lunedì 28 gennaio 2013

Piacere di conoscervi, sono Michele Savino







"Piacere di conoscervi" è il primo EP di Michele Savino, cantautore e compositore genovese che si sta ritagliando un certo spazio nel panorama ligure. Questo anche grazie alle collaborazioni, in veste di arrangiatore e musicista, con artisti emergenti come Chiara Ragnini e Geddo, e soprattutto con Maurizio Di Tollo, polistrumentista di area prog (ha suonato tra gli altri con La Maschera di Cera, Finisterre, Hostsonaten, Rohmer, Moongarder, The Watch) che nel 2012 ha pubblicato il suo primo album solista dal titolo "L'uomo trasparente".
Ritmo, ironia e sensibilità sono gli ingredienti principali di questo interessante e piacevole biglietto da visita presentato da Savino. Protagonisti delle sei tracce dell'EP sono personaggi comuni che vivono storie di tutti i giorni e osservano il mondo con gli occhi della normalità. I testi pescano, invece, nella ricca tradizione cantautorale genovese mescolando citazioni a episodi narrativi infarciti da caratteri di introspezione e allegria.
Il disco è stato registrato all'Hilary Studio di Genova. Insieme a Savino nell'album hanno suonato Saverio Malaspina, già batterista dei Meganoidi e dei Blindosbarra, il bassista Pietro Martinelli, il chitarrista Fabrizio Cosmi ed Elisabetta Marinucci ai cori.
Un'ottima occasione per conoscere Michele Savino sarà offerta da Pozzo Garitta, storico locale di Albissola Marina che lo ospiterà in concerto il primo febbraio (ore 21.30).
Presentiamo l'evento pubblicando questa chiacchierata con Michele.



Chi è Michele Savino?

«Michele Savino è un musicista curioso e poliedrico. È anche un po' filosofo, infatti ha scritto un brano che si intitola "Volevo essere Umberto Eco". Gli piace osservare il mondo e i suoi abitanti. Certe volte mette queste riflessioni sotto forma di musica e parole, ed ecco il motivo per cui siamo qui ora, tu a domandare e lui, Michele Savino, a rispondere».

Come ti sei avvicinato alla musica?

«Ci sono state due fasi: la prima, quella dell'eredità familiare, riguarda la musica classica. I miei genitori sono entrambi due musicisti professionisti in questo settore e fin da piccolo ho potuto ascoltare i grandi Maestri. Gli studi al Conservatorio hanno poi consolidato questo aspetto della mia formazione. Allo stesso tempo sentivo l'esigenza di aprirmi a mondi sonori diversi e allora ecco la fase due: sale prova, concerti, negozi di dischi, internet. Consumo cultura pop con l'appetito degli autodidatti».

Cosa ti ha spinto a pubblicare il disco "Piacere di conoscervi"?

«"Piacere di conoscervi" è il mio biglietto da visita. Un modo garbato di presentarmi al pubblico e di condividere il mio modo di raccontare la realtà».

Sei tracce per dire cosa?

«Non è un disco a tema: ogni brano ha il suo messaggio. Mi piace che ogni ascoltatore possa dare la sua interpretazione. Ma ciò che unisce, a livello di scrittura, è il tentativo di coniugare la profondità dei temi a un modo leggero e scanzonato di raccontarli. Chi ha detto che per parlare di cose serie si debba stare con il muso e l'aria afflitta? Prendi "Il cornicione", a un primo ascolto può sembrare il brano più pop del disco, puoi fischiettarlo, puoi canticchiare il testo in rima. Ma in quel brano c'è anche una riflessione sulla vita e sulle scelte che, prima o poi, ciascuno è chiamato a fare. Spesso, è proprio nelle situazioni disperate che tiriamo fuori il meglio di noi stessi».

Che funzione ha l'ironia nei testi delle tue canzoni?

«L'ironia, per quanto mi riguarda, è la luce che illumina un dettaglio trascurato, un particolare che non viene ripreso dal punto di vista ufficiale. Quanto più la situazione è seria e tanto più mi piace smascherare gli aspetti surreali e grotteschi del reale. A essere onesti, bisogna dire che nel nostro paese non c'è molto da sforzarsi: guardi un telegiornale e hai almeno dieci spunti diversi».

Testi a tratti ironici abbiamo detto, ma anche amari ritratti del mondo attuale. Mi viene in mente "L'ultimo giorno di stage"…

«Le canzoni a tema sociale sono delicate. Si rischia di scivolare nel pietismo o, in alternativa, nello slogan da comizio. Ne "L'ultimo giorno di stage" ho cercato di mettere al centro l'esperienza di molti, giovani e non, che devono affrontare il mondo del lavoro in questo momento delicato. È un mondo dove spesso non ci sono buoni e cattivi: il protagonista vive immerso in un sistema più grande delle sue emozioni, dei suoi desideri e si sente spaesato».

Quali sono i musicisti che hanno maggiormente influenzato i tuoi gusti musicali?

«Spesso mi piace omaggiare gli artisti a cui sento di dovere qualcosa, riproponendo dei loro brani in concerto. Limitandomi all'universo della canzone, direi in primis i francesi: Aznavour e Trenet. Poi moltissimo pop inglese: dai Beatles, agli XTC, Joe Jackson, fino a gruppi in attività come i Divine Comedy. In Italia, oltre alla tradizione della canzone anni '30 e '40, ti direi nomi come Renato Carosone, Lelio Luttazzi, Paolo Conte, Sergio Caputo. Senza dimenticare un grande della scuola genovese: Umberto Bindi».

Nel tuo sito ti definisci ‹un cantautore con le sue dieci dita su un pianoforte rock›. Ci spieghi perché?

«Nella canzone d'autore italiana il pianoforte è visto sempre come uno strumento delicato, anche per il suo legame con il jazz. Io necessito di un approccio più fisico con lo strumento, di strapazzarlo anche un po'. Per questo mi piace molto l'approccio di Ben Folds, cantautore americano, che suona il pianoforte in modo colto ma muscolare».

Quando si parla di Genova musicalmente si pensa subito ai tanti cantautori che hanno fatto la storia della canzone italiana. Che insegnamento ti hanno trasmesso?

«La scuola genovese mi ha insegnato che la canzone può essere un meraviglioso ponte tra l'arte e la vita: un modo diretto ma allo stesso tempo profondo di comunicare valori, storie ed emozioni. E anche il fatto che un'arte cosiddetta "popolare" può avere rigore e ricercatezza pur essendo, media permettendo, fruibile a tutti. Poi se andiamo nello specifico, a ogni artista "invidio" qualcosa: ascolto con attenzione e cerco di imparare».

