martedì 12 aprile 2016

Patrizia Cirulli regala "Mille baci" di poesia





Cantare versi scritti da altri può significare due cose: avere poco da dire oppure voler dire tutto, come in questo caso. Patrizia Cirulli nel suo nuovo lavoro in studio, dal titolo "Mille baci", è riuscita a regalare emozioni prendendo in prestito poesie di autori famosi e vestendole con abiti musicali eleganti, a volte sgargianti altre dai colori meno appariscenti, oppure semplici ma dall'effetto caldo e avvolgente. Una tavolozza musicale che scorre veloce all'ascolto e lascia piacevoli sensazioni. Si tratta di un progetto che avrebbe potuto fare cadere l'artista in una sterile e mal riuscita riproposizione di poesie di poeti famosi invece la cantautrice milanese ha lavorato sodo e la sua profonda sensibilità le ha permesso di dare alle stampe un'opera raffinata in cui brillano quindici gemme. Poesie di Catullo, Oscar Wilde, Quasimodo, Saba, D'Annunzio, Alda Merini, Trilussa, Eduardo De Filippo, Baudelaire, Pessoa e un emozionate scritto di Frida Kahlo al marito Diego Rivera hanno trovato nuova giovinezza grazie al lavoro della Cirulli che ha messo in evidenza la profonda essenzialità poetica della parola.
Come nel precedente "Qualcosa che vale", Patrizia Cirulli si è affidata alle cure di Lele Battista,  arrangiatore e polistrumentista dal tocco internazionale che ha saputo dare ampio respiro a tutto il progetto. A questa coppia artistica ormai collaudata si sono aggiunti nomi importanti della scena musicale italiana, tra cui Tony Canto, Andrea Di Cesare, Luigi Schiavone, Niccolò Bodini, Giorgio Mastrocola, Giordano Colombo, Davide Ferrario, Antonio Magrini e Massimo Germini. Un discorso a parte lo merita Fausto Mesolella di cui la Cirulli ha musicato una brano o meglio una poesia dal titolo "Dormo".
Ormai le classifiche lasciano il tempo che trovano ma "Mille baci" può tranquillamente ambire alle  posizioni di vertice della produzione italiana di quest'anno e se le radio uscissero dalle logiche di mercato questo disco avrebbe le carte in regola per arrivare al grande pubblico perché gli ingredienti ci sono tutti. Non ultimo la bellissima voce calda e sensuale della Cirulli.
Patrizia, oltre ad essere una grande artista, è donna dalla spiccata sensibilità con cui è piacevole conversare e il cui amore per il mare della Liguria è confermato dal videoclip della canzone "Mille baci", registrato sulla spiaggia di Cavi di Lavagna. Non poteva quindi che nascere una intervista ad ampio respiro sul suo nuovo lavoro discografico.



Patrizia, quale è stata la difficoltà più grande che hai dovuto affrontare per mettere in piedi questo progetto?

«Da un punto di vista artistico, compositivo, non ho avuto nessun tipo di problema. È avvenuto tutto in modo naturale e istintivo. Più che altro ho poi dovuto fare un lavoro di ricerca per contattare gli eredi dei poeti e chiedere loro il permesso per utilizzare i testi. Questa è stata una parte del lavoro che ha richiesto pazienza, impegno e costanza. È stato davvero un piacere conoscere gli eredi di questi grandi poeti che mi hanno anche incoraggiato con i loro complimenti, come nel caso di Alessandro Quasimodo e Luca De Filippo. Sono stati tutti molto attenti e disponibili all'ascolto del lavoro presentato. Li ringrazio immensamente per avermi dato il loro appoggio e il permesso di realizzare questo disco».

Con quale criterio hai scelto le poesie da musicare?

«Mettendomi davanti al testo e cercando di percepire la sua musicalità, oltre al mio gusto personale. Mi è capitato di "cantare" alcune poesie solo prendendo in mano il foglio. Leggendole avevo già in mente la melodia. Alcune le ho incontrate. Altre le ho cercate. Ho comunque scelto quelle che avevano una struttura e un linguaggio moderno e attuale».

Una volta in mano le poesie avevi già una idea precisa dell'abito musicale da cucire loro addosso?

«Per alcune si, come ti dicevo. Alcune le ho cantate subito. Per altre, ho lavorato un po' di più. L'idea di base, comunque, mi arriva abbastanza velocemente, ho già un'idea di quello che sta per succedere. Qui ti parlo della scrittura, della composizione musicale. Gli arrangiamenti sono poi stati curati da Lele Battista, che a livello di arrangiamento aggiunge poi la sua creatività in studio, rispettando però la natura della composizioni».

Come hai fatto ad adattare la musica alle poesie?

«Ho in mente quella che è la forma canzone. Non cambio una sola parola del testo originale. Semplicemente ho necessità di ripetere alcune frasi come ritornelli o strofe o momenti di passaggio, come succede nelle canzoni. In base alla musicalità delle parole e al senso del testo, si viene a creare uno stato emotivo particolare e da lì parte la creazione musicale. In fondo è quello che succede quando un compositore musica il testo di una canzone».

Da Catullo a Oscar Wilde, da Quasimodo a Baudelaire. A quale dei poeti che canti sei più legata e perché?

«A livello personale, ti dico Alda Merini. Non mi riferisco necessariamente ai due brani che sono presenti nel disco con i testi di Alda (anche se li amo molto), ma proprio a lei come essere umano e poetessa. È stata una grande donna, ha saputo attraversare e superare il dolore e trasformarlo. Ha scritto delle cose meravigliose e i suoi scritti e le sue parole sono grandi insegnamenti per tutti noi. Senza nulla togliere, ovviamente, alla grandezza degli altri poeti».

Il tuo rapporto con la letteratura e la poesia quando è nato?

«Mi piaceva leggere già da bambina, ho cominciato naturalmente con i testi proposti dalla scuola. Ricordo le prime letture con Calvino, poi Leopardi, Edgar Allan Poe. Mi piace ricordare che alle scuole elementari, ho portato agli esami dell'ultimo anno una poesia di Francesco Guccini. L'insegnante presentò una serie di poeti e relative poesie in modo da sceglierne una da presentare agli esami. Ad un certo punto parlando di Guccini, disse che questo poeta faceva anche il cantante. Io, che amavo la musica e sapevo già che avrei voluto cantare, scelsi a scatola chiusa la poesia del "poeta cantante". Si trattava della poesia "Il vecchio e il bambino". Un testo poi musicato e diventato canzone».

Tra le canzoni presenti nel disco c'è "Dormo", il cui testo è stato scritto non da un poeta ma da un grande compositore e musicista come Fausto Mesolella. Perché l'idea di inserirla?

«"Dormo" è una poesia scritta da Fausto Mesolella, che come sappiamo è un grande chitarrista e compositore. In questo caso però, credo forse per la prima volta, compare proprio come poeta. La musica è stata composta da me, quindi ho musicato questo testo come tutte le altre poesie del disco. Fausto scrive anche poesie. Ne ho lette alcune e mi sono piaciute molto. Non solo, mi sono proprio affezionata ad alcune di loro. Così le ho musicate e le ho fatte ascoltare a Fausto. Gli sono piaciute, mi ha dato la sua approvazione e ne ho così scelta una per questo disco».

Questo progetto ti ha portato a cantare anche in inglese, spagnolo, francese, portoghese e anche in dialetto napoletano. Un bell'impegno…

«E anche in romanesco con la poesia di Trilussa. In effetti ho dovuto poi farmi aiutare nella pronuncia da alcuni madrelingua. È stato comunque divertente anche se questo ha richiesto, ovviamente, un impegno. Ho pensato fosse corretto riportare su disco, come versione ufficiale, i testi dei poeti nella loro lingua originale, sia per rispetto nei confronti degli autori, sia perché il senso autentico è quello scritto in lingua originale. Ho poi aggiunto a fine disco, due traduzioni in italiano dei brani di Oscar Wilde e di Frida Kahlo. Questi due brani si trovano nel disco anche nelle versioni in italiano».

Tra i testi poetici da te cantati c'è, come dicevi, quello in cui Frida Kahlo dichiara il suo amore per Diego Rivera. Secondo me è uno dei capitoli più belli del disco…

«Sono d'accordo con te. Cantare un testo di Frida è stata per me una cosa straordinaria. È un'artista e una donna che ho sempre amato. Come sai, avevo scelto testi di poeti per questo disco. Poi un giorno, per una serie di associazioni mentali, mi sono ricordata di avere in casa dei suoi libri e ricordavo di aver letto delle sue poesie. Allora sono andata a riprenderli, ho individuato quello che poi sarebbe diventato il testo di questa canzone, "Poema para Diego Rivera", ovvero "Poesia per Diego Rivera". È un elenco di quello che Diego, il marito, era per lei. Un testo, secondo me, molto semplice nella forma ma con un grande impatto emotivo, soprattutto se si conosce la sua e la loro storia. Quando l'ascolto, spesso piango, mi commuovo. Così come ho pianto mentre componevo la musica».

Il disco è composto da diciotto tracce. Negli anni Settanta sarebbero finite su un doppio LP. Non ti è venuto il dubbio che fossero troppe?

«In realtà i brani sono quindici. La traccia numero sei è il testo di Baudelaire recitato in italiano da Giancarlo Cattaneo, speaker di Radio Capital e voce del progetto "Parole Note", che declama la poesia su un tappeto musicale tratto dalla canzone che segue immediatamente dopo, che sarebbe la poesia di Baudelaire cantata da me in francese. Le altre due tracce, la diciassette e la diciotto, sono le versioni in italiano dei brani di Frida Kahlo e Oscar Wilde. Mi è venuto in mente alla fine, ma è stato un dettaglio. Ho ritenuto opportuno farle stare tutte insieme, fanno parte della stessa famiglia anche se nel disco convivono vari generi musicali. È frutto del mio stile compositivo che si muove fra musica leggera e musica d'autore».

Hai lasciato qualcosa nel cassetto?

«Sì, ho lasciato fuori altri poeti e altri brani. Ho dovuto per forza di cose fare poi una scelta, altrimenti si che poi sarebbero state troppe canzoni».

Come per il precedente album, "Qualcosa che vale", ti sei affidata agli arrangiamenti di Lele Battista. Quali sono le qualità che ti hanno convinta a proseguire questo sodalizio artistico?

«A parte la stima personale e artistica, Lele mi conosce e riesce a comprendere nell'immediato quello che voglio fare e quello che c'è da fare nei brani che gli porto nella versione voce e chitarra. Ha una grande sensibilità artistica e umana. Fra l'altro, Lele duetta con me nel brano "Stringiti a me", la traccia numero quindici con il testo di D'Annunzio».

Ad accompagnarti in questo ambizioso progetto sono stati alcuni tra i musicisti più apprezzati della scena italiana. Con quale di questi pensi di avere più affinità e con chi ti piacerebbe registrare un album intero?

«Sono tutti musicisti straordinari, è vero. Le affinità le ho un po' con tutti loro. Per registrare un album intero, istintivamente ti direi Fausto Mesolella. Ma anche Tony Canto e Massimo Germini».

Quali diresti essere i maggiori pregi di questo disco?

