sabato 21 settembre 2013

"Di cosa parliamo" con Giorgia del Mese





Giorgia del Mese l'abbiamo scoperta tre anni fa grazie alla sua partecipazione al progetto discografico "La leva cantautorale degli anni Zero", doppio album, promosso da Club Tenco e Mei, che ha raccolto brani inediti di giovani cantautori degli anni 2000, sotto etichetta AlaBianca Records. L'anno dopo, nel 2011, Giorgia del Mese si è presentata al grande pubblico con il suo primo disco, intitolato "Sto bene", che le è valso l'invito al Premio Tenco. Pochi giorni fa, precisamente il 16 settembre, la cantautrice di origine salernitana ma fiorentina di adozione, è tornata a far parlare di sé con l'album "Di cosa parliamo". La voce energica, la scrittura incisiva e i testi carichi di pathos mettono in luce le indiscusse qualità di questa artista. Le dieci tracce dell'album catturano l'attenzione riuscendo ad appassionare sia nei momenti delicati che in quelli più rock e decisi. 
Un gran bel disco, impreziosito dalle collaborazioni con artisti protagonisti della scena indipendente italiana come Paolo Benvegnù, che ha duettato con lei nel brano "Imprescindibili" che chiude il disco, come Alessio Lega e Fausto Mesolella degli Avion Travel in "Agosto", come Alberto Mariotto di King of the Opera in "Stanchi" che apre l'album. Il disco è prodotto da Andrea Franchi, già al fianco di Benvegnù, Marco Parente e Alessandro Fiori.
A pochi giorni dall'uscita del disco, abbiamo parlato con Giorgia che ci ha raccontato come è nato "Di cosa parliamo".




Per il tuo secondo disco ti sei fatta aiutare dai tuoi fans. La raccolta fondi attraverso Musicraiser ha dato ottimi frutti superando la cifra che avevi fissato. Pensi che per i musicisti emergenti sia la soluzione migliore per poter produrre dischi?

«Sì, credo sia una possibilità, almeno per iniziare ad avviare la produzione. Inoltre ti permette di avere la restituzione dell'approvazione e dell'appoggio dei tuoi fan, ma questa è una parola assurda per una come me». 

Se non avessi raggiunto la cifre fissata avresti comunque inciso il disco?

«In qualche modo sicuramente, con grossi investimenti e sacrifici economici ma quando fare un disco diventa una priorità tutto il resto va in vacanza, tranne tu che l'hai fatto». 

In "Di cosa parliamo" hai collaborato con Paolo Benvegnù, Alessio Lega, Alberto Mariotti, Fausto Mesolella. Cosa hanno apportato al disco?

«Ho sempre avuto la voglia e la necessità di confrontarmi con altri musicisti, un po' per insicurezza e un po' per professionalizzare maggiormente il lavoro. Anche nel primo disco, "Sto bene", è stato così: uno su tutti Bruno Mariani, che è il produttore di Bersani e Carboni. Per quanto riguarda gli ospiti del nuovo disco posso dire che con alcuni ho avuto un innamoramento artistico: ci siamo conosciuti in giro, ho fatto ascoltare loro i miei provini, mi sono messa una bella faccia tosta e sono nati dei regali bellissimi. Avere questi nomi nel disco mi ha riempito di orgoglio e li ho ringraziati da fan più che da collaboratrice». 

Voce energica e dal registro basso che dà un tocco molto più rock rispetto al tuo primo lavoro, non credi?

«Sì, è stata una scelta artistica nata anche dal confronto avuto con Paolo Benvegnù. E mi riconosco molto in questo registro». 

Mi pare di scorgere in questo disco una tua urgenza di comunicare. È così?

«È un disco che nella scrittura è nato in pochissimi mesi. Non abbiamo dovuto fare una scelta perché non c'erano altri brani all'infuori di quelli poi pubblicati ma ero sicura di volermi mettere alla prova con questa sintesi». 

