giovedì 30 novembre 2017

"Soul searching" è l'esordio di Lorenzo Piccone




Ci sono persone con cui mi piace molto parlare di musica. Una di queste è Lorenzo Piccone, ventottenne chitarrista e cantautore di Albissola Marina, in Liguria, che in questi giorni ha pubblicato il suo disco d'esordio intitolato "Soul searching". Lorenzo, oltre ad essere un ottimo musicista, è prima di tutto un grande appassionato, mosso dalla voglia di scoprire, di capire e apprendere, di guardare la musica da angolazioni differenti senza rinchiudersi tra inutili steccati di genere. Come peraltro è giusto che sia. In questi primi anni di carriera Piccone è stato coinvolto in diversi progetti musicali. Dal gruppo bluegrass The Blue Grasshoppers Band con cui ha suonato negli Stati Uniti e in Germania, alla collaborazione con il mandolinista Carlo Aonzo con cui ha registrato l'ottimo disco "A Mandolin Journey", dal duo con il chitarrista Claudio Bellato al trio con Francesco e Giorgio Bellia (New Trolls, Dolcenera). Esperienze che hanno contribuito alla crescita di questo artista che si è affacciato sul mercato discografico in questi giorni con "Soul searching", un disco cantautorale che "raccoglie" quello che Piccone ha incontrato e ascoltato nel suo percorso artistico. E così, nei dodici brani proposti si possono apprezzare contaminazioni di ritmi africani, suggestioni hawaiane, incursioni blues, armonie west coast, soul e anche un episodio reggae. Tra i brani più riusciti c'è sicuramente “Haze”, canzone dall’ampio respiro in cui le percussioni rivestono un ruolo importante. “I am alive” è una ballad piacevolissima che richiama sonorità anni Settanta ma è "The wind" la gemma di questo disco. Una canzone che nella sua semplicità cattura l'attenzione dell'ascoltatore e che per Piccone può essere un ottimo punto di partenza per un prossimo progetto. Belle anche le atmosfere di "Soul searching", il soul di "Turning back", la springsteeniana "Close to the blue". 
Con Lorenzo il tempo di un caffè per parlare del disco si è presto dilatato in uno scambio di opinioni serrato che ha piacevolmente occupato un paio di ore. E da questa conversazione è nata l'intervista di presentazione di "Soul searching", un disco pieno di suggestioni e rimandi che si potrà apprezzare dal vivo il 15 dicembre alla Raindogs House a Savona.


Lorenzo, "Soul searching" è il tuo primo disco. Che cosa rappresenta per te?

«È un condensato di tutta la mia attività musicale, da sei-sette anni a questa parte. Ci sono parti elettriche e acustiche, suoni che ho trovato lungo il percorso. E poi il mandolino resofonico, gli strumenti etnici che sono arrivati ascoltando tanta musica e suonando con percussionisti africani».

Per la parte elettrica di questo tuo primo disco ti sei avvalso della collaborazione della tua band. Chi sono i componenti?

«C'è il batterista Andrea Marchesini che è veramente bravo. Ha collaborato con Mike Stern, ha fatto una jam a New York anche con Jaco Pastorius. È un batterista eccezionale, sa essere tecnico ma quando è al servizio di una canzone riesce a immedesimarsi nella sua atmosfera. Hammond e tastiere sono di Marco Ferrando. Lui non fa il musicista di professione ma ha grande talento ed è un grande appassionato di jazz, funky e blues. Poi c’è il bassista Federico Fugassa che è uno dei più bravi in circolazione».

Per il tuo primo disco hai voluto la presenza di un ospite internazionale. Raccontaci come hai conosciuto Ike Stubblefield

«È un pianista e hammondista che ho conosciuto tre anni e mezzo fa ad Atlanta in un club. Suonava con il suo trio in un locale di solo neri. Eravamo io e Carlo Aonzo e siamo rimasti pietrificati dal groove e dal sound che riuscivano a tirare fuori. Ho provato a mettermi in contatto con Ike per ben un anno, ho scritto sul suo sito ma niente, nessuna risposta. L'anno dopo siamo tornati io e Carlo a fare dei concerti nel sud degli Stati Uniti, abbiamo conosciuto un bassista di una orchestra e parlando con lui è venuto fuori il discorso che io stavo disperatamente cercando di entrare in contatto con Ike e lui mi ha detto che ci aveva suonato poco tempo prima e che poteva darmi il suo numero di telefono. Allora l'ho chiamato, sono andato a casa sua, abbiamo passato un po' di tempo insieme, ho preso anche delle lezioni da lui e mi ha raccontato un po' della sua vita. Ha 65 anni ed è nel business della musica da quando è stata fondata la Motown, ha suonato con tutti da Marvin Gaye, a Tina Turner quando era ancora in coppia con Ike, con Clapton, George Benson, B.B. King, Al Green, è ospite fisso dei Gov't Mule quando suonano ad Atlanta. Ike ha suonato in "Turning back" ed è un pezzo che avevo scritto nel periodo in cui stavo decidendo se lasciare il lavoro o meno. È un pezzo funky, nero, con quelle sonorità da trio e lui suona il piano elettrico e l'Hammond».

Apriamo una parentesi. Hai detto che hai lasciato il lavoro per fare il musicista a tempo pieno?

«Lavoravo alla Infineum a Vado Ligure. Avevo un contratto a tempo indeterminato e tre anni fa ho fatto questa pazzia. La reazione di mio papà è stata dura, mia mamma invece era d'accordo. È stata una scelta difficile e lo è tuttora. Ho iniziato a suonare quando avevo dodici anni e da cinque lo faccio con un intento professionale».

Una scelta coraggiosa, non c'è che dire. Torniamo agli altri ospiti presenti nel disco…

«Stefano Guazzo è un sassofonista jazz di Chiavari ed ha suonato anche con Dado Moroni e Tullio De Piscopo. Abbiamo messo il suo sax su "Peace of mind" che è un pezzo che ho scritto con un tempo shuffle però non con gli accordi blues ma con armonie più west coast, più aperte. Altro pezzo su cui suona Stefano è "Family" che è l’unico brano strumentale del disco. È un tributo al sound che per un paio di anni mi ha avvicinato al jazz e a Jimmy Smith. È un brano dedicato alla mia famiglia, nato con la chitarra acustica ma registrato con basso fretless, Hammond e batteria. Altro ospite è Stefano Ronchi che adesso risiede a Berlino e suona in tutta Europa. Con Stefano abbiamo suonato un paio di volte qui nei dintorni e ci siamo subito trovati. Ha fatto un assolo con chitarra slide nel brano "In the middle of nowhere" che ho scritto a Rino nel Nevada, nel bel mezzo del nulla, è un posto dove poter stare con se stessi e con la natura. Senza dimenticare il fondamentale apporto del percussionista Maurizio Pettigiani».

Tra gli ospiti c'è anche Carlo Aonzo, mandolinista di fama mondiale e anche lui di Albissola…

«È stato lui a portami per la prima volta negli Stati Uniti nel 2014. Ricordo ancora il momento in cui mi disse se volevo accompagnarlo, rimasi stupito e accettai subito. Carlo l'ho conosciuto durante un concerto di beneficienza al Priamar di Savona. Io suonavo in una formazione jazz insieme ad un pianista che purtroppo è mancato e che si chiamava Terrence Agneessens dei Portland Partners. Finito il nostro soundcheck è salito sul palco Carlo che avrebbe dovuto suonare un brano da solo. Io avevo ancora la chitarra con il jack attaccato all'ampli e gli sono andato dietro in un pezzo e da lì siamo rimasti in contatto, ci siamo conosciuti e abbiamo scoperto di essere entrambi di Albissola».

Cosa significa il titolo "Soul searching"?

«Il titolo si riferisce ad una pratica sciamanica che si fa nel sud degli Stati Uniti. Il "soul searching" è la ricerca dell'anima, chi si è veramente senza dover necessariamente copiare qualcuno o essere vendibile e commerciale a livello musicale. Io penso che ci voglia anche qualcuno che provi a dare una alternativa anche rischiando. Non sono il primo e non sarò l'ultimo. In questo disco ci sono varie sfaccettature: c'è un brano radiofonico che è "Soul searching" in cui non ci sono strumenti etnici ma anche le coriste Marta Giardina e Margherita Zanin che sono due voci molto lontane tra di loro ma che, secondo me, funzionano bene insieme. Poi ci sono delle ballad. È un disco alla ricerca di chi è il sottoscritto».

I colori della copertina richiamano l'abbigliamento che indossi durante i concerti…

«Quando ho pensato alla copertina del disco ho immediatamente deciso di mettere i colori dei vestiti che uso quando suono. Sono vestiti africani e questo patchwork di disegni sono il modo più immediato per esprimere la mia visione del fare musica. Queste tele sembrano buttate lì a caso però se uno le analizza vede che sono tutte organizzate secondo uno schema ben preciso che è però distante da, per esempio, un pied de poule che ha una fantasia occidentale. Queste stoffe sono un qualcosa di organizzato ma con colori, sfumature e linee particolari, non immediatamente decifrabili. Ci sono luci, ombre, bordi bianchi e bordi neri, proprio come la mia musica. La copertina l'ho realizzata con Alex Chiabra».

Non pensi che possa essere fuorviante utilizzare vestiti africani quando suoni?

«Rimedio con il cappello. A parte gli scherzi, questo è un disco cantautorale e non etnico. Ci sono venature di Van Morrison, Jackson Browne, Ry Cooder, Springsteen, musica hawaiana, africana, c'è tutto quello che ho ascoltato finora che mi è piaciuto e che ho assorbito. Adesso si tratta di lasciar depositare e vedere che cosa nasce. È un buon punto di partenza perché da qui si svilupperanno i dischi futuri. Vorrei fare un album solo acustico con le percussioni come ad esempio è il brano "The wind" in cui suoniamo percussione, lo jambee africano e la chitarra hawaiana slide, ma c'è anche il lato più rock, blues, soul, funky suonato con il trio elettrico».

Si parlava di questo disco come di un punto di partenza. Qual è quindi la strada che vuoi percorrere?

«Ho un paio di idee che corrono parallele. Da una parte voglio continuare a scrivere canzoni con un background tradizionale, anni '70, folk con strutture ben note, dall'altra c'è la voglia di cercare qualcosa di nuovo sperimentando anche con gli strumenti etnici. Voglio legare la musica elettronica con l'uso degli strumenti etnici e delle percussioni. La sfida sarà quella di creare qualcosa che non ho ancora sentito. In questi mesi ci sto lavorando, vedremo».

C'è una linea di continuità a livello di testi e pensiero?

«Le canzoni parlano del mio desiderio di riuscire a vivere facendo il musicista e della voglia di andare via in giro per il mondo ad assaporare altre culture e fare nuovi incontri. Sono canzoni che parlano anche del mio modo di essere. Prendiamo "Haze", è una specie di rito vudù per scacciare i cattivi pensieri, quella foschia che prende un po' tutti nei momenti di sconforto. Poi ci sono canzoni di rivincita come "Turning back", "Family" che è dedicata alla mia famiglia».

Mi pare di capire che sia un disco molto personale?

«Sì, lo è. Non ci sono temi sociali o l'amore universale, a parte "Peace of mind" che è un inno della pace dello spirito».

Con il trio di Carlo Aonzo o da solo sei stato negli States e hai girato un po' la Germania. Che reazione ha avuto il pubblico?

