Ci sono persone con cui mi piace molto parlare di musica. Una di queste è Lorenzo Piccone, ventottenne chitarrista e cantautore di Albissola Marina, in Liguria, che in questi giorni ha pubblicato il suo disco d'esordio intitolato "Soul searching". Lorenzo, oltre ad essere un ottimo musicista, è prima di tutto un grande appassionato, mosso dalla voglia di scoprire, di capire e apprendere, di guardare la musica da angolazioni differenti senza rinchiudersi tra inutili steccati di genere. Come peraltro è giusto che sia. In questi primi anni di carriera Piccone è stato coinvolto in diversi progetti musicali. Dal gruppo bluegrass The Blue Grasshoppers Band con cui ha suonato negli Stati Uniti e in Germania, alla collaborazione con il mandolinista Carlo Aonzo con cui ha registrato l'ottimo disco "A Mandolin Journey", dal duo con il chitarrista Claudio Bellato al trio con Francesco e Giorgio Bellia (New Trolls, Dolcenera). Esperienze che hanno contribuito alla crescita di questo artista che si è affacciato sul mercato discografico in questi giorni con "Soul searching", un disco cantautorale che "raccoglie" quello che Piccone ha incontrato e ascoltato nel suo percorso artistico. E così, nei dodici brani proposti si possono apprezzare contaminazioni di ritmi africani, suggestioni hawaiane, incursioni blues, armonie west coast, soul e anche un episodio reggae. Tra i brani più riusciti c'è sicuramente “Haze”, canzone dall’ampio respiro in cui le percussioni rivestono un ruolo importante. “I am alive” è una ballad piacevolissima che richiama sonorità anni Settanta ma è "The wind" la gemma di questo disco. Una canzone che nella sua semplicità cattura l'attenzione dell'ascoltatore e che per Piccone può essere un ottimo punto di partenza per un prossimo progetto. Belle anche le atmosfere di "Soul searching", il soul di "Turning back", la springsteeniana "Close to the blue".
Con Lorenzo il tempo di un caffè per parlare del disco si è presto dilatato in uno scambio di opinioni serrato che ha piacevolmente occupato un paio di ore. E da questa conversazione è nata l'intervista di presentazione di "Soul searching", un disco pieno di suggestioni e rimandi che si potrà apprezzare dal vivo il 15 dicembre alla Raindogs House a Savona.
Con Lorenzo il tempo di un caffè per parlare del disco si è presto dilatato in uno scambio di opinioni serrato che ha piacevolmente occupato un paio di ore. E da questa conversazione è nata l'intervista di presentazione di "Soul searching", un disco pieno di suggestioni e rimandi che si potrà apprezzare dal vivo il 15 dicembre alla Raindogs House a Savona.
Lorenzo, "Soul searching" è il tuo primo disco. Che cosa rappresenta per te?
«È un condensato di tutta la mia attività musicale, da sei-sette anni a questa parte. Ci sono parti elettriche e acustiche, suoni che ho trovato lungo il percorso. E poi il mandolino resofonico, gli strumenti etnici che sono arrivati ascoltando tanta musica e suonando con percussionisti africani».
Per la parte elettrica di questo tuo primo disco ti sei avvalso della collaborazione della tua band. Chi sono i componenti?
«C'è il batterista Andrea Marchesini che è veramente bravo. Ha collaborato con Mike Stern, ha fatto una jam a New York anche con Jaco Pastorius. È un batterista eccezionale, sa essere tecnico ma quando è al servizio di una canzone riesce a immedesimarsi nella sua atmosfera. Hammond e tastiere sono di Marco Ferrando. Lui non fa il musicista di professione ma ha grande talento ed è un grande appassionato di jazz, funky e blues. Poi c’è il bassista Federico Fugassa che è uno dei più bravi in circolazione».