C'è un messaggio di fondo che lega le canzoni di questo disco?

«Questo è quasi un concept-album, molto semplicemente il funerale di un modo di essere di sinistra che prevedeva dei punti fermi: l'antimilitarismo, la solidarietà sociale, l'antirazzismo, il rigore, la serietà. Tutti riferimenti ideologici dai quali ci si è disinvoltamente licenziati smettendo di essere persone serie». 

Quanto c'è di autobiografico nelle canzoni di questo tuo ultimo lavoro?

«Tutto è autobiografico ma non autoreferenziale e solipsistico. La capacità di generalizzare e di rendere un pensiero personale condivisibile è per me una priorità, altrimenti si diventa noiosi, ci si lamenta, si scrive d'amore in modo retorico, si perde il senso del contesto». 

Nel disco riproponi "Spengo", brano che, seppur in versione differente, era stato pubblicato nella raccolta "La leva cantautorale degli anni Zero". Perché hai voluto dare nuova giovinezza a questa canzone?

«Perché quando l'ho inserito nella leva cantautorale era un brano ancora troppo giovane. Con un po' di anni in più e con la produzione fantastica di Andrea Franchi è diventata matura». 

Cosa hai voluto rappresentare con la copertina?

«Sembra ermetica e la grafica di Simone Vassallo è bellissima, ma la spiegazione è essenziale e quasi scolastica: il fondo nero della decadenza con un papavero rosso che è la rivolta, il cambiamento, la rinascita-rivoluzione». 

Secondo te cosa è rimasto della Leva cantautorale degli anni Zero?

«Abbastanza, a parte i nomi contenuti nella compilation. L'intento importante era dare dignità e luce a un cantautorato emergente che è ricchissimo, a volte esageratamente, però in alcuni casi valido, in altri veramente interessantissimo». 

Quali sono le tue fonti di ispirazione?

«Gli "anziani", Bennato, De Gregori, e poi Silvestri, Carboni, e i gruppi anni '90 come Marlene Kuntz, Almamegretta, Csi». 

Giorgia, negli ultimi anni è mancata sulla scena un cantante in grado di afferrare il testimone di artiste sbocciate negli anni novanta come Cristina Donà o Carmen Consoli. Ti senti pronta?

«Ma no! Primo perché peccherei di una presunzione senza assoluzione, e poi perché gli anni novanta erano diversi. Ora c'è una costellazione di realtà artistiche anche importanti che però si muovono in uno spazio molto più ristretto. Però grazie per avermelo chiesto!». 

Nel 2011 hai partecipato al Premio Tenco. Cosa pensi della rassegna sanremese che da alcuni anni si dibatte tra seri problemi economici, tentativi di espatrio e cambi di sede?

«Il Premio Tenco è ed è stato la meta più ambita per ogni cantautore, chi lo snobba è perché è incazzato per non essere stato invitato! Detto questo non sempre il cast è rappresentativo di quello che si agita sulla scena contemporanea. Però resta un punto di riferimento e io sono molto grata al Club Tenco, in particolare a Enrico de Angelis che mi ha seguita e sostenuta fin dagli esordi».


Titolo: Di cosa parliamo
Artista: Giorgia del Mese
Etichetta: Radici Music
Anno di pubblicazione: 2013




mercoledì 11 settembre 2013

Bobo Rondelli, "A famous local singer"