«Negli Stati Uniti con Carlo è sempre stato un successo. Anche in questo ultimo tour abbiamo avuto standig ovation, abbiamo finito i cd e le magliette. Ci hanno già ingaggiato per il prossimo anno perché Aonzo è uno di quelli che può suonare qualsiasi cosa ma con il tocco e il gusto italiano che agli americano piace. In Germania ho trovato un pubblico attento e aperto a nuove sonorità. Ho portato parecchi strumenti etnici, dalla chitarra hawaiana al bouzouki, fino al mandolino resofonico. Ho suonato i mie pezzi più alcune cover riarrangiate di vario genere, anche di musica caraibica prendendo spunto dalla produzione di Bob Brozman che è stato un grande della musica e che è una mia fonte d'ispirazione. Il mio sogno sarebbe andare in India, Cina e Giappone».

Tu sei un chitarrista ma c'è qualche altro strumento che ti piacerebbe suonare?

«Mi piace da morire la batteria e mi diverto come un bambino ma è veramente difficile. Recentemente ho preso un basso tanto per essere cosciente di quello che succede nella musica partendo dalle fondamenta. Ed è molto interessante, sono tornato ad ascoltare i dischi di Neil Young, i primi dischi di Clapton in cui i bassisti suonavano poche note ma di gusto. Ho iniziato a riascoltare i dischi di Springsteen, di Jackson Browne da un punto di vista diverso, con il basso in mano…».

Mi sono sempre chiesto come ascolta la musica un musicista…

«Sto leggendo dei libri su questo argomento. Il primo si intitola "Musicofilia" scritto dallo psicologo e psichiatra Oliver Sacks. Spiega come il cervello recepisce la musica, le onde sonore, gli impulsi elettrici… Il secondo è "Come funziona la musica" di David Byrne. Questi due testi cercano di analizzare i vari aspetti dell'ascolto. Io personalmente quando ascolto qualcosa che mi piace non riesco a capire subito perché mi piace, è un cosa inconscia. Mi cattura l'insieme, certo sento se viene utilizzata una progressione di accordi o una melodia standard, se è più un esploratore alla David Crosby piuttosto che l'ultimo Springsteen. Cerco di ascoltare quello che mi piace più volte, da punti di vista diversi».

Adesso che stai approfondendo la conoscenza del basso la tua visione musicale sarà sicuramente più ampia…

«Sì, sto molto più attento a quello che fa il basso. Spesso e volentieri scrivo un pezzo con la chitarra poi il basso lo aggiungo dopo ma ci sono canzoni che sono nate da un giro di basso oppure da un groove di batteria come "Fifty ways to leave your lover" di Paul Simon, brano nato appunto da un groove di Steve Gadd. Però quando c'è qualcosa che mi piace mi lascio trasportare, se non lo facessi perderei la magia che la musica sprigiona».

Un primo riscontro importante lo hai avuto con la canzone "The wind"…

«È stata pubblicata dalla CandyRat record che è un casa discografica americana orientata principalmente verso i chitarristi super tecnici. Il brano è abbastanza semplice ma è suonato con la Weissenborn hawaiana e questo rimarca la mia convinzione che anche suonando delle cose semplici ma con timbriche e sonorità inusuali si possono aprire delle porte interessanti. A consigliarmi di proporre questo materiale è stato il mio amico musicista Claudio Bellato. Insieme, a settembre, abbiamo partecipato alla rassegna "Un paese a sei corde" e abbiamo in programma di fare delle cose insieme».

So che un po' di tempo fa avevi anche un gruppo di bluegrass, The Blue Grasshoppers Band…

«Avevo un trio con cui sono andato a fare dei concerti anche a New York. Abbiamo portato il bluegrass ad Harlem in mezzo ai neri ed è stato rischioso (ride, ndr). Con il contrabbassista Alberto Malnati e Daniele Carbone al mandolino suonavamo standard bluegrass. È lì che mi sono appassionato a questo genere che spesso e volentieri è sottovalutato perché è suonato con poche armonie e pochi accordi. Anche i pezzi più semplici sono difficili da far rendere, i grandi maestri come Doc Watson e Norman Blake insegnano».

Tornerai su questo progetto?

«Il bluegrass è stata una bella parentesi e penso che non mi sia rimasto molto nel mio modo di fare musica anche perché è sempre un genere molto tradizionale che ti riporta immediatamente in quei luoghi. Mi piacerebbe riarrangiare dei classici del bluegrass o addirittura fare un disco di bluegrass ma avendo prima sviluppato un mio tocco. Beppe Gambetta lo ha ed è per questo che è accettato da tutta la comunità bluegrass. Il mio lavoro sarà anche quello di diventare riconoscibile».

Un ligure che suona il bluegrass, geograficamente qualcosa non mi torna…

«La musica ha dei confini ma non sono invalicabili. Anche gli americani suonano la musica gypsy e lo fanno con rispetto e conoscenza del genere. Anche il grandissimo chitarrista Tony Rice, l'icona del bluegrass sulla chitarra acustica, quando è stato chiamato a suonare con il mandolinista David Grisman ha dovuto modificare il suo modo di suonare, da strandard bluegrass verso una apertura più jazz, blues. La musica è bella perché offre tantissima scelta anche nell'ascolto. Se voglio un disco suonato nella maniera più tradizionale allora ne scelgo uno di Norman Blake, se voglio ascoltare qualcosa di più arrangiato magari opto per David Grier. C'è anche da dire però che tutti questi musicisti che sperimentano sono prima di tutto grandi conoscitori della tradizione e quindi anche come Carlo Aonzo, per tornare a noi, quando suona Calace, Verdi, Puccini o Vivaldi li suona da top, con una conoscenza fantastica, capillare di tutto. Ho ventotto anni, ho ancora tanta strada da percorrere ma questo l'ho imparato».


Titolo: Soul searching
Artista: Lorenzo Piccone
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2017

Tracce
(testi e musiche di Lorenzo Piccone eccetto dove diversamente indicato)

01. Haze
02. I am alive
03. Island girl
04. Soul searching
05. Turning back
06. Family
07. Another avenue
08. In the middle of nowhere
09. Close to the blue  [Corrado Schiavon; Lorenzo Piccone]
10. The wind
11. Peace of mind
12. Haze (with intro)


venerdì 17 novembre 2017

"Totem", il manifesto di Emanuele Dabbono





Emanuele Dabbono ed io ci sentiamo con una certa regolarità. Un messaggio, una chiamata per condividere un nuovo successo, un traguardo atteso e finalmente raggiunto, la notizia e l'invito ad un suo concerto. Ed in questi ultimi anni, sotto il profilo musicale, sono stati tanti i momenti vissuti da protagonista da Dabbono: le canzoni scritte per Tiziano Ferro e portate al successo dal cantante di Latina ("Incanto" e "Il conforto" sono stati premiato con il doppio disco di platino, "Lento/veloce" ha raggiunto il platino e poi "Valore assoluto" e "Non aver paura mai"), i vent'anni di carriera, i testi di alcune canzoni utilizzate per una edizione speciale di Topolino con Tiziano Ferro protagonista della storia. Ora, nel momento più importante della sua carriera, Dabbono ha pubblicato "Totem", il suo terzo album e il primo senza i Terrarossa (senza considerare i due lavori del progetto Clark Kent Phone Booth). Un disco per certi versi inatteso, registrato in pochi giorni dal tecnico del suono Raffaele Abbate in una chiesa sconsacrata ad Arenzano. Ad accompagnarlo sono stati chiamati musicisti di provata esperienza come Fabrizio Barale, Marco Cravero e poi Paolo Bonfanti, Gianka Gilardo, Fabio Biale ed Andrea Di Marco. Con "Totem" Dabbono ripercorre i suoi vent'anni di carriera, dagli esordi nel 1997 con la canzone "Piano" fino agli ultimi anni. Un disco sincero, genuino, che rifugge i circuiti di promozione e i passaggi nelle radio commerciali. Una volontà confermata anche dal fatto che non è stato estratto un singolo di lancio. 
È lo stesso Dabbono, nell'intervista che segue, a spiegare i motivi di questa scelta.



Emanuele, eccoci a parlare del tuo nuovo disco. Lo hai intitolato "Totem", termine che identifica una entità naturale o soprannaturale che ha un significato simbolico. Qual è il tuo totem e perché hai intitolato così questo tuo nuovo lavoro?

«Il Totem per gli indiani era qualcosa di sacro al quale sentirsi legati per tutta la vita. In questo disco non c'è niente di fittizio, non ci sono comparsate del rapper di turno né suoni modaioli o overproduction esasperate che radio e case discografiche spesso promuovono a scapito dei contenuti. Qui l'unico featuring che mi sono concesso è con la verità, con il ragazzino sognante che sono stato, coi ricordi di un tempo antico e bellissimo. In questo senso Totem è il mio manifesto».

Questo è anche il tuo primo album solista dopo i due precedenti firmati insieme ai Terrarossa. Perché questa scelta?

«Mentre lo compilavo pensavo: sarà il mio "Nebraska". Ma questo album non è stato preferire i provini agli arrangiamenti elettrici con la E Street Band come fece il Boss nell'82 (tra l'altro anche Giuseppe Galgani dei Terrarossa è presente nell'album alla chitarra, come a proseguire il cammino con me). Questo disco l'ho pensato, addirittura sognato, per vent'anni. Ma nessun progetto da ragioniere. Una mattina mi sono detto: è il momento. Chi se ne frega del mercato. Avevo bisogno del mio tempo per maturare e prendere il coraggio di andare controcorrente, non per il gusto di farlo o per strategia. Perché guardandomi allo specchio era l'unica direzione dove il mio navigatore emotivo sapesse dirigersi. E l'ho fatto».

Dopo i successi come co-autore di brani portati in vetta alle classifiche da Tiziano Ferro ci si sarebbe potuti aspettare una naturale prosecuzione su questa strada. Invece ti sei chiuso in una chiesa sconsacrata di Arenzano per registrare in presa diretta queste undici tracce…

«Avevo una cassetta dei Cowboy Junkies registrata in chiesa. Ero solo un bambino. Mi sembrava ci fosse più sacralità lì dentro che nelle prediche del prete la domenica. Ma poi ho capito perché: certe canzoni ti chiedono spazio. E io sono nato suonando la chitarra acustica. Non vedevo l'ora di far respirare e non soffocare la mia voce in mezzo all'elettronica. Quando faccio l'autore mi diverto, sperimento con synth, tastiere, moog e quant'altro perché l'apertura mentale non è una frattura del cranio. Cerco la profondità testuale e non mi accontento, ma in ogni caso c'è molta curiosità dell'ignoto, nel cimentarsi a briglie sciolte nei generi musicali. Quando fai il tuo disco invece è molto più semplice e netta la domanda da farti allo specchio: tu che musica sei?»

Sembra una decisione di rottura, quasi a dire: attenti, io non sono solo quello di "Incanto" o "Lento/Veloce"…

«Il brano al quale sono più legato è "Il conforto". Vedi, io considero uno che fa il mio mestiere non come un seriale che ti propone sempre la stessa minestra. Ci evolviamo quotidianamente. Adesso leggo Wyslawa Szymborska, adoro Hitchcock e Magritte e ascolto Roberto Vecchioni. Anni fa non lo avrei detto e nel frattempo mi perdevo queste meraviglie. E se vai proprio a vedere, "Incanto" aveva un'atmosfera irish».

Tre giorni di registrazioni che ricordano gli anni d'oro della musica quando in presa diretta si registravano canzoni e album memorabili. La chiesa di Arenzano è la tua cantina della Big Pink?

