martedì 29 dicembre 2015

Sergio Arturo Calonego, tra premi e Marcel Dadi






Sergio Arturo Calonego torna con "Dadigadì". Dopo l'apprezzato album d'esordio, "Marinere", uscito nel 2013, il cantautore e chitarrista milanese riprende la strada della sperimentazione musicale e propone un disco sfaccettato, ricco nella sua essenzialità e denso di emozioni. Il nuovo cd è composto da otto canzoni in cui la chitarra acustica recita un ruolo da indiscussa protagonista e le parole sono piccoli cameo che regalano luci e riflessi emozionali. Calonego, premiato nel corso dell'anno con la targa "miglior chitarrista acustico emergente 2015" dall'Atkins Dadi Guitar Players Association, rende omaggio a Marcel Dadi, chitarrista francese scomparso prematuramente, e seduce l'ascoltatore con note e accordi che richiamano atmosfere arabeggianti ("Duende"), tzigane ("Dancera") e blues ("Delta"). Un album rilassante, da gustare accompagnato da distillati pregiati e profumi speziati alla luce soffusa di qualche candela. 
Come nel precedente capitolo musicale, Calogeno per la sua chitarra si affida all'accordatura DADGAD (Re-La-Re-Sol-La-Re) di cui Pierre Bensusan è maestro indiscusso. Una accordatura aperta che offre la possibilità di esplorare soluzioni sonore e intervalli non abituali. Tutte le canzoni dell'album sono registrate senza sovraincisioni e Armando Illario arricchisce con la sua fisarmonica la canzone "Dancera".
Calonego ci racconta il suo 2015, anno ricco di soddisfazioni, musica e riconoscimenti. 




Si va a chiudere un anno ricco di soddisfazioni durante il quale hai vinto il premio "miglior chitarrista emergente dell'anno" nell'ambito della ventiduesima convention dell'A.D.G.P.A. che si è tenuta a Conegliano. Come si è svolto il concorso?

«Permettimi di spendere due parole su A.D.G.P.A. per chi, non frequentando il mondo della chitarra acustica, non conosce questa realtà. A.D.G.P.A. è un'associazione culturale che nasce in Francia alla fine degli anni '80 come fan club legato al grande chitarrista francese Marcel Dadi, un vero innovatore molto legato a Chet Atkins, che ha ampliato il linguaggio della chitarra. Dadi ha perso la vita nel 1994 a causa di un incidente aereo. L'A.D.G.P.A. italiana nasce agli inizi degli anni '90 grazie all'avvocato milanese Marino Vignali e ad alcuni amanti della chitarra acustica che, amici di Marcel Dadi, coinvolgono nel progetto alcuni padrini illustri fra i quali i chitarristi Franco Cerri e Riccardo Zappa. La mia partecipazione al concorso è stata frutto di una coincidenza: stavo registrando il mio secondo disco. Mancava credo un mese alla fine del bando di concorso ed ho inviato due brani che non avevo ancora finito di mixare. Da lì sono arrivato in finale. Il giorno della finale pensavo a tutto tranne che avrei vinto la targa di miglior chitarrista. Sono completamente autodidatta, non provengo da studi classici né accademici. La verità è che avevo delle storie da raccontare per cui non mi sono fatto troppe domande: sono salito sul palco e ho suonato i miei due brani con la massima naturalezza. Pensa che quaranta minuti prima della finale ero ancora nella piscina dell'hotel. Poi, chiaramente, la gioia è stata grandissima».

Quali canzoni hai presentato nel corso della manifestazione?

«Due brani strumentali: "Dissonata" e "Dadigadì", brano quest'ultimo che dà il titolo al mio secondo disco».

Grazie a questo successo a fine ottobre sei stato ospite del festival francese di Issoudun dedicato alla chitarra. Che ricordi hai di questa avventura?

«Ho ricordi dolci di questo mio soggiorno in Francia. È stata un'avventura nata, almeno inizialmente, senza alcuna progettazione. Vincendo "Rendez Vous" e la targa A.D.G.P.A. a Conegliano, ho avuto l'onore di rappresentare il mondo della chitarra acustica italiana in uno dei più prestigiosi festival europei. Avevo già suonato all'estero, in Svizzera, Belgio e per due anni anche in Islanda ma in questo caso il sapore del viaggio era tutta un'altra cosa. Ho ricordi di strade baciate dal sole di un autunno clemente mentre mi domando: ‹…ma cosa sto andando a fare?›. Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che sono andato al festival della Guitare de Issoudun non perfettamente consapevole di quello che stavo per fare. La delegazione A.D.G.P.A. Italia mi ha raggiunto il giorno del concerto e l'unica persona che conoscevo era Francois Sciortino che è uno dei più bravi e conosciuti chitarristi acustici francesi. Francois è un grandissimo musicista, oggi anche un amico, l'ho conosciuto a Conegliano proprio in occasione della finale».

Come ha reagito il pubblico francese sentendo le tue canzoni?

«Premetto che, un po' per indole e un po' per esperienza (ho alle spalle ormai quasi 700 esibizioni), non sento molto la pressione dei concerti anche se importanti, per cui, quando è stato il mio turno, sono salito sul palco e ho fatto quello che dovevo fare: ho suonato. Avevo preparato la scaletta da mesi per cui, musicalmente parlando, tutto è andato come speravo che andasse. C'è però un aneddoto, che è anche un ricordo bellissimo, che mi piace condividere: suonavo nel teatro del centro dei congressi di Issoudun, alla fine del mio set il pubblico applaudiva e io, dopo aver ringraziato, mi sono diretto nel backstage. A questo punto è accaduta una cosa non prevista. Mi ha raggiunto un addetto al palco e mi ha detto: ‹Monsieur Calonegò, ils vous appellent›. In effetti dal backstage ho avvertito un rumore, come una ritmica sorda, ovattata ma decisamente convinta e muscolare. Era il pubblico del teatro che stava chiamando il bis. Lo stava chiamando con forza, lo stava pretendendo. Ho capito immediatamente dallo sguardo dell'uomo di palco che non dovevo farmi attendere troppo per cui ho preso la chitarra e sono ritornato sul palco, stupito, lusingato e quasi intontito. Non avevo pensato a un'eventualità del genere per cui non mi ero preparato né la cosa giusta da dire né il brano da eseguire. Credo di aver ripetuto diverse volte "grazie" come un automa e poi ho eseguito un brano, "Darandel", che non avevo inserito in scaletta. Avrò sempre negli occhi la fotografia di questi volti che chiedono il bis a me che, giusto qualche anno fa, ho cominciato a giocare con la chitarra acustica quasi per caso nel bagno di casa. Mi sono sentito adottato. Ho un ricordo splendido di questo mio soggiorno francese».

Nelle ultime settimane è arrivato anche il tuo nuovo disco. Come è nato "Dadigadì"?

«"Dadigadì" è nato esattamente come il mio primo disco, "Marinere". Entrambi li definirei dischi di "testimonianza" più che di "proposta" perché l'intenzione di fotografare il mio momento musicale prevale su qualsiasi logica di proposta commerciale. Volevo un disco che raccontasse le storie e le suggestioni che mi dominano senza cadere nell'autocompiacimento o nell'accademico. Credo di esserci riuscito».

Come si sono svolte le sessioni di registrazione?

«Da quando produco i miei dischi mi sono imposto una regola ferrea: tre giorni di registrazione per la chitarra e due per curare le voci e mixaggio finale. Lo faccio per una questione di costi ma anche per un romanticismo che mi lega a certi dischi del passato a cui sono affezionato e per la convinzione che è il modo migliore che fa per me. Per fare questo, quindi, di solito lavoro moltissimo prima in modo da arrivare alla registrazione con una pre produzione solida e con il minimo margine di dubbio. Quando i brani mi convincono ritmicamente, armonicamente e melodicamente mi prendo un paio di mesi per imparare a suonarli con disinvoltura. A questo punto registro».

Il titolo ha parecchie suggestioni e richiami. A partire dalla tua accordatura preferita, la DADGAD, fino ad arrivare a Marcel Dadi, grande chitarrista fingerstyle francese. Quale ha la meglio o c'è dell'altro?

«"Dadigadì" è una visione ma anche una direzione precisa. È un richiamo fortissimo all'accordatura che utilizzo, la DADGAD, ma vuole anche essere una citazione affettiva di Marcel Dadi. Dico citazione affettiva o sentimentale perché suono la chitarra utilizzando tecniche lontane dal mondo sonoro di Dadi che era decisamente più orientato al fingerpicking puro e quindi legato alla tradizione di campioni quali Chet Atkins e Merle Travis».

Curiosamente i titoli delle canzoni iniziano tutti con la lettera "D". Perché questa scelta?

«Nella notazione musicale ideata da Guido D'Arezzo la lettera "D" identifica per convenzione il "re" ( A=la,  B=si, C=do D=re, E=mi, F=fa, G=sol ). Essendo totalmente immerso in questo colore ho voluto estendere questo simbolismo anche nei titoli dei singoli brani».

C'è un tema che accomuna i brani del disco?

«Direi che, a livello personale, il legame è fortissimo perché in qualche modo rappresenta il viaggio che ho intrapreso con il mio strumento. Sono stato simpaticamente definito "acoustic sailor" per questo mio essere collegamento fra il mondo della canzone d'autore e quello dei chitarristi. Ti dico senz'altro che questo cd è composto da suggestioni e intuizioni che mi legano a questo strumento e in qualche modo questo disco è una mappa del viaggio che ho fatto fino ad oggi sulla chitarra acustica».

Hai in programma un tour per promuovere l'album?

«Un vero e proprio tour no. Non ho ancora le dimensioni per poter immaginare un vero tour ed io stesso sono lontano da questo tipo di liturgie. Sono tutto sommato una "faccenda di nicchia", fino ad oggi ho vissuto di "richieste". Mi chiamano, suono. Devo dire che negli ultimi due anni ho suonato davvero tanto e ben oltre le aspettative ma quando è successo è stato quasi sempre per l'intuizione e il coraggio di promoters o gestori di locali che sono rimasti incuriositi dal mio viaggio e che lo hanno voluto proporre nei loro luoghi. La mia proposta musicale è trasversale, posso suonare praticamente ovunque: il luogo ideale per questa musica è il teatro ma non stono in una chiesa, nei jazz club e funziono molto bene anche in luoghi all'aperto se amplificati, ovviamente. Pensa che ho suonato anche in alcuni festival rock per non parlare di open act a musicisti in piazze in alcuni casi davanti a migliaia di persone. Suonando da solo ho costi decisamente abbordabili e l'unica mia richiesta formale nella scheda tecnica è avere una sedia senza braccioli, non mi serve altro. La verità è che suono se vengo richiesto e se questo non succede suono a casa, nel mio bagno dove è nata e continua ad evolversi la mia musica. Sono un fissato della composizione, non sono un forzato dei concerti».

In un paio di brani torna a galla la tua anima blues con un cantato profondo che si inserisce in pieno nella tradizione americana. Ti vedresti protagonista di un disco blues, a costo di mettere in secondo piano la chitarra?

«No».

Come in "Marinere", il tuo album del 2013, anche in "Dadigadì" le canzoni proposte sono otto. È il tuo numero fortunato o c'è un motivo preciso?

«Il numero 8 simbolicamente rappresenta l'infinito e la perfezione ma il vero motivo per cui i miei dischi contengono otto brani è perché non amo i dischi troppo lunghi. Ho in casa alcuni dischi che ascolto in certi momenti, ma in quei momenti ascolto solo quelli. Penso a miei dischi con la medesima attitudine. Li vedo adatti al viaggio, a certi tramonti e a quei momenti in cui desideri restare solo con te stesso».

