mercoledì 25 aprile 2012

I blue-collar workers di Daniele Tenca






Con l'album "Blues for the working class" e il successivo "Live for the working class" Daniele Tenca ha conquistato il premio "Fuori dal Controllo 2012", riconoscimento ideato e ispirato da Marino Severini dei Gang. La motivazione dice molto sulla produzione del cantautore milanese. "Il riconoscimento è dovuto al percorso indipendente e coerente che ha portato Tenca a prestare la sua musica a un tema particolarmente attuale, quello del lavoro, della sua mancanza e della sua pericolosità, con uno dei dischi italiani più importanti degli ultimi anni". Un album quindi più che mai attuale. 
Tenca non è però un personaggio emergente della musica italiana come alcuni potrebbero pensare. Il quarantunenne artista lombardo ha intrapreso un percorso da solista dopo una decennale carriera come cantante dei Badlands, tribute band di Springsteen. Dopo l'album d'esordio "Guarda il sole" (2007), cantato in italiano, nel 2009 Tenca ha pubblicato "Blues for the working class", disco della svolta blues composto da dieci brani: otto inediti cantati in inglese e due cover, una è "Factory" di Bruce Springsteen e l'altra è "Eyes on the prize", realizzata con la collaborazione di Cesare Basile e Marino Severini. L'anno scorso il primo disco dal vivo, "Live for the working class", che ha ricevuto unanimi consensi da parte delle maggiori testate del settore. Un disco sanguigno che rende bene la forza e l'espressività delle composizioni di Tenca nonché la bravura della band che da un paio di anni lo accompagna in tour e in studio: Pablo Leoni alla batteria e alle percussioni, Luca Tonani al basso, Heggy Vezzano alla chitarra. Gli appassionati avranno l'occasione di ascoltare Daniele, accompagnato dal suo gruppo, a Spotorno in occasione della festività del Primo Maggio (ore 15, ingresso gratuito). 
A presentare l'evento è lo stesso Daniele in questa intervista. 


Ricordo di averti visto suonare un po' di anni fa al Ju-Bamboo a Savona con il tuo vecchio gruppo, i Badlands. Hai qualche ricordo di quella serata?

«Certo che me la ricordo! Credo fosse il 2002 o 2003 perché era appena uscito "The Rising" (album di Bruce Springsteen, ndr). Mi ricordo in particolare che appena sotto il palco c'erano due o tre ragazzini che avranno avuto quattordici anni massimo, che sapevano le canzoni a memoria e se la spassavano un sacco. Ci siamo divertiti molto anche noi».

L'esperienza con i Badlands è finita da un po' di anni. Quanto ha pesato per la tua carriera solista essere accostato a Springsteen?

«In realtà poco perché non lo vivo come un peso ma come un grande onore e una grande responsabilità. Il suo modo di fare musica rimane una guida per me. Certo, adesso facendo blues mi sembra strano ritrovare certi accostamenti, che magari rimangono più in primo piano nell'approccio o nelle tematiche più che nelle canzoni o nella musica, ma va benissimo così».

Sei in tour con una band formata da grandi musicisti che hanno accompagnano spesso Andy J Forest in Italia. Come è nata questa collaborazione?

«Il bello è che è la stessa band che ha inciso con me "Blues for the working class", quindi significa che abbiamo stabilito un legame importante se siamo ancora insieme sul palco dopo due anni circa, e non parlo solo di musica. Ci si conosceva già, io andavo a vederli quando suonavano con Andy. Heggy (Vezzano, ndr) aveva fatto con me il tour di "Guarda il sole". Ho fatto sentire loro il materiale e spiegato il progetto e hanno detto ok. Semplice, ma dietro ci sono tanta disponibilità e voglia di mettersi in gioco, e amore per la musica. Tra poco torneremo insieme in studio per il prossimo disco, e tutti non vediamo l'ora».

Dopo aver suonato per vent'anni rock hai cambiato direzione puntando sul blues. Lo hai fatto per tagliare definitivamente i ponti con il tuo passato artistico o perché è un genere che si adatta meglio alla tua musica e ai temi che affronti nelle tue canzoni?