«Quando insegnavo ancora canto (anche agli amici e bravissimi Samuele Puppo e Lorenzo Piccone) uno dei must era "The night they drove old dixie down". Sono cresciuto con quella musica. Con Crosby, Stills, Nash & Young, Joni, Jackson Browne. Era naturale, prima o poi, "riportare tutto a casa" e l'esperienza della chiesa di Arenzano ha reso tutto più gospel senza nemmeno essere un disco soul, ma ci sono quintali d'anima dentro. Spero si avverta».

A collaborare hai chiamato due maestri della chitarra: Fabrizio Barale che lo ricordiamo a fianco di Ivano Fossati e Marco Cravero che ha legato il suo nome a quello di Francesco De Gregori. Cosa hanno dato a te personalmente e al disco queste collaborazioni?

«Tutti gli ospiti presenti da Paolo Bonfanti a Fabio Biale, da Andrea Di Marco alla tromba a Gianka Gilardi alla batteria mi hanno regalato la loro umanità, prima che il loro innegabile talento. Volevo belle persone, non macchine da metronomo. E in questo senso mi sento di dover ringraziare più di tutti Raffaele Abbate, "il mio Jonathan Wilson", l'ingegnere del suono che ha ripreso tutto ed è stato in grado, registrando con il suo studio mobile, di permettere a tutti e non solo a noi, di vivere la magia di un album come si faceva nel 1973. In soli tre giorni, senza scomporsi mai, sempre col sorriso. Un privilegio averlo a fianco».

Quanto c'è di aggiunto in post produzione alle canzoni che hai registrato?

«Nulla. Quello che senti l'abbiamo fatto in chiesa. Pure il mastering è addirittura in analogico».

Arenzano, una chiesetta, lontano dalle luci della ribalta ma un suono che esce prepotente dai confini nazionalpopolari. Abbraccia l'Irlanda ma anche certa scena world sdoganata a suo tempo da capolavori come "Graceland" di Paul Simon o il New Jersey in bianco e nero…

«Guarda, hai citato alcuni dei miei numi tutelari non solo musicali ma anche di attitudine e di protezione delle proprie idee senza scendere a compromessi. Alcuni discografici di major italiane erano rimasti - per usare la loro parola - “abbagliati” dalla bellezza del provino di “E tu non ti ricordi”. Ho spiegato loro che non era il provino, che gli archi non li avrei toccati e che facevo sul serio».

Trovo che sia un disco molto personale. Nelle canzoni c'è il Dabbono delle scoperte giovanili, del superamento dei momenti brutti della vita e di quello che le esperienze inevitabilmente lasciano sulla pelle. Dimmi se sbaglio…

«Assolutamente sì. Luigi Cerati (autore di tutte le foto dell'album) mi ha convinto a metterci la faccia in copertina, perché "era tempo". Così io, mia moglie Francesca, il mio caro amico Marco Berbaldi e Luigi siamo saliti su un aereo per la Duna du Pilat, vicino Bordeaux. Non lo dimenticherò mai. Soltanto tre giorni. Un viaggio che durerà, scolpito nella mia memoria».

In quest'epoca di compromessi mi sembra di capire che tu non ne abbia voluti fare. Hai puntato sulla genuinità e sulla coerenza artistica e umana ma dove è il singolo da lancio da far girare a palla nelle radio? Non pensi che possa essere controproducente non averlo?

«Quando ho fatto la riunione di lancio del progetto a Milano mi hanno chiesto quale fosse il singolo che avevo in mente. Risposi la traccia numero 12. Loro guardarono e si accorsero che il cd ne conteneva 11. Appunto, dissi, non facciamo singoli. Volevo fosse chiaro che questo non è un album per scalare le classifiche, ma spero venga lentamente annoverato tra quelli "di culto", quelle perle rare che sono nascoste e che quando le trovi ti sembra siano solo tue, da custodire. Penso a certe cose di Sigur Ros, Bon Iver, il primo Ryan Adams».

Il disco si apre con "Piano", canzone che risale al 1997 e che ti fece vincere il primo contratto discografico. La pubblicazione in questo album è un omaggio ai tuoi vent'anni di carriera o un bel ricordo di ciò che ha dato il via a tutto?

«"Piano" è uno dei due brani miei più longevi e che la gente ama di più. Pensa che non ha nemmeno il ritornello. Mi sembrava doveroso dargli una casa e con "Totem" ha una camera con vista sull'Atlantico».

Ivano Fossati in una intervista ha detto: ‹Oggi nelle canzoni si parla solo di un amore da ragazzini. Niente corpi, rughe e sensualità. Eppure invecchiare è una conquista›. In "A mani nude" canti invece proprio l'amore di due persone anziane, hai seguito il consiglio del maestro…

«Fossati è un gigante. L'amore sa essere dolcissimo e crudele sia tra anziani che tra adolescenti. Cambia solo il linguaggio con cui ti accorgi di provare al mondo e a qualcuno che sei vivo».

Il disco di chiude con "Luce guida". Qual è la tua e dove ti sta portando?

«La mia luce guida è la consapevolezza di avere dei punti di forza stretti a doppio nodo: la tenerezza, le mie bambine, la certezza di un altro concerto di Springsteen, un nuovo amico con cui parlare persino del tempo, perché non piove più come si deve, vengono giù solo secchiate. E dove mi sta portando tutto questo? A casa».


Titolo: Totem
Artista: Emanuele Dabbono
Etichetta: Digital Media
Anno di pubblicazione: 2017

Tracce
(testi e musiche di Emanuele Dabbono)

01. Piano - (03:37)
02. Treno per il sud - (04:26)
03. E tu non ti ricordi - (04:27)
04. Parole al vento - (04:43)
05. Il senso di un abbraccio - (04:14)
06. Irene - (04:12)
07. Siberia - (03:04)
08. A mani nude - (03:53)
09. Canzone per i tuoi occhi - (02:03)
10. Le onde - (03:20)
11. Luce guida - (05:57)



martedì 7 novembre 2017

I Rebis cantano il Mediterraneo senza frontiere





L'estate mi ha regalato tantissime occasioni di assistere a concerti dal vivo di band e cantautori emergenti come di artisti affermati della scena italiana e internazionale. Ma tutto questo è solo un bel ricordo, torno volentieri quindi al lavoro che avevo imbastito prima della pausa estiva e con piacere presento il nuovo disco dei Rebis, duo musicale che nel frattempo, proprio in questi mesi, lo è diventato anche nella vita. Alessandra Ravizza e Andrea Megliola hanno pubblicato il loro secondo disco, intitolato "Qui". Si tratta di undici canzoni cantante in italiano, arabo e francese che hanno come protagonista le donne e le loro storie. Storie e racconti, a volte anche sofferti e crudi, che fanno la spola da una parte all'altra del Mediterraneo, in un continuo andirivieri senza barriere e steccati. Un tentativo di unire il mondo e in particolare le culture del nostro mare che era già presente nel precedente "Naufragati nel deserto" e che diventa ancora più pressante in questo ultimo lavoro. Per dare corpo alle canzoni i Rebis si sono avvalsi della collaborazione di un manipolo di musicisti di grande affidabilità come Edmondo Romano che con classe ha "soffiato" in tutti gli strumenti possibili, dal clarinetto al mizmar, dal sassofono al santur e allo shanay, il violoncellista Salah Namek, Matteo Rebora alle percussioni, Emanuele Milletti e Kai Kundrat al basso, Roberto Piga al violino, Julyo Fortunato alla fisarmonica, Marco Spiccio al piano. Senza dimenticare l'inserto rap in inglese di Natty Scotty nel brano "Ma maison".
"Qui" è disco che non va giudicato o capito al primo ascolto. Le canzoni, le atmosfere, i colori e le sfumature hanno necessità di depositarsi per essere apprezzate appieno. Ma una volta entrati in questo ambiente musicale non si può che rimanerne affascinati. E magari stimolati ad aprire le porte verso ciò che culturalmente ci è distante.
Con Alessandra abbiamo approfondito il discorso facendo un piccolo viaggio tra le pieghe di "Qui".


In una epoca in cui si parla di muri e frontiere voi abbattete qualsiasi ostacolo musicale o linguistico. "Qui", il vostro secondo album, è completamente calato nella cultura mediterranea…

«Crediamo che la musica e l'arte in generale possano riportare un po' di empatia e di umanità nei cuori delle persone. Persone divise da muri, odio e paure. Abbiamo viaggiato tanto tra le sponde del Mediterraneo e continueremo a farlo perché la nostra identità è profondamente radicata in una storia e in un futuro comuni. È una visione molto miope quella dei muri: bisogna costruire insieme il nostro futuro, è la migliore risposta alla violenza dilagante che caratterizza il nostro tempo radicalizzato. Il terrorismo nei confronti dei civili e la violenza degli stati verso i più poveri e/o i "diversi" non sono una risposta per un futuro migliore ma sono i semi per un presente ancora più ingiusto e violento».

Italiano, francese, arabo… Lingue che si intrecciano e che raccontano cosa?

«Raccontano storie di persone che cercano il loro "posto" nel mondo. Un posto non soltanto fisico ma anche interiore, un posto nel quale poter seguire i nostri sogni e vivere i nostri affetti, un posto nel quale sentirsi sicuri e potenti. Si tratta di un disco al femminile, le protagoniste delle nostre canzoni sono soprattutto donne. Una cara amica antropologa mi ha fatto notare che "Qui" è un continuo dialogo e che le nostre protagoniste cercano loro stesse nel confronto con l'altro. "Qui" è un disco molto politico che parla di scelte autentiche, di persone che hanno scelto un amore libero e paritario, di sorelle separate dal mare, di persone in esilio, di donne più forti della morte, di bambine che parlano con gli animali e che, una volta donne, si rifiutano di sfruttarli ed opprimerli».

Dove è questo "Qui"? Lo possiamo trovare nella vostra Genova o in un villaggio sperduto nel Maghreb?

«Ognuno ha il suo "qui". Può essere un luogo fisico ma noi lo viviamo più come uno spazio interiore nel quale poter fiorire e dare frutti. Se dovessi dare delle coordinate spaziali al nostro "qui" musicale ti direi che si tratta di una città immaginaria sospesa tra il Sud dell'Europa ed il Nord dell'Africa. Affacciata sul mare ma non troppo distante da montagne e deserti».

Cosa vi affascina delle culture mediterranee e in particolare di quella araba?

«È molto difficile per noi immaginare una "cultura araba" o "mediterranea" in quanto i singoli paesi e le singole regioni sono tutte molto diverse tra loro. Detto ciò c'è qualcosa che ci fa sentire a casa, forse sono i secoli di storia che intrecciano lingue, popoli, canzoni, poesie, cibi, onde, guerre e amori».

A rendere ancora più cosmopolita la vostra musica avete inserito anche un po' di rap in lingua inglese del cantante nigeriano Natty Scotty. Qual è l'idea di questa collaborazione?

«Abbiamo conosciuto Scotty grazie ad un'amica volontaria del centro richiedenti asilo in cui tutt'ora alloggia. Era arrivato da poco dalla Nigeria e cercava musicisti con i quali portare avanti la sua carriera di cantante e il suo operato di attivista per i diritti umani. Benché noi non fossimo grandi esperti di rap e di hip hop ci colpirono il calore della sua voce e l'impegno civile dei suoi testi. In quei giorni con Andrea stavamo lavorando alla composizione dell'ultima canzone del disco ("Ma maison"): una canzone che gira intorno al concetto di casa inteso come un luogo all'interno del quale poter tradurre in realtà i propri sogni e valori, in cui sentirsi protetti e dal quale aprirsi al mondo. Abbiamo capito subito che Scotty avrebbe avuto molto da dire e da cantare a riguardo e non ci sbagliavamo».

