mercoledì 28 gennaio 2015

Benvenuti nel "Luna Park" di Davide Solfrini






È una giostra di periferia in cui si incontrano personaggi che si dibattono tra speranze e distruzione, altri in cerca di riscatto o semplicemente impegnati a portare avanti la loro esistenza nel ricordo dell'infanzia e della giovinezza, altri ancora alle prese con storie d'amore ormai finite e consumate. Un mondo piccolo, a tratti caotico e grottesco che Davide Solfrini colloca sotto i riflettori di "Luna Park", il suo secondo album dopo "Muda" e i precedenti due Ep autoprodotti "Shiva e il monolocale" e "Circadian Blues". Un luna park poco appariscente che si può incontrare in una delle tante località della riviera adriatica che perdono la luce dei riflettori nei mesi invernali ma altrettanto bene lo si può immaginare alla periferia di una cittadina degli Stati Uniti. E proprio con la musica d'oltreoceano che Solfrini paga il debito accumulato in tanti anni di ascolti musicali.
Il musicista di Cattolica mette sul piatto una scrittura a tratti malinconica ma nello stesso tempo vigorosa e piacevole che trova ispirazione nelle grandi ballate rock del passato e nelle sonorità di matrice "americana" su cui si innestano però nuovi interessanti spunti. Ne sono esempio le sperimentazioni rythm'n'noise di "Mi piace il blues" o l'electro/wave di "Luna Park", canzone che trasporta l'ascoltatore su una pista da dancefloor.
Nel disco Solfrini suona chitarre elettriche e acustiche, tastiere, programming e si fa aiutare da Gabriele Palazzi Rossi e Francesco R. Cola alla batteria, da Omar Bologna alla chitarra, da Paolo Beccari all'armonica e da Valentina Solfrini ai cori. Il disco è pubblicato dalla etichetta New Model Label.
È lo stesso Davide Solfrini a farci scoprire il suo "Luna Park".




Chi è Davide Solfrini?

«Un folle lucido che pensa di avere qualcosa da dire e decide comunque di seguire la sua vocazione, nonostante le sue scarsissime capacità di gestire media e comunicazione, in un periodo dove tutto sembra avverso per chi vuole far musica e una persona su dieci pubblica un disco».

Quale è stato il tuo incontro con la musica e come sei arrivato a fare il musicista?

«Ho scoperto la musica grazie ai dischi di mio padre e poi, fin dai tempi delle elementari, ero più attratto da Video Music piuttosto che dai cartoni animati. Il bisogno di imbracciare una chitarra è stato quasi fisiologico anche se pur sempre da autodidatta».

Citando il finale della canzone “Bruno”, di cosa non hai voglia?

«In quella canzone, senza celebrare o criticare nessuno, guardo la vita di un tossicodipendente degli anni del "boom" dell'eroina in Italia, quando fare il "drogato" era un vero e proprio lavoro a tempo pieno e la guardo con un po' di immedesimazione. Chi imboccava quella strada infatti rinunciava a tutto ciò che era una vita "normale" (famiglia, affetti, lavoro, veri amici, vita sociale) e tante volte guardando queste persone (e soprattutto questa persona, realmente esistita), pur non avendo mai fatto parte di quegli ambienti, mi sono sentito un po' come loro, con un bisogno, una pulsione a mandare tutto e tutti a quel paese e a rinchiudermi in me stesso, per dedicarmi a qualcosa di autodistruttivo e alienante. E "beati loro" che almeno sapevano che nel loro caso quella pulsione era l'eroina, perché io, nel mio caso, non ho ancora capito da dove viene! È il mio desiderio di dire: "Si, sono anche io un drogato e non ho voglia di pensare al lavoro, al futuro, agli altri, a me stesso… non ho voglia punto e basta, senza perché e senza sentirmi in colpa"».

In "Elvis" lanci il messaggio "Pagate meglio il dj!" e i musicisti nel 2015 che fine fanno?