Come vedi il tuo futuro da artista?

«Credo che il mio prossimo disco sarà di carta e avrà le pagine. È da tempo che desidero regalare ai miei tre bimbi un racconto che possano leggere quando saranno più grandi, in cui possano leggere del bellissimo viaggio che il loro papà ha fatto nella musica. Un racconto fatto di aneddoti e personaggi che ho conosciuto. Persone la cui conoscenza mi ha arricchito e quindi musicisti, alcuni noti altri meno ma non meno importanti o determinanti nel mio percorso. Dal punto di vista musicale invece credo che il mio futuro sarà legato all'evoluzione che avrò sullo strumento. Sono più simile a uno studioso della chitarra acustica che a una pop-star. Una cosa che farò di sicuro sarà acquistare una bella telecamera così se non riceverò proposte per concerti continuerò a proporre a chi mi segue su internet il mio percorso evolutivo senza drammi o ansie da prestazione. Le cose, se succedono da sole, vengono decisamente meglio».

Adesso svelaci un segreto. Da dove deriva il tuo soprannome "Fiesta"?

«Da ragazzo la chitarra dei miei sogni era una Fender Stratocaster del '64 colore "fiesta red" che è un rosso che con il tempo assume sfumature arancioni/rosa salmone. Tutto qui. L'unico esotismo di cui subisco veramente il fascino è la danza che si può generare sul manico di una chitarra».



Titolo: Dadigadì
Artista: Sergio Arturo Calonego
Anno di pubblicazione: 2015
Etichetta: autoproduzione

Tracce
(musiche e testi di Sergio Arturo Calonego)

01. Dadigadì
02. Dissonata
03. Delta
04. Dancera
05. Dea
06. Duende
07. Darlin'
08. Darandèl



sabato 28 novembre 2015

Zibba presenta il suo "Farsi male tour 2015/2016"





È partito dal piccolo e raccolto Teatro Sacco di Savona il nuovo tour di Zibba che lo vedrà sulla strada almeno fino al mese di febbraio (altre date si stanno aggiungendo in questi giorni). Il cantautore varazzino presenta le canzoni del suo ultimo disco, intitolato "Muoviti svelto" e pubblicato a fine marzo e brani della produzione passata. Ad accompagnarlo, inaspettatamente, non ci sono i vecchi compagni degli Almalibre che hanno contribuito anche alla produzione dell'ultimo album. Zibba ha deciso, infatti, di intraprendere un "giro" in solitaria, armato della sua chitarra, di un loop e di qualche marchingegno elettronico. Una situazione intima, raccolta, emozionante e tutta da assaporare. In qualche modo in controtendenza con la grande visibilità che l'artista ha conquistato in questi anni con una produzione discografica sempre su ottimi livelli che hanno portato alla vittoria della Targa Tenco, alla partecipazione al Festival di Sanremo, alle collaborazioni con Eugenio Finardi, Emma (nell'album "Adesso" pubblicato il 27 novembre), Jovanotti, Cristiano De Andrè, Jack Savoretti, Alex Britti, Patty Pravo e Niccolò Fabi. Un concerto che taglia le distanze e riavvicina Zibba al suo pubblico più appassionato.
Lo abbiamo incontrato in questi giorni e davanti a un caffè abbiamo parlato del tour, della sua vita, delle collaborazioni, di Sanremo e dei talent show. Il tutto è racchiuso in questa intervista. 




Il tuo nuovo tour ha preso il via nei giorni scorsi al Teatro Sacco di Savona…

«È sempre bello suonare nella provincia dove sei nato anche se capita di rado. Suonare live è uno degli aspetti che amo di più del mio mestiere e altre date si stanno aggiungendo in città importanti come Bologna, Roma e Firenze». 

Il pubblico savonese ha risposto molto bene e i biglietti sono andati esauriti in pochissimo tempo…

«Ciò conferma che puoi anche essere profeta in patria, dipende da cosa profetizzi. Credo che essere onesti e persone pulite serva a far capire a chi ti sta attorno che fai questo mestiere con sincerità. Quindi mi fa piacere che la mia provincia continui a venirmi ad ascoltare, vuol dir che sto lanciando il messaggio giusto». 

Questa volta hai scelto di portare in tour uno spettacolo senza gli Almalibre…

«Sul palco ci sono solo io e il concerto è diviso in momenti. Il primo mi vede impegnato con la chitarra acustica, nel secondo utilizzo un loop per creare tutta una serie di suoni. Infine, nella terza parte uso delle basi che ho ricostruito e che sono tratte dalle canzoni degli ultimi due album. Basi che vengono comunque filtrate dall'amplificatore della chitarra. È un discorso legato all'elettronica che da alcuni anni mi affascina e che credo prenderà sempre più piede nella mia produzione futura». 

In questo tour quindi sarai da solo sul palco ma come vedi il tuo futuro prossimo?

«Continuerò ad avere accanto compagni di viaggio. Suonerò ancora con Andrea Balestrieri, con Stefano Riggi e sarò felice di accogliere chi verrà ma ora non sto a preoccuparmi della band perché è un discorso più ampio che comprende anche la produzione di nuove canzoni. Adesso sono concentrato sul tour perché nei prossimi quattro mesi mi "vestirò" di questo nuovo abito. Una volta si andava a suonare e lo spettacolo si adattava al clima della serata, oggi, invece, tutti i tour hanno una loro veste ben precisa». 

Questo tour si intitola "Farsi male" come la canzone che apre il disco e che canti insieme a Niccolò Fabi…

«Sono molto legato emotivamente a questa canzone e in qualche modo il tour ruota attorno a questo concetto. Era importante fare questo tour perché è da questa estate che siamo fermi per un cambio di staff. Sono contento di tornare a esibirmi dal vivo perché adesso ne ho proprio voglia». 

Raccontaci qualcosa di questa collaborazione…

«Fabi è una persona che ho sempre stimato e mi piace molto come scrive. Ha una penna particolarmente emotiva e mi ritrovo nelle sue canzoni, mi sono specchiato sempre nelle frasi che lui ha usato. Quando poi è nato questo brano mi è quasi venuto naturale farlo sentire a Niccolò. Gli è piaciuto e in studio a Roma l'abbiamo messo a punto. Sono contento di questa collaborazione anche perché 6-7 anni fa, quando incontrai Niccolò in un locale a Roma, gli dissi che ero un suo grande ammiratore. Non mi conosceva, gli ho spiegato che ero un cantautore e che mi sarebbe piaciuto un giorno collaborare con lui. Mi rispose: ‹sono sicuro che prima o poi le nostre sensibilità si incontreranno in qualcosa di magico›. E così è stato, ci siamo ritrovati». 

In questo periodo ti senti più autore o cantante?

«In questo momento mi piace di più scrivere. Quando sei sul palco è sempre bellissimo ma c'è anche il rovescio della medaglia fatto di viaggi, trasferte, prove e difficoltà da affrontare. Ogni tanto ripenso ad alcune esperienze di scrittura fatte quest'anno e le ricordo con grande piacere».

Zibba a Loano il 30 aprile 2011 (copyright Martin Cervelli)
In particolare?

«Quando sono stato a casa di Patty Prato a Roma. Ci siamo bevuti un bicchiere di champagne, abbiamo chiacchierato della musica degli anni '60, del suo incontro con Jimi Hendrix e abbiamo scritto una canzone insieme. Ecco, quello è stato uno dei momenti più belli della mia vita. Tutte le volte che sono a Roma ci vediamo, è una persona strepitosa. È bellissimo scrivere perché mi dà questa opportunità». 

Come avvengono queste sedute di scrittura?

«Sono un autore atipico perché voglio scrivere con l'artista e non per l'artista. Il rapporto che si instaura è impagabile. Metti a confronto due sensibilità, due umanità, in qualche modo ci si arricchisce vicendevolmente e la canzone che nasce parla di questo incontro, di questa fusione di modi di pensare. È più figo che suonare la chitarra in un pub». 

Nel 2014 hai partecipato al Festival di Sanremo. Vorresti rifare questa esperienza?

«Assolutamente sì, me la ricordo con gioia e con grande piacere perché è stato tutto molto professionale. È un palco importante e ti ritrovi a suonare con dietro una orchestra di cinquanta elementi, figo! Di tutto lo show mi interessa poco, non ne faccio parte e me ne sto un po' in disparte. È così anche quando vado in TV, non è il mio mondo». 

Se all'inizio della tua carriera ti avessero proposto di partecipare a un talent show avresti accettato?

«A vent'anni sicuramente sì perché all'epoca poteva essere un trampolino di lancio per fare poi quello che è adesso il mio lavoro. I talent sono una "figata" perché hanno riportato la musica in televisione. Che musica? La musica di oggi. Non si può pretendere che nei talent venga proposta la musica di cinquant'anni fa o vengano cantate le canzoni di De Andrè, passa la musica di adesso, che forse è "musichina", lo so, ma è quella che sta vendendo. Vai a vedere quanto vendono i cantautori. Te lo posso dire io, poco. Adesso il pubblico televisivo vuole quel tipo di canzoni. Comunque i talent sono una ottima cosa anche se a volte sarebbe bello se mettessero in scena un po' più di talento». 

Sei da poco diventato papà. Come è cambiato il tuo modo di vedere il mondo?

«Diventare papà apre una finestra gigante nella tua vita. Fa entrare il sole e tutto si illumina. È tutto più chiaro e puoi riordinare meglio le idee, il tuo tempo. È bello, credo che essere genitori sia l'unica cosa importante della vita. Quando hai un figlio è tutto più semplice. È pacificante, finalmente hai fatto quello che la natura ti dice di fare e dopo tutto riprende la sua posizione. Cominci a dar peso alle cose vere, quelle che contano». 

A dicembre sarai nuovamente ospite del festival "Su la Testa" di Albenga organizzato dall'associazione Zoo…

«Con grande piacere perché devi sapere che "Su la Testa" e Davide Geddo dell'associazione Zoo sono stati anche i miei spacciatori di fidanzate. La mia ex fidanzata, Alice, l'ho conosciuta tramite loro in un club ad Alassio, mia moglie, invece, era la presentatrice del "Su la Testa", ora non presenta più e fa la mamma. L'ho conosciuta sul palco tante edizioni fa. Entrambi eravamo fidanzati ma io ci provai spudoratamente e gli ero anche antipatico perché nonostante fossi fidanzato ci provavo con lei ma la trovavo così bella, infatti poi l'ho sposata. Ci torno quindi molto volentieri». 

Come vedi il tuo futuro artistico?

«Vorrei provare la strada del Festival di Sanremo anche quest'anno, però senza ansie particolari. Ci proverò come ci ho provato l'anno scorso e continuerò a farlo da qui alla morte perché è bello partecipare e ti dà un po' di aiuto a livello di promozione. Hai i riflettori addosso per qualche mese e aiuta a fare meglio il mio lavoro. Spero però di non dover fare subito un altro disco ma se dovessi andare al Festival probabilmente sarei costretto». 

Quindi hai già un po' di canzoni nel cassetto?

«Attraverso un periodo molto creativo, scrivo parecchio e ho un sacco di canzoni pronte». 

Per quale artista ti piacerebbe scrivere?

«Quest'anno sono stato fortunato. Volevo scrivere per Emma e l'ho fatto e spero di scrivere ancora per lei e con lei perché è forte, simpaticissima e canta bene. Mi sarebbe piaciuto comporre con Britti e sta succedendo. Stiamo lavorando al suo album doppio di cui una parte è già uscita e l'altra sarà pubblicata a marzo. Prossimamente mi piacerebbe scrivere qualcosa con Mengoni. Nell'ultimo album ha fatto tante belle cose, si sta muovendo in una buona direzione. Sta diventando un artista più completo o forse lo era già e solo adesso lo riconosciamo come tale. Ad ogni modo mi piacerebbe conoscerlo. Ma ce ne sono tanti. Penso a cosa sarebbe scrivere con Vasco, ascoltare i suoi racconti… Potrebbe essere una esperienza fighissima». 