Si parlava di collaborazione e mi viene da citare il nome di musicisti eccelsi come Edmondo Romano, Matteo Rebora e il violoncellista siriano Salah Namek che nel disco hanno svolto un lavoro di primissimo piano…

«Abbiamo impiegato diversi anni per scegliere (e per incontrare) i musicisti che ci hanno affiancato nella realizzazione di questo nuovo disco e devo dire che la nostra ricerca ha portato a un risultato che ha superato di gran lunga le nostre aspettative. Ognuno di loro ha portato la sua storia, la sua sensibilità, la sua professionalità, dimostrando una grande partecipazione e generosità nei confronti della nostra musica. Edmondo Romano ha registrato dodici strumenti diversi (sassofono, clarinetti, flauti, mizmar, furulya, shanay, mohozeno, zurna, santur, chalumeau, low whistle) e ha portato nelle nostre canzoni un suono personale, raffinato e ricco. Matteo Rebora ha fatto un profondo lavoro di ricerca, ideando un set percussivo composto da cassa, piatti e da sedici strumenti tradizionali di origine araba, turca, persiana e indiana, capace di dare vita a un suono di confine tra le ritmiche e le sonorità tradizionali arabe e mediorientali e il pop colto occidentale. Salah Namek, con il suo violoncello, ha portato nella nostra musica la sua profonda conoscenza della musica classica araba orientale. Salah è infatti uno dei più grandi musicisti siriani ed è originario di Aleppo: città che viene considerata la capitale della musica araba orientale. Edmondo, Matteo, Scotty e Salah non sono i soli musicisti che hanno collaborato con noi a "Qui". Nel disco hanno suonato anche il bassista Emanuele Milletti che ha arricchito il nostro disco di sensibilità e armonia, il bassista tedesco Kai Kundrat (attualmente residente in Brasile), il grande Roberto Piga ai violini, il maestro Marco Spiccio al pianoforte e il giovane e talentuosissimo Julyo Fortunato alla fisarmonica».

Il mondo arabo, e in particolare la letteratura, hanno ancora un ruolo fondamentale nella vostra scrittura. In "Partoriscimi di nuovo" citate i versi di una poesia dello scrittore palestinese Mahmoud Darwish…

«Assolutamente sì, Mahmoud Darwish è per noi un maestro di vita e non solo di scrittura. Nelle sue poesie respira l'umanità intera. Ogni volta che leggo una sua poesia sento di fare un passo in più verso la mia umanità. Ho avuto l'onore di studiare con Lucy Ladikoff: docente di lingua araba presso l'università di Genova, originaria di Gaza, amica intima di Mahmoud Darwish del quale ha pubblicato diverse raccolte di poesie tradotte in lingua italiana (non posso non citare "Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine?"). Lucy mi ha adottata come una figlia e un giorno mi ha regalato la traduzione inedita di "Partoriscimi di nuovo", invitandomi a musicarla e a cantarla. È iniziato così un lungo lavoro di confronto tra me e Andrea che ha portato alla nascita di questa canzone alla quale siamo davvero molto legati e cha parla di esilio, di amore per la terra, per la madre: "partoriscimi di nuovo, partoriscimi per sapere in quale terra morirò ed in quale terra rinascerò…"».

Altro episodio è "Goodbye Amal" che è ispirato al romanzo "Ogni mattina a Jenin" della scrittrice Susan Abulhawa…

«Consiglio a tutti di leggere "Ogni mattina a Jenin" (Feltrinelli), è un libro che apre il cuore e che racconta cent'anni di storia palestinese vista dagli occhi delle donne. Qualche anno fa ci avevano contattato da Roma per partecipare ad un reading mondiale organizzato da un'associazione statunitense che si occupa di attivismo e letteratura. In teoria non avremmo dovuto suonare in quell'occasione, ma subito dopo aver letto il libro, mi è venuto spontaneo scrivere questa canzone che ha subito convinto anche Andrea ed è senza dubbio uno dei brani più amati da noi e dal nostro pubblico. Spesso riceviamo mail di ringraziamento di persone che dopo aver ascoltato la canzone hanno acquistato e letto il libro di Susan Abulhawa e questo ci riempie di gioia».

Per quanto riguarda i testi la figura femminile è predominante. Da questo spunto vi chiedo quale secondo voi debba essere il ruolo della donna delle culture mediterranee nei prossimi decenni.

«Abbiamo scelto come protagoniste delle nostre canzoni figure femminili perché crediamo moltissimo nell'importanza del protagonismo femminile e nella collaborazione tra donne per un mondo più giusto. Dico questo non perché crediamo che le donne siano migliori degli uomini ma perché si parla ancora troppo poco al femminile e sappiamo quanto risulti  più difficile per una donna esporsi e raccontarsi (anche nel mondo dell'arte). Crediamo nella necessità di una rivoluzione culturale che liberi le donne e gli uomini dal maschilismo ancora molto presente nelle nostre società sotto forma di violenza e di dogmi culturali molto difficili da estirpare. Lo scorso anno abbiamo inaugurato con la nostra musica il Festival Chouftouhonna (Festival internazionale d'arte femminista di Tunisi) e abbiamo avuto modo di confrontarci con artiste, attiviste e giornaliste di tutto il mondo. Questa esperienza ci ha donato molta forza e ci ha liberato come individui e come coppia, si è creata una comunità di sorelle sparse per il mondo con le quali ci sosteniamo e ci confrontiamo a distanza. La frase ispiratrice del festival era: "Troppe donne, in troppi paesi del mondo parlano una sola lingua: il silenzio". Tornati in Italia abbiamo capito che il nostro sentire corrispondeva a quello di tantissime altre artiste, che non stavamo agendo da soli ed è anche grazie a questi incontri che è nato il nostro ultimo disco "Qui"».

Secondo voi l'arte, e in particolare la musica, può essere un veicolo per far avvicinare il mondo arabo e quello europeo?

«Credo che lo strumento più importante per un cambiamento profondo e autentico dell'umanità sia l'empatia. Se l'arte lavora sull'empatia credo possa essere un buon mezzo per avvicinare le persone anche se non può essere l'unico. Ci vorrebbero anche precise scelte politiche volte ad avvicinare le persone, a farle incontrare e conoscere e bisognerebbe soprattutto rompere le catene dello sfruttamento e dell'ingiustizia da una parte e dall'altra del Mediterraneo».

Qual è il target delle persone che viene ad ascoltarvi dal vivo?

«È molto difficile definire un target del nostro pubblico in quanto dipende moltissimo dai contesti in cui ci ritroviamo a suonare. In media però posso dire che in Italia come all'estero attiriamo spessissimo persone in ricerca e in viaggio. A volte si tratta di persone molto sofferenti che si stanno cercando e che trovano sollievo e speranza nelle nostre parole e nelle nostre note, a volte persone che hanno iniziato un percorso di consapevolezza politico e/o spirituale che ritrovano nella nostra musica i loro valori e la loro visione del mondo oltre al piacere delle note. Poi ci sono coloro che vengono colpiti dalla mia voce, dalla chitarra di Andrea e dalla bravura dei nostri musicisti. Devo dire che queste sono le categorie principali di coloro che entrano in contatto con noi anche dopo i concerti e che ci ha permesso di veder crescere con il tempo una specie di famiglia allargata sparsa per il mondo».

Potete suggerirci delle realtà musicali arabe da seguire?

«Certamente! Ritornando alla poesia di Mahmoud Darwish non posso non segnalarvi Marcel Khalife: compositore e musicista libanese che ha trasportato in musica tantissime poesie di Mahmoud Darwish. Forse il suo disco che ho amato di più è "Suqut al-­-qamar" (la caduta della luna). Restando in Libano non posso non citare Fayrouz e Majida el-­-Roumi. Parlando di voci femminili consiglio anche la grande Julya Boutrus (Libano), Souad Massi (Algeria), Amel Mathoulothi (Tunisia), Lena Chamamyan (Siria), Yasmine Hamdan (Libano). Pensando a voci maschili contemporanee mi viene subito in mente il talentuosissimo cantautore Sabri Mosbah (Tunisia) e il gruppo rock‐indie libanese Mashrou' Leila ma anche qualcosa di più datato come il rai di Rachid Taha, Cheb Khaled, Cheb Mami. Per chi fosse interessato a una visione aggiornata sulla musica araba contemporanea consiglio di seguire la pagina Note d'Oriente: https://www.facebook.com/NotedOriente/».


Titolo: Qui
Gruppo: Rebis
Etichetta: Gutenberg Music / Produzioni Musicali Primigenia
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Alessandra Ravizza e Andrea Megliola, eccetto dove diversamente indicato)


01. Vincimi con i tuoi occhi
02. Je reviendrai en automne
03. Qui
04. Ma maison  [testo in inglese e benin di Natty Scotty]
05. Goodbye Amal
06. Partoriscimi di nuovo
07. Wadi nostalgie
08. Cercami nel mare
09. Da bambina
10. Adrienne
11. Pioggia fine




martedì 6 giugno 2017

Per Massimiliano Cremona "L'inverno è passato"





Massimiliano Cremona torna sulle scene con "L'inverno è passato". Il disco, pubblicato dall'etichetta New Model Label curata dal discografico Govind Khurana, è stato registrato con la collaborazione di Giuliano Dottori e ci regala dieci tracce all'insegna della canzone d'autore intimista in una dimensione elettro-acustica. Per il cantautore di Verbania si tratta del secondo lavoro a suo nome dopo l'album di debutto "Canzoni nella nebbia" (autoproduzione 2015) e diverse esperienze in formazioni del lago Maggiore come i Semadama (rock alternativo), Il Vile (stoner rock) e Los Borrachos (rock'n'roll). "L'inverno è passato" è un progetto molto personale che racconta di un passaggio, di una crescita e di una nuova primavera. La voglia di lasciarsi alle spalle una "stagione fredda", di rendere omaggio ad alcune persone che hanno segnato la sua vita e di metabolizzare la perdita di alcune di esse sono raccontate e cantate con maestria e con un tocco molto personale. Un disco interessante, ben confezionato e che acquista spessore nel corso degli ascolti.
L'album è stato in parte registrato a Milano allo Jacuzi Studio di Dottori, prodotto e arrangiato da Marco "Kiri" Chierichetti e masterizzato a Nashville da Steve Corrao. A completare l'organico dei musicisti che hanno partecipato alla registrazione, oltre a Marco "Kiri" Chierichetti (flauto traverso, armoniche, effetti sonori), troviamo Enrico Sempavor Gerosa (cori), Alberto Fabbris (chitarra elettrica e banjo), Andrea Polidoro (basso elettrico), Sergio Polidoro (batteria). 
Con Massimiliano Cremona abbiamo approfondito alcuni aspetti del suo nuovo lavoro. 



Massimiliano, "L'inverno è passato" è un titolo che può avere tanti significati. Qual è quello che dai al tuo disco?

«L'inverno a cui alludo è una stagione dell'anima. Con questo titolo, e con le canzoni che sono contenute nel disco, voglio comunicare che una mia personale stagione fredda, di distacco, è passata, me la sono lasciata alle spalle. Spero di non sbagliarmi!».

Con alcune delle canzoni che compongono il disco sembra che tu voglia mettere al loro posto tessere di un tuo personale mosaico emozionale...