Quali sono i tuoi progetti futuri?

«Promuovere "Piacere di conoscervi" il più possibile nel mondo reale attraverso i concerti e in quello virtuale. Far conoscere il mio nome agli addetti ai lavori, al pubblico che si interessa di canzone d'autore e fare in modo che la musica continui a essere uno straordinario veicolo per conoscersi e condividere le proprie passioni, sentimenti ed umanità».

Per finire ti sottopongo al gioco delle dieci domande secche…

- Aprile o ottobre? Ottobre perché compio gli anni. E poi, ho un debole per l'autunno.
- Fragola o ciliegia? Fragola, perché se vai in una gelateria e hanno il gusto alla fragola buono, quello è un gelataio serio.
- Fiume o lago? Fluisce come la vita e attraversa culture e civiltà diverse... come il Danubio raccontato da Claudio Magris nell'omonimo romanzo. Scelgo fiume.
- Radio o televisione? Televisione: nel bene e nel male sono un figlio degli anni '80.
- Est o ovest? "No east no west" cantava Scialpi, e forse aveva ragione. Oggi ognuno ha bussole e    punti di riferimento personali.
- Arrivare o andare? Tutti si sentono arrivati e nessuno ha voglia di andarsene: che paese ti ricorda?
- Vista o tatto? La vista è il senso più stimolato dei nostri tempi. Preferisco il tatto di una carezza o delle dita sul pianoforte.
- Il Louvre a Parigi o l'Hermitage a San Pietroburgo? Louvre: aggirarmi per le sale con in testa ‹Sì… vorrei rubarla... vorrei rubare quello che mi apparteneva... sì… vorrei rubarla... e nasconderla in una cassa di patate, di patate› del grande Ivan Graziani!
- Pedalò o moscone? Pedalò. Ho sempre bisogno di parole tronche nei miei testi.
- Aceto o limone? Aceto balsamico, gran squisitezza.



Titolo: Piacere di conoscervi
Artista: Michele Savino
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2012

Tracce
(testi e musiche di Michele Savino)

01. Il cornicione
02. È solo orgoglio
03. Se potessi dirti tutto
04. L'ultimo giorno di stage
05. Volevo essere Umberto Eco
06. Vicoli





lunedì 21 gennaio 2013

Daniele Ronda e "La sirena del Po"







Dalla musica pop alla dance, per approdare infine alle canzoni in dialetto. Un bel viaggio artistico per Daniele Ronda, cantautore piacentino, che due anni fa ha deciso di interrompere la sua attività di autore e dedicarsi in prima persona alla carriera di musicista. Ronda ha iniziato, infatti, scrivendo canzoni per altri artisti. Intensa è stata la collaborazione con Nek che ha portato al successo brani scritti da Ronda come "Almeno stavolta" e "L'anno zero", inseriti nell'album "Nek the best of... L'anno zero" uscito nel 2003, o come "Una parte di me", "Notte bastarda", "Va bene così" e "Lascia che io sia", con cui Nek ha vinto l'edizione 2005 del Festivalbar. Tre brani di Daniele Ronda sono finiti anche nell'album "Nella stanza 26" e la canzone "Tira su il volume" è stata inserita da Nek nel disco del 2009 dal titolo "Un'altra direzione". L'autore piacentino ha collaborato anche con Massimo Di Cataldo, scrivendo per lui il brano "Amami", e insieme a Pasquale Panella ha composto per Mietta la canzone "Baciami adesso". Anche in ambito dance Daniele Ronda ha lasciato la sua impronta scrivendo successi di caratura internazionale come "Desire" per dj Molella.
La maturità artistica è arrivata una volta indossati i panni di cantautore. Nel 2011, a 27 anni, Ronda ha deciso di tornare a Piacenza e intraprendere un nuovo percorso artistico. Gli incontri con Sandro Allario, grande fisarmonicista bergamasco, e con il bassista cuneese Carlo Raviola hanno fatto il resto. Insieme hanno dato vita al gruppo Folklub, a cui si sono aggiunti Lorenzo Arese (batteria e cori) e Gianni Satta (tromba e tastiere), e nello stesso anno è stato pubblicato l'album in dialetto "Daparte in folk", premiato al Mei come "Miglior progetto musicale in dialetto dell'anno". Il disco è stato impreziosito dai duetti con Davide Van De Sfroos, campione del cantautorato dialettale, e l'ex cantante dei Nomadi, Danilo Sacco. A fine 2012 è arrivata la seconda fatica discografica di Daniele Ronda e Folklub dal titolo "La sirena del Po" e in questi giorni è partito il tour che lo porterà a suonare sabato 26 gennaio all'Osteria del Vino Cattivo a Cairo Montenotte.
Per presentare nel migliore dei modi l'evento valbormidese abbiamo fatto quattro chiacchiere con Daniele che in questa intervista si è raccontato e ha descritto la sua visione del mondo. 



Daniele avresti potuto continuare a scrivere canzoni per altri, invece hai deciso diventare protagonista sul palco. Perché questa scelta?

«Fare il lavoro di autore per altri e fare il cantautore sono due cose diverse. Hanno molti aspetti in comune ma anche delle differenze sostanziali. Quando si scrive per un altro artista c'è dietro un grande lavoro di ricerca. Si vanno a toccare stili, generi, colori e suoni che se dovessi comporre per te stesso magari non affronteresti. In un certo senso sei una specie di sarto e di psicologo che deve prendere le misure su un altro artista, su un altro interprete. Quello che vuoi dire dovrà passare attraverso un'altra personalità, un altro modo di affrontare le cose e il tutto deve essere credibile. È un lavoro che non rinnego e che mi ha dato tanto, però c'è stato un momento in cui ho avuto bisogno di dire quello che sentivo in maniera diretta, con il mio linguaggio. Il vestito lo dovevo indossare io in quel momento, e doveva essere un vestito che convincesse me, che utilizzasse il mio modo di pormi, il mio modo di parlare alla gente, di comunicare».

È più facile scrivere canzoni o andare in tour ed esibirsi di fronte agli spettatori?

«L'importante è che qualsiasi cosa si faccia sia vera e naturale. Le difficoltà che si incontrano non hanno peso quando si seguono le proprie convinzioni. Sentivo di aver bisogno di salire sul palco, di suonare e cantare dal vivo. È una questione di esigenze, di quello che si vuole fare. Questa voglia di esprimermi mi ha fatto imboccare questa strada e sono veramente contento perché mi sta dando notevoli soddisfazioni».