Per il tuo primo disco hai voluto la presenza di un ospite internazionale. Raccontaci come hai conosciuto Ike Stubblefield…
«È un pianista e hammondista che ho conosciuto tre anni e mezzo fa ad Atlanta in un club. Suonava con il suo trio in un locale di solo neri. Eravamo io e Carlo Aonzo e siamo rimasti pietrificati dal groove e dal sound che riuscivano a tirare fuori. Ho provato a mettermi in contatto con Ike per ben un anno, ho scritto sul suo sito ma niente, nessuna risposta. L'anno dopo siamo tornati io e Carlo a fare dei concerti nel sud degli Stati Uniti, abbiamo conosciuto un bassista di una orchestra e parlando con lui è venuto fuori il discorso che io stavo disperatamente cercando di entrare in contatto con Ike e lui mi ha detto che ci aveva suonato poco tempo prima e che poteva darmi il suo numero di telefono. Allora l'ho chiamato, sono andato a casa sua, abbiamo passato un po' di tempo insieme, ho preso anche delle lezioni da lui e mi ha raccontato un po' della sua vita. Ha 65 anni ed è nel business della musica da quando è stata fondata la Motown, ha suonato con tutti da Marvin Gaye, a Tina Turner quando era ancora in coppia con Ike, con Clapton, George Benson, B.B. King, Al Green, è ospite fisso dei Gov't Mule quando suonano ad Atlanta. Ike ha suonato in "Turning back" ed è un pezzo che avevo scritto nel periodo in cui stavo decidendo se lasciare il lavoro o meno. È un pezzo funky, nero, con quelle sonorità da trio e lui suona il piano elettrico e l'Hammond».
Apriamo una parentesi. Hai detto che hai lasciato il lavoro per fare il musicista a tempo pieno?
«Lavoravo alla Infineum a Vado Ligure. Avevo un contratto a tempo indeterminato e tre anni fa ho fatto questa pazzia. La reazione di mio papà è stata dura, mia mamma invece era d'accordo. È stata una scelta difficile e lo è tuttora. Ho iniziato a suonare quando avevo dodici anni e da cinque lo faccio con un intento professionale».
Una scelta coraggiosa, non c'è che dire. Torniamo agli altri ospiti presenti nel disco…
«Stefano Guazzo è un sassofonista jazz di Chiavari ed ha suonato anche con Dado Moroni e Tullio De Piscopo. Abbiamo messo il suo sax su "Peace of mind" che è un pezzo che ho scritto con un tempo shuffle però non con gli accordi blues ma con armonie più west coast, più aperte. Altro pezzo su cui suona Stefano è "Family" che è l’unico brano strumentale del disco. È un tributo al sound che per un paio di anni mi ha avvicinato al jazz e a Jimmy Smith. È un brano dedicato alla mia famiglia, nato con la chitarra acustica ma registrato con basso fretless, Hammond e batteria. Altro ospite è Stefano Ronchi che adesso risiede a Berlino e suona in tutta Europa. Con Stefano abbiamo suonato un paio di volte qui nei dintorni e ci siamo subito trovati. Ha fatto un assolo con chitarra slide nel brano "In the middle of nowhere" che ho scritto a Rino nel Nevada, nel bel mezzo del nulla, è un posto dove poter stare con se stessi e con la natura. Senza dimenticare il fondamentale apporto del percussionista Maurizio Pettigiani».
Tra gli ospiti c'è anche Carlo Aonzo, mandolinista di fama mondiale e anche lui di Albissola…
«È stato lui a portami per la prima volta negli Stati Uniti nel 2014. Ricordo ancora il momento in cui mi disse se volevo accompagnarlo, rimasi stupito e accettai subito. Carlo l'ho conosciuto durante un concerto di beneficienza al Priamar di Savona. Io suonavo in una formazione jazz insieme ad un pianista che purtroppo è mancato e che si chiamava Terrence Agneessens dei Portland Partners. Finito il nostro soundcheck è salito sul palco Carlo che avrebbe dovuto suonare un brano da solo. Io avevo ancora la chitarra con il jack attaccato all'ampli e gli sono andato dietro in un pezzo e da lì siamo rimasti in contatto, ci siamo conosciuti e abbiamo scoperto di essere entrambi di Albissola».
Cosa significa il titolo "Soul searching"?
«Il titolo si riferisce ad una pratica sciamanica che si fa nel sud degli Stati Uniti. Il "soul searching" è la ricerca dell'anima, chi si è veramente senza dover necessariamente copiare qualcuno o essere vendibile e commerciale a livello musicale. Io penso che ci voglia anche qualcuno che provi a dare una alternativa anche rischiando. Non sono il primo e non sarò l'ultimo. In questo disco ci sono varie sfaccettature: c'è un brano radiofonico che è "Soul searching" in cui non ci sono strumenti etnici ma anche le coriste Marta Giardina e Margherita Zanin che sono due voci molto lontane tra di loro ma che, secondo me, funzionano bene insieme. Poi ci sono delle ballad. È un disco alla ricerca di chi è il sottoscritto».