«Sì, è proprio così. Finora per me la musica ha avuto un significato molto personale. Mi serve proprio per manifestare le mie emozioni, in primo luogo a me stesso e poi agli altri. Per cui è terapeutica. Se con il primo disco, "Canzoni dalla nebbia", l'attenzione era centrata molto su me stesso, con questo secondo album ho voluto parlare invece di persone importanti e del mio rapporto con loro. O, più precisamente, delle mie emozioni nei loro confronti. Che è ovviamente ancora un contenuto molto personale, ma, come dire, rispetto al primo disco "il cerchio" si è allargato, lo sguardo comincia a spostarsi verso l'esterno».

Ma è anche un disco di ripartenze e rinascite. Come quando canti ‹Sento le ali che si aprono in volo e comunque riprendo a guardare al domani›…

«Sì. Spesso molti artisti hanno "un tema cardine" che ritorna in molte loro composizioni. Il mio è probabilmente proprio la ripartenza e la rinascita dopo un periodo di difficoltà».

In questo progetto ti sei avvalso della collaborazione con Giuliano Dottori. Come è nata e quale è stato l'apporto che ha dato al tuo progetto discografico?

«Avevo visto Giuliano in concerto, mi era piaciuto molto e mi ero documentato su di lui. Avevo scoperto che ha uno studio di registrazione e ne avevo parlato con Kiri (Marco Kiri Chierichetti, ndr), il produttore artistico dei miei due dischi. Abbiamo preso la decisione di registrare voci, chitarre acustiche e fiati da Giuliano e si è rivelata una scelta estremamente felice. Giuliano è simpatico, competente e molto preparato, abbiamo trovato un clima ottimale per lavorare. Inoltre ha voluto partecipare attivamente in alcuni brani, soprattutto nella canzone "Veloce" che lo ha colpito e di cui si è preso particolare cura, emozionandomi molto. Ma gli interventi diretti di Giuliano – cori, chitarre elettriche, basso – e i suoi consigli hanno fatto fare un salto di qualità anche a diversi altri brani».

Musicalmente il disco è molto eterogeneo. Diversi colori e strumenti dipingono un affresco molto gradevole. Questa condizione è anche sinonimo di una tua maggiore consapevolezza artistica?

«Questa eterogeneità è in gran parte frutto di un lavoro di squadra. Del confronto tra me e Kiri, innanzitutto, in quanto abbiamo lavorato molto sugli arrangiamenti. Ma più in generale tutti i musicisti coinvolti hanno dato un contributo determinante in questo senso. Gli episodi più acustici ("Canzone per un amico", "Sospetti", "Veloce", "Ninna nanna per Massi e i suoi amici") riflettono maggiormente il mio gusto e sono più vicini all'ideazione originaria dei brani. Kiri, in veste di arrangiatore, ha potuto esprimersi maggiormente nei brani elettrici: "Disincanto", in particolare, riflette il suo grande amore per gli anni Settanta. I suoi flauti e le sue armoniche, poi, aggiungono molte emozioni ai brani. I cori di Enrico Gerosa, d'altro canto, danno sempre una grande svolta ai brani (basti ascoltare "La spiegazione" e "Disincanto"), mentre il banjo di Alberto Fabbris ha letteralmente fatto "decollare" il brano "La spiegazione". I fratelli Andrea e Sergio Polidoro sono poi una solida e spumeggiante sezione ritmica e il loro apporto è stato fondamentale per far quadrare al meglio tutto il disco».

Dicono che scrivere il secondo album sia molto più difficile del primo. Per te come è stato?

«Beh, è stato più impegnativo perché io e Kiri abbiamo voluto ottenere il meglio. Io desideravo fare un salto di qualità rispetto al primo album, in termini di ambizione del disco: una scaletta più lunga, registrare al di fuori di Verbania, puntare un po' di più sulla promozione e sulla visibilità del prodotto. Kiri, di contro, ha spinto per far evolvere il progetto in chiave elettrica, consentendoci di esprimerci in maniera differente, più articolata rispetto al passato. Il risultato è ottimale, ne siamo fieri e soddisfatti».

Quali sono le differenza sostanziali tra "L'inverno è passato" e il precedente "Canzoni dalla nebbia"?

«L'evoluzione da una dimensione acustica ad una elettrica. Da artista quasi solitario ad essere una band di sei elementi. La spinta centrifuga dei contenuti, che si allargano alle persone a me care. Il sopraggiungere di momenti sereni e maggiormente ariosi».

In "Aria e acqua" traspare evidente il tuo amore per gli Afterhours. Cosa ha rappresentato per te questo gruppo?

«Il primo amore in lingua italiana. Dopo essere cresciuto con il rock inglese e americano, sono stati il primo gruppo a coniugare sonorità a me gradite con testi in italiano. Rock e ballate, la voglia di scavare nel malessere degli ultimi decenni. Sperimentazione sonora e orecchiabilità. Ancora oggi, a ogni album spingono un po' più in là i loro limiti».

In "Veloce" canti di un addio ispirandoti alle atmosfere anni '70. Cosa ti piace artisticamente di quel periodo?

«Beh, ciò che piace a molti, credo. L'affermazione dell'hard rock, l'alternanza tra brani potenti e atmosfere acustiche, i suoni, l'importanza guadagnata dalla chitarra elettrica, i capelli lunghi, un sogno di evasione da una cultura tradizionale».

Una ventata di energia elettrica arriva da "Sospetti", un tema che necessita di vigore, anche musicale…

«Per molti anni sono stato un chitarrista rock, nei Semadama, ne Il Vile, nei Los Borrachos. Qui ho ritrovato il piacere di collegare la chitarra elettrica a un amplificatore valvolare. E, appunto, il brano richiedeva quel tipo di rabbia».

Facciamo un passo indietro. Come hai cominciato a suonare e a scrivere canzoni?

«Ho iniziato abbastanza tardi a suonare la chitarra, verso i 18 anni. È diventata subito una fedele compagna, una alleata. Ma, nel mio caso, la musica trova il proprio complemento nelle parole. La musica distende il tappeto, prepara il contesto emozionale che le parole riempiono, completano. Ho sempre scritto. La differenza sta tra il tenere le cose per sé o decidere invece di proporle agli altri».

Oltre al disco, in questi mesi hai curato anche la realizzazione del libro "Camminare guarisce", scritto dall'amico Fabrizio Pepini. Ce ne vuoi parlare?

«La cosa più bella che mi è capitata negli ultimi anni è stato incontrare i "Cavalieri Stanchi", un gruppo di amici e camminatori che ho conosciuto in Sardegna nel 2014, di cui Fabrizio era ed è la guida. La sua è una storia incredibile, che colpisce nel profondo. Dopo aver scoperto di avere una malattia incurabile, ha lasciato il lavoro e ha cominciato ad affrontare numerosi cammini (dieci volte Santiago, la Via Francigena dalle Alpi alla Puglia, ecc.) e la malattia si è arrestata. Il cammino è diventata la sua terapia. Ma, soprattutto, lo ha cambiato profondamente a livello interiore. Fabrizio ha maturato una grande saggezza, il libro "Camminare guarisce" raccoglie la sua testimonianza e sta aiutando molte altre persone a ritrovare la voglia di vivere, a non arrendersi, ad affrontare il presente con speranza e fiducia. Sono felice di aver contribuito alla realizzazione di questo progetto».


Titolo: L'inverno è passato
Artista: Massimiliano Cremona
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Massimiliano Cremona)

01. Aria e acqua
02. La spiegazione
03. Canzone per un amico
04. Con incanto ed ossessione
05. L'inverno è passato. A Sissi
06. Vuoto
07. Disincanto
08. Sospetti
09. Veloce
10. Ninna nanna per Massi e i suoi amici


giovedì 23 marzo 2017

"Nel momento", Vitrone fissa le sue umane visioni





Vitrone è tornato e ha voglia di raccontare. A quattro anni di distanza dal precedente “Piccole partenze”, il cantautore casertano pubblica “Nel momento”, un disco in cui emerge l’urgenza di comunicare, di esprimere il proprio pensiero e di fissare concetti e idee. Una tale urgenza comunicativa avrebbe potuto condizionare il nuovo lavoro e invece quello che ne è venuto fuori è un album compatto e solido che musicalmente, rispetto al precedente lavoro a suo nome, sposta con decisione il baricentro verso il rock. Otto brani, cinque dei quali inediti, trovano la giusta collocazione grazie al tappeto sonoro costruito da musicisti di indiscusso valore come Mimì Ciaramella, storico batterista degli Avion Travel, capace di incidere con il suo drumming moderno, i chitarristi Gianpiero Cunto e Dario Crocetta, il bassista Roberto Caccavale e poi Almerigo Pota, al basso in "Oltre il buio", e Alessandro Crescenzo, piano e arrangiamento in "Nel momento". Musicisti che non si limitano ad eseguire la partitura ma partecipano attivamente agli arrangiamenti dei brani, sempre "puliti" e allo stesso tempo ricercarti, facendo diventare il lavoro di Gennaro Vitrone quello di un collettivo in grado di esprimersi sempre su alti livelli artistici. Tra le gemme di questo disco c'è la canzone "Oltre il buio", in cui la partenza e il viaggio, temi che si confermano essere centrali nella poetica di Vitrone, vengono resi nella loro drammatica attualità. "Nel momento" è una bella istantanea del tempo in cui viviamo che deve essere fissato per non perderne memoria o peggio per non essere cancellato frettolosamente con un semplice click.  
Con Gennaro Vitrone abbiamo approfondito il discorso sulla nascita e sul significato del nuovo album.



Gennaro, "Nel momento" è il tuo secondo disco solista. Quando hai capito che era arrivato il momento di tornare in sala di registrazione?

«In realtà si era pensato ad un album realizzato live in studio che racchiudesse alcuni brani dei dischi precedenti. Live lo è diventato parzialmente perché nel frattempo sono nati cinque brani nuovi. La possiamo chiamare urgenza comunicativa».

Valige che si chiudono, partenze, stazioni, treni, pendolari, aeroporto… Il movimento e il viaggio restano una costante nella tua scrittura. Cosa ti affascina e come vivi personalmente questa situazione?

«È così, a volte non me ne rendo conto ma è una costante. Il viaggio, il movimento rappresentano la forza, la voglia, il bisogno di mettersi in gioco, di confrontarsi».

Musicalmente, rispetto al precedente lavoro, hai impresso una accelerata rock ed elettrica al tuo nuovo disco. Ritieni che questo sia l'ambito in cui la tua poetica possa esprimersi al meglio?

«Mi ritengo un musicista rock, negli anni '80 e nei primi anni '90 ho suonato in una hard rock band, poi negli anni a seguire ho cercato di sviluppare un mio linguaggio vestendo spesso i miei brani con arrangiamenti elettroacustici, è così anche nell'ultimo album in cui però la componente rock è più marcata».

Curioso come agli arrangiamenti delle canzoni da te scritte abbiano collaborato tutti i componenti del tuo gruppo…

«Questo è un collettivo, c'è una band che ha lavorato ai brani cercando soprattutto un suono. Effettivamente in sala tutti hanno dato il loro contributo, il resto lo ha fatto Giuseppe Polito, giovane produttore napoletano, Marco Sfogli, attuale chitarrista della PFM, in veste di fonico e amico, e Pompeo Zitiello proprietario di uno dei due studi dove abbiamo lavorato, scomparso prematuramente due mesi dopo le riprese, gli devo tanto, era una persona stupenda. E poi alla produzione e precisamente al mastering ha lavorato Vittorio Remino, bassista negli Avion Travel nell'album "Danson metropoli" dedicato a Paolo Conte».

Perché hai voluto ripresentare con una nuova veste due canzoni che abbiamo già ascoltato nel tuo disco precedente? E parlo di "Piccole partenze" e "Torno al giardino".