Perché hai scelto a 27 anni di tornare a casa nella tua Piacenza e cercare nei tuoi luoghi d'origine le fondamenta della tua musica?

«La musica nel mio caso va di pari passo con la mia vita e si condizionano vicendevolmente. In questo caso è accaduto che ho scoperto per la prima volta quanto fosse per me importante il legame con le radici, le origini, la mia terra. Ho scoperto quanto fosse importante avere un punto di riferimento in questo periodo in cui i valori sono un po' traballanti e tutto ciò mi ha portato anche a riscoprirmi dal punto di vista musicale. Io ho sempre amato il folk, però questa svolta mi ha avvicinato e legato ancora di più a questo genere che è il più genuino, il più semplice, il più diretto che esista, pur essendo ricchissimo di colori, di suoni, di sfaccettature. La scelta musicale è andata un po' di pari passo con quello che mi è successo nella vita, con quello che ho scoperto nel mio percorso e di quanto sia importante la storia delle persone».

Quindi non occorre andare lontano per trovare l'ispirazione, anche la provincia trasmette stimoli?

«Assolutamente sì, anche se io non faccio enormi distinzioni tra provincia e grandi metropoli. Io l'ho cercata la grande metropoli, nel senso che c'è stato un periodo in cui ho pensato che la provincia mi stesse stretta e così ho preso la strada verso la grande metropoli. Mi sono trasferito a Milano, la metropoli più vicina a casa mia, e poi mi sono reso conto che il giovedì e il venerdì sera non vedevo l'ora di tornare a casa, di rivedere le mie strade, i miei amici, gli ambienti, assaporare gli odori e i sapori, la nebbia di un certo tipo, perché quella Milano è molto diversa».

Ti è mancata la dimensione più umana della provincia?

«Ho vissuto per un periodo a Los Angeles perché sono un grande appassionato di cinema e di America. Mi piaceva molto l'atmosfera e ho scoperto che a Los Angeles si faceva una vita simile a quella della provincia perché, nonostante la città sia enorme, in realtà si vive nei quartieri. Nella zona dove vivevo incontravo la gente per strada, le persone frequentavano gli stesi posti, gli stessi locali, quindi in realtà non era poi così lontana dalla vita di provincia. Credo che abbiamo tutti bisogno di costruirci un mondo familiare, che si avvicini il più possibile all'essere una grande famiglia, perché ci dà sicurezza, ci fa stare più tranquilli e ci fa sentire più a casa».

Nel 2011 hai pubblicato "Daparte in folk", un album folk cantato in dialetto. Cosa ti ha spinto a utilizzare la lingua dei tuoi nonni?

«Il dialetto è una vera forma di comunicazione, diversa dalla lingua. Mia nonna quando mi sgridava lo faceva in dialetto e credo che se lo avesse fatto in italiano avrebbe avuto una resa diversa. Quando tu parli una lingua straniera c'è sempre una traduzione corrispondente in italiano, nel dialetto non è sempre così. La traduzione non è sempre così diretta perché dietro ogni parola, ogni frase, ogni modo di dire, dietro ogni detto c'è una storia, ci sono esperienze di generazioni».

Il dialetto unisce o separa?

«Unisce assolutamente. Qualcuno voleva farci credere che le differenze di dialetto, di tradizioni, di abitudini, di usi e costumi, di cui il nostro paese è forse uno dei più ricchi del mondo, fossero causa di divisioni. Invece io sono convinto che siano un potenziale che unisce e me ne rendo conto tutte le volte che viaggio, che vado a suonare nelle città perché c'è un punto di congiunzione che rende le differenze una ricchezza. Le differenze creano un legame e un interesse reciproco. Le persone che incontro durante i miei concerti mi dicono che le canzoni che preferiscono sono quelle cantate in dialetto».

Quanto ha influito sulla tua scelta artistica l'esperienza di Davide Van De Sfroos, musicista che ha il merito di aver riportato all'attenzione del grande pubblico l'uso del dialetto? 

«Davide è stato di grande aiuto, ha aperto parecchie strade, parecchie porte. Ho molta stima di Davide, sono un suo fan, ho tutti i suoi dischi e ho visto molti suoi concerti. Abbiamo avuto modo di conoscerci e siamo diventati amici. Ho anche tradotto in italiano una sua canzone dal titolo "40 pass". Non solo gli è piaciuta ma ha addirittura voluto cantarla e questa canzone, dal titolo "Tre corsari", è entrata nel mio primo album».

Quanto ha inciso sulle tue scelte artistiche la collaborazione con Sandro Allario e Carlo Raviola, anime del gruppo Folklub?

«Sandro e Carlo sono i pilastri portanti del Folklub che non è tanto una band quanto un laboratorio del folk, un laboratorio musicale. Il quartetto base è composto da Sandro, Carlo, Lorenzo alla batteria ed io, però il Folklub è un gruppo aperto. Per esempio, a Piacenza abbiamo dato vita a un grande evento e in quell'occasione sul palco c'era anche una orchestra d'archi. Poi a volte si unisce la tromba, il banjo, il mandolino. Sono musicisti che amano questa musica e vogliono suonare con noi ed è una cosa che mi piace molto. Queste collaborazioni ci hanno dato molti stimoli e ci hanno aperto molte strade sotto l'aspetto musicale e vorrei che continuasse così».

Per promuovere il tuo primo disco hai suonato molto in tutta Italia. Cosa ti ha dato questa esperienza?

«Tra il primo e il secondo disco abbiamo fatto più di cento concerti in un anno e questo ci ha unito molto, ha fatto sì che il gruppo diventasse proprio una grande famiglia, che ci fosse molto affiatamento, molta amalgama e questo ci fa divertire molto quando siamo sul palco. Credo che si sentano i chilometri fatti insieme, si sentano anche le litigate, le cose belle accadute, i posti belli che abbiamo visto, le persone che abbiamo incontrato, le città che abbiamo visitato. Credo che si senta anche nella registrazione del disco perché sono cose che ti porti dietro e questo spirito è avvertibile anche sul palco». 

Il tuo ultimo disco si intitola "La sirena del Po". Perché questo titolo?