«La seconda che hai detto. Anche se le contaminazioni con il rock e con il folk ci sono e si sentono, forse da lì arrivano anche i riferimenti di cui parlavamo prima. Il blues tiene comunque insieme il tutto. La scelta è di coerenza con le tematiche, e anche di un ritorno a un vecchio amore musicale».

Il problema del lavoro, le fabbriche che chiudono, le morti bianche. Sono temi sociali drammatici e molto attuali quelli su cui hai focalizzato la tua attenzione...

«Questa è e sarà la mia strada indipendentemente dalle logiche mainstream o dall'hype del momento. I tempi che stiamo vivendo hanno spinto anche altri artisti a puntare un po' più l'attenzione sui problemi sociali, anche se forse è gente che ha sempre parlato di certi temi. Mi vengono in mente i Gang o gli Afterhours, per esempio».

Cantare tutto questo in inglese non pensi che limiti la comprensione del tuo messaggio?

«Sicuramente, ma non sarei stato capace di essere credibile allo stesso modo scrivendo in italiano. È un mio limite o una mia caratteristica, a essere buoni, e ci faccio conto. Le traduzioni nel libretto del cd e le parole di introduzione a qualche canzone nei concerti cercano comunque di far capire di cosa si parla, sperando di far venire voglia a chi ci ascolta di approfondire».

Che significato ha per te suonare a Spotorno il Primo Maggio, festa dei lavoratori?

«Rendere omaggio a quelli che lavorano, a quelli che si fanno male o muoiono lavorando, e a quelli che vorrebbero lavorare e non trovano il posto dove farlo. È il motivo principale per cui abbiamo fatto questo disco, quindi non posso che essere onorato nel farlo. Però dico anche che, per noi, è Primo Maggio ogni volta che saliamo sul palco a cantare queste canzoni, dal 2010 e finché lo potremo fare, e sarebbe bello che lo fosse per tutti».

Nel 2011 hai rappresentato l'Italia all'International Blues Challenge di Memphis, un bel traguardo ma sicuramente anche un interessante punto di partenza. Cosa ti ha dato questo viaggio?

«Emozione, rispetto, adrenalina e anche un minimo di "strizza" di prendere qualche schiaffo dal punto di vista musicale dato che avremmo suonato dove tutto quello che suoniamo ha preso il via. Invece siamo tornati con un sacco di gratificazioni che ci hanno reso ancora più forti e consapevoli. Indimenticabile».

Quali sono i tuoi progetti futuri, hai già nuovo materiale pronto per il prossimo disco?

«Te lo anticipavo prima... credo che torneremo in studio dopo l'estate, siamo quasi pronti con i pezzi, e ne sentiamo davvero l'urgenza».

Da ex leader dei Badlands, la migliore tribute band di Springsteen, come giudichi "Wrecking Ball"?

«Intanto ti ringrazio di cuore anche a nome degli altri Badlands per i complimenti. "Wrecking Ball" mi sembra davvero un bel disco, nel quale Bruce per primo crede molto e lo si intuisce dalla quantità di brani che sta suonando nel tour. È soprattutto un tragico specchio dei tempi. A chi si lamenta di un certo "populismo" nei testi, dico che sarebbe anche ora che qualcun altro, magari con meno di 63 anni, si prendesse carico di parlare di certe tematiche, magari con la gioventù riesce a essere più incisivo...».

Vedrai qualche concerto di Springsteen quest'anno?

«Sì, ovviamente. Le date italiane e poi Oslo e Praga. Ti prego, non dire niente».

Allora non è detto che non ci si veda davanti al cancello di qualche stadio. A parte il disco di Bruce cosa stai ascoltando ultimamente?

«Ultimamente sto ascoltando molto soul».

 Hai qualche nome interessante da proporre?