«Se la passano peggio dei drogati di cui parlavo sopra ma hanno ancora la forza di sopravvivere. Siamo personaggi borderline e troviamo nel narcisismo la forza, nel bene e nel male, di esistere».

Canti "Mi piace il blues" ma il disco ha molto poco blues al suo interno. Lo tieni per il prossimo disco o è un genere che non ti attrae?

«Il blues lo apprezzo, mi piacciono John Lee Hooker, i Canned Heat , J.J. Cale e tanti altri, ma di certo non sarebbe un buon mezzo o un buon supporto per il mio tipo di testi o di sentire la musica. È molto improbabile che in futuro dalle mie corde esca un disco blues».

Qual è il tuo "Luna Park" preferito?

«Youtube».

Dici che "Ci vuole tempo" ma per fare cosa?

«Per fare le cose belle, quelle che ci soddisfano, ci insegnano e ci cambiano. Leggere un libro, educare un cane, fare un disco, crescere un figlio, studiare un argomento, conoscere una persona… Purtroppo molti vivono in un'ottica secondo la quale se l'obiettivo non è ben chiaro, vicino e facilmente raggiungibile tutto ciò che si fa è uno spreco di tempo e di energia».

Chi sono i protagonisti delle tue canzoni?

«Personaggi più o meno borderline, ma, positivi o negativi che siano, hanno una parte di loro nella quale mi identifico, e soprattutto una parte che rappresenta in maniera scomoda un po' tutto il genere umano».

A cosa serve una canzone?

«Mi pare che una volta Miles Davis abbia detto <Se devi chiedere cos’è il jazz allora non lo saprai mai>. Io riutilizzo questo concetto dicendo che <Se devi chiedere a cosa serve una canzone significa che per te non servirà mai a nulla>. Super citazioni a parte solo chi nell'adolescenza o da giovane ha comprato un disco, lo ha ascoltato per giorni fino a lasciare che questo cambiasse la sua percezione delle cose conosce la risposta a questa domanda, io a parole non so dartela».

Ti ricordi la prima canzone che hai scritto?

«Era orribile, tante parole per non dire assolutamente nulla».

C'è un artista con il quale ti piacerebbe collaborare?

«Ce ne sono tanti, dai Flor che dopo anni sono tornati sulle scene a personaggi del calibro di Bersani o Dente. Artisti che non si siedono sugli allori ma cercano in continuazione nuove strade e nuovi stimoli».

Guarderai il Festival di Sanremo?

«Probabilmente non lo guarderò ma tanto alle mie orecchie in un modo o nell'altro arriverà e onestamente non so nemmeno io cosa ne penso. È un aspetto del mondo musicale italiano del quale bisogna tenere conto, ma io non ho più le energie né per valutarlo, né per misurarmici. Ipocrisie a parte: non mi piace ma se qualcuno mi mandasse a San Remo non direi certo di no».

Se avessi la possibilità di scegliere il tuo destino su cosa punteresti?

«Musica, suonare con una band elettrica e soprattutto pubblicare più album possibili».

Qual è la tua idea di qualità della vita?

«Essere padroni del proprio tempo».




Titolo: Luna Park
Artista: Davide Solfrini
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2015


Tracce
(testi e musiche di Davide Solfrini)

01. Cenere
02. Luna Park
03. Bruno
04. Mi piace il blues
05. Ballata
06. Lavanderia
07. Mai più ogni cosa
08. Elvis
09. Hardcore
10. Ci vuole tempo