«È uno sprone al campanilismo, un invito ad amare quello che si ha, la propria terra, al credere che una sirena può vivere anche nel fiume della tua città. È la differenza tra il credere in se stessi e il non crederci, l'essere speranzosi soprattutto in un momento dove non si parla d'altro che di crisi: bisogna crederci per saltarne fuori. È anche la differenza tra un sognatore e quelli che invece lo definiscono semplicemente un pazzo e a volte il pazzo è una persona speciali a cui bisognerebbe dare retta. Magari così facendo scopriremmo delle cose inaspettate. La sirena è un po' tutte queste cose». 

Cosa rappresenta per te il fiume Po?

«Credo che un corso d'acqua sia importante per una città. Io ci tenevo a parlarne perché ho visto che da un po' di tempo nella mia città si è lasciato in disparte questo grande fiume. È importante anche a livello simbolico; l'acqua è una risorsa, significa vita, e non bisogna mai dimenticarlo. Credo che una città che abbia la fortuna di avere un corso d'acqua, un lago o il mare dovrebbe valorizzarlo e nel mio piccoli ci tenevo a farlo anche io». 

Il 26 gennaio suonerete a Cairo Montenotte. Perché le persone dovrebbero venire al vostro concerto?

«Perché è il momento in cui ci incontriamo, possiamo stare insieme, è un momento in cui interagiamo, possiamo divertirci, riflettere su un po' di cose. Si parlerà di terra, di origini, di storie che in qualche modo toccano tante persone. E poi per raccontarci e per riscoprire che possiamo stare bene e trovare quella serenità senza bisogno di cose che costano tanto, che vanno comprate solo per sentirci bene con noi stessi».


Titolo: La sirena del Po
Artista: Daniele Ronda & Folklub
Etichetta: JM Production
Anno di pubblicazione: 2012

Tracce
(testi e musiche di Daniele Ronda)

01. La sirena del Po
02. Al Rolex
03. Fidati di me
04. La me pell
05. Al pleiboi
06. Si strappano le nuvole
07. Brassam fort
08. La birra e la musica
09. L'ävucat dal diävul
10. Il pendolare
11. Alternati
12. L'Irlanda
13. L'errore



martedì 15 gennaio 2013

Tolo Marton e la reunion con Zonca e Sorti






Ci sono musicisti che hanno la capacita di rapire l'attenzione di chi li ascolta; che fanno sembrare un gioco da ragazzi suonare la chitarra. Uno di questi è Tolo Marton, chitarrista dalla forte personalità e dal grande carisma. L'artista trevigiano, nel corso della sua quasi quarantennale carriera, ha convinto anche il preparato pubblico d'oltreoceano e nel 1998 a Seattle ha vinto il "Jimi Hendrix Electric Guitar Festival". Il riconoscimento, consegnato per la prima volta a un musicista non americano, gli ha fatto conquistare le copertine delle riviste specializzate di mezzo mondo ma non gli ha fatto perdere di vista i fondamenti della sua musica, fatta di tecnica, emozione e pathos.
Nel corso della sua carriera Tolo è stato musicista de Le Orme (da settembre 1975 a febbraio 1976), ha collaborato con due dei tre leggendari Cream, Ginger Baker e Jack Bruce, ha suonato con Ian Paice e Roger Glover dei Deep Purple e con tanti altri.
Tolo Marton si esibirà sabato 19 gennaio al Bar della Stazione di Varazze (inizio ore 19, ingresso libero) in un atteso concerto organizzato dall'associazione Raindogs. Tolo avrà come compagni di viaggio in questo mini tour, che toccherà anche Calvari (Muddy Waters), Pavia (Spazio Musica) e Bergamo (Druso Circus), due vecchie conoscenze come il bassista Robi Zonca e il batterista Fabio Sorti, con cui ha suonato nella prima parte degli anni '80.
Tolo, contattato grazie ai moderni mezzi di comunicazione, ha accettato di rilasciare questa intervista e a parlare della sua musica e dei suoi progetti.



Tolo Marton, Robi Zonca e Fabio Sorti di nuovo su un palco dopo quasi trent'anni. È un bel balzo indietro nel tempo. Perché avete deciso di suonare nuovamente insieme?

«L'occasione l'ha fornita Robi. Credo che i gestori del "Druso Circus" di Bergamo (locale dall'ottima programmazione musicale, ndr) lo abbiano contattato per un concerto in cui avremmo dovuto suonare insieme Robi ed io. A quel punto ho detto a Robi: ‹perché non chiamiamo anche Fabio così facciamo proprio una reunion e ci mettiamo attorno qualche altra serata?›. E così è stato e poi con un solo concerto non si fa nemmeno in tempo ad accordare gli strumenti».

Cosa è cambiato tra di voi in questo lungo arco di tempo?

«Tutti e tre abbiamo percorso le nostre strade. C'è chi aveva smesso di suonare, chi no. Fabio si era messo a fare un lavoro al di fuori del mondo della musica. Robi era tornato a collaborare con Andy J Forest per poi mettersi in proprio e intraprendere definitivamente la carriera di chitarrista e cantante. Con Fabio non mi sono mai perso di vista, con Robi ci si incrociava ogni tanto».

Avete intenzione di fissare su cd qualcosa di questa nuova avventura live?

«Per il momento non ci siamo ancora incontrati, ci siamo tenuti in contatto tramite mail o telefono. No, non ne abbiamo parlato ma sarebbe bello».

Oltre al progetto con Zonca e Sorti continui a collaborare con Aldo Tagliapietra, tuo vecchio compagno ai tempi de Le Orme. Qual è il vostro rapporto e quali sono i vostri progetti in comune?
 

«Aldo ed io abbiamo un concerto in programma il primo febbraio in un teatro vicino a Verona, ma non so dire cosa faremo in quell'occasione. Io sono stato invitato a suonare con il mio gruppo e Aldo per un set acustico. Vedremo cosa verrà fuori».

All'inizio del 2011 si era parlato di un possibile album di inediti del trio Tagliapietra/Pagliuca/Marton, poi dopo concerti che hanno riscosso grande successo il gruppo si è sciolto. Ci sono ancora possibilità che il discorso venga ripreso nei prossimi anni?

«Confesso che mi è dispiaciuto molto che quel progetto fosse finito quasi sul nascere, era molto promettente e personalmente ero entusiasta, pur vedendo e toccando con mano le difficoltà che comportava. Ma non vedo speranze che si possa riprendere da dove è stato interrotto. Quando me ne andai dalle Orme, nel febbraio del '76, fu una decisione mia ma questa volta no».