«Si tratta di un disco che può essere ascoltato e apprezzato da tutti. In realtà non è un disco di "nicchia", è di facile ascolto. Ma ha profondità. È stato concepito per essere ascoltato e accolto da tutti, dai salotti letterari alle scuole elementari, in ambiti culturali e popolari. Ho scelto poeti famosi ma poesie non molto conosciute, a parte quella che dà il titolo all'album. Gli arrangiamenti sono pop nel senso più ampio e bello del termine. All'interno del disco coesistono, come ti dicevo, vari mondi. Si alternano leggerezza e profondità, volte a evocare e valorizzare lo spirito del testo. Poi ci sono momenti molto particolari e unici, come la messa in musica in forma canzone di un testo di Frida Kahlo. E anche di Eduardo De Filippo. Sono canzoni che si lasciano cantare. Il valore aggiunto è che i testi sono scritti dalla penna immortale di autori straordinari».


Titolo: Mille baci
Artista: Patrizia Cirulli
Etichetta: Incipit Records / Egea Music
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce

01. Ay! Had we never loved at all  [testo di Oscar Wilde; musica di Patrizia Cirulli]
02. Deseo  [Federico Garcia Lorca; Patrizia Cirulli]
03. Forse il cuore  [Salvatore Quasimodo; Patrizia Cirulli]
04. Aprile  [Gabriele D'Annunzio; Patrizia Cirulli]
05. Mille baci  [Gaio Valerio Catullo; Patrizia Cirulli]
06. T'adoro al pari della volta notturna (preludio)  [traduzione di Attilio Bertolucci; Patrizia Cirulli]
07. Je t'adore à l'égal de la voûte nocturne  [Charles Baudelaire; Patrizia Cirulli]
08. Poema para Diego Rivera  [Frida Kahlo; Patrizia Cirulli]
09. Quanno parlo cu te  [Eduardo De Filippo; Patrizia Cirulli]
10. E più facile ancora  [Alda Merini; Patrizia Cirulli]
11. La capra  [Umberto Saba; Patrizia Cirulli]
12. Dormo  [Fausto Mesolella; Patrizia Cirulli]
13. Primavera  [Trilussa; Patrizia Cirulli]
14. Nao sei se è amor  [Fernando Pessoa; Patrizia Cirulli]
15. Stringiti a me  [Gabriele D'Annunzio; Patrizia Cirulli]
16. Sono solo una fanciulla  [Alda Merini; Patrizia Cirulli]
17. Poesia per Diego Rivera  [Frida Kahlo; Patrizia Cirulli]
18. Se noi non avessimo amato  [Oscar Wilde; Patrizia Cirulli]



martedì 29 marzo 2016

Per Giancarlo Frigieri non è mai "Troppo tardi"




La sconfitta come accettazione dei propri limiti ma soprattutto come nuova possibilità, come occasione per ripartire e per imboccare strade inesplorate. È questo in filo conduttore che lega le otto canzoni di "Troppo tardi", nuovo album di Giancarlo Frigieri. Armato di chitarra e voce il cantautore di Sassuolo, al suo settimo capitolo discografico in poco meno di dieci anni di carriera solista (è stato per alcuni anni batterista dei Julie's Haircut), ha lasciato da parte lo stereotipo classico del cantautore e ha esplorato soluzioni sonore inconsuete. Basta ascoltare la canzone "Motivi familiari" in cui la sezione ritmica è affidata all'espressione ‹ti amo› in lingua finlandese mandata in loop, oppure il brano "Il chiodo" in cui Frigieri simula il tocco delle spazzole sulla batteria sussurrando ‹zitti tutti›, o ancora "Elicotteri e cani" in cui respiri e feedback di chitarra regalano un effetto percussivo. Anche le chitarre non sono usate in modo convenzionale e un esempio è il brano "Fiori" in cui l'assolo è creato unendo frammenti di melodie di autori classici del Novecento oppure la canzone "Galleria" che parte pagando un debito ai Primal Scream e termina quasi fosse uno spot pubblicitario. Tante piccole soluzioni che rendono il disco intrigante e piacevole. Notevole il lavoro che Frigieri ha fatto sui testi in cui sembra emergere quasi una auto-analisi che esorcizza una vita fatta di inciampi e ripartenze, in un susseguirsi di stagioni che passano e non ritorneranno. Testi che non per questo gettano una luce malinconica sulle canzoni ma sono semplicemente l'accettazione di una condizione umana a cui tutti dobbiamo adeguarci e che non può essere cambiata o stravolta. 
Nell'intervista che segue Giancarlo Frigieri ha parlato del suo nuovo album.



Giancarlo, è "Troppo tardi" per cosa?

«Per tornare indietro. È sempre troppo tardi. Bisogna vivere il proprio presente».

In questo album canti dell'accettazione delle sconfitte e della possibilità di ripartire. La società attuale pensi che dia l'opportunità di rimettersi in carreggiata dopo una falsa partenza?

«La possibilità di ripartire c'è sempre. Ogni sconfitta è una deviazione ed è proprio per questo che può aprire ad un percorso nuovo».

Hai vissuto sulla tua pelle quello che canti?

«A volte sì, a volte no. Molto spesso no».

Questo è il tuo settimo album a tuo nome. Penso che le velleità di sbancare il banco con la musica tu le abbia ormai archiviate, eppure continui a proporre lavori di grande qualità. Cosa ti spinge e ti stimola ad andare avanti?

«Non riesco a fermarmi. Scrivo canzoni da quando avevo nove anni, è una cosa che faccio in continuazione e non saprei proprio smettere. Magari in futuro non saranno canzoni ma musica strumentale, non so. Inoltre credo di essere bravo, soprattutto dal vivo».

In "Elicotteri e cani" canti: ‹Hai messo i sogni dentro ad un cassetto ed hai creduto ai racconti di chi ti ha detto che non meritiamo niente e non può andare meglio di così›. Ci commenti questa frase…

«Ne "Il chiodo" dico: ‹Quelli a cui piace stare dalla parte dei perdenti faranno sì che tu non vinca mai›. Più o meno è la stessa cosa».

Mi sembra di percepire anche una critica alla società di oggi fatta di apparenza, di una ricerca del consenso altrui, di una omologazione massiccia e invasiva. È così o mi sbaglio?

«Quando si fanno canzoni credo che la ricerca del consenso non sia necessariamente una cosa cattiva. Giuseppe Verdi scriveva a Boito, il suo librettista, che: ‹Bisogna guardar losco e fare un occhio al pubblico e un occhio all'arte›. Personalmente mi ritrovo perfettamente in questo. Credo che la maggior parte dei sedicenti alternativi non realizzi canzoni che si lasciano ascoltare principalmente perché non ne è capace».

Nel disco hai fatto quasi tutto da solo: hai cantato e hai suonato le chitarre. Hai un così brutto carattere da non volere nessuno al tuo fianco oppure pensi che un altro musicista possa condizionare le tue idee?

«È la prima volta che suono proprio tutto da solo. Ho deciso così e basta. Prima di ogni disco penso alle cose che mi impongo di non fare e poi devo rispettare questa regola, trovo che il limitare le proprie risorse sia una cosa che agevola la creatività. In genere, almeno in studio, ho qualche collaboratore e sono piuttosto aperto a idee esterne. Non sono mai presente ai missaggi, per dire. Mi limito ad alcune indicazioni di base e poi lascio fare. Chi partecipa al disco deve poter esprimere le proprie risorse».

Perché la scelta di una copertina anonima: una macchia di colore blu, senza titolo e senza il tuo nome?

«Lo avevo già fatto con il mio primo album in inglese. Tornassi indietro, almeno i titoli dei brani dietro li metterei, perché poi quando il pubblico li sente dal vivo, va a cercare sui dischi il pezzo che gli è piaciuto e questo agevola la vendita del supporto. Un occhio al pubblico e uno all'arte, vedi? Questa volta quello al pubblico è rimasto chiuso. È stato un errore, ma non si può rimediare. È troppo tardi, appunto».

Con il tuo precedente lavoro, "Distacco" del 2014, sei finito tra i candidato alle Targhe Tenco. Con "Troppo tardi" a cosa aspiri?

«A niente. Che è quello che ho sempre ottenuto fino ad oggi. Niente di niente di niente. Finire tra le Targhe Tenco non serve a niente, finire con le belle recensioni sui giornali non serve a niente, quantomeno non ti dà quello "spazio di incidenza", per dirla con Gaber e Luporini, per cambiare un bel niente dell'ambiente che ti circonda. Non ho aspirazioni di carriera, mi limito a suonare dal vivo e a registrare le mie canzoni. Se invece parliamo del risultato puramente artistico, non ricordo quale compositore disse che la musica sarebbe stata un ibrido tra canzone acustica e parti elettroniche e che avremmo avuto delle opere capaci di coniugare immediatezza e profondità. Da questo punto di vista spero che questo album si possa ascoltare anche tra centocinquant'anni con la stessa freschezza con la quale lo si può ascoltare adesso, anche se mi rendo conto che è solo un messaggio in bottiglia nell'oceano. Però è tutto quel che posso fare».

Little Steven, il chitarrista di Bruce Springsteen, in una recente intervista ha dichiarato: ‹Non faccio fatica ad ammettere che è stato un privilegio e un grande insegnamento venir su nell'unico periodo della storia (gli anni Sessanta e parte dei Settanta) in cui la musica migliore era anche la più commerciale, quella che dominava nei cuori della gente e anche nelle classifiche›. Cosa te ne pare?

«Ogni epoca ha la sua musica e la sua maniera di produrla e ascoltarla. Little Steven è stato fortunato a riuscire a farne un mestiere senza snaturare il proprio gusto. Sul fatto che fosse la musica migliore un sacco di gente non sarebbe d'accordo».

Oltre alla tua carriera solista porti avanti il progetto K. Butler & The Judas. Ce ne parli?

«Facciamo delle cover di Dylan, le facciamo ogni volta in maniera diversa, non facciamo praticamente mai le prove e improvvisiamo molto. Siamo dylaniani nello spirito, non nella calligrafia ed è una cosa che si può permettere solo chi ha grandi musicisti nella band, come abbiamo noi. I grandi musicisti ovviamente sono Antonio Righetti, Lele Borghi e Gianni Campovecchi. Io sono l'imbroglione di turno, che però riesce a farla franca».

È da poco finito il Festival di Sanremo. Ti interessa? Ti sarebbe piaciuto essere su quel palco?

«Certo che mi piacerebbe essere a Sanremo. Il motivo è semplice. È un'opportunità per fare dischi e concerti che vengano considerati. Ricordo una data di Max Gazzè al Kalinka di Carpi nel periodo de "La favola di Adamo ed Eva" davanti a venticinque persone. Due mesi dopo era a Sanremo, ha aggiunto un pezzo al disco e lo ha ripubblicato. Tempo un mese ancora e ha riempito i teatri. Sanremo è la manifestazione più vista, soprattutto dal pubblico cosiddetto "indipendente"».

Dove ti possiamo trovare?

«Su www.miomarito.it ci sono le date. Venite a sentirmi dal vivo. È l'unica arma che ho».