«Perché con i nuovi arrangiamenti i brani hanno indossato nuovi vestiti. È successo con "Piccole partenze", con "Torno al giardino" ma anche con tutti i brani del repertorio che suoniamo live, tutto decisamente rock».

Cosa ti fa pensare che le nuove versioni siano più azzeccate?

«Trovo interessante sia le versioni dell'album precedente che queste, sono altri punti di vista e di approccio».

L'ultima volta che ci siamo sentiti, in occasione dalla presentazione di "Piccole partenze", avevi accennato alla possibilità di andare in tour con Mimì Ciaramella, batterista storico degli Avion Travel. Ora lo troviamo tra i crediti del disco…

«Mimì è entrato nella band nel 2013 ma avevamo già suonato insieme nel 1994, quindi ci conosciamo da tempo. Lui rappresenta il vero valore aggiunto. Il suono e l'atmosfera che si respirano nell'album sono anche opera sua, noi lo abbiamo seguito. Se ascolti attentamente i brani si nota che spesso partono proprio dal suo groove, un drumming incredibile ed estremamente moderno. Del resto tutti gli Avion Travel sono dei grandissimi musicisti, una delle poche band italiane che ha ancora tanto da dire».

La tua è una scrittura per certi versi minimalista, fatta di metafore ma anche con un occhio ai drammi di oggi. E parlo della canzone "Oltre il buio" in cui è protagonista un giovane migrante che cerca di entrare in Europa nascosto in una valigia…

«Assolutamente minimalista, io lavoro per sottrazione. Cerco di soppesare le parole, di provare a scavalcare una certa retorica e nello stesso tempo provo a non perdere mai di vista la musicalità di una parola, il suono stesso di una certa parola che mi può interessare più di altre. Quando scrivo parto sempre dal testo, successivamente nasce la melodia. La storia di questo piccolo migrante, in "Oltre il buio", mi ha commosso, confesso che quando ho letto, qualche anno fa, l'articolo che parlava di questa storia ho pianto lacrime amare. Ho dei figli sono ancora più sensibile, mi sono immedesimato e ho scritto il testo descrivendo semplicemente il fatto, poche parole mettendo l'accento su ‹senti l'indifferenza l'assenza›».

In "Il finto fioraio" racconti di questo fioraio che vende fiori di plastica e stoffa che non hanno profumo e condannati a non appassire. Trovo che sia una bella metafora della società dell'effimero, dell'apparire…

«Sì, lo spunto nacque leggendo una biografia bellissima su Anna Magnani. Lei diceva, lasciate stare le mie rughe, c'è voluta una vita per averle. A queste parole bellissime ovviamente si contrappone la società dell'effimero con le sue brutture».

Tanti viaggi, alcuni ritorni e l'attimo da non farsi scappare. In "Nel momento", scatti questa istantanea che ha lo stesso nome di un libro di Andrea De Carlo…

«"Nel momento", cogli l'attimo, la vera essenza della vita. Andrea De Carlo come Erri De Luca che pure cito con "La musica provata" sono scrittori così diversi e che amo tantissimo. "Tecniche di seduzione" di De Carlo, non so quante volte l'ho riletto. Erri De Luca ti invita a riflettere, vuole essere la tua coscienza, mi ricorda tanto Pasolini, sempre contro, costi quel che costi».

Curiosa la copertina che ritrae un uomo stilizzato intento a saltare dentro una scatoletta di sardine. Perché l'hai scelta e cosa significa?

«La copertina è di Giacomo Montanaro, un artista che stimo molto. È di Torre del Greco, vicino Napoli, lavora con tecniche incredibili, oltre ai colori usa gli acidi, le muffe, crea queste opere che nella musica potremmo definire dissonanti. In questo caso il suo lavoro nasce dalle olimpiadi domestiche, il gesto di un atleta alle prese con un oggetto di uso domestico, immortalato proprio "nel momento" di massima tensione».

Come porterai queste canzoni in tour?

«Il live, come ti accennavo, è decisamente rock, grande attenzione ai suoni, questo con la band al completo. Ci saranno ovviamente degli showcase acustici per le radio, negozi di dischi e librerie dove ci esibiremo in trio, chitarre acustiche e voci. Andiamo dove ci portano le canzoni, viaggio e movimento, come vedi tutto torna».



Titolo: Nel momento
Artista: Vitrone
Etichetta: G Records
Anno di pubblicazione: 2017

Tracce
(testi e musiche di Gennaro Vitrone, eccetto dove diversamente indicato)

01. Respira
02. Piccole partenze
03. Oltre il buio
04. Una ragazza di oggi  [Vitrone; Fuschetti]
05. Torno al giardino
06. Il finto fioraio
07. Il pendolare
08. Nel momento


venerdì 17 marzo 2017

"Malaccetto", questione privata di Ugo Cattabiani





Quando ho preso in mano per la prima volta "Malaccetto", il nuovo disco di Ugo Cattabiani, mi sono chiesto il significato di quel cuore rosso ferito e medicato con due semplici cerotti incrociati a formare una X. Un cuore ridotto in sofferenza dagli eventi della vita o un simbolo di centralità? Ho provato ascoltando il disco a capire quale di queste due visioni potesse essere quella giusta. La verità, come spesso accade, è proprio al centro, dove appunto è raffigurata la X. Se nella poetica del cantautore parmense si colgono i segni evidenti di una certa disillusione e sofferenza interiore è anche vero che la via d'uscita c'è e la si può trovare nel cuore, nella passione e nella vita stessa. Soprattutto in una sguardo interiore capace di portare ad una riconciliazione con se stessi e ad una ripartenza, magari artistica come appunto in questo caso. "Malaccetto" è un disco estremamente godibile, dal punto di vista prettamente musicale gli arrangiamenti si legano perfettamente ai testi. Siamo di fronte ad un album vivace la cui ricchezza trasmette emozione, al contrario di quello che dicono certi addetti ai lavori nei riguardi della produzione dei giovani cantautori, ma questa è un'altra storia.
Alla realizzazione del disco hanno collaborato Daniele Morelli (chitarre acustiche), Corrado Caruana (chitarra acustica), Oscar Abelli (batteria), Gabriele Fava (sax), Alessandro Mori (clarinetto), Antonio Menozzi (contrabbasso), Domenico Maisto (pianoforte), Andrea Trevisan (armonica), Maxx Rivara (synth), Federico Del Santo (chitarra elettrica), Giovanna Dazzi e Ross Volta (cori).
Con Ugo Cattabiani abbiamo parlato naturalmente del disco ma anche di molto altro, a cominciare dall'amicizia con Andrea G. Pinketts che ha collaborato in un episodio del disco.



Ugo, iniziamo subito dal titolo del tuo nuovo disco, "Malaccetto". Può essere letto in due modi, quale è più aderente al tuo sentire e perché?

«Malaccetto è lo status di chi riceve incornate in un angolo cieco dell'arena, dove lo sguardo del pubblico non può arrivare. Nessun boato, nessuna suspense: sei alle strette, incalzato da te stesso, e capisci di esserti ficcato in un brutto guaio. È, per dirla con Fenoglio, una questione privata. Il cantautore tende a chiudersi nel ghetto dell'autoreferenzialità, e anch'io a un certo punto ho temuto di essermi incastrato da solo. Quando vado nei locali e vedo una band che fa battere il piede alla gente, mi prende l'ansia di aver sbagliato tutto. Ci sono musicisti straordinari in giro, artisti che vivono sull'orlo dell'indigenza per fare quello che sanno fare molto meglio di me. Per un certo periodo ho rifiutato il mio ruolo – quello di chi se la scrive e se la canta – perché mi restituiva la sensazione di essere fuori posto, nel contesto sbagliato. Malaccetto, appunto. Il problema è che non riesco a fare a meno di produrre canzoni: è una questione di sopravvivenza che non ha nulla a che vedere con il sostentamento. Più che di capacità o talento, nel mio caso parlerei di tara. Per questo, nonostante il disagio che mi provoca, vado avanti. Odio questa mia propensione allo psicodramma ma l'accetto».

Passiamo alla copertina con quel cuore incerottato che colpisce subito l'osservatore. Penso che abbia un significato quel cuore ferito…

«Il cuore incerottato nasce come intuizione di Luca Soncini, artista visivo e pittore parmigiano, uno dei creativi che hanno lavorato alle grafiche del disco (gli altri sono Leonardo Barbarini e Lorenzo Castellan). L'idea di una ferita che non si rimargina, che può solo essere tamponata, mi ha conquistato all'istante. Penso che Soncini abbia sintetizzato e reso evidente il sentimento da cui nasce il testo di "Malaccetto". È una canzone in cui non dico "io" ma "tu": si rivolge a chiunque abbia vissuto un certo tipo di scorno. Un pittore che prova a vivere della propria arte sa di cosa parlo. Vi rimando al sito, pieno di fantastiche visioni, www.lucasoncini.com».

In una sorta di presentazione che tu fai all'album dici che queste canzoni hanno tamponato alla bell'e meglio l'emorragia. Cosa intendi?

«"Malaccetto" non è un concept; non ho scritto le canzoni con un disegno a priori; eppure la tracklist finisce per raccontare una storia. Ho apportato modifiche ai testi (alcuni riscritti di sana pianta) quando già le registrazioni erano in fase inoltrata, proprio perché mi si stava chiarendo una meta a cui avrei voluto portare tutte e dieci le tracce. Quella meta era ed è il superamento dell'angoscia di girare a vuoto, di sprecare tempo ed energie senza centrare mai l'obiettivo: quello di comunicare col pubblico. L'emorragia è una falla esistenziale che solo la scrittura di nuove canzoni può tentare di tamponare. Il finale con "Bob della Zena" lascia aperto uno spiraglio di riconciliazione con me stesso, come il girotondo felliniano che chiude "8½"».

Nelle dieci canzoni del disco, o meglio cicatrici come le definisci tu, getti lo sguardo verso un passato pieno di speranze che poteva essere ma che non è stato. Una vena di amarezza affiora nel presente. È così o i miei ascolti serali mi hanno tradito?

«Il fallimento è necessario preludio al senso. L'amarezza per "ciò che non è stato" l'ho superata scrivendo il disco, anche se ogni tanto riaffiora quando suono dal vivo. Forse, alla soglia dei quaranta, accuso un poco di disillusione sulle mie reali capacità di portare avanti questo mestiere. Continuo a farlo perché adoro le persone che lo praticano, persone che non troverei in nessun altro ambito lavorativo. Sai, mi ci vorrebbe un manager, non sono proprio capace di vendermi. I miei cd li regalerei tutti, se potessi. Sono al terzo disco da indipendente e mi spaventa il fatto che potrebbe non essere l'ultimo. Ogni release, stesso copione: dopo un timido arrembaggio che serve da pretesto per ubriacarmi con la ciurma, sfascio il timone e rinuncio alla direzione. Vale la pena, per un piccolo cabotaggio, pagare un prezzo così alto? La risposta è sì, perché non conosco altri modi per procurarmi cicatrici. Si pensa che l'arte possa consentire di superare un certo disagio, restituendo al limite un attestato di nobile sconfitta. Bah! Si cerca sempre di vincere o di convincersi che si è perso ingiustamente. Ciò non toglie nulla all'ambizione di migliorarmi, magari imparando una buona volta a cantare o – più ragionevolmente – a dedicarmi alla scrittura di canzoni per altri».

E poi sorprendi con questa inaspettata collaborazione con Andrea G. Pinketts nel brano "Mi piace il bar". Come è nata l'idea e cosa ci puoi raccontare del personaggio?