Lo sai che nell'arco di pochi giorni Aldo Tagliapietra e Le Orme suoneranno a Savona in due distinte occasioni, e tu sarai di scena a Varazze? Il pubblico savonese non vi ha mai dimenticati eppure di anni ne sono passati…

«Ne sono cosciente. Anche in occasione di quei pochi concerti che abbiamo tenuto due anni fa, l'affetto del pubblico, sempre molto numeroso, è stato fortissimo».

Oggi la musica è uno dei tanti beni di consumo e come tale subisce un repentino deterioramento. Canzoni e album vengono prodotti a ritmo impressionante e la maggioranza senza lasciare traccia. Le nuove tecnologie e la facilità di registrazione hanno dato ulteriore impulso a questa corsa. Cosa pensi di questa frenesia creativa?

«Se la fantasia e la creatività musicale umana andassero anche solo ad un quarto della velocità con cui va la tecnologia, sarebbe un progresso vero, ma le cose non stanno così. Da una parte troppi giovani guardano al passato, a periodi nei quali non erano ancora nati. Dall'altra c'è la musica usa e getta e quella ci sarà sempre. Abbiamo bisogno di sperimentare, sentire dentro una necessità di stupirci degli altri e di noi stessi. Creare cose che non ci sono. Questo era lo spirito dell'epoca in cui si inventava e la musica cambiava nel giro di pochi mesi. È stato bello viverla».

A partire dagli anni 2000 hai collaborato con il batterista dei Deep Purple, Ian Paice, e recentemente con il bassista Roger Glover. Ci puoi tracciare un profilo di entrambi?

«Sono due musicisti di grande personalità, riconoscibili appena mettono le mani sullo strumento. Sono artisti che hanno contribuito a rinnovare il rock ma sono anche persone disponibilissime, senza alcun atteggiamento da rockstar. Ian è più riservato ma un vero gentleman, batterista da leggenda. Quando ci suoni insieme ti rendi conto che tante delle cose che ascoltavi da giovane poggiavano su terreno solido, altro che storie! Paice dice sempre che per lui suonare è vivere, e infatti è così. Non riesce a stare lontano dalla batteria e dal palco, gli piace essere sempre in esercizio. Roger è più comunicativo, sembra di conoscerlo da sempre, gli piace molto parlare, anche dei suoi gusti musicali che sorprendentemente per molti aspetti sono simili ai miei. Senza dubbio possiede una umiltà e umanità gradevolissime. Quando suono con lui nasce una intesa immediata. Ai due aggiungo Don Airey, il tastierista dei Deep Purple. Anche con lui ho il piacere di suonare. Da come lo conosco potrei dire che è il punto mediano tra Ian e Roger. È un virtuoso eccezionale, un musicista dalle mille idee, e suonarci insieme è una continua sorpresa. Non si smetterebbe mai».

Tralasciando "Reprints", che è la ristampa dei tuoi primi tre album ormai introvabili, il tuo ultimo disco "StraLive" è del 2005. Non credi che sia arrivato il tempo di dare alle stampe qualche gustosa novità?

«Sono d'accordo con te. Le idee ci sono, e da molto tempo, spero di riuscire a concretizzarle sedendomi con calma davanti a un registratore, in fin dei conti mi è sempre piaciuto registrare».

Hai alle spalle quasi quarant'anni di carriera costellati da successi e riconoscimenti. Guardando indietro hai qualche rimpianto?

«I rimpianti ci sono quando si sa che si potevano fare scelte diverse. Le scelte che ho fatto io, per quanto difficili e sempre in salita, so che erano le uniche che potevo fare. Sai, nel '76 scrissi una canzone dal titolo "Let me be"…».






giovedì 10 gennaio 2013

"Non sono mai stato qui", parola di Geddo







Davide Geddo è tornato. Dopo il disco d'esordio "Fuori dal comune", uscito nel 2010, il cantautore ingauno ha pubblicato in questi giorni il suo secondo album intitolato "Non sono mai stato qui". Il disco, registrato all'Hilary Studio di Genova, contiene quindici canzoni che mettono in luce la capacità espressiva e compositiva di Geddo. Storie e affreschi che descrivono, a tratti anche con sagace ironia, il mutare delle situazioni, la fine di esperienze, a volte solo immaginate, sbagli e nuove speranze. Canzoni fruibili che invitano però ad un ascolto non superficiale per cogliere l'essenza di testi brillanti e mai banali. Per questo secondo disco, più maturo e strutturato dal punto di vista musicale rispetto al precedente, Geddo si è circondato di amici musicisti che hanno dato il loro decisivo contributo. Tra questi il violinista Fabio Biale, la cantautrice Chiara Ragnini, Sergio Pennavaria, il chitarrista Claudio Bellato e Michele Savino.
Il disco sarà presentato venerdì 18 gennaio nella Casa dei Circoli a Ceriale (via della Concordia, 8). La serata, organizzata dall'associazione Compagnia dei Curiosi, sarà condotta da Alfredo Sgarlato (inizio ore 21).
In anteprima, in questa intervista, Davide Geddo descrive il suo nuovo disco. 



E così il secondo capitolo è scritto. Sei soddisfatto?

«La realizzazione di un disco mi coinvolge totalmente; anche stavolta mi ha distrutto, succhiandomi ogni energia e forza, ma quando finalmente me lo sono trovato tra le mani mi sono sentito come rinato. È un disco pieno e vario che mi propone per ciò che io sento di essere. Essere alla seconda esperienza mi ha dato un pizzico di dimestichezza in più con il lavoro in studio e mi ha consentito di centrare con più sicurezza gli obiettivi che mi ero prefissato. Sono davvero soddisfatto anche se so di dover e poter migliorare ancora».

Nelle canzoni del disco la figura femminile ha un ruolo importante, c'è un filo conduttore che parte da "Venezia", prima canzone dell'album, e arriva a "Non sono mai stato qui" che chiude il cd…

«Non è un "concept" ma ci sono temi ricorrenti. Mentre in "Fuori dal comune", il mio primo disco, affrontavo il problema della comunicazione e del difficile rapporto con la realtà, in "Non sono mai stato qui" ho cercato di parlare di ciò che non sembra esserci, di ciò che avremmo voluto che accadesse, di ciò che è rimasto di esperienze, sbagli e speranze che ora sembrano non contare più. Il disco è dedicato alle situazioni che terminano, cambiano o non hanno avuto la forza di iniziare. Mi piace far riferimento al rapporto uomo-donna perché è il rapporto che influisce maggiormente sul quotidiano».