Titolo: Troppo tardi
Artista: Giancarlo Frigieri
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2015

Tracce
(testi e musiche di Giancarlo Frigieri)

01. Nakamura
02. Galleria
03. Nel mondo che faremo
04. Elicotteri e cani
05. Il limite
06. Motivi familiari
07. Fiori
08. Il chiodo



venerdì 11 marzo 2016

Giorgia del Mese vive emozioni post-ideologiche





A distanza di due anni e mezzo dall'ottimo "Di cosa parliamo", la cantautrice campana Giorgia del Mese torna con "Nuove emozioni post-ideologiche", terzo album della sua carriera, in uscita l'11 aprile sotto etichetta Radici Music. Un disco potente, graffiante, incisivo che esalta le capacità di scrittura di questa artista tra le più interessanti del panorama italiano. Le atmosfere post-rock ed electropop si legano a suggestioni noise in un vortice sonoro a cui il produttore Andrea Franchi, già a fianco di Marco Parente e Paolo Benvegnù, dà spazialità e vigore. Dalle narrazioni a tratti ruvide, senza filtri, dirette, emerge l'urgenza di raccontare e descrivere le dinamiche del mondo, della società e dei rapporti personali osservandoli da un prospettiva diversa, per certi versi alternativa. Si parte dall'insofferenza di "Nuova visione" fino ad arrivare a "Caro umanesimo", poco più di due minuti di rabbia e accuse per quello che sta accadendo a migliaia di persone in fuga attraverso il Mediterraneo. E si riparte con l'inquietudine di "Fuoco tutto" per arrivare ad un finale strumentale noise che evoca la partenza verso lo spazio della navicella da cui la del Mese ha osservato il mondo in questo nuovo capitolo della sua storia artistica. Ad accompagnare il viaggio ci sono gli alberi della copertina che come tante mani stilizzate indicano un centro di gravità non ancora raggiunto.  
Come già successo nel disco precedente, Giorgia del Mese ha voluto al suo fianco alcuni amici in questa nuova avventura: Andrea Mirò, che dà il suo contributo su "Bello trovarti", l'istrionico Peppe Voltarelli, che dà vita ad un riuscito ed emozionante duetto su "Soltanto tu", Francesco Di Bella, che canta insieme alla del Mese nell'unica cover del disco, "Lacreme" dei 24 Grana.   
"Nuove emozioni post-ideologiche" è uno dei dischi più belli e coinvolgenti degli ultimi mesi. Giorgia del Mese mette sul piatto canzoni che hanno spessore e dignità di esistere e che meritano di essere ascoltate ed apprezzate. Un disco che rappresenta un punto di riferimento per la nuova scena italiana e con Giorgia abbiamo approfondito il discorso nell'intervista che segue. 




Giorgia, da dove arrivano le canzoni del tuo nuovo album intitolato "Nuove emozioni post-ideologiche"?

«Le canzoni di questo album sono state pensate in un anno di considerazioni, di aggiustamenti di vita e di assunzioni di nuove postazioni da cui osservare in modo partecipato. Direi che è un disco di pessimismo esistenziale ma orientato ad un ottimismo antropologico».

Sei sicura che stiamo vivendo in una epoca post-ideologica? Io temo che le ideologie non siano morte ma abbiano solo cambiato forma…

«Il "post ideologico" fa riferimento ad una nuova ideologia dominante almeno in occidente e in particolare nel nostro paese, dove annacquare e imborghesire gli obiettivi e le aspettative è diventato la normalità, dove le ideologie e le conquiste dei partiti comunisti e delle lotte degli anni precedenti vengono squalificate per dare cittadinanza al "meno peggio", al "siamo tutti nella stessa crisi", uccidendo una coscienza di classe e ricacciandoci indietro. Un disastro».

Quale "Nuova visione" auspichi?

«"Nuova visione" è in realtà una provocazione e non una proposta. È la rassegnazione di vivere sperando che non arrivi il peggio, abdicando a sogni e prospettive, abbracciando quello che ci ha invece ucciso: la politica statalista reazionaria e l'antipolitica razzista e egoista».

Giorgia del Mese. Genova, 31 maggio 2015 (copyright)
Hai arricchito questo tuo terzo lavoro con un alcuni ospiti. A partire da Andrea Mirò che ha dato il suo contributo in "Bello trovarti". Come vi siete incontrate?

«Con Andrea Mirò è stato un bellissimo incontro. È una persona appassionata, curiosa, generosa e una grande artista. L'ho incontrata varie volte in festival dove abbiamo condiviso il palco e un giorno le ho dato il mio disco. Dopo qualche mese mi ha scritto dicendo: ‹cazzo, non immaginavo fossi così forte›».

A impreziosire "Soltanto tu" c'è l'istrionico Peppe Voltarelli. Come si è svolta la session in studio?

«Con Peppe Voltarelli c'è una amicizia che è nata al Premio Tenco 2011. Viviamo entrambi a Firenze e questo ci ha permesso di coltivare le nostre affinità artistiche e umane, è una delle persone con cui mi sono sempre sentita a mio agio nonostante la sua statura artistica. Inoltre è un compagno e questo ci unisce molto. La sessione in studio è stata in primo luogo divertente e spensierata, e questo è una rarità quando si registra un disco, tutto merito di Peppe...».

Unica cover del disco è "Lacreme" dei 24 Grana con Francesco Di Bella che duetta con te. Perché hai scelto questa canzone?

«Era da tempo che volevo cantare un brano in napoletano visto che sono originaria di Salerno, ma sono restia a scrivere in lingua. Con Francesco Di Bella c'è un affetto profondo e ritengo che lui sia uno degli autori più sensibili in circolazione. "Lacreme" è un brano che avrei tanto voluto scrivere io…».

"Caro umanesimo" è una bordata esplosiva e rabbiosa contro la società di oggi con le sue storture, ipocrisie, sofferenze ed egoismi. Poco più di due minuti di rabbia…

«"Caro umanesimo" è un grido di rabbia e impotenza rispetto a quello che succede a centinaia di migliaia di fratelli e sorelle che cercano una vita migliore in occidente e noi, non abbiamo saputo salvare, accogliere, proteggere».

In "Strana abitudine" mi piacerebbe che mi commentassi il verso «...questa strana abitudine di morire senza protestare». Mi è venuta in menta la società italiana di oggi che è talmente distratta che non scende in piazza neppure per salvare la sanità pubblica…
Genova, 31 maggio 2015 (copyright)

«Hai colto molto bene quello che cerco di raccontare in "Strana abitudine", questa condizione esistenziale di resistenza, di cupezza, una area "depressogena" che assumiamo come normale, ma non lo è, eppure qualcosa esplode, qualcosa riemerge e si ribella. Spero!»

Si cambia decisamene tono con "La cosa da dire", in cui canti accompagnata da una chitarra acustica. Poco meno di un minuto e mezzo per dire cosa?

«"La cosa da dire" è un saluto ad un amico che se ne è andato, a cui è dedicato l'intero disco, per dirgli e dirci scusa, ma con vigore e prospettiva, perché tradiamo tutto ma tutto resta ancora da onorare».

Mi piace molto anche la copertina. Io però al posto degli alberi vedo tante braccia teste che invocano pace…

«La copertina è opera dell'artista Simone Vassallo. Abbiamo voluto creare una foresta intricata, oscura, ma vista dal basso forse si può conoscere meglio e fa meno paura».

Perché hai deciso di chiudere il disco con un brano strumentale, a tratti noise, in cui tastiere, chitarre e batteria elettronica si rincorrono nello spazio quasi fosse una corsa verso quel centro a cui puntano gli alberi della copertina?

«Il disco si chiude con un brano strumentale noise, perché questa è l'intera cifra del disco: un lavoro rumoroso, elettrico, imperioso, in cui non c'è spazio per la commozione».

A produrre e a curare l'arrangiamento è ancora una volta Andrea Franchi, un sodalizio artistico ormai consolidato il vostro. Quanto è importante la presenza di un produttore e cosa ha apportato al tuo disco?

«Il produttore artistico nei miei lavori è una figura determinante, è colui che sa tradurre le intenzioni e le intuizioni della scrittura e farle viaggiare con una nuova vita. Andrea Franchi è un super produttore perché ha la rara capacità di mettere il suo grande talento al servizio di un autore rispettando e interpretando l'identità di chi produce».

Concludendo, come sarà "Nuove emozioni post-ideologiche" dal vivo?

«Il tour 2016 sarà una sorpresa per chi ha seguito i miei live precedenti. Saremo in duo con Andrea Franchi in un set elettro-pop, come questo disco vuole».


Titolo: Nuove emozioni post-ideologiche
Artista: Giorgia del Mese
Produttore: Andrea Franchi
Etichetta: Radici Music
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Giorgia del Mese, eccetto dove diversamente indicato)

01. Nuova visione
02. Bello trovarti
03. Caro umanesimo
04. Soltanto tu
05. Fuoco tutto
06. Lacreme  [24 Grana]
07. Strana abitudine
08. Senza più scuse
09. Tutto a posto
10. La cosa da dire
11. _



martedì 1 marzo 2016

"Storie della fine di un'estate" di Carlo Ozzella





I colori e i sapori dei mesi estivi, i sogni e i tanti volti dell'amore, della libertà e dell'amicizia fanno capolino nel nuovo album di Carlo Ozzella. "Storie della fine di un'estate", pubblicato a due anni e mezzo di distanza dal precedente "Il lato sbagliato della strada", segna un deciso passo in avanti nella crescita artistica del cantautore milanese. Abbandonati, almeno per il momento, i Barbablues, compagni di viaggio per oltre quindici anni e protagonisti di centinaia di concerti nei locali del nord Italia, e affrancatosi dalle influenze, a volte troppo marcate, della produzione di Bruce Springsteen, Ozzella ha dato vita ad un disco di sano rock influenzato dalla tradizione americana così come dalla canzone d'autore italiana. Musicalmente Ozzella ha scelto di utilizzare molto meno il sax, strumento tra i più importanti del disco precedente, e di lasciare poco spazio agli assolo, tutto ciò a vantaggio di un suono più compatto e moderno. È cambiato anche il punto di osservazione da cui Ozzella guarda il mondo. Gli aspetti sociali, tanto importanti nelle canzoni de "Il lato sbagliato della strada", hanno lasciato il posto ad una visione più intima e personale in cui gli stati d'animo, le emozioni e le esperienze di vita sono diventate protagoniste nelle undici tracce autografe. Per raccontarsi Ozzella ha lasciato da parte la lingua inglese, utilizzata in alcune delle canzoni del primo disco, e ha scelto di cantare tutti i brani in italiano. Scelta ampiamente condivisa da chi scrive e che ha donato maggiore omogeneità all'album.
Arricchisce il cd la canzone "Quando il cielo è fragile", scritta da Lorenzo Semprini e pubblicata una decina di anni fa in inglese nel disco dei Miami & The Groovers. Il brano è stato poi tradotto da Daniele Tenca e quella pubblicata da Ozzella è la prima versione ufficiale in italiano. "Storie della fine di un'estate" è un disco brillante, coerente e generoso che scorre fluido senza momenti di stanca o cali di tensione e che conferma l'ottima vena creativa di Ozzella.
In studio di registrazione il cantautore milanese si è avvalso della collaborazione di Claudio Lauria al sax, di Davide Malanchin alla batteria e alle percussioni, di Martino Pellegrini al violino, di Paolo Quaglino alle chitarre, di Riccardo Maccabruni all'Hammond e alla fisarmonica, di Roberto Cito al basso e di Stefano Gilardoni al pianoforte e al mandolino.
A raccontarci la genesi di "Storie della fine di un'estate" è Carlo Ozzella nell'intervista che segue. 




Carlo, è sempre un piacere poter chiacchierare con te. Cosa è successo nella tua vita dall'ultima volta che ci siamo bevuti una birra insieme?

«Tantissimi concerti, molti nuovi amici che seguono la mia musica, una bimba che cresce, un'altra in arrivo fra pochi mesi… e un nuovo album!».