Livornese, istrionico, irriverente, cantante appassionato e un po' "cialtrone", nonché straordinario imitatore di voci e performer coinvolgente. Bobo Rondelli è tutto questo, dall'esordio negli anni Novanta con il trio Les Bijoux, ai primi successi con l'Ottavo Padiglione, fino all'inizio della carriera solista nel decennio successivo e l'esperienza nel cinema. Un percorso artistico mai scontato che ha visto Rondelli collaborare con Stefano Bollani, Dennis Bovell e Filippo Gatti in ambito musicale, con Paolo Virzì sul grande schermo. L'ultima fatica discografica, l'album "A famous local singer", è un poetico progetto brass&roll prodotto da Patrick Dillett (già produttore di David Byrne e St. Vincent, e collaboratore tra gli altri di Brian Eno, The National, Glen Hansard) e nato dall'incontro con l'Orchestrino (Dimitri Grechi Espinoza sax tenore e sax alto, Filippo Ceccarini tromba, Beppe Scardino sax baritono, Tony Cattano trombone, Daniele Paoletti e Simone Padovani percussioni,
 Fabio Marchiori tastiere), potente e coinvolgente marching band che lo accompagna nella rilettura dei classici della sua produzione e nella presentazione dei brani nuovi dell'ultimo album e di imperdibili cover. Un incontro scanzonato tra blues, jazz, swing e ritmi afro-cubani che non fa restare indifferente l'ascoltatore.
Abbiamo incontrato Bobo e ci ha spiegato come si fa a essere un "famous local singer".



Da cantautore malinconico a compagno di strada dell'Orchestrino. Una bella trasformazione artistica, non credi?

«La musica è un viaggio, un itinerario. Per me il senso è sempre stato questo: ho fatto dischi diversi a seconda degli incontri. Per esempio, con Bollani ho puntato su sonorità più jazzistiche, con Dennis Bovell sul reggae, con Filippo Gatti su uno stile più intimista e malinconico, come hai detto tu. Con l'Orchestrino c'è stata la voglia e l'intenzione di scendere in strada. È un gruppo che può suonare senza elettricità essendo formato da fiati e percussioni e quindi, anche per andare incontro alla crisi, si trova sempre il modo di esibirsi, quasi fossimo una band di New Orleans».

Hai lasciato da parte le canzoni più introspettive per puntare deciso sul divertimento. Vista la situazione politica ed economica, pensi che sia la ricetta giusta per ridare il sorriso al tuo pubblico in questi tempi bui?

«Oltre al sorriso e al divertimento mettiamoci anche un po' di ballo e di espressività del corpo. Ci può essere un po' tutto questo e soprattutto la voglia di fare baldoria. È un progetto che nasce suonando per strada e lo spettatore è anche quello che passa per caso. Può succedere che la sua vita cambi sentendoci suonare. Un ragazzino che passa e vede suonare un sax, un trombone e un tamburo può essere stimolato a suonare a sua volta, ad avvicinarsi alla musica. Suonare porta le persone ad approfondire la conoscenza della propria anima e a non vivere di cose materiali. La musica stimola a una rivoluzione interiore e comunque chi vive di parole e di musica non si metterà mai con il fucile dalla parte di chi spara».

Perché l'idea di ripescare alcuni classici di Celentano? Ti vedrei bene nel Clan…

«Nel Clan penso ci fosse questo bello spirito di condivisione, unito da questo rock'n'roll. "24.000 baci" ha una forza tutta sua, ci sono quei quattro 'ye ye', superiori secondo me a quelli dei Beatles. Poi noi l'abbiamo fatta con questo sapore un po' balcanico, ispirati dal film di Kusturica. L'idea era quella di far cantare a un ragazzo dell'est "24.000 baci". L'altra, "Bimbo sul leone", è proprio una bella canzone, un pezzo tipo Mission Impossible, uno 007, sembra quasi un'Arca di Noè che si svolge in cielo invece che in mare».

Da dove nasce il titolo "A famous local singer"?

«Un po' di anni fa ho scritto una canzone su un orso, Gigi Balla, chiuso in un gabbia dello zoo di Livorno. Ne ho fatto un quadro malinconico, poetico. Successivamente, passando davanti allo zoo ho notato che avevano messo un cartello, di quelli turistici, con scritto in italiano ‹il famoso cantautore Bobo Rondelli che ha cantato la storia dell'orso Gigi Balla...›, in inglese io sono diventato "A famous local singer" e l'orso "A famous local bear". Fa ridere, è una frase bella perché ambigua: sono un famoso cantante del luogo o un cantante famoso del luogo? Ecco, penso più a quest'ultima: sono un cantante famoso del luogo».