Zibba a Loano il 30 aprile 2011 (copyright Martin Cervelli)
Un mostro sacro, come potrebbe essere Battiato…

«Io e Battiato in una stanza a scrivere una canzone sarebbe incredibile. A me piacciono gli artisti borderline e lui lo è. Sono meno affascinato dagli artisti che cantano canzoncine belle ma che in realtà non trasmettono emozioni. Ogni tanto mi capita di incontrare qualcuno e capisco che insieme non potrebbe mai nascere qualcosa perché non c'è affinità. Invece più uno è artisticamente "pazzo" e più mi stimola perché potrebbe venir fuori qualcosa di figo». 

Come e quando scrivi le tue canzoni?

«Per scrivere mi devo saturare di una convinzione, di una idea. Quando continuo a vedere una stessa espressione in tante persone, in tanti volti, dopo un po' sento l'esigenza di togliermela di dosso e lo faccio scrivendone. Ho bisogno di scrivere una frase per dimenticarmi di questa idea, è come se l'archiviassi in un cassetto. Se non lo facessi ne sentirei il peso». 

Facciamo un passo indietro e parliamo di "Muoviti svelto", il tuo ultimo album in cui ti sei circondato di tanti amici…

«Ci sono tanti ospiti importanti. C'è Omar Pedrini che è un caro amico, con la sue canzoni, ai tempi dei Timoria, e le sue poesie mi ha cambiato il modo di pensare la musica e quindi per me è stato importantissimo; c'è Patrick Benifei che è una delle voci più interessanti che abbiamo in Italia e sono contento che abbia partecipato sul brano "La medicina e il dolore"; c'è Bunna che è un caro amico ed è recentemente diventato papà per la seconda volta. Pensa che la canzone che canta Bunna, "Le distanze", l'ho dedicata a lui, ho immaginato che Bunna la cantasse a suo figlio e quando l'ho scritta lui non era ancora papà. Buffo! C'è Leo Pari con cui continuo a lavorare con piacere». 

Che valore ha per te questo disco?

«Resta ad oggi il mio disco più importante e continuerà ad esserlo perché ha significato tanto. La storia dietro questo album è lunghissima, molto bella, difficile, complicata, ed è tutto racchiuso lì dentro e spero che qualcuno riesca a capirlo ascoltandolo. Contiene dieci canzoni, dieci fotografie molto nitide di un momento della mia vita, di una determinata emotività e i testi racchiudono un messaggio. Prima di tutto un forte messaggio per me stesso, un monito. È come per i tatuaggi, quando mi faccio scrivere rock'n'roll sulla mano è per ricordarmi perché sto facendo tutto ciò, perché mi piace questa vita, perché l'unico modo interessante di vivere è non avere un modo di vivere la vita, lasciare che il tutto abbia influenza, che tutto sia valido. Il regalo più grande di questo lavoro è proprio quello di poter fare la vita che credo vorrebbero fare in tanti. Vivo attraverso la valorizzazione delle mie capacità sperando che questo basti per darmi sostentamento. È una sfida ma non vedevo altra alternativa».


Titolo: Muoviti svelto
Artista: Zibba & Almalibre
Anno di pubblicazione: 2015
Etichetta: Warner Chappell Music

Tracce
(musiche e testi di Zibba)

01. Farsi male
02. Muoviti svelto
03. Ovunque
04. Il sorriso altrove
05. Che ore sono
06. La medicina e il dolore
07. Le distanze
08. Santaclara
09. Il giorno dei santi
10. Vengo da te


martedì 17 novembre 2015

Emanuele Dabbono torna con 'La velocità del buio'





Reduce dal successo conquistato con il singolo "Incanto" (disco di platino), firmato insieme a Tiziano Ferro e pubblicato da quest'ultimo nella raccolta "TZN - The best of", Emanuele Dabbono è tornato a far parlare di sé in questi giorni in occasione dell'uscita del suo nuovo album in studio intitolato "La velocità del buio". Il disco, registrato insieme ai Terrarossa (Senio Firmati, Alessandro Guasconi, Giuseppe Galgani) al Virus Studio di Monteriggioni in varie sessioni tra ottobre 2012 e luglio 2015, racchiude undici canzoni composte da Dabbono negli ultimi tre anni. Il cantautore genovese non ha avuto fretta di tornare sugli scaffali dei negozi di dischi, ahimé sempre meno, e sulle piattaforme internet dopo "Trecentoventi", uscito nel 2012. Non perdendo mai il contatto con la realtà e la sua terra, Dabbono in questi anni ha intrapreso un percorso artistico coerente ma variegato che lo ha portato a imbarcarsi in un tour negli States per presentare le canzoni dei due dischi cantati in inglese e usciti sotto lo pseudonimo Clark Kent, ha scritto due libri e ha composto canzoni per altri artisti.
Ora è il tempo de "La velocità del buio", nuovo capitolo nella crescita artistica di Dabbono. Un album di puro rock dalle influenze americane, senza ricorrere a inutili e a volte dannosi featuring che sembrano ormai indispensabili per poter entrare in classifica. Un disco fresco, non ammiccante e con testi per nulla indulgenti verso le semplificazioni della comunicazione moderna. Le canzoni sovente puntano il dito sulla società di oggi e ne mettono in luce le storture e le contraddizioni. Ci sono anche momenti intimi come la ballata "Certe piccole luci" - per chi scrive uno dei brani più belli del disco - in cui aleggia il ricordo del capolavoro springsteeniano "The Promise". Non resta che aspettare il tour di promozione in partenza nei primi mesi del prossimo anno.
Intanto Musica e Disincanti ha intervistato Dabbono dopo lo showcase di presentazione del disco che si è tenuto al circolo Chapeau a Savona.



Sono passati tre anni dal tuo precedente disco. In questo lasso di tempo hai collezionato un tour in America e il successo della collaborazione con Tiziano Ferro. Partiamo dal tour negli States. Cosa ti ha lasciato umanamente e artisticamente questa esperienza?

«Mi ha rafforzato l'idea che devi spendere fino all'ultima goccia di energia quando sei sul palco. Che le contaminazioni con altri stili musicali sono il viatico per crescere e per misurarsi con se stessi. Vedi Paul Simon, artista che amo da sempre e che ha pubblicato due dei suoi più influenti album mischiando musica sudafricana e brasiliana con il suo songwriting tipicamente americano. Là, prima di me a New York, ho diviso il palco con gente che attaccava il sax al delay della chitarra, solo per farti un esempio. Mi ha anche fatto pensare che spesso in Italia si rischia poco, per paura di scontentare i fan, così si ciclostila una canzone ma dopo anni tutto ciò sa di stantio. L'America mi ha dato fiducia e coraggio nei miei mezzi. Mi piace pensare che il mio futuro artistico possa dipanarsi in modo del tutto inaspettato per chi mi ascolterà. Chi l'avrebbe detto anche solo due anni fa che avrei pubblicato un brano solo pianoforte, voce e ghironda e con 40 secondi di coda parlata».

So che hai anche visitato il New Jersey e i luoghi da dove Springsteen ha voluto correre via…

«Abbiamo alloggiato per una settimana ad Hammonton e nei giorni senza concerti facevamo tappe ad Atlantic City, Asbury Park a vedere lo Stone Pony, l'antro di Madame Marie. Mi ha avvicinato ancora di più al Boss, perché ho capito quale fosse la sua urgenza di cercarsi altrove, senza per questo demonizzare le sue radici. Le sue continue parabole sulla strada - credo sia la parola più utilizzata nel suo glossario - hanno preso un significato diverso. Pensavo si trattasse di fuga per sopravvivere. Invece mi è arrivata forte l'idea si trattasse di ricerca di se stesso, per sentirsi finalmente completo. Come dire: ma il mio mondo non può essere davvero tutto qui. Tra una passeggiata di legno davanti all'oceano e sterminati centri commerciali con le fabbriche a vista. Una malinconia che ti riavvicina ai tuoi posti e ridimensiona il sogno americano visto dall'Italia».

Dabbono allo Chapeau a Savona
Parliamo ora della tua collaborazione con Tiziano Ferro. Come è nata?

«Le nostre storie musicali si incontrarono parecchi anni fa e ricevetti persino i suoi complimenti durante la finale di X Factor per il mio inedito "Ci troveranno qui". Ma dai complimenti alla proposta di lavoro sono passati sei anni, due libri, quattro dischi in top ten - due in italiano e due in inglese - e il tour negli States. Ora sono sotto contratto con lui, è il mio editore. Quando arrivò la sua domanda ‹hai qualcosa da farmi ascoltare con la stessa tenerezza che ho scoperto nel tuo brano "Irene"?› ero in una pizzeria. Mi catapultai a casa e gli mandai quella che poi sarebbe diventata nella voce di Michele Bravi "Non aver paura mai" per Sony Music».

Collaborazione che ha portato poi al successo con "Incanto"…

«Sì, quello fu l'inizio. Da lì a un paio di mesi, venne fuori  proprio "Incanto", e con quel brano è davvero cambiato tutto. Disco di platino, numero 1 in air play radio, video e classifica, superospite a Sanremo - dove Tiziano ha persino fatto il mio nome -, pubblicità per Perugina e stralci del testo negli omonimi cartigli dei Baci, alla finale di Amici, tradotta in spagnolo, cantata come pezzo di chiusura in tutti gli stadi del suo tour e sta per uscire di nuovo nel "Live a San Siro" che sta per pubblicare in doppio cd/dvd. Una gioia incommensurabile e inaspettata per un brano tipicamente folk irlandese. Da musicista, dettaglio per me non trascurabile è la produzione a Los Angeles di Michele Canova con Vinnie Colaiuta alla batteria e Michael Landau alle chitarre».

Svelaci qualcosa su Tiziano Ferro…

«È una persona estremamente leale e profonda. Stiamo scrivendo e mettendo da parte per il futuro canzoni di ogni genere. Abbiamo tante cose in comune dal punto di vista personale, l'odio per la falsità e l'arrivismo, e questo pur provenendo da ambienti musicali molto diversi - lui la black music, io il rock -, o forse la nostra forza insieme è proprio questa complementarietà».

Cosa ti ha insegnato questa esperienza?

«Il valore della pazienza. Che quando cerchi la bellezza non devi avere fretta, ma devi prima sentirla. Deve essere vera perché sia poi condivisa. Fregarsene delle mode. Che la vita può cambiare in cinque minuti un martedì qualsiasi di novembre alle ore 17».

Passiamo a parlare di "La velocità del buio", il tuo nuovo disco registrato insieme ai Terrarossa. Che significato hai dato a questo titolo?

«Ho riflettuto sul fatto che l'ignoranza, l'indifferenza, l'arroganza, la superficialità sono malattie che si diffondono a macchia d'olio con una velocità spaventosa. Sembra abbiano le fibre ottiche. Sono loro il buio. Come il "Nulla" de "La storia infinita" che voleva mangiarsi la Fantasia perché i bambini avevano rinunciato lentamente a sognare».

Emanuele Dabbono il 6 novembre allo Chapeau
Nella foto di copertina si legge, su un vetro appannato, la scritta "Shine", brillare… Curiosa la contrapposizione tra il buio del titolo e il significato di questa parola. Che cosa significa?