Presentaci "Storie della fine di un'estate", il tuo nuovo disco uscito in questi giorni…

«Dodici brani, tutti in italiano, rock d'autore. È un disco in cui si incontrano le sonorità tipiche del rock americano classico, del folk rock più moderno e della canzone d'autore italiana, in cui la cura dei testi ha una grande importanza. Le canzoni raccontano pezzi di vita, ricordi, sogni, l'amore con i suoi tanti volti, l'amicizia. Dopo il precedente album, in cui mi ero soffermato maggiormente su tematiche sociali, sulla crisi che stavamo attraversando, volevo che questo lavoro contenesse storie molto più personali, storie reali, in cui ognuno si potesse identificare».

Rispetto al precedente disco, questo non è più firmato insieme ai Barbablues. È cambiato qualcosa?

«Ero convinto che questo disco dovesse rappresentare una svolta per me. Volevo che suonasse alla grande, che contenesse idee nuove da un punto di vista musicale, che venisse registrato in maniera assolutamente professionale. I Barbablues sono nati come "party band", hanno fatto questo per quindici anni e ancora lo fanno in maniera eccezionale! Ma suonare delle cover e animare una serata è una cosa diversa rispetto a produrre un disco. Insieme ci siamo resi conto che era bene separare queste due realtà, che per inseguire l'idea che avevo in testa era necessario affidarsi a nuovi musicisti, ad un produttore artistico. E poi portare avanti un progetto solista, in cui potesse emergere la figura di un cantautore con le sue storie da raccontare».

Da dove arrivano le canzoni di questo disco?

«Subito dopo l'uscita del precedente lavoro per un anno circa non ho scritto praticamente niente. Poi gradualmente una serie di nuove canzoni hanno iniziato a venire alla luce, prima le musiche, poi le idee sui testi, poi versi sempre più affinati. In alcuni casi si è trattato di un'esigenza espressiva immediata, emozioni che non sapevo elaborare se non facendole confluire in una canzone, in altri di lunghe riflessioni, su cosa volevo raccontare e in che modo. Mi piaceva in generale l'idea che alla fine ne risultasse un compendio di differenti storie ed esperienze».

C'è un filo conduttore che lega le storie che canti in questa tua nuova fatica discografica?

«La prima volta in cui ho ascoltato l'album finito mi sono accorto che c'è un termine che ricorre spesso nelle canzoni: "libertà". Credo che questo tema attraversi in maniera trasversale tutto il disco, anche da un punto di vista musicale».

Nei testi mostri un carattere molto determinato. In più di una occasione inviti a vivere totalmente la vita, a rinascere senza dover fingere. È questo il modo in cui vorresti vivere?

«Mi rendo conto sempre di più come spesso ci troviamo a condurre vite in cui scegliamo solo in parte cosa vogliamo davvero. Per il resto è una grande finzione, abbiamo la nostra parte e dobbiamo recitarla. La cosa sorprendente è che se ci pensi bene nessuno ci costringe a farlo! Eppure per uscire dagli schemi ci vuole molto coraggio e io per primo non sempre sento di averlo».

È applicabile questa visione alla società di oggi?

«Sono convinto che sia possibile fare dei primi passi, partire dalle piccole cose e in quelle riaffermare le proprie scelte, non condizionate. Chiedersi se quello che si sta facendo ci piace davvero, ci rende felici, e se non è così intraprendere un nuovo cammino».

Musicalmente gli interventi di sax, molto presenti nel tuo primo disco, sono più ridotti a vantaggio di violino e tastiere. Un cambio di rotta?

«In parte sì. Volevo allargare le mie possibilità espressive, usare sonorità più variegate e soprattutto fare un disco che suonasse attuale, moderno. Il sax è uno strumento magnifico e Claudio (Lauria, ndr) in particolare è un musicista di grande qualità, ma ricorrere sempre al sax come strumento solista rischiava di portarci un po' indietro negli anni, a sonorità che oggi sono un po' superate. Le stesse strutture delle canzoni sono state pensate in questo senso, in generale ci sono pochi assolo e i pezzi scorrono via molto più compatti».

Trovo che le canzoni suonino meno "springsteeniane" rispetto a quelle del primo disco. Personalmente ritengo che sia segno di maggiore maturità artistica. Tu cosa ne dici, sei cosciente di tutto ciò?

«Per me è stato un percorso di crescita abbastanza naturale. Un amico giornalista, Daniele Benvenuti, nella sua recensione a "Il lato sbagliato della strada" lo aveva definito come l'album "più sonoramente springsteeniano" che lui avesse ascoltato negli ultimi venticinque anni. Il che naturalmente mi aveva fatto piacere, è da quel mondo che venivo e in qualche modo a quel sound mi ero ispirato. Ma restare in quel solco conteneva una grande insidia, quella di non esprimere affatto una propria identità, che è l'esatto contrario di ciò che significa essere un artista».

Rock ma anche aperture verso certe sonorità irlandesi come in "Ti bacio per tutta la vita"…

«Avevo in mente alcuni strumenti che senz'altro avrei voluto utilizzare, come il violino, la fisarmonica, per dare al disco sfumature folk. Volevo sentire nelle canzoni il legno degli strumenti, delle chitarre acustiche, del mandolino, percepire le loro vibrazioni. In questo disco tutti gli strumenti che si sentono sono reali, nulla di campionato o di replicato. Per l'Irlanda poi ho un amore profondo e non vedo l'ora di ritornarci. Adoro i suoni e le atmosfere della sua musica tradizionale, la sua storia e la sua mitologia, i suoi paesaggi».

Vedo che rispetto al disco precedente, dove erano presenti anche canzoni in inglese, hai scritto tutti i testi in italiano. Una scelta azzeccata che rende il lavoro molto più omogeneo. Chi ti ha consigliato di fare questa scelta?

«Ho avuto diversi "consiglieri" in questo senso! Ma sinceramente è una decisione che già si era fatta strada in me. Ad un tratto ho capito che era necessario fare una scelta, definire una mia identità e portare avanti un mio modo di fare musica e di scrivere le canzoni. Solo in questo modo avrei potuto essere credibile. Ho sempre dato una grande importanza ai testi delle canzoni, io sono cresciuto ascoltando i maestri come De André, Guccini o De Gregori, e mi sono reso conto che solo scrivendo in italiano avrei potuto dare profondità alle parole, raccontare in maniera più precisa, definita e anche poetica le mie storie, pur con le complicazioni che la lingua italiana comporta».

Tra i musicisti che hanno contribuito c'è anche Riccardo Maccabruni, già con i Mandolin' Brothers e Massimo Priviero…

«Ho conosciuto Riccardo proprio seguendo i concerti di Priviero. Ho potuto vedere in più occasioni quanto fosse bravo e versatile, oltre che un ragazzo simpaticissimo e molto disponibile. Ci siamo parlati, gli ho detto che mi sarebbe piaciuto averlo nel disco a suonare gli Hammond e alcune parti di fisarmonica: ha accettato subito con entusiasmo e ha fatto un lavoro egregio. Posso dire lo stesso di Martino Pellegrini, che ha suonato le parti di violino. La magia di "In una notte come questa" è tutta merito loro».

Quasi tutti i testi sono scritti parlando in prima persona. Questo significa che sono storie che nascono da tue esperienze personali?

«Nella maggior parte dei casi è proprio così, sono storie vissute davvero, in prima persona e solo in un secondo momento elaborate, trasformate. Il processo di scrittura, il lavoro sui testi ti porta inevitabilmente poi ad assumere un punto di vista più generale, a cercare di astrarre e di rendere le tue storie più "universali". Ma ho scritto tutte le canzoni guardando molto dentro me stesso, elaborando esperienze e cercando di esprimere i miei stati d'animo, i sentimenti, che non sapevo raccontare e trasmettere diversamente. Non è stata una scelta premeditata, è qualcosa che è venuto in maniera molto naturale».

"Quando il cielo è fragile" è l'unica canzone che non hai scritto tu…

«Esatto, è una canzone dei miei amici Miami & The Groovers, il cui titolo originale è "When the tears are falling down". Era presente nel loro primo disco, uscito nel 2005, e alcuni anni dopo un altro amico e ottimo musicista, Daniele Tenca, ha scritto il testo in italiano del brano. Nei loro concerti i Miami spesso mixano le due versioni e in diverse occasioni il brano è anche stato eseguito interamente in italiano. Mancava però un'incisione in studio "ufficiale" di questa versione e così, mentre stavo lavorando al disco e facendo un po' di scelte su quali brani includere o meno, Lorenzo Semprini mi ha scritto e mi ha chiesto ‹perché non la incidi tu?›. Sono stato indeciso per un po' di tempo, il pezzo mi piaceva molto ma avevo paura che suonasse un po' "estraneo" nel contesto del disco. Poi durante una serata che abbiamo fatto poche settimane prima di andare in studio a registrare l'abbiamo suonata dal vivo. Dalla reazione del pubblico ho capito che dovevo inciderla e metterla nel disco».

E poi hai abbandonato il bianco e nero scegliendo colori molto solari per la copertina. Il sole splende alto anche se sono "Storie della fine di un'estate"…

«Volevo che questo fosse assolutamente un album "a colori", nell'artwork del cd così come nelle immagini utilizzate nelle canzoni e nei suoni. Quando abbiamo iniziato la pre-produzione del disco ci siamo accorti che potevamo solo in una certa misura definire le parti dei singoli strumenti, perché la vera forza dei brani sarebbe venuta fuori solo suonandoli, cogliendo l'ispirazione di quel momento. E io credo che alla fine aver scelto questo tipo di approccio abbia portato grande vitalità e solarità alle canzoni».

Tra i ringraziamenti c'è anche Bruce Springsteen & The E Street Band. Se non ci fosse stato lui ti saresti avvicinato alla musica?

«Sono convinto di sì. La musica mi ha accompagnato praticamente da sempre e già quando avevo undici anni suonavo la chitarra e cantavo. Scoprire Bruce è stato come intraprendere un cammino, avendo accanto una guida, per raggiungere un posto in cui ciò che fai coincide davvero in pieno con ciò che sei. Ma quando hai scoperto la bellezza del viaggio il percorso che fai passa in secondo piano: puoi scegliere magari una strada diversa, ma non puoi fare a meno di percorrerla».


Titolo: Storie della fine di un'estate
Artista: Carlo Ozzella
Etichetta: Avakian Productions/IRD
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Carlo Ozzella, eccetto dove diversamente indicato)

01. Santi, perdenti ed eroi
02. Niente da perdere
03. Alla fine del giorno
04. Ti bacio per tutta la vita
05. La strada che conduce a te
06. Forti e liberi
07. In una notte come questa
08. Un vuoto da riempire
09. Niente è così sia
10. Quando il cielo è fragile  [Daniele Tenca, Lorenzo Semprini, Roberto Vezzelli]
11. Fino all'ultimo respiro
12. Viola




venerdì 19 febbraio 2016

Claudia Pisani presenta "Ho incontrato Merope"




Musica d’autore italiana e songwriting nord europeo per il primo album di Claudia Pisani intitolato “Ho incontrato Merope” e arrivato sul mercato targato OrangeHomeRecords. La ventinovenne musicista ligure, originaria di La Spezia e cresciuta tra Sestri Levante e Genova, si presenta con un disco raffinato e poetico in cui affiora una viva curiosità nei confronti dei sentimenti e delle cose e in cui traspare una certa urgenza comunicativa. Claudia canta le dieci canzoni che compongono l’album in italiano così come in francese, inglese e spagnolo. Scelta che rischia di disorientare in un primo momento l’ascoltatore ma ben presto prevale il piacere dell’ascolto e delle emozioni che le composizioni riescono ad evocare. Si tratta di un disco eterogeneo, introspettivo e minimalista che musicalmente strizza l’occhio a certe produzioni del mercato nord europea, distanti da quello che viene offerto in gran parte dal panorama italiano. Le canzoni sono vere poesie in musica che non tengono conto della regola che prevede la presenza di strofa, ponte e ritornello. E ci sono episodi come "The colour of love" e "White night" che durano l’arco di un paio di minuti e si limitano ad una introduzione e al finale o recitativi come "Attimi", in cui la voce sensuale e morbida della Pisani è accompagnata dal pianoforte. "Ho incontrato Merope" è la fotografia di una giovane artista che ha scelto di essere se stessa e di non lasciarsi catturare dalle mode o da certe produzioni fotocopia che troppo spesso si ascoltano sul mercato italiano.
Determinate per la nascita del disco è stato l’incontro avvenuto quattro anni fa tra la Pisani e il produttore Raffaele Abbate che ha creduto in questo progetto e ha curato la produzione e gli arrangiamenti. Un apporto fondamentale quello del maestro di casa OrangeHomeRecords che ha saputo valorizzare le composizioni della Pisani donando al disco atmosfere sognanti e rarefatte. Al fianco della Pisani si sono seduti in sala di registrazione il cantautore toscano Stefano Barotti, in veste di chitarrista, il batterista Lorenzo Capello, il sassofonista Antonio Gallucci, Raffaele Kohler al flicorno e il contrabbassista Pietro Martinelli
Nell'intervista che segue Claudia Pisani racconta come ha incontrato Merope. 