I colori della copertina richiamano l'abbigliamento che indossi durante i concerti…
«Quando ho pensato alla copertina del disco ho immediatamente deciso di mettere i colori dei vestiti che uso quando suono. Sono vestiti africani e questo patchwork di disegni sono il modo più immediato per esprimere la mia visione del fare musica. Queste tele sembrano buttate lì a caso però se uno le analizza vede che sono tutte organizzate secondo uno schema ben preciso che è però distante da, per esempio, un pied de poule che ha una fantasia occidentale. Queste stoffe sono un qualcosa di organizzato ma con colori, sfumature e linee particolari, non immediatamente decifrabili. Ci sono luci, ombre, bordi bianchi e bordi neri, proprio come la mia musica. La copertina l'ho realizzata con Alex Chiabra».
Non pensi che possa essere fuorviante utilizzare vestiti africani quando suoni?
«Rimedio con il cappello. A parte gli scherzi, questo è un disco cantautorale e non etnico. Ci sono venature di Van Morrison, Jackson Browne, Ry Cooder, Springsteen, musica hawaiana, africana, c'è tutto quello che ho ascoltato finora che mi è piaciuto e che ho assorbito. Adesso si tratta di lasciar depositare e vedere che cosa nasce. È un buon punto di partenza perché da qui si svilupperanno i dischi futuri. Vorrei fare un album solo acustico con le percussioni come ad esempio è il brano "The wind" in cui suoniamo percussione, lo jambee africano e la chitarra hawaiana slide, ma c'è anche il lato più rock, blues, soul, funky suonato con il trio elettrico».
Si parlava di questo disco come di un punto di partenza. Qual è quindi la strada che vuoi percorrere?
«Ho un paio di idee che corrono parallele. Da una parte voglio continuare a scrivere canzoni con un background tradizionale, anni '70, folk con strutture ben note, dall'altra c'è la voglia di cercare qualcosa di nuovo sperimentando anche con gli strumenti etnici. Voglio legare la musica elettronica con l'uso degli strumenti etnici e delle percussioni. La sfida sarà quella di creare qualcosa che non ho ancora sentito. In questi mesi ci sto lavorando, vedremo».
C'è una linea di continuità a livello di testi e pensiero?
«Le canzoni parlano del mio desiderio di riuscire a vivere facendo il musicista e della voglia di andare via in giro per il mondo ad assaporare altre culture e fare nuovi incontri. Sono canzoni che parlano anche del mio modo di essere. Prendiamo "Haze", è una specie di rito vudù per scacciare i cattivi pensieri, quella foschia che prende un po' tutti nei momenti di sconforto. Poi ci sono canzoni di rivincita come "Turning back", "Family" che è dedicata alla mia famiglia».
Mi pare di capire che sia un disco molto personale?
«Sì, lo è. Non ci sono temi sociali o l'amore universale, a parte "Peace of mind" che è un inno della pace dello spirito».
Con il trio di Carlo Aonzo o da solo sei stato negli States e hai girato un po' la Germania. Che reazione ha avuto il pubblico?
«Negli Stati Uniti con Carlo è sempre stato un successo. Anche in questo ultimo tour abbiamo avuto standig ovation, abbiamo finito i cd e le magliette. Ci hanno già ingaggiato per il prossimo anno perché Aonzo è uno di quelli che può suonare qualsiasi cosa ma con il tocco e il gusto italiano che agli americano piace. In Germania ho trovato un pubblico attento e aperto a nuove sonorità. Ho portato parecchi strumenti etnici, dalla chitarra hawaiana al bouzouki, fino al mandolino resofonico. Ho suonato i mie pezzi più alcune cover riarrangiate di vario genere, anche di musica caraibica prendendo spunto dalla produzione di Bob Brozman che è stato un grande della musica e che è una mia fonte d'ispirazione. Il mio sogno sarebbe andare in India, Cina e Giappone».
Tu sei un chitarrista ma c'è qualche altro strumento che ti piacerebbe suonare?
«Mi piace da morire la batteria e mi diverto come un bambino ma è veramente difficile. Recentemente ho preso un basso tanto per essere cosciente di quello che succede nella musica partendo dalle fondamenta. Ed è molto interessante, sono tornato ad ascoltare i dischi di Neil Young, i primi dischi di Clapton in cui i bassisti suonavano poche note ma di gusto. Ho iniziato a riascoltare i dischi di Springsteen, di Jackson Browne da un punto di vista diverso, con il basso in mano…».