«Per quanto riguarda le uscite recenti ti dico Black Keys, Wilco e Mark Lanegan, mentre Cooper, il fonico e amico con cui lavoriamo in studio, mi ha fatto scoprire The Dead Weather, uno dei side projects di Jack White, il cui primo disco contamina e sporca il blues in maniera interessante. In Italia, forse sono di parte ma vorrei segnalare "Ma-Moo Tones" di Francesco Piu, prodotto da Eric Bibb, disco al quale ho collaborato sui testi e, in parte, sulle musiche di sei brani».

Toglimi una curiosità, quale è stato il tuo ultimo concerto da spettatore?

«Paolo Bonfanti Band allo Spazio Teatro 89 a Milano, una settimana fa circa. Una garanzia. Non aggiungo altro perché non serve».



venerdì 20 aprile 2012

Pulin and the Little Mice e la macchina del tempo









È un viaggio a ritroso nel tempo quello che i Pulin and the Little Mice fanno vivere agli spettatori durante i loro concerti. Il gruppo savonese, sulle scene da alcuni anni, propone un itinerario musicale che va alla riscoperta delle radici della tradizione americana. Musica con pochi fronzoli, genuina, ruspante, a tratti ruvida ma capace di risvegliare ritmi assopiti e far battere mani e piedi. I Pulin and the Little Mice la portano in giro nei locali e nelle piazze di tutto il nord Italia dove riescono a conquistare il pubblico con la loro spontaneità e bravura. Brani come "Digging my potatoes", il traditional "Going down the road feelin' bad", la popolare "Iko Iko", "Fishin' Blues" "Willie the Weeper" sono più che mai apprezzati e si potranno ascoltare mercoledì 25 aprile al Priamar di Savona, in occasione della rassegna che vedrà sul palco anche I Venus, A Brigà, Cisco e il coro dialettale I Pertinace.
I Pulin and the Little Mice - nella foto da sinistra Giorgio "The Captain" Profetto (chitarra acustica, kazoo, marranzano, tin whistle e voce), Marco "Poldo" Poggio (washboard, cardboard box, spoons, mandolino, rullante, voce), Marco "Figeu" Crea (chitarra acustica, cajun accordeon e voce), Matteo "Pulin" Profetto (armonica, ukulele, kazoo, frattoir e voce) - in questa intervista ci parlano del gruppo e dei loro progetti futuri. 


Iniziamo dal nome del vostro gruppo. Da dove nasce "Pulin and the little Mice"?

Matteo Profetto: «Bè, in realtà non so bene come sia uscito questo nome, è spuntato e basta in un giorno come un altro. Ci è piaciuto subito. Teniamo molto al fatto che nel nome siano accostate parole inglesi ad una parola in dialetto ligure: pulin. A proposito, pulin si legge con l'accento sulla 'i', te lo dico perché oramai lo hanno storpiato in tutti i modi possibili immaginabili. Tra l'altro nel nome, come diceva Jimmy Rabbitte dei Commitments, c'è l'articolo come per i migliori gruppi degli anni '60!». 

Siete insieme ormai da un po' di anni, perché avete deciso di farlo? Quando si sono unite le vostre strade?

Marco Poggio: «Allora, vediamo…. Era una notte buia e tempestosa…. ok, ok, citazioni snoopiane a parte possiamo dire che, visto le varie vicissitudini che hanno caratterizzato la vita del gruppo, è stato sicuramente il destino a metterci lo zampino. Da una comune passione musicale, che ha portato alla nascita del gruppo, è nata una profonda e bella amicizia; ed è anche per questo che ogni volta che ci esibiamo dal vivo siamo noi i primi a divertici come dei matti».

Il nome della vostra band appare sempre più spesso sui cartelloni dei festival di tutto il nord Italia. Vi state facendo conoscere da un pubblico molto ampio. Per voi cosa rappresenta tutto ciò? 

Marco Crea: «È la conferma che quello che facciamo, oltre che far divertire noi stessi, ha anche un qualche valore artistico ma soprattutto è uno stimolo a proporci sempre più lontani da casa, perché da buoni sportivi sappiamo che mettere chilometri nelle gambe fa sempre bene!».

Esibirsi ogni sera di fronte ad un pubblico differente, nuovo, con un diverso background culturale e musicale, cosa vi trasmette? 