Claudia, quanto ha significato per te registrare il tuo primo disco?

«Quanto? Tanto, e in questo tanto c'è racchiuso tutto ciò che non riesco a dire».

Da dove hai preso spunto per intitolare il disco "Ho incontrato Merope"?

«Ho preso spunto da una Merope che ho incontrato. Una ninfa, trasformata in stella da Zeus insieme alle sue sorelle, a formare la costellazione delle Pleiadi. A differenza delle sorelle, Merope è l'unica ad essersi innamorata di un umano. Per questo motivo viene raffigurata con il volto coperto o lo sguardo rivolto in basso in segno di vergogna, e per questo si dice sia la stella meno lucente; deve nascondere la sua colpa. Quando la incontrai sentii subito la necessità di dare un'altra lettura alla sua figura e darle voce. Lo sguardo rivolto in basso, come segno del darsi al suo amore terreno e lì perdersi; la sua poca luminosità, non dovuta alla vergogna o ai sensi di colpa, ma semplicemente al suo disinteresse nel brillare, perché persa in altro, in una sua ricerca. È un punto di riferimento a cui guardare quando il dubbio giustamente si insinua e mette in discussione la strada che si sta seguendo».

Perché hai scelto di cantare le canzoni del disco, oltre che in italiano, anche in francese, inglese e spagnolo?

«Un ruolo fondamentale in questa scelta lo ha avuto l'incontro musicale con Lhasa de Sela (per questo motivo ho voluto riproporre un suo pezzo nel cd, "La frontera"). L'ho incontrata una sera come sottofondo musicale in un locale; mi sono chiesta di chi fosse quella voce, e ho posto la domanda alla barista. Mi ha mostrato il cd: "La Llorona". L'ho amata da quella sera, e continuo a farlo. Ogni volta che la ascolto mi rapisce. "La Llorona" era uscito nel 1997, il suo primo cd, tutto in spagnolo. Il secondo, a distanza di sei anni, "The living road", presenta tracce in spagnolo, francese e inglese. Mi ha colpito come la sua voce in queste tre lingue doni delle sfumature emotive diverse. Era una strada che mi incuriosiva e l'ho voluta percorrere giocando con la mia di voce».

Non pensi che questa scelta possa in qualche modo disorientare l'ascoltatore?

«Sì, potrebbe. E direi che non è per forza un male».

Quanto ha influito sulla tua carriera di cantautrice l'incontro con il produttore Raffaele Abbate?

«Molto. È con lui che questo progetto è iniziato. Lui ha trovato interessanti le mie idee ed io mi sono ritrovata nel suo modo di svilupparle. L'intesa artistica è stata fin dall'inizio molto forte, legata ad una libertà di dirci sinceramente ciò che pensavamo cammin facendo. La strada è stata sicuramente tortuosa, piena di attese, di vuoti, di dubbi, ma la sensazione di star costruendo qualcosa di buono e di vero ha ridato sempre l'energia giusta per continuare e riprendere in mano la situazione anche nei momenti più critici. È un viaggio, che non dura qualche giorno, ma anni. E si è persone con le proprie piccole e grandi sfide quotidiane da vivere. Nel viaggio sono stata fortunata ad incontrare Pierpaolo Ghirelli e Lorenzo Capello, che hanno abbracciato il progetto e con i quali porterò in giro Merope».

Le prime note del disco richiamano De André, poi la geografica del suono delle tue canzoni porta verso il nord Europa. Cosa ti ha stimolato a volgere lo sguardo verso quelle realtà artistiche?

«Nel cd ci sono canzoni figlie di tempi diversi. Credo semplicemente l'incontro con artisti nuovi e la curiosità di sperimentare nuove sonorità date sia, come dicevo prima, dall'utilizzo di altre lingue, sia dalla ricerca di melodie minimali che meglio potevano rappresentare il mio linguaggio emotivo. Il viaggio verso determinati colori si sposa quindi con le scelte di arrangiamento, che accompagnano spesso il nocciolo della canzone, strumento e voce, tra rarefazioni, minimalismi e doppie, triple voci. Penso che "White night" sia l'espressione più chiara di ciò che intendo dire».

Nell'album c'è anche un brano in cui non canti ma reciti il testo. Una scelta casuale oppure un richiamo alla tua passione di scrittrice di poesie?

«No, non è stato casuale. "Attimi" è una poesia a cui tengo molto. Nata ovviamente da carta e penna, con il suo silenzio di sottofondo. Ho provato ad avvicinarmi a lei con il piano, perché è lo strumento con cui mi trovo più a mio agio a parlare, e conversando, abbiamo steso alcune note tra un pensiero e l'altro. Sono stati momenti stimolanti».

I testi delle tue canzoni sono autobiografici?

«C'è un po' di me, un po' di te, un po' di chi legge l'articolo, di chi ascolterà il cd e di chi non lo ascolterà mai».

Desideri, sogni, lacrime e sorrisi. Sono questi gli elementi preponderanti che disegnano la tua poetica?

«È la vita che li tiene stretti a sé».

A quale brano sei particolarmente legata e perché?

«Non è facile rispondere perché sono legata a ciascuno in maniera diversa. Ti rispondo con la consapevolezza della possibilità di risponderti diversamente magari fra qualche mese."Le son d'un rȇveur", vuole essere un urlo sussurrato alla vita, all'andare oltre il nero e vederne i colori che lo compongono; a comprendere le proprie paure ed imparare a conoscerle per non permettere loro di fermarci ed essere ostacolo alla crescita del nostro essere. È più che naturale avere paura di cadere, ma la caduta è inevitabile se si vuol vivere. Quindi, invece di darle il potere di immobilizzarci, proviamo a danzarci insieme. Magari per una volta può capitare a noi di farle lo sgambetto».

Quali sono attualmente i tuoi ascolti musicali?

«A proposito di atmosfere nordiche, Agnes Obel, Sóley, Moddi; oltreoceano seguo con molto interesse Beck, Patrick Watson... il suo ultimo lavoro "Love songs for robots" è un viaggio che percorri a testa in giù».

Qual è il tuo primo ricordo legato alla musica?

«Avrò avuto più o meno cinque anni. I miei nonni mi avevano regalato una pianola, con dei tastini tutti colorati; se li schiacciavi partivano le più improbabili musiche. Mi ricordo mia nonna Ersilia, la obbligavo a starmi ad ascoltare per ore, convinta di farle credere che fossi io a suonare quelle musiche. E di riuscire ottimamente nell'impresa. Il fatto è che ho preso coscienza del tutto solo qualche anno fa. Mi è tornato alla mente quel ricordo e mi è caduto il castello. Quanto ridere si sarà fatta. Con quella pianola, più avanti, mi divertivo a tirare giù le musiche degli esercizi di ginnastica ritmica che facevo. Poi ci siamo perse per un bel po' di tempo, ma è stata la mia prima passione e il mio primo ricordo musicale».

Stai lavorando a un nuovo progetto discografico?

«Ho composto nuovi pezzi, ma non vedo a breve un nuovo progetto discografico. Ci sarà sicuramente, ma voglio prendermi tutto il tempo per perdermi e comprendere piano piano dove la musica mi sta portando».


Titolo: Ho incontrato Merope
Artista: Claudia Pisani
Produttore: Raffaele Abbate
Etichetta: OrangeHomeRecords
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Claudia Pisani, eccetto dove diversamente indicato)

01. Un giorno qualunque
02. Elisir notturno
03. Tre lacrime e un sorriso
04. The colour of love
05. White night
06. Le son d'un rȇveur
07. Un passo verso te
08. Attimi
09. La frontera  [Lhasa de Sela]
10. The chimes



venerdì 29 gennaio 2016

'Del movimento dei cieli' cantan Cané & Marighelli





Isolarsi dal mondo e vivere a contatto con la natura per scrivere musica e su questa innestare parole che parlano di astrologia, filosofia, tarocchi, amore e spiritualità. È quello che hanno fatto Friedrich Cané e Giacomo Marighelli nell'album "Del movimento dei cieli", pubblicato dall'etichetta ferrarese New Model Label. Per trovare la giusta ispirazione Cané è andato a vivere in un casolare abbandonato vicino a Ferrara e seguendo il fluire del tempo, senza sveglie e orologi a scandire le ore e la frenesia della vita moderna, ha composto brani di musica elettronica che abbracciano la sperimentazione, il trip-hop, l'electro-rock e anche la classica contemporanea. Marighelli, artista poliedrico e con diversi album all'attivo a proprio nome, come Margaret Lee e con il progetto Vuoto Pneumatico, ha composto le liriche seguendo un processo di adattamento alle idee sviluppate da Cané. Una condivisione artistica e allo stesso tempo un completamento avvenuto in maniera quasi naturale che ha dato origine a un lavoro non di immediata assimilazione ma assai stimolante e che nasconde diverse chiavi di lettura. Tema centrale dell'album è l'amore, visto nella sua evoluzione e analizzato nella sua capacità di essere motore dell'universo così come elemento fondante dell'esistenza degli individui. L'ascoltatore partecipa ad un viaggio tra lo spazio e il tempo, passando dal macro al micro, dallo spirituale al carnale. Un continuo oscillare in un vortice magmatico e avvolgente che disorienta e non concede punti di ancoraggio. In questo quadro solo i tarocchi sembrano poter regalare una chiave di lettura; le carte sono l'unico mezzo per prendere coscienza del reale e della propria esistenza.
Abbiamo provato a saperne di più intervistando i due artisti.




Giacomo, "Del movimento dei cieli" è il tuo primo esperimento di musica elettronica. Cosa ti ha attirato verso questo genere? 

Marighelli: «Non saprei dirlo con esattezza; era già dal 2012, durante la stesura del disco "Margaret Lee presenta: Giacomo Marighelli", che sentivo mi sarebbe piaciuto realizzare un disco con musica elettronica. Nel frattempo è nata la collaborazione per Vuoto Pneumatico e l'idea è finita in un cassetto anche se già nel disco di Vuoto Pneumatico qualche cosa di elettronico ha iniziato ad emergere. Chiacchierando con l'amico Friedrich Cané, è nata la voglia da parte di entrambi di lanciarci in questa avventura, e la cosa che mi è piaciuta di più è che ho lasciato totalmente a lui la parte della composizione dei brani, ed io mi sono occupato solo dei testi e della voce stessa. Così è nato "Friedrich Cané & Giacomo Marighelli – Del movimento dei cieli"».