«Sì, è la cura a quanto detto sopra. Quelle certe piccole luci che vanno cercate nel quotidiano ad ogni costo. Ad ogni occasione. La bellezza è dietro l'angolo e va difesa, va trasmessa a chi verrà dopo. Io non credo ai vittimisti, ai teorici della crisi. Ho la speranza o la genuina ingenuità che tutti ci possiamo stringere in un "problem solving" collettivo. Per farlo però bisogna calare la maschera, guardarsi allo specchio e riconoscersi. Cambiarsi, non soltanto i vestiti la mattina ma magari trovando un modo moderno e sincero di pensarci vicini».

Trovo che in molte delle tue nuove canzoni tu esprima una critica severa alla società odierna. Il disco inizia con la canzone "Il mio paese in maschera" in cui canti un elenco di travestimenti coinvolgendo personaggi improbabili. È uno spaccato della società dell'apparire in cui viviamo?

«È un omaggio al Dylan di "Desolation Row". Ognuno dei personaggi citati è qualcuno di reale. È una specie di ironico o tragicomico indovina chi alla ricerca del politico, del cantante, della star o dell'amico a cui mi riferisco».

In "Odio (la logica del business)" ti scagli contro il mercato della musica ma alla fine ti arrendi dicendo che tutti ne fanno parte …

«Non è una resa, è una constatazione. Partecipiamo in modo attivo e quotidianamente alla vessazione della cultura in tutti i suoi aspetti. Alzi la mano chi non ha mai scaricato nella sua vita un brano, un programma illegalmente. Se ci pensi è anche da vigliacchi. Si è disposti a pagare magari 40 euro per una cena che dura lo spazio di mezza sera e a non pagare un cd da 15 euro che dura lo spazio di una vita, e che spesso non ti tradirà mai. Io per esempio ero quello che stava con l'audiocassetta HF da 90 minuti pronta in pausa per registrare le canzoni che passava la radio e le volevo tenere per me».

Anche nella canzone "La velocità del buio" regali uno spaccato della società tutt'altro che roseo...

«Mi piaceva contrapporre un testo duro a una musica solare per dire che è meglio sbrigarsi a trovare cosa ci rende felici. L'orologio e le persone negative ci corrono dietro come vampiri moderni e come dice Ivano Fossati ‹non si regala il tempo e la compagnia›».

"Certe piccole luci" è una bellissima canzone dedicata a tua figlia che deve nascere tra poco. Una ballata che trovo molto springsteeniana …

«Mi fai un complimento bellissimo e ti ringrazio. Se potessi avere una canzone di Bruce mi piacerebbe leggere il mio nome dietro "My city of ruins"».

"Prendono il niente che c'è e lo chiamano civiltà", mi ha colpito questa tua frase in "Atlantide". Ce la vuoi commentare?

«Parla del tentativo di camuffare l'impoverimento culturale con gigabyte di tecnologia. Altro non fa che isolarci fianco a fianco su ideali panchine, senza rivolgerci sguardo o parola, ma chini sui nostri smartphone a controllare le notifiche di un niente che ci inghiotte e lo fa senza dare nell'occhio. È il pezzo più duro di tutto il disco».

Carmen Consoli nel corso della sua recente esibizione al Premio Tenco ha affermato che è giusto fare la spia, denunciare. La tua canzone "Cemento" va in quella direzione…

«Puoi giurarci. Mi ispirò una poesia di Pasolini contro l'omertà e ne venne fuori la canzone più di protesta dell'album. Come vedi, poter esprimere senza freno le proprie idee sia nei testi che nella musica, incurante di mode o logiche radiofoniche è una libertà e un privilegio che non mi scordo di aver conquistato. E sono grato ogniqualvolta, tutto questo raggiunga anche solo la sensibilità di una persona. Springsteen lo chiamava "sentimento da riconoscimento". Io di lui mi fiderei».




Titolo: La velocità del buio
Artista: Emanuele Dabbono & Terrarossa
Anno di pubblicazione: 2015
Etichetta: Edel


Tracce
(musiche e testi di Emanuele Dabbono)

01. Il mio paese in maschera
02. Odio (la logica del business)
03. Piccoli passi
04. La velocità del buio
05. Certe piccole luci
06. Un'idea non muore mai
07. Wiskey e cenere
08. Le cose che sbaglio
09. Atlantide
10. Cemento
11. Alla fine


mercoledì 11 novembre 2015

Rocco Rosignoli e le canzoni di "Scansadiavoli"




Una chitarra acustica, microfoni sapientemente posizionati all'interno di un oratorio e canzoni che scavano nella memoria, nelle proprie paure e nelle proprie fobie. Sono questi gli elementi che caratterizzano "Scansadiavoli", il terzo disco del cantautore e chitarrista parmigiano Rocco Rosignoli. Un progetto pregevole, intimista e molto coraggioso ai tempi d'oggi in cui non sembrano esserci né voglia né tempo per approfondire e capire la poetica di certe creazioni. Ed è un peccato perché "Scansadiavoli" è un bell'album, coerente e senza cadute di stile, in cui Rosignoli, con una sapiente e matura capacità di unire musica e parole, trova il coraggio di rivelare i suoi "diavoli" e la lotta che quotidianamente, questa volta tutti, siamo obbligati a fare per esorcizzarli o meglio per scansarli. Dieci capitoli in cui l'autore indaga le proprie paure, le illumina, le rende riconoscibili, le svela e le condivide con l'ascoltare rendendole meno terribili e più facili da affrontare. Temi che non avrebbero potuto essere espressi con produzioni complesse e articolate e Rosignoli, con l'aiuto del fido Ribamar Poletti, ha scelto l'unica via praticabile per mettere in primo piano le parole e i testi delle canzoni e per non perdere il centro di gravità. Lo ha fatto grazie ad una produzione minimalista, ridotta all'osso, in cui sono protagoniste voce e chitarra acustica. L'unica concessione, anche in questo caso però non prodotta artificialmente in studio, è stata la scelta di creare un suono molto "aperto", catturato con il sapiente lavoro di posizionamento dei microfoni in un ambiente caratteristico come un oratorio, in questo caso quello dell'Assunta di Sala Baganza. Il risultato è molto gradevole e per il musicista parmigiano è un nuovo punto di partenza. 
Nell'intervista che segue Rosignoli ci parla della genesi del suo nuovo disco e degli avvenimenti che lo hanno ispirato. 





"Scansadiavoli" è il tuo terzo progetto discografico in studio. Quali sono le esperienze o gli avvenimenti della tua vita che hanno ispirato questo disco?

«Le prime canzoni di questo disco le ho scritte poco dopo la pubblicazione di "Testuggini". Uscivo da un periodo un po' duro, e pur tra tante difficoltà, e in una situazione piuttosto precaria, sentivo molto chiaramente di rinascere. Ho lasciato la città di Milano, ho preso casa nella mia Parma, e ho potuto ricominciare a frequentare spesso il mio Appennino. Mi sono come ricollegato a me stesso, ho riscoperto le mie priorità, e per quanto possibile ho "scansato" i miei diavoli».

Da dove hai preso il titolo dell'album?

«L'ho trovato in autostrada, tipo un cagnolino. "Scansadiavoli" è il nome di un rio che passa sotto la A15 Parma-La Spezia, che a volte percorro per raggiungere la mia casa di montagna, anche se di solito faccio la statale, è molto più bella. Ho sempre trovato il nome di quel rio molto evocativo, e richiamava la genesi del mio album. Le foto di copertina e del libretto sono state scattate proprio su quel rio, dalla bravissima Martina Aki, la mia fotografa "ufficiale", che a questo giro ha anche curato ottimamente la grafica del prodotto. Nel disco c'è anche un brano che porta il titolo "Scansadiavoli": è tra gli ultimi nati, e l'ho composto a titolo già deciso. Non è il pezzo che dà il titolo al disco, bensì viceversa».

Quali sono i diavoli che hai voluto esorcizzare con questo nuovo lavoro?


«Sono tanti. Sono quelli che impediscono di vivere la vita nella sua pienezza. È quel pensiero improvviso che spezza un sorriso sul nascere, quell'ansia che dal nulla ci coglie e ci impedisce di star bene con noi, con gli altri. Sono diavoli che si annidano nelle nostre case, nelle nostre vite, e a cui non possiamo propriamente sfuggire: scansarli, forse, ci è concesso».

È l'amore l'ingrediente segreto per battere i diavoli?

«Non credo ci siano ingredienti segreti. L'amore ci può aiutare, ma può anche alimentarli. L'amore è vissuto dalle persone, e ogni persona ha i suoi diavoli. Può anche accadere che due persone che si amano tantissimo abbiano dei diavoli che si aizzano a vicenda. L'amore non è una cura universale, è qualcosa che si vive, qualcosa di provvisorio e fragile, che va tenuto insieme con grande sforzo e dedizione».

Musicalmente hai cambiato direzione. Dopo due dischi caratterizzati da ricchi arrangiamenti hai voluto ridurre tutto all'essenziale. Una scelta fatta per quale motivo?

«Da diversi anni sono tantissime le situazioni in cui mi esibisco voce e chitarra. Cerco di non limitarmi a strappare qualche accordo, ma così come mi impegno a inventare armonie e melodie che non siano scontate, cerco di lavorare sulla chitarra classica sfruttandone al massimo le sfumature, naturalmente entro i miei limiti di strumentista. Limiti che ogni giorno mi sforzo di valicare. Ho qualche dote, ma non sono uno di quelli a cui vien tutto naturale, le mie giornate sono fatte di molto studio ed esercizio. Le canzoni più recenti sono state pensate e proposte dal vivo nella mia veste di chitarrista-cantante. La canzone in sé è tanto più riuscita quanto più è efficace la fusione tra testo e musica, e in questo caso la fusione tra componente musicale e letteraria si è verificata, ripetuta, limata, adagiata sulle mie dita e sulle mie labbra. La comunione delle due componenti si è incarnata in questo mio atto molto fisico, molto terreno. In fase di pre-produzione, ho provato ad arrangiare le canzoni aggiungendo altri strumenti, ma ogni idea mi sembrava impoverire un'identità che le canzoni già possedevano. A quel punto l'idea dell'album voce e chitarra è sorta da sé».

Penso che sia una scelta che possa facilitare anche l'esperienza live, non credi?

«Sicuramente. Per chi, come me, cerca di fare della musica l'attività principale, è oggi una scelta obbligata ridurre all'osso la formazione. Oggi locali, associazioni, comuni, hanno disponibilità economiche sempre più esigue, e per suonare in giro senza rimetterci è necessario adattarsi. Il gioco è vincente se riesci a farlo senza impoverire il risultato, elevando quello che chiamano "valore aggiunto" alla sua massima potenza. Un traguardo a cui è obbligatorio puntare, ma che non è scontato raggiungere».

In questo caso il "togliere" ha dato maggiore profondità al lavoro e ha messo in primo piano i testi. Come ti è venuta l'idea?

«Non è stata un'idea solo mia. L'ho maturata confrontandomi con Alice, la mia compagna, e con Ribamar Poletti (www.uditofino.it), co-produttore di questo disco, ma mio alleato da sempre. Proprio sua è stata l'idea di scegliere un ambiente dal suono caratteristico e ben definito, che oltre a dare rilievo ai testi enfatizza sia la voce che la chitarra».

Curiosa la scelta di registrare il disco in presa diretta all'interno dell'Oratorio dell'Assunta di Sala Baganza. Per cacciare i diavoli bisogna cospargersi con l'acqua santa?