mercoledì 21 gennaio 2015

"La parte migliore" donata da Sabrina Napoleone






"La parte migliore", album d'esordio della cantautrice genovese Sabrina Napoleone, è un viaggio alla scoperta dell'intimità dell'uomo tra canzoni potenti e momenti riflessivi e più raccolti. Il disco, il primo da solista dopo l'esperienza formativa a metà anni '90 con gli Aut-Aut (all'attivo l'Ep "Aria di Vetro" e il disco "Anacronismi"), mette sul piatto dieci canzoni viscerali che raccontano con sensibilità le disillusioni dei tempi che stiamo vivendo. È un album a tratti ruvido, visionario, dalle atmosfere vagamente psichedeliche, denso di citazioni filosofiche (la Napoleone è laureata con lode in Filosofia), in cui la canzone d'autore si unisce alla sperimentazione elettroacustica di matrice rock, in cui il noise va a braccetto con certe influenze alt-rock degli anni '90 e in cui la rabbia e la speranza sono facce di una stessa medaglia.
Tema centrale del disco è la mancanza, la perdita, la privazione della fede, dell'amore, della libertà, delle certezze ma anche della vita stessa, come celebra la Napoleone in "Fire", brano che apre il disco. Sentimenti ed esperienze di vita che la quarantunenne artista genovese racconta e descrive da una prospettiva non convenzionale. La privazione, materiale o spirituale che sia, non è vista dall'autrice sempre come un fattore negativo. Anzi, la parte migliore rappresenta proprio quella capacità di condividere senza avvertire il peso della privazione o della rinuncia.  
Sul piano musicale grande merito va anche a Giulio Gaietto che cura la produzione artistica e contribuisce suonando basso, synth, chitarra elettrica e soundscapes. Completano l'organico Marco Topini alle chitarre, Osvaldo Loi al piano, al synth e agli archi, Jess alla batteria.
Nell'intervista che segue parliamo con Sabrina del suo disco, che ha fatto parte dei candidati al Premio Tenco 2014 nella categoria Opere Prime, e del recente tour a fianco di Lene Lovich, artista di culto della scena new wave.




Sono tempi difficili e nel tuo disco d'esordio traspare evidente una buona dose di disagio nei rapporti con gli altri e con il quotidiano. È proprio una vita così complicata?

«La nostra vita è così complessa che il solo tentativo di osservare il dedalo di relazioni tra noi e l'ambiente che ci circonda (sia sociale che naturale) provoca un violento senso di vertigine. Forse è per questo che tutti noi la accettiamo passivamente, senza porci troppe o ripetute domande. Il nostro atteggiamento nei confronti degli altri e del mondo è per lo più pratico ed acritico. Naturalmente se ci soffermassimo su ogni dettaglio e cercassimo di comprendere le ragioni di tutto resteremmo paralizzati. Ogni tanto però credo sia bene dare un'occhiata all'abisso, a quello dentro di noi e a quello che sta fuori. Solo ogni tanto».

L'argomento centrale del disco è la privazione, in tutte le sue sfaccettature. Quale parte migliore dovremmo lasciare al prossimo?

«Sì, ogni brano porta in scena la perdita o la privazione, ma non sempre in senso negativo o pessimistico. La parte migliore di noi è quella che non conosce il valore delle cose e divide, dona, condivide, senza avvertire il peso della privazione. È la parte di noi che sta al di là di concetti quali egoismo e altruismo. Al prossimo dovremmo insegnare a coltivare quella parte di sé e a difenderla affinché nessuno possa svilirla, umiliarla e sottrarle a forza la propria purezza, la propria fiducia».

Da chi hai appreso questo insegnamento?

«È un insegnamento che hanno impresso a fuoco dentro di me i miei genitori. Li ringrazio per questo, ma li rimprovero per non avere protetto e non avermi insegnato a proteggere ciò che mi stavano donando».

A un approccio molto superficiale sembrerebbe un disco "buonista", dai buoni intendimenti. Invece c'è rabbia e sofferenza nelle tue parole…

«Il titolo potrebbe trarre in inganno, ma la copertina disegnata da Priscilla Jamone già lascia intuire che non ci si addentrerà in un mondo fatato e rassicurante».

Così come rabbia c'è nella musica aspra, a tratti dura e noise. Da chi ti sei lasciata ispirare?