Marco Crea: «Nella maggior parte delle occasioni ci troviamo davanti ad un pubblico che non ha mai ascoltato i generi musicali che proponiamo. La piacevole sorpresa sta nel fatto che le persone in ogni concerto ritrovino nella nostra musica uno stimolo per poi approfondirla, un qualcosa di perduto ma in fondo familiare o una semplice bella serata da ricordare. In ogni caso proporre qualcosa di particolare aiuta sempre l'artista a lasciare un piccolo segno nel background dello spettatore, in questo noi partiamo avvantaggiati».

Ci sono città o realtà che vi hanno accolto con più calore? 

Matteo Profetto: «Sai, non è che facciamo tour mondiali, spesso suoniamo in locali piccoli, a volte in situazioni davvero strane, e devo dire che a volte proprio dove non te lo aspetti, hai la sorpresa di un pubblico 'carico' che ti segue alla grande. Se proprio devo dirti un concerto che ultimamente ci ha davvero riempito di orgoglio, dico quello al Milestone di Piacenza, che è un noto locale jazz in cui hanno suonato un sacco di grandi e che ci ha accolti benissimo. Però, sul serio, abbiamo un sacco di bei ricordi in tante città dell'Emilia Romagna, del Piemonte e anche della nostra Liguria».

La vostra musica non potrà mai portarvi sul grande schermo, lo sapete vero? 

Giorgio Profetto: «Non ci avevamo mai pensato, ma suonando in giro abbiamo conosciuto tanti e tali personaggi che non è da escludere che incontriamo prima o poi un regista o un produttore tanto pazzo da farci una proposta, chissà?». 

Nel 2000 è uscito nelle sale cinematografiche il film "O Brother, Where Art Tou?" dei fratelli Coen con una colonna sonora fantastica che ha influenzato moltissime band e che ha fatto nascere un importante movimento musicale di recupero della tradizione. Fate parte anche voi di questa ondata?

Giorgio Profetto: «Ascoltavamo ed amavamo questa musica da molto prima del 2000, quindi abbiamo ritrovato con grande piacere nei suoni e nelle atmosfere del film una parte delle nostre radici musicali e culturali (senza contare che il soggetto è ispirato all'Odissea…più radici di così…)». 

Carolina Chocolate Drops, Old Crow Medicine Show, The Low Anthem, Hackensaw Boys. Sono solo alcuni dei gruppi che fanno parte di questo movimento di recupero della tradizione americana. In Italia si assiste ad un movimento culturale anche solo minimamente paragonabile?

Matteo Profetto: «Certo per loro il recupero della tradizione, oltre ad essere probabilmente più semplice e normale perché si tratta della loro storia musicale e sociale, è accolto in maniera davvero incredibile. Ogni tanto vedendo i video mi sembra impossibile che ai concerti di ragazzi che interpretano vecchie canzoni alla vecchia maniera ci siano folle oceaniche che cantano impazzite come ai concerti rock. Devo dirti, però, che noi incontriamo molto spesso persone che battono le mani, cantano, ballano. Credo che questo sia dovuto al fatto che i brani che eseguiamo in concerto facciano in qualche modo parte anche della nostra cultura musicale, d'altronde il rock che tanto ha influenzato la nostra musica non è altro che il pronipote della musica che noi proponiamo. Ci piace pensare che queste musiche siano dentro tutti noi e che ci siano arrivate senza che noi ce ne fossimo nemmeno accorti. Quindi la nostra ambizione, come Pulin and the Little Mice, è quella di tirarle fuori dai meandri della memoria e magari spiegare anche da dove arrivano. In realtà cerchiamo di inserire davvero tante cose all'interno dei concerti proprio perché la musica americana risente di un sacco di influenze diverse ed è cresciuta nel tempo dando origine a una serie, per utilizzare un termine che spesso si rivela opinabile, di generi e sottogeneri. Quindi è abbastanza usuale per noi inserire nelle scalette dei concerti brani irlandesi, blues, bluegrass, ragtime, zydeco e molto altro, proprio perché riteniamo che siano da vedere come genitori, nonni e zii di tanti figli e nipoti, più o meno somiglianti fra loro. Comunque con un po' di impegno non è poi così difficile trovare anche qui da noi gruppi eccellenti che fanno musica tradizionale americana molto ma molto bene. Il discorso si farebbe lungo, però credo di risponderti in maniera esauriente consigliandoti un disco dei Red Wine Serenaders di Veronica Sbergia e Max De Bernardi. Prova e mi dirai».