La soglia dei 50 anni è stata superata. Cosa possiamo aspettarci da Bobo Rondelli nei prossimi anni?

«Non lo so, non mi pongo la questione dello scorrere del tempo. Probabilmente si tende a essere più riflessivi, spero meno vanitosi... spero che la vanità sia un passaggio, un andare oltre, un cercare di sparire dentro la vita. Ti posso dire una frase che da cinquantenne ho scritto l'altro giorno e che dice: ‹il tempo che mi resta voglio morirmelo come mi pare e piace›. Voglio morirmelo non viverlo perché vivere è presuntuoso, ogni attimo si muore e dopo cinquant'anni c'è questa bella accettazione di morire il momento. Vivere alla giornata, vivere i progetti, quello che dovevi fare l'hai fatto, puoi solo regalare, far del bene con la tua esperienza e saggezza. Sicuramente c'è anche più spiritualità perché avvicinandosi la fine effettivamente il morire fa più paura».

Ritmi klezmer, una sapiente fusione tra jazz e blues. Ritmi alla Bo Diddley in "Il cielo è di tutti", chi ha contribuito a questo mix esplosivo?

«A contribuire è stato il gruppo stesso, l'Orchestrino. Sono jazzisti che sanno suonare in mezzo alla gente e hanno la capacità di intrattenere mantenendo alta la qualità. Nel disco c'è un po' di tutto, non ci siamo posti il problema del genere. È più un sound quasi da balera, c'è anche un pezzo cubano».

Non mancano le canzoni goliardiche e irriverenti come "Puccio Sterza"…

«È un rock'n'roll sulla storia di un incidente automobilistico stradale e sessuale. In città c'è questa scritta, 'Puccio sterza', che viene regolarmente cancellata ma che con il tempo ricompare. Probabilmente questo Puccio picchiò con l'auto contro il muro e così nella canzone ho pensato che fosse uno che andava a cercare incontri notturni ed essendo uno importante provano sempre a cancellare il nome. Magari è un commissario, non si sa, qualcuno di importante, un politico».

"Che gran fregatura è l'amor" è il titolo di un'altra canzone del disco. È la tua idea dell'amore?

«Alle volte sì, dipende. Sai sull'amore ne parliamo in continuazione, una volta dici una cosa poi la rinneghi il giorno dopo. A volte, in modo volgare, gli uomini dicono che le donne sono tutte troie e così anche le donne dicono che gli uomini sono tutti stronzi e bastardi. Dipende dal momento, però più che l'amore dovrei dire che gran fregatura è l'infatuazione. Poi l'amore va sempre rinnovato, l'amore non è uno scherzo di uno che vive la vita in modo dannunziano. La canzone è un po' uno scherzo, cantata con la voce impostata che ricorda un po' gli anni '30 e che, a un certo punto, recita ‹...che palle stare insieme a te...›. È un gioco surreale di epoche sbagliate, con parole ed espressioni che non si sentivano in quegli anni».

Recentemente hai suonato al Campeggio Resistente a Valloriate a Cuneo. Resistere è l'unica soluzione che ci è concessa?

«A sentire questo Papa, che francamente non mi dispiace, bisogna resistere alle tentazioni di possedere troppo, più del dovuto per certi, resistere per arrivare a fine mese, resistere dal vivere una vita troppo finta comandata da computer, internet, facebook. Bisogna riappropriarsi invece dello stare insieme, resistere meno e vivere di più. La parola resistere sembra un non vivere, un doversi sempre difendere. Bisogna incontrare persone più vere, a cominciare dagli anziani, perché solo così si può resistere al pericolo della lobotomia a cui siamo sottoposti per vivere».

Bobo, tu sei di Livorno come Piero Ciampi. Qual è il tuo rapporto con questo grande e indimenticato artista?