Quando si sono incrociate le vostre strade?

Marighelli: «Ci conoscevamo già da anni grazie all'amico comune Eugenio Squarcia, detto Moreau. Friedrich ha registrato due basi elettroniche per le canzoni "Buio asmatico" e "Buon Natale" dell'album "Vuoto Pneumatico"; da lì a poco tempo abbiamo deciso di creare qualche cosa assieme».

Come sono nate le canzoni del disco?

Marighelli: «Per quasi tutto il mese di agosto del 2014 Friedrich ha vissuto in un rudere vicino a Ferrara: disperso dal mondo intero, nascosto anche se vicino ad un centro abitato, senza acqua potabile, tra le stelle, gli alberi e il vento. Ogni sera sono andato a trovarlo, lui mi faceva ascoltare ciò che in giornata aveva composto, mi spiegava il titolo che voleva dargli sotto forma di spiegazione scientifica, ed io estrapolavo i concetti trasportandoli nel quotidiano della vita comune: dal macro al micro. Tutto il disco è collegato dall'inizio alla fine; le canzoni parlano di una storia d'amore, di ciò che possiamo vivere ogni giorno, dell'amore vero, che se si vive pienamente è assoluto nello spazio e nel tempo. Riguardo i titoli ho accennato che era Friedrich ad indicarmeli, perché anche lui stesso è partito da un concept seguendo una linea dritta dal primo ("Nadir") all'ultimo brano ("Zenith"); quindi i titoli sono l'unica parte dei testi che non ho scelto io ma che ho accolto da lui».
Cané: «È stata un'esperienza fuori dal tempo. Ero svincolato dal normale ciclo di vita, dagli orari scanditi dagli impegni. Mangiavo quando avevo fame, dormivo quando avevo sonno. Suonavo per ore, senza sosta, senza accorgermi della luce e del buio. Uscivo di notte per guardare il cielo stellato, per ascoltare i suoni degli animali, del vento, delle foglie. La scaletta del disco è emersa naturalmente: il racconto di un'evoluzione, una storia che ruota intorno alla nascita e allo sviluppo dell'universo, inteso come organismo intelligente. Giacomo ha intuito il parallelismo con la vicenda umana, il riflesso di qualcosa di più grande con il quale è connessa in un intreccio indissolubile».

Siete stati liberi di esprimervi o vi siete influenzati vicendevolmente con consigli, suggerimenti, ascolti e quant'altro?

Marighelli: «Ci siamo lasciati abbastanza liberi, pochi consigli l'uno all'altro. Devo dire che con i testi non ho avuto vincoli o difficoltà a lavorare con lui; l'unico brano in cui Friedrich mi ha chiesto se potevo inserire l'elenco degli elementi è "Elementi in divenire", ed è stato un piacere per me declamarli».
Cané: «Ho cercato di ridurre al minimo il rumore di fondo. Ho scelto l'isolamento e prima di iniziare a scrivere non ho ascoltato musica per circa due mesi. Durante le registrazioni ho letto molto e le idee hanno preso forma. Penso che io e Giacomo ci siamo influenzati a vicenda, anche se forse in modo inconsapevole».

Sul booklet, tra i ringraziamenti compare il nome di Franco Battiato. Un omonimo o un ringraziamento a un artista la cui musica è stata fonte di ispirazione?

Marighelli: «È stata una scelta di Friedrich. Ascolto volentieri Battiato ma non ne sono un seguace e non lo conosco a fondo. Non c'è un periodo artistico che preferisco, anche se uno degli album che conosco meglio è "Gommalacca"».
Cané: «Battiato è un punto di riferimento musicale, ha saputo coniugare sperimentazione e musica colta, attraversando generi molto diversi tra loro e tutto questo nell'ambito del panorama musicale italiano, che di certo non è tra i più ricettivi. Apprezzo molto il periodo elettronico degli anni Settanta, quello rock della seconda metà degli anni Novanta, e le composizioni di musica sacra. A livello sonoro, l'album più incisivo penso sia "Dieci stratagemmi"».

Secondo voi la musica elettronica nel futuro prenderà sempre più il sopravvento oppure rimarrà solo una delle possibili strade da percorrere?

Marighelli: «Il futuro non esiste, chi può dirlo. Secondo me la musica prenderà volti sempre più ancestrali, come una sorta di ritorno alle origini ma con coscienza».
Cané: «L'approccio alla musica elettronica rappresenta una scelta tecnica. Nel momento in cui ti rendi conto che le potenzialità sono infinite, sta a te trovare gli arrangiamenti e i suoni che meglio si adattano alla composizione. Che siano wobbler acidi da drum'n'bass o sezioni di un'orchestra sinfonica, o la combinazione di sonorità diverse, i confini di genere ormai sono stati abbattuti. Questo è il vero cross-over».

Presenterete dal vivo le canzoni dell'album?

Marighelli: «Le stiamo già presentando. Quando i locali sono interessati a proporre concerti di poesia e di arte, allora ci considerano. L'artista Alessandra Naif ci accompagna con la pittura dal vivo, quindi musica e pittura live. Purtroppo in Italia anche se sei un musicista indipendente, devi fare parte di un giro che automaticamente etichetta l'indipendente moderno, o meglio l'"in-dipendente" all'interno di determinati canoni o schemi commerciali. Insomma nulla di diverso da stereotipi di major o gerarchie divisorie».
Cané: «Il disco ha una sua complessità, che per quanto possibile viene riproposta dal vivo. Durante i concerti, ai synth si affiancano il pianoforte e il piano elettrico. Le parti suonate sono quelle che caratterizzano i brani, ma con alcune varianti che le rendono più vive».

Quali sono i vostri punti di riferimento nella vita di tutti i giorni e in ambito musicale?

Marighelli: «Nella vita è vivere, essere me stesso e non ciò che gli altri vogliono che io sia; quindi un costante sviluppo della propria coscienza, impegnandomi a sviluppare e crescere con amore. In ambito musicale, onestamente in questo periodo sono totalmente casuali: vado su Youtube e inizio ad ascoltare i brani suggeriti e da lì continuo per mesi girando attorno a generi anche totalmente differenti. Ho scoperto gruppi fantastici in questa maniera. Ma anche grazie a consigli di amici, basta che ci si mandi un brano durante un discorso via chat o e-mail, ed ecco che si scoprono mondi sconosciuti. Fondamentalmente il mio passato musicale è composto da Nick Cave, Giorgio Gaber, Giorgio Canali, Noir Désir, Fausto Rossi Faust'O, i primi Litfiba, i Bluvertigo, One dimensional man, qualche album dei Marlene Kuntz, quando ero bambino ascoltavo Marilyn Manson, e tanti altri».
Cané: «Amo chi riesce a vedere al di là degli schemi, senza preoccuparsi di essere giudicato. In questo senso, ammiro alcune menti illuminate come quelle di Douglas Hofstadter, di Jiddu Krishnamurti, di Richard Feynman. Nella maggior parte dei casi, rimango impressionato da chi sviluppa concetti radicali. In ambito musicale, gli innovatori come Johann Sebastian Bach, Georg Friedrich Händel, Brian Eno, Peter Gabriel, i Massive Attack, i Radiohead, Björk, David Sylvian. Tra gli italiani Battiato, Benvegnù e Umberto Maria Giardini. Nella vita di tutti i giorni è difficile avere dei punti di riferimento. Mi affido alle stelle mobili più che a quelle fisse, credo negli incontri. Bisogna lasciarsi trasportare dalla corrente, dominarla senza venirne travolti».

Come avete finanziato il vostro disco?

Marighelli: «L'abbiamo finanziato grazie al crowdfunding. Siamo contenti di questa possibilità sostenuta da persone che credono in noi. Sono metodi ottimi, possono aiutare ed essere efficienti. Se mi interesso di arte, inizio io stesso a sostenerla, e queste metodologie online me lo permettono facilmente».
Cané: «Il crowdfunding è uno strumento democratico e consente di confrontarsi con il riscontro del pubblico molto più di quanto faccia un talent show. Intendo dire che chi decide di finanziare un progetto, lo fa perché ci crede davvero: è attivo, curioso, alla continua ricerca di informazioni e stimoli. L'esatto contrario dei passivi come si lasciano anestetizzare da uno schermo televisivo».

Più volte nei testi delle canzoni compaiono i tarocchi. Giacomo, che significato hanno per te e che rapporto hai con l'esoterismo?

Marighelli: «I tarocchi sono uno strumento che uso quotidianamente; parto dal presupposto che il caso non esiste, quindi qualunque carta esca ha una motivazione ben precisa per essere uscita. Attraverso le carte possiamo conoscere meglio noi stessi, capire il proprio inconscio, "mostrarci" cose che senza certi strumenti non vorremmo davvero capire e/o mettere a fuoco. Essendo strumenti (un ponte, un tramite), il tarocco serve come "scusante" per accettare e ammettere determinate parti del proprio inconscio. Questo vale anche leggendoli ad un consultante; lo si può aiutare a prendere coscienza, a capire quali siano i suoi reali problemi, da dove provengono, il perché certi nodi gli impediscano di proseguire nella vita e lo costringano a ristagnare sempre nella stessa situazione. Ecco, le carte sono davvero utili da questo punto di vista. Non esistendo il tempo, non mi interessa leggerle come metodologia divinatoria, cartomanzia, perché tutto ciò che viene detto del futuro condiziona il consultante a tal punto da fare accadere quel futuro, o da non farlo accadere. Presupponiamo che non ci sia un destino, non ci sia il destino, ma ci sia Destino. All'interno di Destino ognuno di noi ha infiniti destini. Quindi in ogni istante stai certamente andando verso una direzione, ma tu quando vuoi puoi cambiarla; quindi se tu mi predici una di quelle infinite linee, magari in quel momento ci stavo anche andando, ma finita la lettura posso benissimo cambiare linea. Quindi è totalmente inutile».

Qual è il filo conduttore del disco?

Marighelli: «L'amore».
Cané: «La fonte d'ispirazione principale è sempre la natura. Rimango meravigliato di fronte alle geometrie, ai colori, ai meccanismi. Facciamo parte di tutto questo, noi siamo l'universo. Possiamo espanderci verso l'orizzonte o condensare la materia in uno spazio infinitesimo. L'evoluzione del cosmo coincide con quella degli esseri viventi».

Quali sono le parole che meglio descrivono le tue canzoni?

Marighelli: «Amore, cosmo, vita e poesia».
Cané: «Pensiero, trasporto, superamento dei confini».

C'è qualche argomento di cui non parlerai mai nelle tue canzoni?

Marighelli: «Non lo so, cerco di non precludere nulla. Adesso sento molta motivazione in argomenti d’amore, non d'amore con la "a" minuscola, ma dell'Amore incondizionato, dell'essere umano, e di tutto ciò che sento fluire con esso, anche del quotidiano».
Cané: «Per questo disco non ho scritto testi, ma non escludo di farlo in futuro. Penso che la libertà di espressione sia fondamentale nelle attività creative, per questo motivo ho apprezzato il lavoro svolto da Giacomo: i suoi testi spesso sono criptici e si prestano a molteplici interpretazioni, la forma metrica è inconsueta e mai banale. Scriverli sotto flusso di coscienza ha contribuito molto al risultato finale. In sintesi, l'unica cosa importante è evitare di produrre banalità. Ma tutto ciò deve avvenire senza sforzo, deve essere un processo spontaneo».