Li ho visti recentemente a Il Cancello del Cinabro a Genova e penso che siano veramente molto bravi. Il loro ultimo disco è notevole. Parlando invece della tradizione italiana, in questi mesi alcuni cantautori hanno dato alle stampe progetti legati in qualche modo alla tradizione. Vi faccio due esempi: Massimo Bubola con l'EP "Romagna Nostra" e Graziano Romani insieme a Lassociazione con il disco "Aforismi da Castagneto". Cosa ne pensate?

Marco Poggio: «La tradizione musicale italiana, forse perché non avvolta da un'aura mitologica caratterizzante invece quella americana, è troppo spesso materia di difficile fruizione da parte della maggior parte degli stessi italiani, ma non per questo di valore storico e musicale minore, tutt'altro. Se infatti gli Stati Uniti hanno potuto contare su un grande lavoro di ricerca etnomusicologica anche l'Italia non è stata sicuramente da meno, basta solamente guardare per esempio quanto fatto dall'immenso Diego Carpitella o da Roberto Leydi. Se a questo aggiungiamo che Alan Lomax, uno dei più grandi etnomusicologi mai esistiti, ha raccontato in uno stupendo libro fotografico i suoi viaggi di ricerca sonora in Italia, definendo quei giorni come tra i più belli ed entusiasmanti della sua vita, possiamo capire come anche il suolo italiano sia intriso di canti e melodie che vanno a comporre un vasto e prezioso patrimonio sonoro, il quale dovrebbe tuttavia essere ulteriormente e meglio valorizzato. Ben vengano quindi dischi come quelli di Romani e Bubola, in grado di far apprezzare alle nuove generazioni e ad un ampio pubblico canzoni che altrimenti sarebbero fruibili solo da appassionati incalliti o da pochi studiosi». 

In occasione della festa del 25 Aprile a Savona è in programma una bella giornata di musica. Al Priamar suonerete voi, I Venus, gli A Brigà e Cisco. Secondo voi la celebrazione del 25 Aprile è ancora attuale?

Giorgio Profetto: «Al di là della retorica e delle cerimonie, è attuale ricordare che ci furono dittature, guerre, milioni di esseri umani perseguitati e sterminati, e che tanti ragazzi - questo è quello che erano - contribuirono, spesso a costo della vita, a fermare queste cose. Forse molti di loro non si rendevano nemmeno conto dell'importanza che avrebbero avuto per noi, e forse non sarebbero sempre contenti dell'uso che facciamo della nostra libertà, ma proprio per questo non dobbiamo dimenticare».

Avete accumulato molte date live in questi anni, presumo anche idee. State pensando di incidere un disco?

Matteo Profetto: «Quella del disco è una cosa di cui abbiamo parlato un sacco di volte e che, devo dire con molto piacere, ci è stata suggerita spesso dal pubblico alla fine dei concerti. Abbiamo da poco preso il coraggio di buttarci nella registrazione di un disco, ma per noi è un'esperienza totalmente nuova, quindi temo che le cose andranno per le lunghe».

Per una band emergente quali sono i problemi che si devono affrontare per poter suonare dal vivo?

Marco Crea: «Purtroppo fare musica dal vivo diventa sempre più difficile. Per i locali rappresenta una vera e propria sfida a livello economico, a causa delle leggi che difficilmente nel nostro paese valorizzano l'arte musicale. Unito a ciò c'è l'incapacità di molti gestori che non sono in grado di proporre un programma stuzzicante per il pubblico e quindi economicamente valido per lo stesso locale. Questo deriva dall'ignoranza musicale dell'italiano medio. In ogni caso ci sono ancora diversi gestori coraggiosi che hanno scelto, come e più di noi musicisti, di rischiare per amore della musica stessa».