«Non c'è stato un riferimento diretto, ma so che ogni cosa che ho ascoltato nella vita ha lasciato traccia. La cosa principale è che ho cercato di essere, anche acusticamente, fedele alle emozioni che volevo esprimere. Giulio Gaietto, che ha curato la produzione artistica de "La Parte Migliore", e con cui collaboro da sempre, ha compreso questa mia esigenza. Se potessimo dare volume a quello che abbiamo in testa, ai nostri pensieri, ebbene credo che difficilmente sarebbero armonici. Per questo il rumore è una componente essenziale della mia musica».

Il disco inizia con "Fire", una breve canzone in cui immagini il giorno della tua morte…

«L'album inizia dalla fine. Mi immagino indifesa, esposta... Bisogna essere totalmente inermi ed inerti per permettere agli altri di entrare per intero nel nostro mondo più intimo. Quando compongo e quando mi esibisco non ho filtri, vorrei non ne avesse neppure chi ascolta, ma so che ci vuole molto tempo e coraggio per liberarsi dai cliché, per essere liberi».

In "Dorothy" prendi una posizione netta contro l'accettazione passiva dei dogmi religiosi e ideologici. Qual è il tuo rapporto con la religione e la chiesa?

«Il mio misticismo ha rischiato di essere annientato dalla dottrina. Come molti italiani ho ricevuto un'educazione cattolica ma ho sempre preferito il dubbio e la ricerca alla verità assoluta. Una nota opera del pittore spagnolo Francisco Goya si intitola "Il Sonno della Ragione Genera Mostri"». 

Sei andata alla messa di Natale?

«No, non sono andata alla messa di Natale. Sono stata a casa con le persone che amo».

"È Primavera", brano che affronta alcuni aspetti della Primavera Araba, si chiude con la citazione "È primavera… svegliatevi bambine" tratta da "Mattinata fiorentina", canzone cantata negli anni Trenta dallo chansonnier Odoardo Spadaro. Secondo te le bambine, in questo caso la parte femminile del mondo arabo, hanno in mano la soluzione per riportare finalmente la pace?

«Certamente nessuno può dire quale sia la soluzione. Tuttavia l'esclusione di metà della popolazione dal mondo della cultura e della politica non arricchisce né l'una né l'altra».

Chi sono le "coscine di pollo" cantate in "Insomnia"?

«Siamo io, tu e tutti quelli che conosciamo. Ci lasciamo cullare ed addormentare. Goya l'ho già citato ma ci fa compagnia anche qui».

Non pensi che la vita senza bellezza sia triste e grigia?

«Certo abbiamo bisogno di bellezza così come di amore. Ci riappacifica con il mondo. Talvolta la scoviamo dove non avremmo mai pensato e non vogliamo più separarcene. Forse la Gorgone Medusa era tanto bella da rendere impossibile a chi l'avesse vista di allontanarsi da lei».

È curioso come a Genova, storicamente patria di grandi cantautori, in questi anni sia nato un movimento di cantautrici molto interessante. È la vostra rivincita?

«Le donne sono autrici della propria musica da poco tempo, in Italia con un ritardo ulteriore rispetto ai paesi anglofoni. Semplicemente prima non c'erano cantautrici. A Genova siamo parecchie e molte di noi collaborano. La musica sta vivendo una nuova stagione malgrado il mercato musicale sia nel caos».

Nelle ultime settimane hai accompagnato in tour Lene Lovich. Come è nata questa collaborazione e cosa ti ha dato a livello professionale e umano?

«Ho incontrato Lene a Genova a giugno durante il Lilith Festival. È un'artista eccezionale ed una persona meravigliosa. Quest'avventura, che ha portato me e la mia band a condividere alcuni importanti palchi da nord a sud Italia, con Lene & band, ha lasciato molti bei ricordi a tutti noi. Siamo stati bene assieme tutti abbiamo imparato ed insegnato qualcosa. Niente divismi o invidie solo un grande rispetto e stima reciproca e naturalmente buon rock».

Ora cosa dobbiamo aspettarci?