Giacomo, sei un artista poliedrico e nel corso della tua carriera hai percorso molte strade. Una di queste ha portato al progetto Vuoto Pneumatico con Gianni Venturi. È una storia finita o l'album del 2014 avrà un seguito?

Marighelli: «Chi può dirlo. Attualmente mi sto dedicando ad altro, tra cui il primo disco solista firmato come Giacomo Marighelli e che se riesco pubblicherò volentieri entro il 2017».


Titolo: Del movimento dei cieli
Artisti: Friedrich Cané e Giacomo Marighelli
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2015

Tracce
(testi di Giacomo Marighelli; musiche di Friedrich Cané)


01. Nadir
02. Il motore immobile
03. Il demiurgo sulla soglia del tempo
04. Elementi in divenire
05. Azimuth
06. Idrodinamica
07. Fotosintesi
08. Le infinite forme
09. Dybbuk
10. Almucantarat
11. Satellite
12. Ardesia
13. Icosaedro
14. Zenith

sabato 23 gennaio 2016

"Shah mat": per The Chanfrughen è scacco matto





Arrivano da Andora, dall'estremo ponente della provincia di Savona, in Liguria, e "Shah Mat" è il loro secondo disco. Loro sono The Chanfrughen, trio composto da Alessandro Bacher (chitarra), Gianluca Guardone (voce e basso) e Andrea "Felix" Risso (batteria). Archiviato l'esordio discografico del 2014 con "Musiche da inseguimento", il gruppo è tornato al lavoro e ha inciso un disco dalle marcate influenze anni Settanta in cui il funky si sposa con la psichedelia e con incursioni rock blues di notevole impatto. Chitarre taglienti, trame di synth e un retrogusto speziato che porta a oriente sono gli ingredienti di questo lavoro registrato al Greenfog di Genova in presa diretta, come si faceva una volta, senza cuffie e con l’ausilio di strumentazione vintage. Un disco che merita di essere ascoltato e che suona compatto, senza cali di tensione emotiva. Ad arricchire il robusto sound del gruppo ci ha pensato Agostino Macor, già componente della band di rock progressivo La Maschera di Cera, che ha suonato synth, organo e mellotron. Emanuele Miletti ha dato il suo contributo al sitar.
I testi scritti da Gianluca Guardone raccontano personaggi dall'animo corrotto come il sanguinario mercenario di Bordighera in "Delle Fave" o l'egocentrico arrivista "Limonov" ispirato dal romanzo di Emmanuel Carrère, di paradisi fiscali in "Belize", di luoghi lontani nella canzone che dà il titolo al disco, e di problemi attuali come quello dei profughi che scappano dalla guerra e dalla miseria o del tristemente noto "T.S.O." che per The Chanfrughen è diventato Trattamento Sociale Obbligatorio.  
Con l'aiuto dei componenti del gruppo abbiamo andorese siamo andati alla scoperta di "Shah Mat". 



Ragazzi, iniziamo dal nome della vostra band. Cosa significa Chanfrughen e dove lo avete pescato?

Chanfrughen: «A questa domanda rispondiamo insieme, all'unisono, perché siamo sulla stessa barca. Il nome non significa nulla ma nello stesso tempo contiene un suono, un modo di essere e non essere, un modo per definire la nostra attitudine al rumore, all'unione di generi, suoni e cianfrusaglie. Come abbiamo sempre dichiarato, dobbiamo il nostro nome ad un geometra andorese che ancor prima della nostra nascita definiva così noi musicisti».

Incontro fortunato quindi. Passiamo a parlare del vostro secondo disco che si intitola "Shah Mat", espressione di derivazione persiana che descrive una situazione del gioco degli scacchi: il re è morto o meglio scacco matto. Qual è il vostro re morto?

Guardone: «Il re morto non è per me una persona isolata che nella sua torre muove i fili del suo popolo. Esso è morto da tempo facendo spazio a nuove figure che con meno visibilità e più arroganza ci impongono regole da seguire».
Risso: «Ai giorni nostri i re morti sono tanti, si susseguono in continuazione. Un po' li ho uccisi io, un po' si sono autoeliminati. La realtà è un creatura multiforme, bisogna imparare a non avere un re che ci guidi».
Bacher: «Son d'accordo con Gianluca, credo ci siano modi alternativi, più passionali, per vivere al meglio. Recentemente ho scoperto la figura del broker telefonico».

Come si sono svolte le registrazioni?

Bacher: «Il disco è stato registrato in larga parte in presa diretta nell'arco di tre giorni trascorsi al Greenfog Studio di Genova. Ci siamo chiusi tutti in una stanza, come una volta, per cercare di ricreare le atmosfere live dei brani, consapevoli che questo approccio ben si adattava alla nostra attitudine seventies».

Come è cambiato il suono del gruppo con l'inserimento di Agostino Macor?

Chanfrughen: «Intanto diciamo che è un gran simpaticone, molto bravo con i calembour. L'apporto di Ago è stato importante perché coi suoi vari ammennicoli - synth, organo, rhodes, clavinet - ha edulcorato il nostro suono e ci ha permesso di trovare nuove idee per spaziare nei nostri pezzi vecchi e nuovi».

Chi di voi scrive i testi?

Guardone: «Li scrivo io cercando con le mie poche capacità di unire i testi in italiano alla metrica, spesso abbastanza complessa. Suonando anche il  basso, oltre che cantare, devo adattare le parole con un taglia e cuci stile uncinetto. Si parte di solito da un personaggio o da una storia che ci piace o troviamo interessate e poi la sviluppo».

Quali sono le fonti che più hanno ispirato la scrittura delle vostre canzoni?

Chanfrughen: «Siamo partiti da una idea di rock energico e ruspante alla Jon Spencer per poi ritrovarci a suonare in diversi modi, con parti varie che sfiorano il prog, l'acidità chitarristica alla Hendrix, i testi provinciali alla Conte, le ritmiche alla Fela Kuti. Un melting pot che cerca di accontentare tutti i nostri palati, per la verità molto diversi tra loro».

Perché avete deciso di iniziare il disco con una ouverture?

Bacher: «In realtà è nata come parte integrante di "Belize". La canzone prende forma pian piano. Ci piaceva l'idea di un brano che lasciasse all'ascoltatore il tempo di capire di cosa si trattasse. Ci piaceva questa idea di artigianalità delle canzoni, speriamo venga fuori».

Nonostante arriviate dalla provincia nelle vostre canzoni parlate di luoghi lontani: Belize, Armenia, Mar Nero, Samarcanda. Perché vi siete spinti così lontano?

Bacher: «Perché come direbbe Conte: ‹se non ci sei mai stato in un posto lo descrivi meglio›».
Guardone: «Ci piace parlare di perle nascoste, personaggi fuori dal coro. Lontano o vicino, poco conta, è importante l'interesse verso il soggetto».

Chi è il protagonista della canzone "Delle Fave" che dopo aver sparso sangue durante la guerra in Bosnia ha trovato una fine ingloriosa nelle sigarette Marlboro?

Risso: «È Carlo Delle Fave, un folle che in mancanza di sbocchi di vita a Bordighera diventò un mercenario pluriomicida. L'idea di raccontare questo personaggio è nata vedendo il docufilm "Sono stato Dio in Bosnia" che racconta appunto l'epopea di Delle Fave che fece fortuna durante la guerra nell'ex Jugoslavia. Il paradosso è che andò pure in televisione a raccontare la sua storia e Toto Cutugno disse di lui che era un brav'uomo. Persino lo stesso Delle Fave ha sempre evitato di definirsi così. Nulla di più facile nella società dai miti distorti. Si lasciò morire con uno stile di vita autodistruttivo, forse si pentì di quello che aveva combinato in vita».

In "T.S.O." avete trasformato il trattamento sanitario obbligatorio, balzato tristemente alla cronaca negli ultimi tempi, con il trattamento sociale obbligatorio. Per voi dove sta la pazzia?

Guardone: «È folle creare regole che ghettizzano persone dalla sensibilità superiore. C'è la tendenza a ridicolizzare i più sensibili per non dover ammettere sbagli e superficialità di noi cosiddetti normali».

Una canzone l'avete dedicata anche ai "Parassiti", razza umana ben difficile da sconfiggere…

Guardone: «Sono i classici personaggi che trovi sempre inchiodati al bancone del bar, quelli che dai loro racconti ti sembrano che vivano in un romanzo di Jack London però poi li trovi sempre lì».

Le vostre canzoni sono molto attuali. In "Shah Mat" fate riferimento anche al tragico problema dei profughi: ‹…pazzi d'occidente incontrano chi scappa da levante addosso la miseria della storia, bloccati dalla fame e dalla soia mentre noi... ad ovest... grosse quantità di oppio e derivati, ci consumiamo negli orari sbagliati›. Qual è la vostra idea della situazione attuale?

Chanfrughen: «Non vogliamo occuparci di politica, ci limitiamo nel nostro piccolo a descrivere la realtà. I mercanti che  percorrevano la via della seta compravano le merci migliori arricchendosi e noi ora, dopo millenni di furti, ci lamentiamo di persone che cercano soltanto una parte di vita che gli abbiamo sottratto».

Ho lascito per ultima "Belize" di cui è uscito uno splendido video. Descrivetemi questa canzoni dai confini così lontani…

Bacher: «Il video è stato girato in tre diverse location: a Bergeggi, sul Monte Beigua e al teatro Altrove a Genova. Diciamo grazie a tutti i nostri collaboratori che si sono fatti in quattro per noi e hanno subito anche dei furti sul Beigua! Ma non si sono fermati davanti a nulla».
Guardone: «Il Belize mi ha sempre incuriosito. Un piccolo paradiso fiscale, fuori dai grandi giri, un incrocio di razze e sentimenti, una piccola favola vista oceano, quelle terre romantiche dove vedresti bene Corto Maltese ad accompagnarti».


Titolo: Shah mat
Gruppo: The Chanfrughen
Etichetta: Molecole Produzioni
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi Gianluca Guardone, musiche The Chanfrughen)

01. Voodoo belmopan (ouverture)
02. Belize
03. Parassiti
04. Rhum, spezie, sciac trà
05. Shah mat
06. T.S.O.
07. Delle Fave
08. Limonov



martedì 12 gennaio 2016

Le Mosche augurano "Boa Viagem Capitão"




L'album "Boa Viagem Capitão" segna l'esordio discografico de Le Mosche, formazione che nasce a Bologna ma che guarda a orizzonti molto più ampi. Nelle nove canzoni scritte da Giampiero Lupo, brindisino di nascita, si possono rintracciare i migliori insegnamenti della canzone d'autore doc, influenze jazz, elettroniche e stimolanti inserzioni di musica popolare dell'Italia meridionale. La forte impronta culturale del sud Italia si sposa alla scelta di cambiare continuamente registro e di affidarsi a soluzioni che in alcuni frangenti lasciano piacevolmente spiazzati. Si passa con estrema facilità da canzoni cantate in francese ad altre in italiano o inglese. Non manca un episodio di canzone tradizionale come la rielaborazione del famoso brano pugliese "La rondinella", cantato in dialetto brindisino.
Filo conduttore del disco è il viaggio, non solo fisico ma visto anche come continuo cambiamento e mutare dell'esistenza umana. Emblematica la scelta del gruppo di aprire e chiudere il disco con due recitativi (voce narrante di Simona Sagone) che segnano alla perfezione l'inizio e la fine, per ora, di questa prima esplorazione del mondo e del genere umano.
Un disco piacevole, dal sapore mediterraneo con qualche spruzzata di ritmica sudamericana, che è una buona base di partenza per un viaggio la cui storia è ancora tutta da scrivere e la cui destinazione per ora è ignota.
Le Mosche sono Giampiero Lupo (voce, synth, chitarre, organetto, mandola, castagnole e loops), Mirco Mungari (clarinetto, saz, bouzouki, oud, tamburi a cornice e friscaletto), Giovanna Merico (sax e tamburo a cornice), Lorenzo Mattei (basso e darbouka). Ospiti del disco sono la cantante Claudia De Candia sul brano "Nui" e il batterista Tiziano Schirinzi.
In questa intervista Lupo e Mungari presentano il loro progetto.