Il rapporto con l'altro sesso è però sofferto: canti di abbandoni, sogni infranti, delusioni, fughe… Per un cantautore è più facile cantare la sofferenza o la gioia?

«L'epoca dell'accesso ha enfatizzato l'individualismo; le vicende personali sono diventate esasperate  e ingombranti. Ho cercato di stimolare lucidità ed ironia nell'affrontare i rapporti e i linguaggi che vengono a formarsi in un tale contesto. La gioia è più difficile da descrivere con l'analisi ma in "Stare bene" ho cercato di dare una modesta ricetta per la pazienza e la felicità. Comunque la relazione gioia-tristezza nelle canzoni non mi appassiona. Trovo più interessanti altre dinamiche come realtà-illusione, forza-fragilità o uomo-donna. D'altra parte, in quanto espressioni di cultura popolare, le arti "moderne", come cinema e canzoni, sono sottoposte a valutazioni che le mettono in competizione con l'intrattenimento».

Quanto c'è di autobiografico in questo disco?

«Non apprezzo l'autobiografismo fine a se stesso. Ho una vita complicata e piena; però, anche se può capitare di apparire qua e là con qualche rimando personale o spuntare come attore non protagonista o non citato, resto una figura di contorno e raramente sono così esibizionista o sconsiderato da pormi come simbolo o riferimento. Mi piace, al limite, riconoscermi nell'osservare gli altri. Sono nei dettagli».

"Non sono mai stato qui" è un negare o una fuga da qualcuno o qualcosa?

«Il titolo del disco ha più di un riferimento. Mi sono interrogato sul valore dell'esperienza. Rimanda a luoghi e persone che assumono contorni diversi e in cui finisci per non riconoscerti più. Un'altra faccia del dado è rappresentata dall'aspetto, azzarderei quasi romanzesco o visionario di alcuni miei pezzi che ambiscono a raccontare con verosimiglianza ciò che non è stato. Pensa, ad esempio, a "Venezia". Tanto per chiarire è un luogo in cui personalmente sono stato solo una volta da bambino in vacanza con i genitori. È la storia di ciò che non è stato, di un posto dove i due protagonisti non sono mai stati insieme. Inoltre mi pareva che il titolo prendesse una certa distanza da un autobiografismo che quando è sfacciato ed egocentrico non interessa e, anzi, ritengo fuorviante ed invadente. Quindi, alla fine, non si tratta né di fuga né di negazione ma anzi di affermare, grazie all'unica macchina del tempo che so usare, il potere delle canzoni di portarti in luoghi che non ci sono più o in cui non sei mai stato. Questi sono i veri temi ricorrenti del disco e siccome erano evidenti soprattutto nel primo e nell'ultimo brano del cd e poiché il titolo mi pareva suggestivo ho deciso per questo titolo».

Personalmente mi piace molto "Dall'amore", brano dal ritmo incalzante impreziosito dall'intervento del cantante Sergio Pennavaria. Un incontro tra due voci molto diverse ma allo stesso modo emozionanti. Come è nata questa collaborazione?

«Le voci sono sicuramente diverse ma mi sento molto affine allo spirito di Sergio. Lui ha il dono di un timbro pieno di forza ed inquietudine, in grado di smuovere i muri. Io adoro collaborare con gli artisti che ascolto. Con Sergio è nata una bella amicizia basata su una reciproca stima. Spero e credo che faremo presto altre cose insieme, magari un live. Lo stesso vale per Chiara Ragnini, ottima artista e bella persona, che ti assicuro darà molto e molto presto».

Per questo tuo nuovo lavoro ti sei circondato di validi musicisti e il risultato è un disco molto più strutturato rispetto al precedente "Fuori dal comune". Perché questa scelta?

«Con il mio precedente lavoro ho guadagnato il rispetto di tanti ottimi musicisti e ne ho approfittato. A me piace molto collaborare e credo sempre che farlo faccia bene ai dischi e alle idee. Allo zoccolo duro composto da Paolo Magnani alla chitarra, Dario La Forgia al basso e Maurizio De Palo alla batteria, che erano già anima di "Fuori dal comune", si sono aggiunti Claudio Bellato, Fabrizio Cosmi, Mauro Vero, Saverio Malaspina, Fabio Biale, Chiara Siriana Micheli, Tony Meneses. A tutti loro sono profondamente grato per la voglia e il gusto che hanno saputo dare all'album».

Gli arrangiamenti sono molto curati, quanto avete lavorato a questo progetto?

«Io non sono mai stato un animale da studio ma grazie a "Fuori dal comune" ho imparato molto e ci tenevo ad applicarmi in maniera più completa. Molto devo anche al talento di Michele Savino, che mi ha aiutato ad arrangiare quattro brani del disco, e all'esperienza di Rossano Villa».

Quindici canzoni e tanta urgenza di dire. Mi sbaglio?

«Tanta voglia. Tanta fede nel valore del dire. Sacra urgenza di non proporre canzoni vuote. Forse oggi esprimersi è contrario al mercato. Pare che le parole debbano filare piatte su una musica che sia di contorno all'immagine. Ma la vera urgenza è dare testi al cervello e musica allo stomaco. Non mi interessa la musica da ascensore, quella di sottofondo, la colonna sonora. Voglio invitare all'ascolto quando canto, non a fare altro. Cerco però di infondere diversi tipi di respiro nei pezzi perché siano comunque fruibili».

Come sono nate queste canzoni e quanto tempo è occorso a scriverle?

«Le canzoni nascono dalla sete e dalla fame, sono bisogni. Una volta che scopri questo modo di guardare la realtà non riesci a farne a meno. Sono un linguaggio magico, potenziato, in grado di definire e indefinire. Generalmente non ho un metodo ma occorre un forte spirito di osservazione e una feroce autocritica. Per qualche incomprensibile ragione, le canzoni più elaborate sono più brevi da scrivere mentre quelle più semplici sono le più lunghe. Una volta finita la bozza amo lavorarci nel tempo per definire ogni minimo dettaglio e per verificare che mantengano un loro effetto; perché non nascano e muoiano con il loro riferimento temporale. Anche per questo, per quanto si riferiscano ad episodi anche databili, non è coerente dare alle mie canzoni un'epoca predefinita. Tra l'altro questo mi permette di cantarle senza stufarmene».

Come si sono svolte le session di registrazione di "Non sono mai stato qui"?