«Continueremo a suonare in giro, in preparazione ci sono un paio di tour con qualche data all'estero, grazie anche alla mia etichetta OrangeHome Records che sta lavorando al booking, ma sto già pensando al nuovo album. Ho un bisogno fortissimo di continuare il discorso iniziato, di dare un altro sguardo all'abisso assieme a chi vorrà seguirmi. Non posso prevedere i tempi ma spero non siano lunghissimi. Visto che siamo nel periodo dei buoni propositi spero di terminare almeno la fase di composizione e pre produzione entro il 2015».



Titolo: La parte migliore
Artista: Sabrina Napoleone
Etichetta: OrangeHome Records
Anno di pubblicazione: 2014 


Tracce
(testi di Sabrina Napoleone, musiche di Sabrina Napoleone e Giulio Gaietto)

01. Fire
02. L'indovino islandese
03. Prima dell'alba
04. La parte migliore
05. Dorothy
06. È primavera
07. Insomnia
08. Medusa
09. Pugno di mosche
10. Epochè




martedì 13 gennaio 2015

Punto e Virgola cantano "L'uomo dei tuoi sogni"






Gabriele Graziani, già voce del gruppo Equ, e Alessandro Maltoni, chitarrista con vent'anni di esperienza sui palchi italiani, sono Punto e Virgola. Un "segno di interpunzione" musicale che in questi giorni presenta l'opera prima "L'uomo dei tuoi sogni", un concept album che contiene undici canzoni dai testi raffinati e colti, ricchi di metafore, che mescolano ironia, poesia surrealista e atmosfere oniriche. Il tutto è legato da un linguaggio musicale che attinge a stili e influenze diverse e se da una parte richiama certe composizioni di Daniele Silvestri, dall'altra paga un debito verso atmosfere che rimandano a Gaber e Jannacci. A unire i brani del disco è una ipotetica partita di calcio tra la nazionale dei poeti italiani e quella del resto del mondo commentata da Bruno Pizzul, la più famosa voce del giornalismo sportivo italiano. La telecronaca ha un ruolo di primaria importanza nel disco. Ha la funzione di aprire e concludere l'album, di introdurre le canzoni e nello stesso tempo costringe l'ascoltatore a mantenere alta l'attenzione sulla musica che può essere interrotta in ogni momento da Pizzul che chiede la linea per descrivere una occasione da rete o una sostituzione. La partita si conclude con un nulla di fatto ma a vincere è il duo Punto e Virgola che realizza un disco piacevole che sorprende sin dal primo ascolto.
Il racconto di questa surreale radiocronaca è scritto in collaborazione con il drammaturgo Federico Bellini mentre i testi di tre canzoni sono firmati da Eugenio Baroncelli, scrittore e poeta ravennate. Gli arrangiamenti musicali sono arricchiti dai contributi di Pier Foschi, Fabio Petretti, Roberto Villa, Roberto Leoncini, Giuseppe Zanca, Vanni Crociani, Miguel e Alessandro "Fabar" Fabbri degli Equ.
Con Gabriele Graziani abbiamo parlato in anteprima del disco e dell'incontro con Bruno Pizzul. 



Gabriele, prima di tutto spiegaci come siete riusciti a coinvolgere il grande Bruno Pizzul in questo vostro progetto discografico…

«Quando abbiamo scritto il disco, abbiamo trovato un filo logico invisibile capace di sorprenderci ma non di sorprendere, ci voleva una voce narrante, per collegare il tutto, anzi, la voce, e per quanto mi riguarda la voce in questione doveva essere assolutamente visibile ad occhio nudo; Pizzul fa parte del nostro dna, della nostra storia, anche per chi non ama il gioco del calcio, Pizzul è per eccellenza la nostra voce nostalgica. È stato stupendo parlare con lui, registrare da lui la sua voce tra il salotto e la cucina, dentro la sua quotidianità, tra una telefona alla figlia e un dialogo con la moglie "tutto molto bello". Eravamo a Milano ma potevamo essere ovunque, in un luogo senza età. Con lui il filo è diventato visibile e il disco è diventato romanzo».