Chi sono Le Mosche?

Mungari: «Siamo un gruppo folk-cantautorale che unisce la musica dei cantautori italiani con la tradizione mediterranea, l'elettronica e il jazz».

Quali sono state le vostre esperienze artistiche prima di questo disco d'esordio?

Mungari: «Ricordiamo con affetto un minuscolo garage alla periferia di Bologna, la "saletta", come usavamo chiamarla, in cui davvero tutto è cominciato. Un'estate e un inverno di prove, esperimenti, chiacchiere, litigi, sogni a occhi aperti, duro lavoro: nell'afa e nel freddo si cementava la nostra amicizia e il nostro rapporto artistico. Tutti noi venivamo da esperienze artistiche molto diverse. Giampiero e Lorenzo dal cantautorato e dal rock indipendente, Giovanna dal jazz e io addirittura dalla musica antica e da alcune esperienze di ricerca nella musica etnica».

Dopo questo inizio come è proseguita la vostra avventura nel mondo della musica?

Lupo: «Una volta formatosi, il gruppo è stato impegnato in diversi concerti a Bologna e anche fuori. Durante l'estate 2012 abbiamo autoprodotto una demo di cinque tracce contenenti canzoni inedite e due brani popolari rivisitati. La demo si intitola "Il mio piccolo segreto" e ha visto la collaborazione del sassofonista agrigentino Andrea Francesco Manno. Nel 2013, Le Mosche hanno partecipato con successo a "Musica nelle aie", manifestazione che ha visto l'esibizione di una selezione di gruppi locali per le strade di Faenza. Frutto di questa esperienza è stata la collaborazione con l'etichetta Galletti-Boston che ha selezionato un nostro brano presente nella demo "Il mio piccolo segreto" e lo ha inserito nella compilation "Musica nelle aie 2013". Dopo tanti concerti e tanta esperienza di lavoro in studio, ha visto la luce il primo album della band, "Boa Viagem Capitão", un concept album di dieci canzoni, nove inedite e una della tradizione popolare salentina rivisitata. Il filo conduttore dell'album è il viaggio con le sue mille sfaccettature, narrato attraverso le storie di dieci piccoli invisibili eroi».

Come è nato "Boa Viagem Capitão"?

Mungari: «L'idea di registrare un album sul concetto del viaggio è maturata durante la scelta delle canzoni da inserire nella scaletta del cd. Ci siamo accorti che tutte le canzoni scelte avevano il viaggio come filo conduttore. Ci è sembrato quindi naturale pensare a un concept album che avesse  un incipit, il testo narrato di "Boa Viagem Capitão", delle storie ed un finale, il testo narrato di "Boa Viagem Capitão (outro)". Tecnicamente parlando, l'album è stato registrato da Giampiero Lupo in diverse location, mixato al Pure Rock Studio di Brindisi da Nanni Surace e masterizzato al Nautilus di Milano».

Filo conduttore del disco, si diceva, è il viaggio ma mi piace allargare il discorso al movimento, all'evoluzione. Lo trovi corretto?

Lupo: «Direi senz'altro di sì. Il mutamento è proprio della musica in sé, ed è il presupposto da accettare in ogni esperienza artistica. Non si può viaggiare senza cambiare e cambiarsi, senza evolvere nel senso più semplice del termine: ovunque tu stia andando, il viaggio agisce su di te, e quando arrivi sei una persona diversa rispetto a quando sei partito. Viaggiare significa voler cambiare».

Anche il mare è uno degli elementi più ricorrenti nelle vostre liriche. Che rapporto avete con questo elemento?

Lupo: «Il nostro è un rapporto molto profondo con il mare. È un elemento fondamentale nel viaggio e di questi tempi purtroppo è legato anche al bisogno di alcuni di affrontarlo, con tutti i pericoli che questo comporta, per sfuggire a guerra e fame. Nel nostro piccolo abbiamo voluto raccontare anche questa storia».

Nel disco troviamo canzoni cantate in francese, in inglese, recitativi e anche musica tradizionale. Perché avete voluto variare così tanto nella proposta artistica?

Mungari: «In realtà, non ci siamo preoccupati molto dell'eterogeneità della proposta artistica. Semplicemente ci siamo voluti esprimere nel linguaggio che ci era più congeniale, sia esso narrato o in una lingua diversa dall'italiano. In alcuni casi, si veda "L'aviateur", la storia che viene raccontata decide la lingua da utilizzare. La canzone citata parla appunto di una donna algerina che fugge dall'atrocità della guerra di indipendenza dalla Francia. O in "Nui", un brano che racconta di una donna salentina che vede partire il suo compagno per la guerra».

Non pensi che tutta questa eterogeneità possa rendere difficile all'ascoltatore inquadrare il vostro stile?

Mungari: «Probabilmente è vero, non è facile inquadrare il nostro stile. La cosa però è in parte voluta, perché non amiamo essere costretti all'interno di un solo genere musicale. Inoltre, riteniamo che ciò che mette insieme le diverse proposte artistiche sia appunto il sound che ci caratterizza e che in qualche modo accomuna i diversi pezzi del nostro repertorio».

Perché avete scelto di aprire e chiudere l'album con due recitativi?

Lupo: «Per suggerire una struttura circolare, un frame che traccia anche un percorso. Un inizio e una fine che non coincidono ma si richiamano a vicenda. Inoltre, i due recitativi introducono il tema che accomuna le storie narrate nell'album e chiudono invece con una voce di speranza, forse non una vera chiusura ma un invito a prendere coraggio ed iniziare un nuovo viaggio».

Nel disco proponete una rilettura di "La rondinella", brano della tradizione cantato in dialetto. Che rapporto hai con la musica tradizionale? La ritieni ancora fonte di ispirazione?

Lupo: «Assolutamente sì. Siamo tutti consapevoli di quanta parte della musica tradizionale abbia ispirato la musica odierna di tutti i generi. Il nostro rapporto con la musica tradizionale non è strettamente filologico, ma ci piace prenderla come una fonte di ispirazione per esplorare nuove strade, sia nella tavolozza sonora, con l'utilizzo di strumenti etnici e tradizionale, sia nell'arrangiamento, cercando di modernizzare, senza stravolgere, armonie antiche».

In "Boa Viagem Capitão" cantate: ‹Viaggiare è un atto di tremenda  arroganza, di dolce e inevitabile assurdità›. Vorrei che mi spiegassi questa affermazione…

Lupo: «Come dicevo prima, viaggiare coincide con cambiare. L'atto del cambiamento è insieme un rischio e una responsabilità; chi parte sa di dover mettere qualcosa in discussione, e partendo accetta la rottura col passato. Partire presuppone una decisione, una scelta, e comunque una cesura; qualcosa che era quotidiano viene condannato a diventare ricordo, e qualcosa che era immaginazione è costretto a diventare realtà di ogni giorno. Per viaggiare bisogna correre il rischio dell'abitudine nuova e dell'amore per essa».

In "Santa Lucia" raccontate in pochi versi drammatici lo stato d'animo di una persona che decide di cambiare sesso. Argomento non facile da trattare. Come è nato questo testo?

Lupo: «Il testo è dedicato a una mia amica e l'idea in particolare nasce dal concetto dell'esclusione. Una esclusione che nasce dall'orientamento sessuale e dalla decisione di cambiare sesso. Una volontà che nella nostra società è purtroppo causa di segregazione ed emarginazione. Tuttavia scrivendo il testo ho voluto sottolineare che l'esclusione è spesso superata attraverso l'inclusione all'interno di un gruppo anch'esso soggetto all'emarginazione. La nostra eroina, così come è avvenuto nella realtà, ha trovato sostegno tra gli emigranti che come lei hanno dovuto lasciare la propria casa. È per questo che si immagina, con poca modestia ed un po' di trasgressione, Santa Lucia, patrona transgender degli emigranti».

Perché in copertina avete scelto di rendere omaggio a Salgueiro Maia, l'eroe della Rivoluzione dei Garofani del 1974 in Portogallo?

Lupo: «L'idea è nata in noi da un'inquadratura di un film. Una colonna di carri armati sta per entrare nel centro di Lisbona all'alba del 25 aprile 1974, portando nel vivo la Rivoluzione dei Garofani; i mezzi però si arrestano davanti ad un semaforo rosso. Un giovane capitano domanda stizzito il perché di quella sosta, e un soldato imbarazzato gli risponde che ‹c'è il semaforo rosso, capitano. Non dobbiamo dare nell'occhio›. Per noi quella scena surreale è una sorta di archetipo di ogni viaggio impossibile, assurdo, scomodo. Quel giovane capitano dal volto pacifico era Fernando José Salgueiro Maia, l'eroe silenzioso della rivoluzione portoghese, colui che con la sua mite pazienza riuscì a riportare la democrazia nel suo paese senza sparare una pallottola, e finì dimenticato nell'ingratitudine senza mai reclamare nulla. Ci sembrava doveroso omaggiarlo in qualche modo, perché una delle prime scintille che hanno dato vita all'idea del nostro album è scaturita proprio dai discorsi su quella irreale rivoluzione, sul viaggio interiore di una generazione di capitani di vent'anni che scelgono di non sparare più un colpo seguendo le loro coscienze».

In quasi tutti i testi delle canzone ho scorto un fondo di amarezza e disillusione. Solo nel recitativo finale sembra esserci speranza per il viaggiatore...

Lupo: «Veniamo dal sud, anche il bassista ormai si sta adeguando. Il disincanto, la fatica del quotidiano, l'emarginazione più o meno palese fanno parte del nostro vissuto e della memoria delle nostre terre. Il viaggio, per chi viene da sud, è anche una terribile necessità di vita. Nel nostro piccolo noi quattro siamo tutti in qualche modo emigranti, abbiamo dovuto accettare il viaggio e il cambiamento per costruire i nostri sogni. Questo si riverbera nella nostra musica, insieme con la speranza, esile ma tenace, che ogni viaggio porta comunque con sé».

Dove vi porterà il vostro viaggio?

Mungari: «Kavafis diceva: ‹Quando parti per Itaca devi augurarti che il viaggio sia lungo / fertile in avventure ed esperienze›. Non ci domandiamo, oggi, dove approderemo; preferiamo goderci il paesaggio dal ponte di prua e imparare qualcosa in ogni porto in cui getteremo l'ancora».



Titolo: Boa Viagem Capitão
Gruppo: Le Mosche
Anno di produzione: 2015
Etichetta: New Model Label

Tracce
(musiche e testi di Giampiero Lupo, eccetto dove diversamente indicato)

01. Boa Viagem Capitão
02. L'aviateur (Nuara)
03. Santa Lucia
04. Una mattina
05. Renata
06. La rondinella  [tradizionale]
07. Nui
08. Ritorni
09. La vertigine azzurra
10. Boa Viagem Capitão (outro)