni?
«Massimo Giuntini è già presente in "Bag to the Future", il primo disco della Zampognorchestra. Lui è tra i più grandi suonatori italiani di uillean pipe, o cornamusa irlandese, strumento che trovo il più espressivo tra le cornamuse. Massimo con il suo amore per la musica e la sua disponibilità ha fatto il resto. Alessandro D'Alessandro purtroppo è solo un ospite perché l'ho conosciuto a disco praticamente finito altrimenti credo avrebbe partecipato alla realizzazione di tutto il lavoro. C'è stata e c'è tuttora tra noi una collaborazione molto viva».
Oltre ad aver scritto le canzoni hai anche arrangiato il disco e devo farti i complimenti perché suona veramente molto bene. Come si sono svolte le sessioni in studio?
«Dopo aver finito di scrivere testi, musiche e arrangiamenti, il grande lavoro in studio si è svolto insieme a Primiano di Biase, instancabile musicista al quale ho riconosciuto inevitabilmente la direzione artistica del disco. Gli strumenti base sono stati registrati in un primo momento nello studio di Primiano, dopodiché abbiamo aggiunto un po' alla volta tutti gli altri. Le orchestre d'archi e di mandolini, le cornamuse sono stati registrati in altri studi. Infine il tutto è stato sapientemente missato dal grande Eugenio Vatta».
Chi o quale evento ti ha fatto scoprire la musica tradizionale?
«Sono cresciuto in quell'ultima fase storica dove ancora era vivo il mondo popolare, a casa mia, con i miei nonni. Da piccolo ho visto ballare la tarantella in occasione dell'uccisione del maiale, ho partecipato con mio padre alle "Maitunate" di Capodanno, tradizionali canti di questua della notte di San Silvestro e ho potuto ascoltare i canti rituali attorno al fuoco di San Vitale, la prima domenica di maggio. Durante tutta l'adolescenza ho un po’ dimenticato la musica tradizionale, e mi sono appassionato al blues, al rock e agli studi di musica classica. Circa dieci anni fa, sulla scia di un generale rinnovato interesse verso la musica tradizionale, io ed Antonio Fanelli, antropologo dell'Istituto De Martino, abbiamo avviato una ricerca sul campo riguardante il repertorio tradizionale del mio paese. Così ho riscoperto tutti i canti popolari della mia zona, entrando sempre di più in questo mondo ed inevitabilmente ho conosciuto il primo folk revival e tutta la produzione musicale, italiana e non, legata alle tradizioni».
Nel disco canti in dialetto molisano, e in particolare quello che si parla a Riccia, il tuo paese d'origine. Pensi che il dialetto sia più musicale e "cantabile" rispetto all'italiano?
«Ho scritto anche in italiano, sopratutto nel mio primo disco "Non investo in beni immobili". La scelta del dialetto in questo disco è legata maggiormente al fatto di sentirmi più vicino a quello che sono e che racconto. Inevitabilmente poi ispirandomi tantissimo alla musica americana il dialetto è molto più vicino foneticamente all'inglese ma di questo ci ha dato già una grande lezione Pino Daniele».
Oltre a questo a disco, sei stato impegnato nel sorprendente progetto di Zampognorchestra da cui è nato l'album "Bag to the future". Cosa sta alla base di questa idea e quale futuro hai immaginato per questa esperienza?
«Da quando mi sono innamorato della zampogna un mio pallino è sempre stato la composizione per questo strumento. Già nel 2007 ho inciso "Produzione propria" un disco contenente sei brani originali per zampogna sola. Successivamente, anni dopo, ho pensato che unire più zampogne con composizioni originali poteva essere un'esperienza nuovissima e unica. Con questo gruppo ho fatto esperienze bellissime, prima tra tutte quella con Toni Casalonga e il gruppo A Cumpagnia in Corsica. Con loro, tra le altre cose, abbiamo riportato in vita l'estinta cornamusa corsa, o caramusa, e riadattato le polifonie corse per le nostre zampogne. A parte questo ultimo periodo, in cui mi sono dedicato di più all'ultimo disco, continuo sempre a scrivere per questo ensemble e conto di avere nuove esperienze e nuove collaborazioni».
Altro progetto che hai seguito in questi anni è quello con i Taraf de Gadjo. Questa esperienza è da considerarsi conclusa?
«Assolutamente no. Anche se in questo gruppo, diretto dal bravissimo violinista Domenico Mancini, compaio solo in veste di esecutore, ormai fa parte dei miei progetti a tutto tondo. Sempre quest'anno abbiamo pubblicato il nostro primo disco "Tzigane, klezmer & gypsy jazz music", molto apprezzato da critica e pubblico».
Il tuo disco è indubbiamente uno dei più belli usciti nel corso dell'anno. Anche la giuria del Premio Tenco è dello stesso avviso avendolo inserito nella top five. Te lo aspettavi e cosa pensi di questo riconoscimento?
«Grazie mille del complimento innanzitutto. È una tappa che sognavo da tempo, e spero che questo riconoscimento mi offra la possibilità di lavorare sempre meglio, anche in questo periodo indubbiamente molto difficile. Questo risultato è il frutto di un grande lavoro, sia per la realizzazione del disco e sia per la sua promozione, e quindi mi fa piacere che i giurati lo abbiano riconosciuto. Nonostante avessi in un certo senso intravisto la possibilità entrare in cinquina quando mi sono trovato davanti al dato reale sono rimasto incredulo per un po' di tempo».
Titolo: Terribilmente démodé
Artista: Giuseppe Moffa
Anno di pubblicazione: 2015
Etichetta: Workin' Label/IRD
Tracce
01. Thank you lord for givin' us Madonna di Montevergine
02. A ramegne (u sfizie du ciucce)
03. All'acque all'acque li funtanelle
04. A stessa storie
05. Quando
06. A scalelle
07. U sceme du paese
08. I tufi
09. Anteprima
10. A 'ndo u tempe 'nge sta
11. U vecchie azzennarelle
12. Ninna nanna
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