«Le session sono state faticose; il mio modo di scrivere non ricalca uno schema musicale predefinito e le canzoni sono spesso diverse tra loro. Il mio non-stile, non legandosi ad un genere di rimando che le possa rappresentare, chiede ai musicisti di essere completi e aperti. Spesso mi sono sentito perso prima di riuscire a dare un filo al tutto. Il risultato sembrava non definirsi mai. All'Hilary Studio di Genova però ho trovato il giusto equilibrio tra umanità e competenza; la professionalità di Rox Villa ha creato l'ambiente adatto ed è bastato insistere per ottenere proprio quello che volevo».


Titolo: Non sono mai stato qui
Artista: Geddo
Etichetta: Tomato/CNI
Anno di pubblicazione: 2013

Tracce
(testi e musiche di Davide Geddo, eccetto dove diversamente indicato)

01. Venezia
02. Dicono che io
03. Angela e il cinema
04. Tristano
05. Stare bene
06. Il post amore
07. Equilibrio
08. Dall'amore (interventi di modifica alla viabilità interiore)
09. La campionessa mondiale di sollevamento pesi
10. Piccolina
11. Sole rotto
12. Un pugno in un muro
13. Nancy
14. L'astronave di provincia
15. Non sono mai stato qui  [Davide Geddo; Dario La Forgia e Simone Besutti]





giovedì 3 gennaio 2013

Vent'anni di rock con Les Trois Tetons







Les Trois Tetons è uno dei gruppi più longevi del panorama musicale savonese. Nati nel 1992 come cover band, Zac e compagni hanno fatto strada inanellando centinaia di concerti in Italia e all'estero, registrando tre dischi di canzoni originali e conquistando un discreto seguito di fans. Il primo disco, "Sweet Dancer", è del 2005. Tre anni dopo è arrivato "A Pack of Lies" e nel 2011 è stata la volta di "Dangereyes", lavoro che è finito sotto la lente della stampa specializzata nazionale. Un sound asciutto e vibrante che trova radici nel classico rock rollingstoniano venato di blues, unito a una scrittura capace di spaziare dai brani più accesi alle ballate, hanno garantito un risultato d'eccellenza.
La band è attualmente composta dal cantante e chitarrista Roberto "Zac" Giacchello, dal bassista Alberto Bella, dal chitarrista Giorgio "Barbon" Somà e dal batterista Davide Incorvaia che pochi mesi fa ha preso il posto di Guido Dabove, storico drummer de Les Trois Tetons.  
Abbiamo incontrato Zac in un pomeriggio di fine dicembre per parlare di questi primi vent'anni della band e dei progetti futuri. Il tutto in questa intervista.



Zac, festeggiare i vent'anni di attività è un bel traguardo...

«Le band di professionisti hanno forse più difficoltà a restare in vita, molti sono gli interessi in ballo che possono rendere conflittuale la convivenza. Anche nei gruppi come il nostro possono però esserci dei litigi o dei momenti di crisi. Per fortuna noi siamo sempre riusciti ad andare avanti. Alla fine sono pur sempre matrimoni: che si sia in due, in quattro o in cinque non importa. All'inizio, quando hai vent'anni, non ci pensi. Inizi a suonare per divertimento, poi fai i primi concerti, scrivi le prime canzoni e in un attimo ti ritrovi dopo vent'anni con tre dischi di pezzi originali e tanti concerti alle spalle. È una bella cosa».

Quali sono stati i momenti che ricordi con più piacere?

«In particolare quando abbiamo inciso il nostro primo disco. Lo presentammo in teatro e ricordo che il pubblico ne rimase colpito. Noi invece non ci credevamo più di tanto. Quello fu un momento importante, fu uno stacco rispetto a quello che facevamo prima. Tra i momenti più piacevoli ricordo anche quando siamo andati a suonare per la prima volta all'estero, nell'estate del 2010 in Germania. Una belle esperienza che è stata poi ripetuta».

Dall'uscita dell'album "Dangereyes" cosa è cambiato?

«È cambiato poco perché i cambiamenti sono sempre graduali. Quello più violento è stato, come ti dicevo prima, quando abbiamo iniziato a suonare canzoni nostre. Con "Dangereyes" abbiamo però capito che siamo capaci a fare musica in un certo modo e a gestirla. Abbiamo acquisito una maggiore consapevolezza dei nostri mezzi. Sono uscite delle belle recensioni sulla stampa specializzata che non ci aspettavamo anche perché è sempre più difficile farsi notare, creare qualcosa che possa venire apprezzato dal momento che sono tantissimi i gruppi in circolazione che fanno buona musica. Da un lato, grazie ai nuovi mezzi tecnologici, si hanno più possibilità per registrare e produrre un disco e anche i costi sono inferiori rispetto a vent'anni fa, dall'altro c'è una fioritura incredibile di lavori discografici che rende più difficile ritagliarsi uno spazio».

Per molti anni la line-up della band è rimasta immutata. Anche questo è un bel primato.

«L'ultima formazione è durata dodici anni. Del gruppo originale siamo rimasti in tre. Non ho fatto i conti ma penso che siano una ventina i musicisti che in questi anni hanno suonato con noi. Solo per quanto riguarda i batteristi siamo a quota sei. Però il batterista più importante è stato Guido che è stato con noi per dodici anni, ci ha fatto crescere e il suo nome è legato alla registrazione dei tre dischi in studio. È stato uno choc dover rinunciare a lui, anche se è stata una cosa graduale. Abbiamo avuto il tempo di trovare un sostituto che per fortuna si è rivelato ottimo sia musicalmente che umanamente».

Come è avvenuta la scelta del successore di Guido?

«Non abbiamo certamente messo un annuncio su "Melody Maker". Siamo invece ricorsi al passaparola. Abbiamo parlato con persone che più o meno potevano capire le nostre esigenze e abbiamo preso contatto con tanti musicisti. La cosa bella è che ho fatto molti provini per scegliere il batterista più adatto e poi, alla fine, la scelta di Davide è stata suggerita dal mio sesto senso. Da subito mi è sembrato che fosse la persona giusta e quindi le prove si sono svolte più nella mia testa che in sala. Davide si è inserito velocemente e ha iniziato quasi subito a dare il suo contributo».

Cosa chiedete ancora alla musica?