«Io sono un ateo molto convinto. Ti dirò che credevo che quell'oratorio fosse sconsacrato. Solo durante le riprese mi hanno detto che, anche se appartiene al Comune, è un edificio ancora sacro. Per me è stato molto emozionante incidere lì, perché è dove nell'ormai lontano 2007 ho per la prima volta lavorato come musicista professionista, per un progetto non mio. La prima volta che percepivo un compenso per fare musica! Devo ringraziare per questo Cristina Merusi, il sindaco di Sala Baganza, sempre disponibile e premurosa nei miei confronti, e Nicola Maestri, amico scrittore, che è stato un tramite prezioso».

Ambientazione che ha permesso di ricreare un suono molto particolare, aperto, e trovo che il riverbero naturale che si ascolta durante l'esecuzione regali atmosfere molto belle…

«Sì, Ribamar ha usato sei microfoni, piazzati sapientemente. Nessun trucco, quello che si sente nel disco è esattamente quello che è stato suonato, così come è stato suonato». 

‹…i miei diavoli vengono in pace ogni giorno per stringere mani e caffè›. Trovo che sia un spaccato forte della società attuale…

«Mi fai un grande complimento, grazie. La frase in realtà nasce in maniera molto intima, in mattine oscure in cui non sai spiegarti quello che senti, non sai metterlo a fuoco. E a volte, dove non arriva la ragione, il pensiero ci arriva appoggiandosi al linguaggio e alle immagini. Queste immagini si costruiscono con gli elementi dell'esperienza, che è un patrimonio individuale che si intreccia con uno comune, di esperienze di tutti. Ho dato un volto al mio malessere. È molto bello quando un sentimento misteriosamente profondo arriva a essere avvertito come collettivo».

La pioggia, la neve, il gelo fanno capolino in quasi tutte le canzoni del tuo disco. È un disco "crepuscolare" che trova la sua luce calda nell'ultima strofa della canzone che dà il titolo al disco:‹Forse domani, scansati tutti i diavoli, saremo soli lungo il rio che scende, io, te e la gatta, lei che ci difende, e tu, che l'accarezzi sotto il tavolo›...

«Parte del disco nasce durante il 2014, anno molto piovoso, molto umido, che ho passato in gran parte in montagna, con un'estate senza sole, e in una Parma surreale, sconvolta da un'alluvione drammatica, che da più di un secolo non la colpiva. È tutto entrato nelle canzoni così, di prepotenza e quasi senza che me ne accorgessi. Ti confesso poi che quella del "crepuscolo" è una mia ossessione antica. Il crepuscolo è quel momento di luce incerta, in cui il sole non è in cielo ma lo illumina di là dall'orizzonte. E può preludere all'alba o seguire il tramonto. E davvero, oggi non so se la notte stia finendo o debba ancora iniziare. Magari la gatta potrebbe dirmelo, i felini la san lunga. Peccato non possano parlare». 

"Il corpo di Pamela" è la canzone più irriverente del disco che riporta alla tua giovinezza. Da dove l'hai ripescata?

«L'amico Alessio Lega ha scritto una canzone molto bella, intitolata "Risaie", che a un certo punto parla del corpo di Silvana Mangano. Mi ha emozionato la capacità evocativa di questa icona di bellezza, la forza poetica del suo nome cantato, il suo essere il riferimento erotico di un'intera generazione. Ho pensato all'immaginario erotico della mia generazioni, e il corpo che lo incarna con prepotenza sfacciata è per tanti quello di Pamela Anderson. Questa canzone parla di lei, di me che ragazzetto la guardavo lubrico, della voglia d'amore che abbiamo tutti, della paura di non trovarlo mai e di invecchiare aspettandolo nonostante i trucchi per non darla vinta al tempo che la bella Pamela ha tentato di sfruttare ben più di me».

Faccio un passo indietro. Prima di questo disco hai pubblicato "La bella che guarda il mare", un live per la sezione di Sala Baganza dell'ANPI. Ce ne parli?

«Nell'agosto del 2013 ho avuto la possibilità di fare un mio concerto nella cornice della festa ANPI di Sala Baganza. Ho voluto portare un programma dedicato all'occasione, inserendo canti di resistenza, ma anche canzoni che parlassero del periodo, oltre ad alcuni brani del mio disco "Testuggini", allora in promozione. La sezione ANPI diede a me l'incarico di trovare un service per la serata, e io naturalmente chiamai Ribamar. Oltre a gestire il banco suoni, lui decise di registrare la serata, e in seguito la mixò, ne distillò le parti migliori e me ne fece dono. Siccome era un dono, decisi di donarla a mia volta: quel live è in free download sul mio sito, www.roccorosignoli.com. È anche il mattoncino che umilmente metto per tenere viva la memoria, che proprio per il suo valore inestimabile non può avere un prezzo».

In queste settimane si è parlato tanto del processo allo scrittore Erri De Luca, colpevole, secondo l'accusa, di istigazione al sabotaggio della linea ferroviaria TAV in Val di Susa. De Luca è stato assolto ma cosa ne pensi del fatto che in Italia si rischia il processo se si esprimono le proprie idee?

«Il 18 ottobre, ho preso parte attiva in un reading a sostegno di De Luca. Mi sento dalla sua parte. Credo che il TAV sia un'opera che fa gli interessi di pochi ai danni di molti, giustificata tramite una fede neoliberista che dà per certo un riverbero positivo della crescita delle attività commerciali sul benessere delle popolazioni. Un pensiero che si è ripetutamente dimostrato falso, e che ciononostante è tornato prepotentemente in auge negli ultimi anni, anche se i danni che ha prodotto sono sotto gli occhi di tutti. Io mi rifiuto di ragionare in questo modo, per pura razionalità prima che per fede politica. Buona parte dei media sembra dipingere un quadro in cui un paese è fermato nella sua necessaria corsa verso il progresso da duecento paesani che lo tengono in ostaggio; ma io rifiuto l'idea stessa di progresso, che è ottocentesca, teleologica. E, cosa ancor più importante, la vita del paese non dipende dal TAV; la vita di chi vive in Val di Susa forse sì, se è vero come pare che i lavori di escavazione porterebbero alla luce materiali gravemente tossici. A me De Luca come scrittore nemmeno piace, ma in questo caso ha prestato la sua notorietà a una causa a cui manca una voce che in tanti siano disposti ad ascoltare. Credo che abbia fatto una cosa giusta, che un giudice ha anche sentenziato essere legale. Ma (e qui mi ricollego al tema della Resistenza), come ci ha insegnato chi è caduto per opporsi alla dittatura, la legalità e la giustizia non sempre coincidono. A volte è giusto opporsi a leggi inique. De Luca si è esposto, e si è assunto tutte le responsabilità che ne derivavano. E questo è un esempio virtuoso, e oggi ne mancano».


Titolo: Scansadiavoli
Artista: Rocco Rosignoli
Anno di pubblicazione: 2015
Etichetta: autoproduzione


Tracce
(musiche e testi di Rocco Rosignoli, eccetto dove diversamente indicato)

01. Fisterra
02. La grandinata
03. Dicembre
04. I diavoli
05. Autunno
06. Tunguska
07. Il corpo di Pamela
08. Barricate - I. Jamie Foyers  [Ewan McColl]
                        II. A las barricadas  [anonimo]
                        III. In morte di Picelli  [Rosignoli - Ewan McColl]
09. Giordano Bruno
10. Scansadiavoli

domenica 4 ottobre 2015

Giuseppe Moffa non è "Terribilmente démodé"




Lasciatemelo dire, "Terribilmente démodé" è uno dei dischi di musica tradizionale più belli dell'anno. Giuseppe "Spedino" Moffa regala uno spaccato della provincia molisana, della vita in un piccolo centro contadino, come la natia Riccia, che scorre a un ritmo più lento e rilassato rispetto alla frenesia caotica dei grandi centri urbani. È la vita di comunità, quella che si ritrova magari nell'unico bar del paese e che non lascia indietro chi è meno fortunato. L'album è ancorato alla tradizione per tematiche e ambientazione ma allo tempo offre una visione più ampia e aperte al mondo. Il suono degli strumenti tradizionali, tra cui la zampogna che Moffa suona con maestria, si mischia e si ibrida con accenni di blues, gospel e spiritual dando vita a un impasto sonoro affascinante e suggestivo. E così, nel disco si possono incontrare il canto devozionale del pellegrinaggio verso il Santuario della Madonna di Montevergine che trova espressione in una ambientazione americana con tanto di coro gospel, strumentali per zampogna, brani della tradizione molisana raccolti nel corso di approfondite ricerche sul campo e composizioni originali cantate in dialetto. La tradizione di Moffa non è sterile revival ma la riproposizione contemporanea della cultura musicale di una comunità antica e radicata sul suo territorio.
Moffa, chitarrista con alle spalle studi classici e zampognaro appassionato, ha anche arrangiato il disco con la direzione artistica di Primiano di Biase, già collaboratore di Neri Marcorè ed Edoardo De Angelis, che ha suonato anche pianoforte, organo Hammond e Rhodes piano. Ad aiutare Moffa in studio sono stati i fedeli Co.mpari: Vincenzo Gagliani al tamburello, Domenico Mancini al violino, Felice Zaccheo al mandolino, Gianluca Casadei alla fisarmonica, Simone Talone alle percussioni, Guerino Taresco e Renato Gattone al contrabbasso, Gian Michele Montanaro a voce e cucchiai. Tra gli ospiti anche Massimo Giuntini dei Modena City Ramblers e Alessandro D'Alessandro dell'OrchestraBottoni.
Con Moffa abbiamo parlato del disco che i giurati del Premio Tenco hanno inserito nella cinquina dei migliori dischi in dialetto pubblicati nel 2015. 



Giuseppe, in "Terribilmente démodé" racconti la vita di un paese molisano di provincia. Qualcuno si chiederà cosa c'è di così interessante da cantare…

«La provincia rappresenta, almeno geograficamente, la gran parte del territorio italiano. Quest'area, nel suo insieme così vasta, contiene un ricco patrimonio di diversità che, nel bene e nel male, per molti aspetti è lontano dalla vita che si vive nelle poche grandi città. Rappresenta quindi secondo me una importante realtà che tutta l'Italia ha dietro le spalle, ma è come se non abbia voce, mentre invece potrebbe avere tante cose interessanti da raccontare».

Con le tue canzoni regali uno spaccato reale di questa società dove il bar è forse l'unico vero centro di aggregazione e dove il ritmo di vita è diverso da quello frenetico della città. Sei riuscito però ad evitare l'operazione nostalgia di un illusorio ritorno alle radici della vita paesana. Come ci sei riuscito?

«Nel centro abitato di Riccia sono aperti più di venti bar e tutti possono contare su un certo numero di frequentatori, poiché il bar rimane tuttora il principale centro di aggregazione dove la maggior parte della gente trascorre il suo tempo libero, a chiacchierare, bere, giocare a carte, e stare in compagnia. Quindi il rischio di incorrere in un atteggiamento nostalgico è scongiurato per via del fatto che la realtà cantata è proprio quella attuale».

La spiritualità e la devozione religiosa sono da sempre elementi del cantato tradizionale, in particolare del sud Italia, ma dalle tue canzoni viene fuori anche un altro aspetto non meno importante: la vita della comunità e l'esistenza quotidiana delle persone. Con quale occhio guardi queste persone e con che spirito canti la tua gente?

«Tutti gli aspetti della vita che sono descritti nelle canzoni rappresentano l'ambito in cui sono nato e ho passato buona parte della mia esistenza quotidiana, ed amo farne l'argomento delle canzoni che scrivo perché fanno parte di me. Non posso avere lo sguardo di un osservatore nei confronti di un mondo a cui sicuramente appartengo, quindi posso guardare e cantare la mia gente al massimo con un po' di autocritica».