«Ciampi cantava le sensazioni e le emozioni allo stato puro. Le sue canzoni arrivavano a tutti, con tutto il suo dolore, senza nessun pudore. Raccontava tutto il dolore che toglie la vita ma nella sua disperazione ci sono dei momenti sublimi sia musicali che di parole. È stato un coraggioso, un poeta che si raccontava. Insomma un Don Chisciotte della canzone italiana ed europea, molto vicino forse ai francesi, però anche a Modugno per certi aspetti e per la cantabilità molto fresca di certe sue canzoni».

Che rapporto hai con la musica tradizionale italiana?

«Francamente non ho molti rapporti, a volte mi vergogno a dirlo, ma sono più un rockettaro, sono un Beatles maniaco. Poi Rolling Stones, più, certo, la canzone italiana con Celentano, Modugno che è stato l'artista più potente che l'Italia abbia avuto in quegli anni. Molto vicino alla musica tradizionale, anche con il suo modo di cantare che deriva dai venditori del mercato mischiato alla lingua italiana».

Sono convinto che l'attuale tour possa essere accolto molto bene anche oltre confine. C'è qualche progetto in piedi?

«C'è qualche richiesta che stiamo valutando. In Inghilterra potrebbe funzionare, staremo a vedere. Se capiterà bene, altrimenti nessun problema».

Qual è stato il tuo ultimo impegno nel mondo del cinema?

«Serviva la voce di Marcello Mastroianni in un film di Scola sulla storia di Fellini. E così: ‹Ogni volta che c'è bisogno di lui, tu capisci, mi chiamano per questo lavoro ormai sporco per me, finirò per diventare lui quindi se mi chiamate, per favore chiamatemi Marcello...›. Ho stretto la mano a Scola, non male, no?»


Titolo: A famous local singer
Artista: Bobo Rondelli e l'Orchestrino
Produttore: Patrick Dillett
Etichetta: Ponderosa
Anno di pubblicazione: 2013

Tracce
(testi e musiche di Bobo Rondelli, eccetto dove diversamente indicato)

01. Bimbo sul leone  [Santercole/De Luca/BerettaDel Prete]
02. Il cielo è di tutti  [Rondelli/Rodari]
03. Il palloso
04. La marmellata  [Rondelli/Marchiori/Rondelli]
05. Cuba lacrime
06. 24.000 baci  [Leoni/Celentano/Vivarelli/Fulci]
07. Puccio sterza
08. Settimo round
09. Bambina mia
10. Bobagi's blues
11. Prendimi l'anima
12. Che gran fregatura è l'amor
13. Il paradiso




lunedì 2 settembre 2013

The Cyborgs alla corte di Springsteen






Vengono dal futuro ma hanno i piedi ben saldi nella tradizione del blues. Sono The Cyborgs, un duo tra i più interessanti della scena underground italiana. Due personaggi enigmatici che si celano dietro a maschere da saldatore e a vestiti rigorosamente neri. Cyborg 0 (zero) suona la chitarra in modo molto personale e riconoscibile, questo sì, e canta attraverso un microfono fissato alla maschera. Cyborg 1 (one) si occupa invece della sezione ritmica e suona la tastiera. Nella musica dei The Cyborgs, oltre al blues più tradizionale, quello più vicino alle origini ma sviluppato con un approccio moderno a tratti roots, non mancano incursioni nel rock psichedelico e accenni a sonorità afro. Il tutto per un sound viscerale, istintivo, primordiale e allo stesso tempo esplosivo.
Due album all'attivo e il loro electro-boogie non è più un oggetto misterioso. Il duo si è imposto sulla scena internazionale con lunghi tour in Gran Bretagna, Stati Uniti e nel resto dell'Europa. In patria, dopo aver diviso il palco con Jeff Beck, Johnny Winter, Eric Sardinas e i North Mississippi All Stars, hanno avuto il privilegio, a luglio, di aprire il concerto romano di Bruce Springsteen all'Ippodromo delle Capannelle, nell'ambito della rassegna Rock in Roma. Un evento più unico che raro che ha visto The Cyborgs esibirsi di fronte a 35 mila spettatori in un coinvolgente set di una quarantina di minuti.
Abbiamo approfondito il discorso con Cyborg 1 ma questa volta è stato tutto più difficile. Da uomo del futuro, Cyborg 1 ha risposto alle domande utilizzando il codice binario e le risposte inviate attraverso internet, da una località a noi sconosciuta, sono state decodificate per renderle comprensibili. Anche questo sono The Cyborgs.