«Di continuare a regalarci le emozioni che ci ha fatto vivere fino adesso. Suona retorico, però alla fine la musica è emozione: emozione di andare su un palco, emozione di scrivere un pezzo, di farlo sentire la prima volta a qualcuno a cui tieni, e poi il divertimento che è fondamentale altrimenti, come tutte le cose, diventa una cosa fredda… potrebbe diventare un lavoro».

Cosa pensate di fare nei prossimi cinque anni?

«Ormai io faccio programmi di venti in venti. Sto preparando il quarantennale. A parte gli scherzi pensiamo di fare quello che abbiamo sempre fatto, cioè suonare il più possibile in giro, che è la cosa più importante, e continuare a scrivere pezzi».

Quali sono invece i vostri progetti discografici?

«Stiamo registrando, cioè siamo ancora nella fase di pre produzione. Abbiamo quattro-cinque canzoni nuove e una serie di abbozzi, tutto però è embrionale. È bello che continuino a uscire canzoni nuove e non ci poniamo limiti».

Un disco nuovo è quello che fa andare avanti la giostra, non credi?

«Sì, ma il disco è una conseguenza. Noi scriviamo le canzoni, le presentiamo al pubblico e poi magari registriamo il disco. Altri musicisti invece compongono per il disco non per il pubblico dei concerti. È un approccio anche quello ma non è il nostro. Noi siamo più spontanei».

Come nascono le vostre canzoni?

«Nelle maniere più disparate. Fortunatamente siamo in tre a comporre: Giorgio, Alberto ed io. A volte capita che uno di noi porti un pezzo più o meno finito, altre volte viene fuori durante una jam. Può capitare che mi diano da scrivere un testo o magari di trovare un ritornello. È un bel lavoro di gruppo, c'è una bella amalgama. Non c'è una regola ma di solito nasce prima la musica, poi i testi».

I testi sono sempre in lingua inglese?

«Sì, sempre in inglese. Nel disco "Dangereyes" mi sono però cimentato per la prima volta con il tedesco scrivendo il ritornello del pezzo "Berlin 1987". La cosa bella è che il testo è piaciuto molto anche in Germania e una ragazza mi ha tradotto tutta la canzone in tedesco. Ha fatto una traduzione bellissima e così ho inciso la canzone anche in tedesco. Per adesso è rintracciabile solo sul nostro sito internet, in futuro potrebbe diventare una bonus track nel disco nuovo».

Cantare in tedesco è molto più difficile?

«Abbastanza, mi ha fatto un po' sudare ma le critiche sono state positive e la pronuncia è stata discreta. L'inglese resta però la nostra lingua base ma non escludiamo che possa esserci un altro episodio in tedesco».

Barbon è stato il vostro mentore. Lo è ancora?

«All'inizio era una specie di semidio da venerare. Mi ricordo ancora che la prima volta che ho sentito una chitarra elettrica suonare come la si ascolta su un disco è stato quando l'ha suonata Barbon. Noi eravamo tutti alle prime armi per cui il rapporto è nato con un po' di timore reverenziale, ammorbidito dal fatto che lui è sempre stata una persona scherzosa, tranquilla, senza pretese, alla buona. Con un atteggiamento al di sotto di quello che sono le sue capacità e potenzialità, molto understatement. E poi, ovviamente, con anni di confidenza, cameratismo e amicizia il timore reverenziale è venuto meno. Rimane sempre il rispetto per questa figura che è un po' la coscienza del gruppo ma nello stesso tempo rappresenta anche la parte più istintiva, quella che ci vuole nel rock. Io sono cervellotico, sono meno impulsivo, sono la parte tedesca e lui la parte più mediterranea della band. Ci compensiamo a dovere».

In una band di così lungo corso possono nascere incomprensioni. Come riuscite a mantenere il giusto equilibrio?

«Ci vuole prima di tutto tanto rispetto, poi tanta voglia di far funzionare le cose, interessi comuni e un po' di pazienza. A volte bisogna chiudere un occhio su certe cose e poi bisogna capire e accettare i lati meno piacevoli dei caratteri di ognuno. Fondamentalmente a mantenere l'equilibrio è poi la voglia di suonare».

Quali sono i vostri gusti musicali?

«Siamo più o meno tutti rockettari. Barbon è più rollingstoniano ma nello stesso tempo è anche quello che ha gli interessi più vasti. Sente molta più musica moderna di quella che sento io. Io mi fossilizzo di più, lui spazia dal jazz al punk, dalla fusion al reggae, è un grande appassionato di country. È quello che ha i gusti più variegati. Alberto predilige Pearl Jam, R.E.M., le sonorità degli anni '90. Alla fine ci sovrapponiamo molto, siamo molto compatibili come gusti, altrimenti non ce l'avremmo fatta».

Chi decide le scalette dei concerti?

«Io. Mi sono imposto perché penso che il cantante abbia più esigenze. Tengo conto di tante cose: dalla reazione del pubblico al fatto di dover cambiare la chitarra, all'idea che un pezzo debba essere suonato all'inizio o alla fine dello show. Poi ovviamente le scalette non sono mai così rigide, c'è sempre l'elemento a sorpresa, abitualmente inserito da Barbon».

Qual è l'ultimo disco acquistato e l'ultimo concerto a cui hai assistito?

«Non scarico da internet ma devo ammettere che non acquisto molti dischi. L'ultimo è stato la riedizione di "Some girls" dei Rolling Stones. L'ultimo concerto è stato invece quello di John Cale a Torino. Vado però a vedere soprattutto show di gruppi minori. Mi ricordo con piacere l'esibizione dei Moorings al Beer Room a Pontinvrea».

Ed eccoci arrivati al gioco delle dieci domande secche...

- "Gimme shelter" o "Sweet Virginia"? "Gimme shelter" perché è una delle canzoni più belle che sia stata scritta, in assoluto. Un punto inarrivabile.
- Geco o lucertola? Il geco è più simpatico.
- Arancia o mandarino? Arancia perché si può fare lo skydriver.
- Steven Spielberg o Frank Capra? Capra perché la vita è meravigliosa!
- Torta sacher o crostata? Sacher, per le origini.
- Parigi o New York? Non sono mai stato in nessuna delle due però scelgo New York per la musica.
- Fumetti o fanzine? Fanzine perché era bello leggerle negli anni '80-'90.
- Camicia o maglione? Camicia, ne ho una collezione fantastica.
- Puffi o Playmobil? Giocavo con tutte e due però i Playmobil erano più costruttivi, davano più soddisfazioni.
- Cubismo o Impressionismo? Difficile rispondere, non sono un grande appassionato ma dico Impressionismo.