Nell'album troviamo brani tradizionali e altri originali scritti da te che escono però dai confini musicali della tua terra e abbracciano sonorità gospel e blues. Come è potuto accadere?

«La musica afroamericana, soprattutto il blues, fa parte della mia vita tanto quanto la tradizione popolare. Ascolto Ray Charles da quando ero bambino, ho imparato a cantare ascoltando Ella Fitzgerald e a suonare la chitarra con B.B. King».

Non mancano inoltre arrangiamenti orchestrali. Come si colloca questa scelta in un disco dialettale di musica a forte impronta tradizionale?

«Mi sono diplomato in chitarra al conservatorio e quindi è stato inevitabile l'incontro con la musica classica. Più in generale, non riesco a pensare ad una musica suddivisa in generi, ma la considero piuttosto come un calderone di espressioni diverse che possono mescolarsi tranquillamente».

Il disco si apre con "Thank you Lord for givin' us Madonna di Montevergine". Canzone che unisce un famoso spiritual con la devozione popolare. Come ti è venuta questa idea?

«Sono sempre stato attratto dalla spiritualità fortemente espressiva della religiosità popolare, che ritrovo nei nostri canti di pellegrinaggio così come negli spirituals dei neri d'America. Ho pensato di unire questi mondi; così l'introduzione intonata da Gian Michele Montanaro, che è un canto devozionale del pellegrinaggio verso il santuario della Madonna di Montevergine, si unisce al suono della zampogna,  strumento utilizzato tra l'altro nelle novene natalizie. Il tutto poi si fonde in un'ambientazione americana con il coro gospel. Il titolo è simpaticamente nato dalla traduzione di un'espressione tipica dialettale molisana: ‹Grazie segnore che ce ha mannate a Madonne›».

Non tutto però è molisano nel disco. "All'acque all'acque li funtanelle" è una canzone che ha origini diverse. Perché l'hai voluta inserire?

«La canzone ha sicuramente origini diverse, ma io l'ho imparata sentendola cantare nel mio dialetto. Citando le note del libretto del disco: ‹"All'acque all'acque li funtanelle" è un canto narrativo che nella celebre raccolta di Costantino Nigra ("I canti popolari del Piemonte", 1888, ora Einaudi, 2009) è classificato con il titolo "La bevanda sonnifera". Il grande corpus di storie epiche e drammatiche che si è diffuso dal Nord Italia in tutta la penisola grazie soprattutto alla vita di trincea durante la prima guerra mondiale. Così anche nella versione riccese registrata nei primi anni duemila grazie alla memoria delle anziane contadine Maria Maglieri "Jarosse" (1925 - 2005) e Filomena Ciocca "Luccechente" (1925)›. Quindi anche se in origine la canzone non era molisana, nel tempo lo è diventata, come succede spesso nei repertori tramandati oralmente».

Sono sicuramente molisane invece "A scalelle" e "U vecchie azzennarelle" che ricordiamo in una nota versione di Matteo Salvatore… Ce ne parli?

«"A scalelle" ha un testo diffusissimo in tutto il sud Italia, dove viene cantata in varie forme e melodie, ad esempio sul ritmo della tammurriata oppure come canto satirico. Questa versione in particolare l'ho ritrovata a Jelsi, paese limitrofo al mio, e in questo caso il tono lirico ne fa, secondo me, una delle canzoni d'amore più belle della tradizione. "U vecchie azzennarelle" fa parte del grandissimo repertorio di canzoni satiriche del Fortore Molisano. Ci troviamo geograficamente, ed anche culturalmente, molto vicino ad Apricena, paese di Matteo Salvatore. Il repertorio del grandissimo cantastorie, che ci ha regalato delle perle uniche nella storia, è ricchissimo di canzoni satiriche, tra cui una delle numerose versioni esistenti di questa canzone».

Tra gli ospiti del disco ci sono anche Massimo Giuntini dei Modena City Ramblers e Alessandro D'Alessandro dell'OrchestraBottini. Come sono nate queste collaborazioni?

«Massimo Giuntini è già presente in "Bag to the Future", il primo disco della Zampognorchestra. Lui è tra i più grandi suonatori italiani di uillean pipe, o cornamusa irlandese, strumento che trovo il più espressivo tra le cornamuse. Massimo con il suo amore per la musica e la sua disponibilità ha fatto il resto. Alessandro D'Alessandro purtroppo è solo un ospite perché l'ho conosciuto a disco praticamente finito altrimenti credo avrebbe partecipato alla realizzazione di tutto il lavoro. C'è stata e c'è tuttora tra noi una collaborazione molto viva».

Oltre ad aver scritto le canzoni hai anche arrangiato il disco e devo farti i complimenti perché suona veramente molto bene. Come si sono svolte le sessioni in studio?

«Dopo aver finito di scrivere testi, musiche e arrangiamenti, il grande lavoro in studio si è svolto insieme a Primiano di Biase, instancabile musicista al quale ho riconosciuto inevitabilmente la direzione artistica del disco. Gli strumenti base sono stati registrati in un primo momento nello studio di Primiano, dopodiché abbiamo aggiunto un po' alla volta tutti gli altri. Le orchestre d'archi e di mandolini, le cornamuse sono stati registrati in altri studi. Infine il tutto è stato sapientemente missato dal grande Eugenio Vatta».

Chi o quale evento ti ha fatto scoprire la musica tradizionale?

«Sono cresciuto in quell'ultima fase storica dove ancora era vivo il mondo popolare, a casa mia, con i miei nonni. Da piccolo ho visto ballare la tarantella in occasione dell'uccisione del maiale, ho partecipato con mio padre alle "Maitunate" di Capodanno, tradizionali canti di questua della notte di San Silvestro e ho potuto ascoltare i canti rituali attorno al fuoco di San Vitale, la prima domenica di maggio. Durante tutta l'adolescenza ho un po’ dimenticato la musica tradizionale, e mi sono appassionato al blues, al rock e agli studi di musica classica. Circa dieci anni fa, sulla scia di un generale rinnovato interesse verso la musica tradizionale, io ed Antonio Fanelli, antropologo dell'Istituto De Martino, abbiamo avviato una ricerca sul campo riguardante il repertorio tradizionale del mio paese. Così ho riscoperto tutti i canti popolari della mia zona, entrando sempre di più in questo mondo ed inevitabilmente ho conosciuto il primo folk revival e tutta la produzione musicale, italiana e non, legata alle tradizioni».

Nel disco canti in dialetto molisano, e in particolare quello che si parla a Riccia, il tuo paese d'origine. Pensi che il dialetto sia più musicale e "cantabile" rispetto all'italiano?

«Ho scritto anche in italiano, sopratutto nel mio primo disco "Non investo in beni immobili". La scelta del dialetto in questo disco è legata maggiormente al fatto di sentirmi più vicino a quello che sono e che racconto. Inevitabilmente poi ispirandomi tantissimo alla musica americana il dialetto è molto più vicino foneticamente all'inglese ma di questo ci ha dato già una grande lezione Pino Daniele».

Oltre a questo a disco, sei stato impegnato nel sorprendente progetto di Zampognorchestra da cui è nato l'album "Bag to the future". Cosa sta alla base di questa idea e quale futuro hai immaginato per questa esperienza?

«Da quando mi sono innamorato della zampogna un mio pallino è sempre stato la composizione per questo strumento. Già nel 2007 ho inciso "Produzione propria" un disco contenente sei brani originali per zampogna sola. Successivamente, anni dopo, ho pensato che unire più zampogne con composizioni originali poteva essere un'esperienza nuovissima e unica. Con questo gruppo ho fatto esperienze bellissime, prima tra tutte quella con Toni Casalonga e il gruppo A Cumpagnia in Corsica. Con loro, tra le altre cose, abbiamo riportato in vita l'estinta cornamusa corsa, o caramusa, e riadattato le polifonie corse per le nostre zampogne. A parte questo ultimo periodo, in cui mi sono dedicato di più all'ultimo disco, continuo sempre a scrivere per questo ensemble e conto di avere nuove esperienze e nuove collaborazioni».

Altro progetto che hai seguito in questi anni è quello con i Taraf de Gadjo. Questa esperienza è da considerarsi conclusa?

«Assolutamente no. Anche se in questo gruppo, diretto dal bravissimo violinista Domenico Mancini, compaio solo in veste di esecutore, ormai fa parte dei miei progetti a tutto tondo. Sempre quest'anno abbiamo pubblicato il nostro primo disco "Tzigane, klezmer & gypsy jazz music", molto apprezzato da critica e pubblico».

Il tuo disco è indubbiamente uno dei più belli usciti nel corso dell'anno. Anche la giuria del Premio Tenco è dello stesso avviso avendolo inserito nella top five. Te lo aspettavi e cosa pensi di questo riconoscimento?

 «Grazie mille del complimento innanzitutto. È una tappa che sognavo da tempo, e spero che questo riconoscimento mi offra la possibilità di lavorare sempre meglio, anche in questo periodo indubbiamente molto difficile. Questo risultato è il frutto di un grande lavoro, sia per la realizzazione del disco e sia per la sua promozione, e quindi mi fa piacere che i giurati lo abbiano riconosciuto. Nonostante avessi in un certo senso intravisto la possibilità entrare in cinquina quando mi sono trovato davanti al dato reale sono rimasto incredulo per un po' di tempo».



Titolo: Terribilmente démodé
Artista: Giuseppe Moffa
Anno di pubblicazione: 2015
Etichetta: Workin' Label/IRD


Tracce

01. Thank you lord for givin' us Madonna di Montevergine
02. A ramegne (u sfizie du ciucce)
03. All'acque all'acque li funtanelle
04. A stessa storie
05. Quando
06. A scalelle
07. U sceme du paese
08. I tufi
09. Anteprima
10. A 'ndo u tempe 'nge sta
11. U vecchie azzennarelle
12. Ninna nanna



giovedì 24 settembre 2015

"Amada", l'incontro tra Elva Lutza e Renat Sette





La musica non conosce confini e quando mondi distanti per cultura, tradizione o stile vengono a contatto nascono progetti e dischi tra i più interessanti. In questo ambito si colloca l'album "Amada" del cantante provenzale Renat Sette e del sorprendente duo sardo Elva Lutza, composto da Nico Casu (tromba e voce) e Gianluca Dessì (chitarra e mandola). "Amada" è l'incontro della tradizione sarda con quella provenzale, due culture ancora forti e ben radicate sul territorio, ma anche tra le canzoni popolari e le improvvisazioni jazzistiche, senza però cadere in scelte sofisticate o azzardate. Un'opera che guarda al passato e nello stesso tempo al contemporaneo, un disco che si potrebbe definire fuori dal tempo in cui canti d'amore e religiosi si alternano a serenate e strumentali. Il sapore contemporaneo e moderno è dato anche dai ricami di elettronica di Frantziscu "Arrogalla" Medda che aggiungono colore alle sonorità acustiche del disco. Una scelta che avrebbe potuto essere rischiosa ma il cui frutto è dolce e gustoso.
Per gli appassionati più attenti gli Elva Lutza non sono una sorpresa. L'album eponimo d'esordio era stato salutato da critiche lusinghiere e aveva conquistato il quarto posto al Premio Nazionale Città di Loano per la musica tradizionale italiana. In questo ultimo capitolo Casu e Dessì compiono un importante passo in avanti nell'ottica di rendere moderna la musica tradizionale. Tradizione che ha comunque permeato il percorso artistico dei due musicisti che provengono da esperienze diverse in ambito etno-folk. La voce calda e carismatica del nizzardo Renat Sette, considerato il più importante fra gli esponenti del revival della musica provenzale, regala suggestioni e panorami emozionanti. 
Con Nico Casu e Gianluca Dessì abbiamo parlato di "Amada", disco che sarà presentato al Premio Nazionale Città di Loano 2015.