Mi sono sempre chiesto come ascolta la musica un musicista…
«Sto leggendo dei libri su questo argomento. Il primo si intitola "Musicofilia" scritto dallo psicologo e psichiatra Oliver Sacks. Spiega come il cervello recepisce la musica, le onde sonore, gli impulsi elettrici… Il secondo è "Come funziona la musica" di David Byrne. Questi due testi cercano di analizzare i vari aspetti dell'ascolto. Io personalmente quando ascolto qualcosa che mi piace non riesco a capire subito perché mi piace, è un cosa inconscia. Mi cattura l'insieme, certo sento se viene utilizzata una progressione di accordi o una melodia standard, se è più un esploratore alla David Crosby piuttosto che l'ultimo Springsteen. Cerco di ascoltare quello che mi piace più volte, da punti di vista diversi».
Adesso che stai approfondendo la conoscenza del basso la tua visione musicale sarà sicuramente più ampia…
«Sì, sto molto più attento a quello che fa il basso. Spesso e volentieri scrivo un pezzo con la chitarra poi il basso lo aggiungo dopo ma ci sono canzoni che sono nate da un giro di basso oppure da un groove di batteria come "Fifty ways to leave your lover" di Paul Simon, brano nato appunto da un groove di Steve Gadd. Però quando c'è qualcosa che mi piace mi lascio trasportare, se non lo facessi perderei la magia che la musica sprigiona».
Un primo riscontro importante lo hai avuto con la canzone "The wind"…
«È stata pubblicata dalla CandyRat record che è un casa discografica americana orientata principalmente verso i chitarristi super tecnici. Il brano è abbastanza semplice ma è suonato con la Weissenborn hawaiana e questo rimarca la mia convinzione che anche suonando delle cose semplici ma con timbriche e sonorità inusuali si possono aprire delle porte interessanti. A consigliarmi di proporre questo materiale è stato il mio amico musicista Claudio Bellato. Insieme, a settembre, abbiamo partecipato alla rassegna "Un paese a sei corde" e abbiamo in programma di fare delle cose insieme».
So che un po' di tempo fa avevi anche un gruppo di bluegrass, The Blue Grasshoppers Band…
«Avevo un trio con cui sono andato a fare dei concerti anche a New York. Abbiamo portato il bluegrass ad Harlem in mezzo ai neri ed è stato rischioso (ride, ndr). Con il contrabbassista Alberto Malnati e Daniele Carbone al mandolino suonavamo standard bluegrass. È lì che mi sono appassionato a questo genere che spesso e volentieri è sottovalutato perché è suonato con poche armonie e pochi accordi. Anche i pezzi più semplici sono difficili da far rendere, i grandi maestri come Doc Watson e Norman Blake insegnano».
Tornerai su questo progetto?
«Il bluegrass è stata una bella parentesi e penso che non mi sia rimasto molto nel mio modo di fare musica anche perché è sempre un genere molto tradizionale che ti riporta immediatamente in quei luoghi. Mi piacerebbe riarrangiare dei classici del bluegrass o addirittura fare un disco di bluegrass ma avendo prima sviluppato un mio tocco. Beppe Gambetta lo ha ed è per questo che è accettato da tutta la comunità bluegrass. Il mio lavoro sarà anche quello di diventare riconoscibile».
Un ligure che suona il bluegrass, geograficamente qualcosa non mi torna…
«La musica ha dei confini ma non sono invalicabili. Anche gli americani suonano la musica gypsy e lo fanno con rispetto e conoscenza del genere. Anche il grandissimo chitarrista Tony Rice, l'icona del bluegrass sulla chitarra acustica, quando è stato chiamato a suonare con il mandolinista David Grisman ha dovuto modificare il suo modo di suonare, da strandard bluegrass verso una apertura più jazz, blues. La musica è bella perché offre tantissima scelta anche nell'ascolto. Se voglio un disco suonato nella maniera più tradizionale allora ne scelgo uno di Norman Blake, se voglio ascoltare qualcosa di più arrangiato magari opto per David Grier. C'è anche da dire però che tutti questi musicisti che sperimentano sono prima di tutto grandi conoscitori della tradizione e quindi anche come Carlo Aonzo, per tornare a noi, quando suona Calace, Verdi, Puccini o Vivaldi li suona da top, con una conoscenza fantastica, capillare di tutto. Ho ventotto anni, ho ancora tanta strada da percorrere ma questo l'ho imparato».
Titolo: Soul searching
Artista: Lorenzo Piccone
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2017
Tracce
(testi e musiche di Lorenzo Piccone eccetto dove diversamente indicato)
01. Haze
02. I am alive
03. Island girl
04. Soul searching
05. Turning back
06. Family
07. Another avenue
08. In the middle of nowhere
09. Close to the blue [Corrado Schiavon; Lorenzo Piccone]
10. The wind
11. Peace of mind
12. Haze (with intro)