«Pinketts è una vera rockstar. Incarna un sublime menefreghismo verso l'ordine costituito, ma è anche un raffinato gentleman dal galateo impeccabile, un colto uomo di mondo. Il personaggio è tutt'uno con lo scrittore e, nelle meravigliose rare volte che lo frequento, con l'uomo. Il bar è come la nazionale di calcio, Facebook o Sanremo: siamo tutti allenatori, filosofi, esteti, filantropi, amatori, politologi, intenditori di vino e collezionisti di musica. Chi più parla, meno ne sa. Poi ci sono gli agenti sotto copertura: sai, quelli che devono bere per infiltrarsi tra gli alcolisti e smascherare il pesce grosso che traffica in stronzate. E quando dico stronzate intendo proprio stronzate: chi traffica in esistenze fasulle. Pinketts, agente sotto copertura, ha scritto un piccolo grande compendio capace di spazzare via ogni retorica sul bar, costruendo un romanzo sull'unico protagonista possibile in quel contesto: se stesso. Quel libro s'intitola "Mi piace il bar" ed è introdotto da una ballata omonima. Il mio lavoro si è limitato a scovare la colonna sonora sottesa a quei versi. Serviva swing, il rimando agli anni del proibizionismo e al piacere di bere di nascosto, sotto copertura».

Cosa rappresenta nel tuo immaginario il bar?

«La vita da bar è la vita che guardi e che ti guarda allo specchio oltre il bancone, e se sai leggere con onestà tra i fumi dell'alcol puoi trovarci eroismo e miseria – separati, abbinati o entrambi assenti – ed è inutile vantarti con gli altri avventori perché conta solo quello che pensa di te il barista: l'unico che, se ti dà credito, ti fa credito».

In "Odette" scrivi ‹Tutto ciò che non mi rende più forte mi uccide›. Qual è il significato di questo verso?

«Odette è un'eroina da romanzo ottocentesco e, come in ogni romanzo ottocentesco che si rispetti, l'eroina – certificata dalla nostra contemporaneità come droga letale – o si uccide o s'insinua mellifluamente nell'organismo di chi la ama, uccidendolo. Ci sono uomini che continuano a vivere nonostante siano stati uccisi, oserei dire sepolti, dalla propria eroina. Il mio intento era di scrivere una canzone su questi uomini inchiodati dalla bellezza e sensualità, incapaci di uscire dal tunnel della dipendenza amorosa, pur sapendo che non saranno mai contraccambiati. Amare è faticoso, perciò a una certa età si tirano i remi in barca: il fisico non regge. C'è un limite oltre il quale non si può andare, in amore, ed è forse meglio non arrivare a sperimentarlo. L'amore scema sia per troppa distanza che per troppa frequentazione. Come conservarlo? Bisognerebbe guardarsi «per la prima volta». Un bel grattacapo. Il più delle volte ci si accontenta di un ricordo struggente, che in ogni caso è preferibile allo smacco dell'amnesia o – peggio – all'indifferenza nei confronti della persona che abbiamo amato alla follia. La forza sta nella capacità di lasciarsi alle spalle un amore senza smarrirne la memoria; nel caso non ci si riesca, una parte di noi è destinata a morire».

‹Questo tempo ha il maleficio di inchiodarti a dicerie di laide deliranti profezie› è un verso di "Notte d'artificio" che trovo descriva efficacemente un aspetto della società virtuale in cui troppo spesso ci rifugiamo…

«Ti ringrazio per il complimento. Sì, è vero, nel chiacchiericcio virtuale il delirio di una mente disturbata trova altre menti disturbate pronte ad amplificarlo. "Notte d'artificio" l'ho scritta di getto la scorsa estate, dopo l'attentato sul lungomare di Nizza, senza però l'intento di commemorarne la strage bensì come soluzione personale a una profondissima tristezza che mi aveva colpito per tramite di quei fatti. Possibile che certe cose accadano a pochi chilometri di distanza senza che «le onde di uno stesso mare» si tingano di rosso? L'indignazione per un assassinio stupido e inutile mi ha riempito di rabbia ma anche di pietà per la bestia umana che è sempre pronta a dimostrare il suo vizio di fabbrica. La distorsione della realtà permea ogni ambito del quotidiano. Sui social non siamo che un'icona e un nickname, trollati da falsità e faziosità, noi stessi preda di violenza verbale, pedine di un gioco che fingiamo di capire, come i birilli abbattuti da un autista convinto di interpretare "il giusto". Quindi? Quindi il problema è che ci accendiamo come micce al minimo urto contro una provocazione, un insulto, un'insinuazione; siamo carichi di frustrazione, di stanchezza, di incapacità cognitiva, di confusione, di rumore. Non pratichiamo l'ironia o la pratichiamo sugli altri e mai su noi stessi, con poca intelligenza e pochissima empatia. Tanto vale rinunciare ad ogni presente e futura conquista. Spegniamoci, che è meglio, e accettiamo quel poco o nulla che siamo. "Notte d'artificio" nasce come monito a spogliarsi di ogni ardore nel segno dell'onestà intellettuale. L'unica certezza è il dubbio».

Con "Happy B (ti odio ma l'accetto)" punti il dito contro un certo tipo di spettatori, purtroppo sempre più presenti nei locali italiani…

«Prima di rispondere, lasciami prendere un profondo respiro. Mi è difficile mantenere la calma quando ripenso a certi individui che… oddio, sto cercando di rimuovere quei ricordi. Mi limiterò a dire che ci vuole talento, oltre che bravura, ad impedire che un idiota ti rovini il concerto; d'altronde, si sbaglia in buona fede a fidarsi del tal ingaggio nel tal posto. Bob Dylan, nel suo discorso di ringraziamento per il Nobel, ha dichiarato: «Come artista ho suonato per cinquantamila persone e ho suonato per cinquanta persone, e vi posso dire che è più difficile suonare davanti a cinquanta persone». A parte il fatto che quando suono davanti a cinquanta persone metto un cerchiolino sul calendario (sold out!), non posso che apprezzare questa dichiarazione. Nel mio piccolo ho imparato a dare il massimo in ogni situazione, gettando il cuore oltre l'ostacolo e confidando nell'ispirazione, perché si tratta di far digerire delle novità a gente quantomeno perplessa, spaesata di fronte a uno spettacolo in cui bisogna ascoltare. Sei lì con la chitarra a tracolla, magari c'è un addio al celibato nella sala accanto, tu sei collocato tra il biliardino e la porta del bagno. Devi mostrare prontezza di spirito, replicare con arguzia alle sghignazzate, usare cilindro e bacchetta e insomma essere tetragono ai colpi del destino. Purtroppo c'è la volta in cui inciampi in un brutto presentimento – un presentimento che si autoalimenta sommando una serie di fastidiosi dettagli – finché non arrivi tuo malgrado alla soglia dello scontro fisico. In almeno tre casi ho provato istinti omicidi (l'ultimo dei quali, fedelmente riportato, costituisce il testo di "Happy B"). Credo sia nel diritto del pubblico non apprezzare la tua esibizione e dimostrartelo attraverso un'ostentata indifferenza; ma non è tollerabile giocare al tirassegno col cantautore. In passato, a vent'anni, ero più bravo a incassare: mi dicevo che quella era la gavetta e che prima o poi mi sarei lasciato alle spalle certi contesti. Oggi che ho il doppio degli anni, sono ancora qui che ne parlo».

Nell'album troviamo anche una tua interpretazione di "Lontano lontano" di Luigi Tenco, ricordato recentemente per i 50 anni dalla sua morte. Cosa rappresenta oggi per voi cantautori Tenco? Credi che il suo messaggio sia ancora al passo con i tempi?

«Tenco è diventato un simbolo di intransigenza artistica ma anche di fragilità, di incomprensione. Non fa bene crogiolarsi nel sentimento di esclusione dal branco, si rischia di scambiare l'isolamento per autenticità; ma non si può negare il fatto che pochi artisti abbiano – come Tenco – le credenziali per essere definiti "veri", sganciati da ogni logica di riscontro mediatico. Credo che la parabola esistenziale e artistica di Luigi Tenco debba far riflettere su cosa la canzone d'autore può ancora essere: un centro di gravità che attrae o respinge a seconda della polarità di chi la pratica. Se non hai le carte in regola, se stai bluffando, verrai respinto. Oggi, più di ieri, è necessario non farsi abbagliare dal confezionamento della musica, dalla perfezione tecnica (peraltro facilmente raggiungibile coi computer sia in studio che dal vivo) e devo ammettere che, salvo rari casi, gli interpreti e i musicisti virtuosi finiscono per annoiarmi. La voce di Tenco, al contrario, ha qualcosa di misterioso che illumina inaspettatamente i testi molto semplici delle sue canzoni. Questa essenzialità è prerogativa di pochi. Ammiro gli artisti semplici ed essenziali, e a loro mi ispiro. Ciò detto, il gusto musicale in 50 anni si è evoluto parecchio e non mi considero un nostalgico del passato. Cerco di vivere la mia epoca anche dal punto di vista delle sonorità, delle nuove tendenze; ma alla fine, senza alcun pregiudizio, tante presunte novità mi lasciano indifferente».

Quando Tenco è morto tu non eri ancora nato, eppure…

«I cantautori del passato sono quelli che mi intrigano di più, forse perché agivano in un contesto di scontri generazionali e di fermento sociale, con meno risorse e più volontà rispetto ad oggi, e posso solo immaginare quanto l'uscita di un nuovo disco fosse percepita come un "messaggio" da soppesare con attenzione. Sento in certi pezzi dei '60 e '70 un coraggio e una convinzione che oggi ci sogniamo. Anche ingenuità, nel senso migliore del termine. Perché non mi stanco mai di ascoltare Piero Ciampi? Perché Ciampi scriveva i suoi versi in osteria, su tovaglie di carta, poi correva dal fido Gianni Marchetti in RCA per farseli musicare. La cosa straordinaria è che un professionista come Marchetti le musicava sul serio, quelle tovaglie, senza scacciare l'importuno Ciampi. Miracoli di una gestione illuminata targata Ennio Melis».

Cosa deve accadere perché un evento si traduca in uno stimolo per scrivere una canzone?

«Quando ti abitui a scrivere, sei sempre alla ricerca dello stimolo giusto. Imbratti risme di carta solo per capire che non era lo stimolo giusto. Lo stimolo giusto, però, è già quello che ti fa provare la frustrazione di non riuscirci: se non ci riesci, è perché non stai scavando abbastanza a fondo, non sei ancora sincero con te stesso. Ti accade un evento sconvolgente ma sei bloccato, le parole escono retoriche come le cronache che leggi sui quotidiani locali: significa che non hai ancora elaborato, non hai la giusta prospettiva dei fatti, vedi solo il lato personale e non l'essenza per così dire universale, quella che puoi rileggere a distanza di anni senza provare rammarico per la tua avventatezza».

Dici che prima o poi scriverai un libro delle cose che ti sono capitate suonando in giro per locali. È proprio così ricca di spunti la vita del cantautore?