Quali dischi state ascoltando in questo periodo? 

Matteo Profetto: «Ultimamente sto ascoltando un sacco di musica irlandese, ma vado a periodi e credo che prossimamente mi impallerò con gli armonicisti prebellici. Per quanto riguarda le novità che vale la pena ascoltare chiedo a 'Poldo' e lui mi rifornisce».
Marco Crea: «Ultimamente molto John Doyle e Doc Watson, ma anche per me è solo un periodo. Una costante degli ultimi anni che suggerisco perchè non molto famosi sono i Subdudes». 
Giorgio Profetto: «"Sunny side up" di Paolo Nutini». 
Marco Poggio: «In questi giorni sto letteralmente consumando l'ultimo disco di Dr John, "Locked down"». 

Il vostro ultimo concerto da spettatori quale è stato? 

Matteo Profetto: «L'ultimissimo è stato quello dei Dirt Daubers a La Spezia». 
Marco Crea: «Guitar Ray and the Gamblers». 
Giorgio Profetto: «James Taylor al Teatro Carlo Felice di Genova». 
Marco Poggio: «I Wilco all'Alcatraz di Milano».







giovedì 12 aprile 2012

Geddo, un cantautore "Fuori dal comune"







Davide Geddo è una delle figure emergenti del panorama musicale ligure. Nel 2010 il cantautore di Albenga ha pubblicato "Fuori dal comune", il suo primo album a cui, a breve, farà seguito un nuovo cd di brani originali. Il disco d'esordio si inserisce nel solco tracciato dai cantautori italiani e in particolare da quella "scuola genovese" che negli ultimi quarant'anni è stata un punto di riferimento. Dodici brani intensi, caratterizzati da una grande varietà di forme e stili. Un sound fresco e bilanciato unito a testi ricercati per un disco che ha convinto critica e appassionati.
Davide, grande organizzatore tra l'altro della rassegna musicale "Su la Testa" che si tiene tutti gli anni ad Albenga, si è sottoposto con grande cortesia alle domande di questa intervista.  


Sei un cantautore, chi te lo fare?

«È il mio modo di confrontarmi con il mondo, la mia maniera di mettermi nei panni degli altri, il mio pertugio per intrufolarmi nelle storie. La musica mi ha insegnato ad ascoltare e ogni tanto mi pare giusto dare vita propria alle vicende che vivo e mi colpiscono. Lo faccio per creare e ricrearmi, osservarmi in mezzo al mondo. Se non mi cercassi non mi troverei e in questo perdermi mi ritrovo. Semplice, no?».

Il tuo primo album, "Fuori dal Comune", è uscito ormai da un po' di mesi e ha riscosso ottimi consensi da parte della critica. Ti senti soddisfatto, te lo aspettavi o è stata una piacevole sorpresa anche per te? 


«Sono pienamente soddisfatto. Le canzoni sono piacevoli e ho lavorato molto perché vivessero la dignità del riascolto. Grazie al lavoro in studio svolto con il prezioso aiuto di Rossano Villa degli Hilary Studio, ho imparato a "tagliare" il superfluo e ad andare dritto al nocciolo dell'emozione; spero di aver mantenuto l'intensità che è l'aspetto che più ho curato nei brani».

C'è qualcosa che a mesi di distanza ti piacerebbe cambiare o aggiungere al tuo lavoro?

«Nell'esecuzione, soprattutto in modalità acustica, cambio sempre i miei brani, dandogli colori, velocità e strutture diverse, ma non cambierei quasi nulla del disco. Anche perché sono convinto del suo valore più che altro documentale e che sia meglio un disco espressivo piuttosto che un prodotto perfetto».

"Genova" è una delle canzoni più belle del disco, come è nata?