Ricordo di avervi visti aprire per i North Mississippi All Stars un paio di anni fa a Savona. Poche settimane fa siete balzati invece agli onori della cronaca per la vostra esibizione in apertura al concerto di Springsteen. Raccontaci come è andata la giornata romana…

"È stata una calda e lunga notte… Migliaia di persone hanno cantato e ballato rendendo speciale la nostra performance. Unico rammarico è stato quello di non esserci potuti trattenere fino alla fine del concerto del Boss, a causa dell'imminente partenza per dei concerti in Inghilterra. Per il resto è stata una esperienza unica".

Lo sai che per la prima volta in Italia Springsteen ha acconsentito a una band di aprire un suo concerto? Come è stato possibile?"

Si, è vero, ma c'è sempre una prima volta. Bruce e il suo entourage hanno visto il nostro show in video e ci hanno voluto. E' andata così".

Avete incontrato Springsteen o i musicisti della E Street Band?

"Purtroppo no, anche perché siamo dovuti scappare via poco dopo il nostro show. Ci aspettava un aereo per portarci a Londra".

Il set è stato molto apprezzato anche dal pubblico di Springsteen, te lo aspettavi?

"Ci aspettavamo una buona accoglienza, ma non così calorosa".

Poteva essere rischioso e invece avete conquistato gli spettatori con una esibizione trascinante. Una bella soddisfazione...

"È sempre una soddisfazione vedere ballare e cantare il pubblico, anche quando non è così numeroso".

Al termine del set mi è parso aver visto la tua tastiera un po' ammaccata...

"Certo, è così. Col tempo e i numerosi viaggi ha subito dei danni, ma un piano ha 88 tasti e non è un problema se cinque o sei si rompono. Ci sono tutti gli altri".

"Electric chair", uscito quest'anno, è il vostro secondo album. Dodici tracce che confermano quanto di buono fatto ascoltare all'esordio. Come è nato questo disco?

"È nato velocemente, mentre portavamo in tour il nostro primo disco. Alcuni brani di "Electric chair" in realtà li suonavamo dal vivo già un anno prima della pubblicazione del disco".

Da dove nasce il vostro electro-boogie?

"Nasce dall'esigenza di innovare e rinnovare il blues, per tramandarlo. In realtà è quello che i bluesman hanno sempre fatto in passato. È così che il blues continua a vivere. Muddy Waters, John Lee Hooker, R.L. Burnside erano terribilmente innovativi, e forse lo sono tuttora. Il termine electro-boogie è invece solo una etichetta perché il nostro, in fondo, è blues e basta".

Come vi è venuta l'idea di suonare con la maschera da saldatore?

"Siamo intolleranti alla luce del sole, è troppo forte, è accecante".

Quali sono i vostri prossimi impegni?

"A maggio siamo ripartiti in tour in Italia e in Europa. Ne avremo almeno per un anno".

Dopo l'esibizione romana davanti a 35 mila persone qual è il vostro prossimo sogno da realizzare? Con chi vi piacerebbe suonare?

"Nel futuro non c'è spazio per i sogni e soprattutto è bello non aspettarsi proprio nulla dalla vita. Anche questo è blues".


Titolo: Eletric chair
Artisti: The Cyborgs
Etichetta: Audioglobe
Anno di pubblicazione: 2013