«Il libro sulle mie infamie da musicista senza lode lo sto già scrivendo a mente, e si dipana tra ciò che avrei voluto aggiungere ai testi delle canzoni e le canzoni che non sono stato in grado di comporre. La cornice di questa narrazione cerebrale è la mia ventennale esperienza come concertista nei bar (si torna sempre lì) in cui mi sono scontrato con testardi avventori che non si facevano scrupoli a sbeffeggiarmi o, nel caso, a pagarmi un giro. Ho tirato mattina a controbattere a tipi strambi che mi scambiavano per il loro psicologo o il loro migliore amico, e tutto perché mi ero messo sotto i riflettori a cantare cose mie. Sai, a volte penso che per un cantautore il gran gioco della musica sia finalizzato a introdursi nella vita di estranei: stimolarli, stuzzicarli, portarli sul tuo terreno di confronto, dopodiché saranno loro a venirti a cercare mentre ti bevi una birra dopo il concerto. D'altronde è quello che faccio io quando assisto a una performance d'eccezione: dopo l'ultima nota, blocco l'artista e gli srotolo l'elenco delle sensazioni che mi ha fatto provare. In questo senso la vita del cantautore è inversamente proporzionale all'eredità materiale che lascerà: ricchissima».


Titolo: Malaccetto
Artista: Ugo Cattabiani
Etichetta: Rigoletto Records
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Ugo Cattabiani eccetto dove diversamente indicato)

01. Malaccetto
02. Rosa dei venti
03. Canzone per un fratello
04. Mi piace il bar  [Andrea G. Pinketts; Ugo Cattabiani]
05. Odette
06. Lontano lontano  [Luigi Tenco]
07. Happy B (ti odio ma l'accetto)
08. Circe
09. Notte d'artificio
10. Bob della Zena


martedì 31 gennaio 2017

"A quiet life", il nuovo album dei Sir Rick Bowman





Si intitola "A quiet life" ed è il secondo disco dei toscani Sir Rick Bowman, band nata nel 2008 e subito protagonista nei locali delle province di Prato e Firenze in formazione semi-acustica. Il gruppo guidato da Riccardo Caliandro (voce e chitarra) ha messo in evidenza, fin da subito, una spiccata predilezione per la musica inglese, in particolare per il britpop. Progressivamente, al nucleo originario si sono aggiunti altri musicisti che hanno dato maggiore respiro al progetto e dopo alcuni Ep, la band ha pubblicato nel 2013 il primo disco autoprodotto dal titolo "Shades of the queue" con sonorità che hanno abbracciato anche il rock e l'elettronica. Archiviato il primo capitolo discografico, i Sir Rick Bowman sono tornati al lavoro e nei mesi scorsi hanno dato alle stampe "A quiet life", album che è stato registrato all'Ep Sop Recording Studio di Sesto Fiorentino e al The Carlos Room di Prato. Il lavoro è stato poi mixato e masterizzato da Leo Magnolfi. Diverse le influenze che si possono cogliere nelle tracce che compongono il disco e la predilezione verso certe sonorità britpop ha lasciato spazio a marcati accenni di psichedelia, rock, blues e naturalmente elettronica. Il disco, molto vario musicalmente e ben costruito, ha rappresentato un deciso passo in avanti nella maturazione artistica di questo interessante gruppo di cui fanno parte, oltre a Caliandro, Andrea Fabio Fattori (chitarra solista), Francesco Battaglia (basso, cori), Giacomo Di Filippo (tastiere), Emanuele Pagliai (batteria).
Della speranza di "una vita tranquilla" ne abbiamo parlato con Riccardo Caliandro. 



Dopo "Shades of the queue" del 2013, avete dato alle stampe il vostro secondo disco, "A quiet life". Qual è il motivo che vi ha spinto a farlo?

«"Shades of the queue" è un disco che abbiamo suonato molto, quasi troppo, e che racchiude il percorso evolutivo - e moltiplicativo - della band fino al 2013. Non c'è una ragione in particolare per il secondo, "A quiet life", - a parte i contratti milionari da rispettare (ride) - se non la voglia di fare altro, di dar forma a ciò che in modo naturale ha continuato a traboccare dagli strumenti. Abbiamo quindi cercato di mettere tutti e cinque gli occhi dietro l'obiettivo, per immortalare un momento di passaggio, personale e generazionale, come quello dei trent'anni. O venticinque, o trentacinque, in ogni caso quella traversata verso "A quiet life"».

La vostra bussola musicale punta verso il britpop anche se non mancano chiari riferimenti verso la psichedelia, il folk, il blues. Ritieni che il britpop abbia ancora qualcosa da dire?

«Ci capita spesso di essere associati al britpop: niente di personale verso il genere, il 20% della band ci è anche cresciuto, ma siamo abbastanza convinti che - soprattutto in questo disco - ci sia psichedelia, blues, rock'n'roll, folk, elettronica; forse il gusto per la melodia che a volte frettolosamente si etichetta come britpop fa da collante di base ma se cantassimo in italiano, che etichetta ci verrebbe cucita addosso? Il britpop tornerà di moda forse tra cinque, sei anni, ma in questo momento sembra assumere un'accezione restrittiva, quasi negativa, quando usato. Noi crediamo - e chi scende nelle profondità della nostra musica lo sente - di far molto di più».

Quali sono i gruppi che pensate possano avervi maggiormente influenzato?

«Ne potremmo citare molti. Ho iniziato a scrivere canzoni a otto anni, insieme a mia sorella Valeria (oggi la cantautrice Vilrouge) e allora - anche se di difficile percezione - le influenze erano gli ascolti in casa dei nostri genitori, dai classici italiani, fino ai Pink Floyd. Sono loro i primi in senso cronologico: lì si è determinato l'orientamento verso la musica anglosassone, o almeno credo. C'è poi chi di noi è cresciuto con i grandi chitarristi, il blues, i Led Zeppelin, il rock, gli anni '80, il pop, - quello fatto bene - ma anche la psichedelia, l'elettronica, il folk. ‹Ne potremmo citare molti› avevo detto, ma è più bello parlare per suggestioni».

Da dove deriva il nome del vostro gruppo?

«È una lunga, lunga storia. "Sir", è frutto della mente geniale di un mio caro amico, che cominciò a chiamarmi così molti anni fa per via dei modi regali che mi contraddistinguevano all'epoca. "Rick", facile. "Bowman", dedicato a Dave Bowman, protagonista di uno dei film più influenti per la sua unicità, "2001 Odissea nello Spazio". Prima ero da solo, e poi siamo diventati la band, 'i' Sir Rick Bowman. Non è poi così lunga come storia».

Chi sono i Sir Rick Bowman e da dove vengono?

«I Sir Rick Bowman si sviluppano a partire dal 2008, quando l'allora nucleo originale (chitarra, basso, batteria) inizia ad affacciarsi sui palchi delle province di Prato e Firenze in forma semi-acustica, arruolando progressivamente musicisti (seconda chitarra, piano) in grado di esprimere e dare vita ad un progetto che già dalle prime intenzioni sembra dover acquisire un respiro più ampio. Dopo alcuni avvicendamenti, arrivano alla formazione attuale».

Siete tutti intorno ai trent'anni, in un verso o nell'altro sono gli anni della svolta, delle grandi decisioni. Come li state affrontando a livello artistico?

«Scrivendo "A quiet life". Abbiamo sentito la necessità di immortalare un momento di passaggio che in ogni caso non tornerà, ma facendolo con la consapevolezza di chi sa che una fase della vita sta per passare lasciandosi dietro gioie e dolori. Niente di tragico, s'intende, ma per sfiorare l'aulico vorrei affermare che ci siamo messi a sedere e ci siamo fatti un autoscatto col timer a dieci secondi o forse più, anziché un banale selfie».

"440 or this thorn in the side" getta una luce nostalgica sugli anni che passano. Ci spieghi questa canzone.

«Come dicevo prima, il disco è un percorso attraverso varie fasi di analisi di ciò che si è (stati), e in questa ballata a metà tra gli Smiths e non so cosa, abbiamo voluto disegnare un ragazzo che si ritrova per caso in un luogo legato alla sua gioventù - un campo di calcio? - e, paralizzato dall'improvvisa percezione dello scorrere del tempo, è investito da un turbinio di emozioni e ricordi che quotidianamente lascia da parte».

"1937" ha un testo ermetico e la voce è usata quasi fosse uno strumento. Un brano onirico...

«Assolutamente d'accordo. La dimensione onirica riveste un'importanza decisiva nel nostro modo di scrivere musica. In "1937" il testo è ungarettiano anche per le luci e le ombre che getta su frammenti di guerra passata e futura; a supporto, un groove asciutto e tribale mescolato a synth eterei, profondi. Psichedelia ristretta».

"Hurry & fall" è un pezzo che strizza l'occhio al folk suonato con accordature aperte, cori e armonizzazioni molto interessanti…

«E poi c'è il folk. Il caro vecchio folk, le accordature aperte, andare 'da un'altra parte'. "Hurry & fall" nasce acustica, cruda, per vestirsi poi degnamente dell'abito dato nel disco. Ci siamo divertiti ad armonizzare con le voci, ad incrociare le chitarre... Ne è venuto fuori un bel pezzo, uno dei molti non riconducibili ad un'unica influenza, e forse più U.S.A. che U.K.».

Questo a confermare l'eterogeneità del disco che rispecchia un po' i vostri differenti gusti e background…

«Ognuno di noi ha uno o più punti di contatto con un altro membro della band, ma forse non c'è davvero continuità tra i gusti di tutti, e questo finisce per manifestarsi nel substrato del disco. Ecco il punto di arrivo: un disco eterogeneo e organico, tortuoso e talvolta angolare, ma che non si spezza mai».

L'album si chiude con "Black horizon", una canzone che si discosta un po' da quelle precedenti. È un capitolo di questo disco o può essere considerato un punto di partenza per un prossimo progetto?

«Curiamo molto la tracklist dei nostri dischi. Per "A quiet life" ognuno di noi ha buttato giù una proposta, e poi le abbiamo incrociate. "Black horizon" meritava la chiusura, chiude perfettamente il cerchio: è una canzone sospesa tra la parte più scura degli anni '80 e le suite dei '70, con una lunga coda onirica in crescendo che fa da contraltare all'andamento asciutto dei primi minuti. Gli ultimi tre accordi disegnano volutamente un finale aperto, rimettendo alla soggettività dell'individuo qualsiasi giudizio sulla 'vita tranquilla'. In ogni caso, non sappiamo ancora se sarà il punto di partenza per il disco che verrà, le prossime session ci diranno in che direzione incamminarci, abbiamo già qualche idea».

Avete ancora qualcosa nel cassetto delle session che hanno dato vita al disco?

«Tra mutande e calzini qualcosa troviamo sempre. Ci piace molto improvvisare e abbiamo alcune versioni embrionali di potenziali pezzi giusti: se avranno un futuro o meno dipenderà anche dall'inclinazione che daremo al prossimo album».

Qual è la canzone che ritenete sia cresciuta maggiormente dopo il lavoro in studio?

«Il lavoro all'El Sop con Leo Magnolfi ha fatto crescere tutti i pezzi. Siamo arrivati in studio con molte idee chiare (come al solito), ma la collaborazione con Leo è stata un'esperienza davvero costruttiva: siamo riusciti a dare calore e profondità, a plasmare i suoni, tutte le tracce sono migliorate sensibilmente, ognuna per un aspetto diverso. Ci siamo trovati bene a livello umano ed artistico, e le cose sono venute da sé. In definitiva, siamo soddisfatti del sound raggiunto in "A quiet life", ma non è il caso di fermarsi: vogliamo proseguire con la ricerca, non rimanere parcheggiati nella comfort zone, non ripetere ciò che riteniamo di saper fare».



Titolo: A Quiet Life
Gruppo: Sir Rick Bowman
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Riccardo Caliandro)

01. Otis
02. Tip of the tongue
03. His man
04. A quiet life
05. 1937
06. Hurry & fall
07. The A. of Spencer Dwight
08. 440 or this thorn in the side
09. Youth
10. Seawolf
11. Black horizon