Come ha fatto la tradizione musicale sarda a incontrare quella provenzale?

Casu: «La tradizione intesa come "passaggio di consegne" di ciò che è prezioso, che ci identifica e che continuerà a farlo nel tempo, oltre il nostro, è un meccanismo approssimativo; la natura delle cose, si sa, è mutevole e questo vale anche per le forme musicali. È giusto associare al significato consueto di trasmissione anche quello meno usato ma pertinente di tradimento ossia di mutamento di ciò che ci è stato consegnato. Accettando questo assunto è possibile aprirsi sia al mutamento degli strumenti e delle strutture che, ovviamente, ad altre tradizioni. Si tratta in sintesi di non accogliere in senso costrittivo le musiche di chi ci ha preceduto. Nel caso specifico Gianluca conosceva Renat da parecchi anni e ci è sembrato che condividessimo la visione di una tradizione "mutante", lui cantante tradizionale e noi provenienti da un ambiente più "popular"».

Quali sono i punti che legano il duo Elva Lutza a Renat Sette?

Dessì: «Esattamente quelli espressi nella risposta alla tua prima domanda; uno sguardo curioso e anche appassionato a ciò che di bello è stato fatto prima di noi; ma uno sguardo dal nostro tempo».

Per "Amada" siete partiti dall'esplorazione dei repertori sacri della Sardegna e della Provenza ma alla fine il disco regala un visione molto più ampia. Quale è stato il comune denominatore che vi ha fatto scegliere le dodici canzoni che compongono il disco?

Casu: «Non abbiamo voluto affrontare un tema specifico dei repertori sardo e provenzale. È un lavoro fondamentalmente musicale. Sai, una volta compreso che da un punto di vista squisitamente sonoro l'impasto regge si tratta poi semplicemente di scegliere i pezzi che rendono la struttura il più gradevole possibile».

Quanto e cosa c'è della musica tradizionale sarda in "Amada" e quanto fa parte del vostro bagaglio personale?

Dessì: «Beh, in questo caso direi che è giusto parlare soprattutto del nostro personale bagaglio musicale… Al contrario del nostro primo disco che è più d'autore, "Amada" è un album, se vuoi, di revival, ma essendo all'80% un disco provenzale abbiamo soprattutto cucito gli arrangiamenti».

Cosa è cambiato nell'approccio musicale degli Elva Lutza tra il disco d'esordio e "Amada"?

Casu: «Non è cambiato il modo di porsi nel valutare un brano. In generale potrei dirti che la mia attenzione si rivolge in modo particolare alla melodia e al testo mentre Gianluca è forse maggiormente stimolato dalle possibilità ritmiche e armoniche che il brano offre. Questo del resto è in relazione con la natura dei nostri rispettivi strumenti».

Cosa è per voi la musica tradizionale?

Casu: «Oltre a quanto detto nel rispondere alla tua prima domanda potrei aggiungere che mi legano al repertorio della musica folk motivi di carattere privato e sentimentale».
Dessì: «Domanda che mi imbarazza e risposta che non può che essere imbarazzata... In Sardegna c'è una grande tradizione musicale, riguardante strumenti come la launeddas o l'organetto, la polifonia, il ballo, la musica sacra... noi siamo davvero in un altro film o in un altro campionato: noi attingiamo, anche, dalla tradizione, sarda e non solo, per fare della musica nostra».

Tromba, mandola e chitarra ma anche le invenzioni elettroniche di Frantziscu "Arrogalla" Medda. Cosa vi ha spinti a inserire questi suoni nel disco?

Casu: «L'idea è stata di Gianluca, io e Renat eravamo un po' timorosi, abbiamo poi accolto la proposta perché siamo un po' dinosauri, certo, ma curiosi. "Arrogalla" ha certamente arricchito il disco con il suo contributo».
Dessì: «Ci sono anche dei brani che non sono finiti nel cd, anche un paio di remix... li tireremo fuori prima o poi».

La Sardegna resta un punto fermo ma ascoltando il disco si capisce che il vostro sguardo è rivolto a tutto il bacino del mediterraneo. Ne è testimonianza, oltre al connubio con Renat Sette, anche la collaborazione con la cantante Ester Formosa che già aveva lavorato con voi nell'album d'esordio…

Dessì: «Nel primo disco abbiamo anche avuto l'onore di ospitare Kaballà che ci ha regalato una bellissima canzone in siciliano. Guarda, sarà anche un luogo comune ma davvero le musiche del repertorio folk dei paesi del mediterraneo offrono un serbatoio illimitato di possibilità. Non metterei comunque limiti definiti; abbiamo duettato con l'irlandese Mick O'Brien grande suonatore di cornamusa e flauti… è stato veramente emozionante».

Con la canzone "Maire nostra" tornate però alla vostra terra e rendete omaggio alla grande Maria Carta. Giusto per ribadire quali sono i vostri punti di riferimento…

Casu: «Sì, questa melodia è una delle tante che Maria Carta ha interpretato in modo magistrale. Mi fa particolarmente piacere suonare questo brano anche perché davvero la voce di Maria Carta è stata un punto di riferimento nella mia ricerca del timbro; per quanto è possibile riferire la voce umana a quella della tromba e sempre poi con i naturali tradimenti».

Con il primo disco avevate conquistato il quarto posto al Premio Nazionale Città di Loano, quest'anno vi siete confermati con un ottimo settimo posto… Ve lo aspettavate oppure si poteva fare di più?

Casu: «Sono molti i progetti e i musicisti interessanti in Italia. È bello fare parte del gruppo».
Dessì: «Oltre al disco di quel grande maestro e amico che è Riccardo Tesi, siamo nel gruppo con il disco dei fratelli Bottasso, un capolavoro, con gli Unavantaluna, che stimiamo moltissimo e con quel geniaccio di Nando Citarella che ha fatto un disco bellissimo. Non potremmo avere migliore compagnia». 

Siete impegnati anche in altri progetti?

Casu: «C'è in piedi un progetto di canti sefarditi e canzoni catalane con Ester Formosa, inoltre un recital in sardo con musiche originali e del repertorio folk con Clara Farina che è probabilmente la migliore rapsoda in Sardegna. Di quest'ultimo lavoro esiste un "live" allegato a un saggio storico sui martiri sardi delle Fosse Ardeatine».
Dessì: «Io sono molto assorbito dal lavoro con i Cordas et Cannas, la più longeva band dell'etno-world sardo, che vanta fra i propri fan più accaniti nientemeno che Peter Gabriel».

Quale futuro ci riserverà Elva Lutza?

Dessì: «Io non darei molto credito ad impegni presi da uomini con il nome di donna all'apparenza straniera e che, oltretutto, non lo è».



Titolo: Amada
Artisti: Renat Sette & Elva Lutza
Anno di pubblicazione: 2014
Etichetta: autoproduzione

Tracce

01. Bèla calha
02. La vièlha
03. Amada gioventude
04. De vent en vent
05. Lo promeirenc principi
06. Loison
07. La filha dau ladrier
08. Maire nòstra
09. La bèla margoton
10. Au pont de mirabèu
11. Bèla viergi coronada
12. A la guèrra



mercoledì 2 settembre 2015

Il Battaglione Batà canta la Resistenza nel fermano





Raccontano storie i ragazzi del Battaglione Batà. Storie che hanno più di settant'anni e che arrivano a noi in musica con l'album "Resistenza e Liberazione nel Fermano". Un disco dalla chiara impronta folk, in cui documenti e testimonianze di chi ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale in prima persona sono raccontate in nove canzoni originali composte da Paolo Scipioni. Si possono ascoltare racconti di episodi significativi della lotta di resistenza in un territorio che è oggi la provincia di Fermo. Gesti straordinari di gente comune che non sono finiti nei libri di storia ma che sono stati altrettanto importanti in momenti drammatici come quelli della Liberazione e della lotta partigiana. Storie di drammi, lotte, paure, sconfitte e vittorie che hanno la faccia del comandante Czellnik o del capo fascista Settimio Roscioli, della staffetta partigiana Mario Cifola e di Ken De Souza in fuga dal campo d'internamento di Monte Urano. Storie che vengono da lontano e che riprendono vita tra atmosfere musicali della tradizione folk fermana, grazie ad armonizzazioni mai scontate e anche all'utilizzo di uno strumento popolare come la fisarmonica. Oltre a Paolo Scipioni (voce e chitarra acustica), del Battaglione Batà fanno parte Andrea Verdecchia (basso acustico), Luca Spaccapaniccia (fisarmonica e cembalo), Lucia Marchioli (viola), Francesca Bracalente (voce).
Paolo Scipioni, nell'intervista che segue, ci ha raccontato cosa è stato e cosa è oggi il Battaglione Batà, tornato a lottare affinché queste storie non vengano dimenticate.




 Cosa era il Battaglione Batà e che significato ha per voi?

«Dopo l'8 settembre 1943, come in tutta Italia, anche nel fermano si formarono le prime organizzazioni resistenti. Il colonnello di stato maggiore Paolo Petroni, proveniente direttamente da Roma, allacciò rapporti con il Comitato di Liberazione Nazionale di Fermo e Macerata nel tentativo di costituire un gruppo partigiano che potesse controllare l'importante via di comunicazione, la Statale 78, che univa l'ascolano, il fermano e il maceratese. Questa strada era strategica in quanto ben nascosta dalle montagne e lontana dalla costa e quindi meno visibile, qui i tedeschi potevano transitare con più tranquillità. Il colonnello Petroni aveva delle conoscenze nella zona dei Monti Sibillini e precisamente nella città di Amandola che potevano permettergli la costituzione di gruppi di resistenza. Quindi in breve tempo, dopo l'ascolano e il maceratese, anche il fermano ebbe la sua formazione partigiana. Il numero delle persone che aderirono aumentò di settimana in settimana fino a superare i duecento uomini. Nacque così il Battaglione Batà, in onore del tenente Mario Batà di Roma che dopo l'armistizio si unì alla resistenza operante nel territorio dell'entroterra maceratese e che nel dicembre del 1943, dopo essere stato catturato dai tedeschi e successivamente processato, venne fucilato nel campo d'internamento di Sforzacosta. Alcuni ragazzi del fermano, già in azione con Mario Batà, decisero così di dedicare a lui questo gruppo partigiano. Che significato ha per noi? Mah, sentire parlare di storie in cui i tedeschi dettavano legge non mi sembra cosa di molti anni fa! È basilare vedere la strada percorsa e rintracciare le congruenze con l'attualità che generano schemi simili».

Perché avete chiamato così la vostra formazione? Vi sentite dei "resistenti"?

«Ci sono due motivi fondamentali. Il primo è perché mi è sempre piaciuto conoscere a fondo la mia terra, la mia città e la sua storia e sapere che da qui sono passati dei ragazzi che avevano più o meno la nostra età e che hanno fatto una scelta ben precisa per un obiettivo comune, lottando per ottenere qualcosa per loro ma sopratutto per chi sarebbe venuto dopo di loro. Tutto questo mi dà uno slancio positivo per affrontare le sfide dei nostri giorni, se nostri li possiamo considerare visto che viviamo all'interno di un meccanismo perfetto per i pochi ma non per tutti. Il secondo motivo è sostanzialmente quello di far conoscere tutto ciò che non è andato a finire sui libri di storia ma che ha contribuito alla Resistenza locale, magari anche in maniera silenziosa. Parlo di storie considerate minori, sconosciute ma ugualmente importanti, la resistenza armata e non armata, la grande solidarietà della nostra terra marchigiana e di tutti i contadini che hanno ospitato a loro rischio e pericolo prigionieri e fuggiaschi, la resistenza di uomini e donne che parlavano il mio stesso dialetto. Ora Fermo ha in qualche maniera ancora il suo Battaglione Batà che racconta tutto quello che è stato fatto per la libertà in questa odierna apparente calma che si può notare dall'altra parte della finestra. L'arma più appropriata ora ci è sembrata essere la musica. Siamo chiamati ad essere i partigiani del 2000, a resistere e combattere logiche politiche ed economiche che per certi versi mettono al tappeto più di quanto possa fare un colpo di fucile. Ti uccidono l'anima lasciandoti in piedi. Tutto questo ovviamente avrebbe non molto senso se non ci interessassimo di quello che succede oggi. Diciamo che questo progetto ci ha dato un "la storico" per partire alla volta del presente».