«Lavoro con passione sui testi per dare più chiavi di lettura possibili ai miei brani. La musica è una macchina del tempo e in "Genova" sfrutto questo potere a piene mani saltando da una fase all'altra di una storia o, forse, più storie identificandone le varie fasi non in un tempo o in una persona ma su uno spazio urbano. Per gli amanti degli aneddoti la canzone dura esattamente il tempo che si impiega a percorrere il molo intitolato a De Andrè al Porto Antico fino alla fine e decidere di non buttarsi».

Cosa ci riserva il tuo futuro artistico? Sei tornato a scrivere?

«Scrivo sempre, e dopo il disco ancora di più. La canzone è un mezzo artistico semplice e redditizio che aiuta a vivere; inoltre ha indubbi poteri profetici, taumaturgici e vagamente ammaliatori. Presto uscirà un nuovo disco».

Ti senti più ispirato quando sei felice o quando attraversi momenti tristi? 

«Sono più ispirato quando sono lucido. Una lucida e disincantata analisi di ciò che senti e stai scrivendo è fondamentale per la realizzazione di qualcosa di degno. Può accadere sia nella tristezza che nella gioia; solo che la lucidità durante una crisi personale è un atto di spietatezza non indifferente. Don't try this at home se non siete professionisti...».

Quali sono i tuoi amori musicali e cosa non sopporti?

«Non sono di primo pelo e ho attraversato periodi diversi, spesso con atteggiamenti enciclopedici. Dapprima mi sono fatto una cultura generale molto approfondita di tutta la canzone d'autore nostrana, poi ho scoperto il rock, il blues e gli anni '70, poi ho preso la mia bella sbandata per Dylan e ho scoperto l'America. Ora ascolto molti colleghi più o meno sconosciuti e mi rendo conto che sono tempi pieni di musica fantastica e nascosta. Oggi la mia band preferita sono i Wilco. Non odio ma mi rende indifferente questo battage promozionale che da alcuni anni sta cercando di spacciare per musica dieci adolescenti che competono in diretta e ad eliminazione nel karaoke».

Oltre ad essere cantautore sei anche organizzatore con l'Associazione ZOO di una rassegna importante come "Su la Testa" che ogni anno ci regala qualche inaspettata sorpresa. Divulgare cultura musicale è un compito sempre più arduo, cosa ne pensi? 


«Non è altro che un aspetto complementare al mio essere musicista e scrittore. Ascoltare e aiutare ad ascoltare non può che essere l'impegno costante di chi per primo chiede ascolto agli altri. Lo faccio perché la società dell'immagine ha schiacciato il piacere e l'umiltà dell'ascolto privando tante persone dell'opportunità di conoscersi attraverso gli altri».

Per finire dieci domande secche:

- Vacanze al mare o in montagna? Mare. Ma negli ultimi anni la montagna sta rimontando.
- Cane o gatto? Gatto.
- Matrimonio o convivenza? Cambia poco. Di sicuro non passo le notti a sognare il giorno della cerimonia.
- Radio o televisione? La radio ha tradito. La tv non ti ha mai detto che sarebbe stata sincera. Scelgo la tv.
- Emilio Fede o Santoro? Comicità e giornalismo sono due aspetti troppo differenti per essere messi a confronto.
- Chitarra acustica o elettrica? Io suono la classica; dovendo scegliere prendo l'acustica perché mi piace poter suonare ovunque senza fili o effetti.
- Cappuccino e brioche o focaccia e vino bianco? Alla mattina non riesco a bere, a tutte le altre ore focaccia e vino!
- Tramontana o Libeccio? Libeccio. Soffro d'allergia e la Tramontana porta i pollini dall'entroterra.
- "Alien" o "Il Padrino"? "Il Padrino".

- The Band o i Pink Floyd? Pink Floyd.


Titolo: Fuori dal comune
Artista: Davide Geddo
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2010

Tracce
(testi e musiche di Davide Geddo)

01. Genova
02. Ti voglio
03. In ogni angolo della notte
04. Innocenza
05. Il limite
06. Marylin
07. Lo sguardo del cantautore
08. 1000 cose
09. So che non vale niente
10. Meg
11. Oltre
12. Cuore