Chi sono i partigiani oggi?

«Già trovare una parte certa oggi sembra complicato, c'è molta confusione, non ci sono più forse neanche le parti, è un'unica grande associazione dove però da socio non hai neanche voce in capitolo, cioè devi contribuire e basta. Credo sia rimasto identico il motivo che può ricondurre oggi ad essere identificato come un partigiano e cioè la ricerca della libertà. Siamo tutti noi, uniti, a volere quello che normalmente ci spetta, che altro non è che avere una possibilità».

Siete un gruppo musicale giovane, perché avete puntato gli occhi sulla storia di settant'anni fa?

«Credo, purtroppo, che si stia già perdendo il valore della Resistenza, ad appena settant'anni dalla Liberazione. Non ci sono oramai più i partigiani per ovvi motivi anagrafici e con loro, testimoni diretti di certi orrori, di un'occupazione, di un'oppressione e della mancanza della libertà, sembra stia andando in pensione oltre alla memoria di quegli anni anche un certo modo di pensare, di ragionare intorno ai problemi che sono di tutti, della maggior parte delle persone. Viviamo in un mondo, quello attuale, che è braccato da innumerevoli crisi, oltre che economiche e lavorative, anche di valori quali la solidarietà, la condivisione con l'altro, qualsiasi esso sia. Tutto questo toglie il fiato se non addirittura, in certi drammatici casi, la voglia di continuare a lottare, ci isola, rimani solo contro certi palazzi. Ora avremmo bisogno più che mai di tanti Battaglioni Batà per dare un porto sicuro alle nostre esistenze, per avere un fatto motivazionale che muove e smuove le nostre coscienze e possa far gridare quello che attualmente ogni giorno toglie la speranza di un domani: la mancanza di un lavoro e la possibilità di progettare la propria vita. D'altronde credo proprio che non ci sia futuro senza memoria».

Cosa vi ha spinti a cantare i protagonisti della Liberazione di Fermo dai nazi-fascisti?

«Un giorno di circa dieci anni fa mi trovavo in Toscana a casa di amici e si stava parlando della Resistenza del casentino e di tutta la Val di Chiana, di quante storie quel territorio portava con sé. Tornando a casa pensai che storie del genere erano racchiuse da qualche parte anche in questa terra. Tutto questo mi incuriosì e appassionò. Iniziò così la ricerca di storie simili anche lungo tutta la valle del Tenna, dell'Aso e dell'Ete».

Quali sono state le fonti che vi hanno trasmesso queste storie?

«In quel periodo, collaboravo con un'associazione culturale folklorica che si chiama "Mazzamurelli de li Sibillini". Stavamo raccogliendo delle informazioni a casa di molti contadini della zona per uno spettacolo che avevamo in mente sulle tradizioni popolari e sul saltarello che è il ballo tipico per eccellenza del nostro territorio; molti dei nostri incontri andavano a finire inevitabilmente sul tema della guerra. Da lì ho raccolto molte di queste storie, altre le porto in eredità dai racconti dei nonni e altre ancora le ho conosciute grazie all'ANPI provinciale di Fermo e all'Istituto di Storia per il Movimento di Liberazione di Fermo. Un grazie speciale va a Peppino Buondonno, assessore alla cultura della Provincia di Fermo nel periodo in cui è nato questo progetto, che è riuscito nel tempo a mettere a disposizione della collettività, con particolare attenzione ai giovani, spazi molto importanti quali l'Istituto di Storia per il Movimento di Liberazione o come l'aula multimediale e il museo della Casa della Memoria di Servigliano che si trova nell'ex campo dei prigionieri di guerra. Ringrazio anche Carlo Bronzi, presidente dell'ANPI di Fermo per l'aiuto e la collaborazione che dura tutt'ora. Tutto questo mi ha permesso di leggere, scoprire e conoscere queste storie e di ritrovarne alcune di quelle sentite dai contadini, all'interno di libri, documenti e relazioni del tempo».

C'è qualche storia che ti ha colpito maggiormente?

«Oltre alle canzoni già incise che sono entrate a far parte del disco, ce ne sono altre che per vari motivi sono rimaste fuori o perché sono nate in un periodo successivo rispetto a quello della pubblicazione dell'album e che magari entreranno in qualche altro progetto, io ovviamente le porto tutte nel cuore. Forse "Canzone di Santa Caterina" che è nata dalla storia che mi ha raccontato mia nonna e che l'ha vista protagonista in prima persona, genera in me, nel suonarla, un'emozione diversa, anche perché sono cresciuto e abito ancora nella casa teatro di quella vicenda. Tolto l'elemento "genetico" tutte le altre sono di pari importanza per me».

Che insegnamento hai tratto da questa esperienza discografica?

«Alcune volte le canzoni non rimangono nel cassetto o chiuse tra le quattro mura della tua stanza. Grazie ad Antonio Ciccotelli e alle Edizioni Musicali e Discografiche Not.A.Mi abbiamo avuto la possibilità di far conoscere queste canzoni a più persone incidendole in un disco. È stato un buon cammino vedere questi brani con il loro vestito finale passare tra prove serali dopo il lavoro fino a notte inoltrata, ad arrangiamenti sempre più convincenti, cercando di rimanere con quel suono "resistente", con strumenti e timbriche suonate, in alcuni casi, anche dai partigiani».

Qual è lo scopo di questo disco?

«Lo scopo principale è quello d'informare su ciò che rischia di scomparire e non tornare più. Storie di gente comune che ha compiuto grandi cose che non sono andate sotto i riflettori della storia ma che hanno contribuito al fine comune e unitario. I destinatari sono ovviamente le giovani generazioni, i ragazzi delle scuole medie e superiori, anche se devo dire che ci sono molti bimbi che canticchiano già questi brani, il che mi fa pensare che se avessi chiamato Cristina D'Avena forse sarebbe stato tutto un altro successo... scherzi a parte! I ragazzi devono essere a conoscenza di alcuni capitoli della nostra storia molto importanti, alcuni dei quali hanno suggerito e generato la nostra Costituzione, mentre i grandi di certi capitoli già ne sono a conoscenza o per lo meno dovrebbero esserlo. Con molto piacere ho visto che all'esame di stato di quest'anno erano presenti in più tracce il tema della Resistenza, ecco diciamo che questo è il filone e lo scopo sostanziale del disco. Non a caso la copertina dell'album mostra una bimba davanti alla staccionata dove alcuni partigiani del Battaglione Batà sono stati fucilati circa settant'anni prima della sua nascita... è un tenere il filo da non perdere».

Le storie raccolte sul campo le hai musicate dando origine a nove canzoni originali. Come sono nati i brani del disco?

«Parte tutto dalle singole storie di eccidi, battaglie e gesta. Se si guarda bene tutto qui ci parla di questo: le piazze di alcuni paesi, le vie di alcune città, le scuole intitolate, i giardinetti pubblici che portano determinati nomi. Ci sono alcune vie di Fermo che portano dei nomi di persone apparentemente sconosciute. La curiosità di dare una storia a quei nomi, di sapere quale vita aveva dato il nome a tanti indirizzi mi appassionò molto, questo unito a tutto quello detto precedentemente mosse a favore di questi brani. Fermo è anche la terra di personaggi importanti legati in qualche modo alla Resistenza, all'arte, alla letterature e non solo, nomi come: Joyce Lussu, Osvaldo Licini, Ada Natali, Mario Dondero e tanti altri ancora. Era doveroso e quasi impossibile non farlo».

Quando hai adattato i racconti alle canzoni hai mai pensato al presente? Non hai mai immaginato di collocare al giorno d'oggi il comandante Czellnik o il capo fascista Settimio Roscioli?

«Come dicevo prima, se non lo leghiamo al presente questo progetto rimane solamente un documento storico. Deve, invece, farci riflettere sui drammi che viviamo oggi e sui legami sottili con il passato. Di esempi come Roscioli purtroppo ce ne sono abbastanza, di personaggi come il comandante Czellnik invece un po' meno e sicuramente si trovano in qualche parte sperduta del mondo. Il signor Czellnik, tra l'altro, il prossimo ottobre compirà cent'anni e vive ancora a Fermo, diciamo che abbiamo ancora molto da imparare, lui ci guiderà ancora una volta».

Come è stato accolto questo disco a Fermo?

«È stato accolto con stupore ed interesse, sopratutto dai giovani. Abbiamo avuto la possibilità di suonare alcuni brani durante uno degli appuntamenti promossi dalla Provincia e dedicati alla Costituzione, a cui hanno partecipato gli alunni dell'ultimo anno delle scuole superiori di Fermo che hanno espresso molto interesse in questo tipo di riscoperta. Anche durante le serate dal vivo c'è molta attenzione».

Come si evolve dal vivo questo disco?

«Oltre alle nostre canzoni, cantiamo brani popolari, canzoni che hanno fatto la Resistenza, nel vero senso della parola, sfidando il tempo e gli uomini. Proponiamo anche alcuni interventi e qualche testimonianza. Durante le serate trasmettiamo filmati che raccontano storie di prigionieri all'interno dei due campi di internamento che si trovavano da queste parti».

Per ultimo mi piacerebbe che ci presentassi i tuoi compagni di viaggio?

«Al basso c'è Andrea Verdecchia che è un mio vecchio amico, ci conosciamo praticamente da una vita, è stato anche coautore di due brani. Alla fisarmonica c'è il Maestro Luca Spaccapaniccia, un ragazzo eccezionale sotto ogni punto di vista, dalla musica al lavoro, è davvero un piacere suonare con lui. Ha curato quasi tutti gli arrangiamenti delle canzoni. Alla viola suona una giovanissima ragazza, Lucia Marchioli, molto preparata in campo musicale, studia al conservatorio di Fermo ed è di sicuro avvenire. La voce femminile del gruppo è quella di Francesca Bracalente, anch'essa giovane e preparata, all'occorrenza suona anche il violino. I suoni dal vivo sono curati da Matteo Bronzi, un giovane fonico fermano già di grande esperienza e bravura. Da parte mia e nell'intento del progetto, trovare giovani musicisti e collaboratori così preparati a portare la Resistenza nelle piazze, credo proprio che non avrei potuto chiedere di meglio. Tutte le foto del disco e delle serate sono a cura di Stefano Properzi che ha impreziosito il nostro lavoro. Siamo andati insieme sui luoghi della Resistenza». 



Titolo: Resistenza e Liberazione nel Fermano
Gruppo: Battaglione Batà
Anno di pubblicazione: 2015
Etichetta: Notami Folk/IRD

Tracce (musiche e testi di Paolo Scipioni)

01. Il comandante Czellnik
02. Da un po'
03. Il cavaliere nero
04. La radio che libera
05. Canzone di Santa Caterina
06. Partigianello
07. Se eri lì
08. Battaglione Batà
09. Fuga da Fermo