Pizzul nel disco fa la radiocronaca di una immaginaria partita tra la nazionale dei poeti italiani e quella del resto del mondo. Chi ha avuto l'idea e quale senso ha all'interno del disco?

«La praticità della partita è il senso della poesia. Per quello che non viviamo ancorati tra il possibile e l'astratto; mi piace mescolare il tutto, due modi e due mondi apparentemente lontani che si uniscono dentro un'ipotetica partita senza tempo, anche se, il tempo paradossalmente passa ed è ben visibile».

Come è nato il duo Punto e Virgola e perché questo nome?

«Il duo è nato da un'amicizia che dura da tanti anni. Siamo due surrealisti che tentano di portare un'ancora da qualche parte... oppure un ancora? Boh, dipendiamo dall'accento. Il nome del gruppo nasce invece dalla salvaguardia della specie. Purtroppo non siamo più abituati alla sospensione lunga e non assoluta; io adoro le sfumature e il punto e la virgola fanno parte di una punteggiatura in via di estinzione».

Quando vi siete conosciuti e come sono nate le canzoni?

«Musicalmente parlando ci conosciamo da un paio d'anni. Nella conoscenza musicale abbiamo cominciato con l'idea di sostenere le canzoni da lato B, in particolar modo quelle di Gaber; il nostro assetto live è molto semplice, una chitarra e due voci. Le canzoni nascono di conseguenza, una voglia di stupire prima di tutto noi stessi con la speranza poi di stupire l'ipotetico pubblico».

Come vi siete divisi i compiti?

«I compiti sono divisi equamente. Parte un giro di chitarra di Alessandro e un testo già preparato in anticipo, il tutto viene modificato lungo il giro melodico…».

Usate testi divertenti e surreali ma in cui si coglie sempre un fondo di amarezza e di disillusione. I protagonisti raggiungono i traguardi sognati ma questi poi non appagano le aspettative. È così o sbaglio?

«Non sbagli, nel senso che dentro una canzone teoricamente ci può stare tutto; l'ironia, la parte surreale e il senso pratico, quando poi si raggiunge la tanto sospirata felicità è giusto cambiare cd. La felicità è nel passaggio, nella sospensione e nel respiro, il tentativo è quello di soffiare cambiando traccia; spostare il tentativo, questa è la regola da inseguire».

Con "1915" raccontate la storia di un ragazzo ventenne disertore che viene arrestato. E quest'anno cade il centenario dell'entrata in guerra dell’Italia. Una coincidenza o la vostra idea per ricordare l’evento?

«Considerando che le coincidenze non esistono il racconto è vero, almeno così mi hanno detto. È la storia del mio trisavolo disertore che per una serie di avvenimenti scappa e si ritrova arrestato durante il conflitto, nel tragitto per andare in prigione incontrerà un battesimo di una bambina, e quella bambina diventerà la sua sposa dopo vent'anni. Il potere della sintesi di una canzone fa il resto. Il tutto è realmente accaduto, il passaggio e il paesaggio temporale è durato vent'anni; la ritengo la canzone più surreale del disco proprio perché vera!».

Perché la scelta di utilizzare come immagine di copertina la foto del poeta ravennate Eugenio Baroncelli?

«Baroncelli oltre ad essere un amico è il più grande scrittore vivente italiano. È un misto tra Dalì, Paolo Conte e Mattia Moreni, è indubbiamente l'uomo dei nostri sogni».

Baroncelli è anche autore del testo di tre canzoni. Avete adattato scritti già esistenti o avete bussato alla sua porta?

«I testi suoi sono stati modificati e riportati alla forma musicale, anche se, fanno rima e hanno già un ritmo».

Il disco è entrato anche a far parte dei candidati all’Opera Prima del Premio Tenco. Poteva andare meglio o va bene così?

«Benissimo così considerando che il disco non è ancora uscito, più surreale di così! Giustamente diventa surreale anche la promozione».

Gaber, Jannacci e chi altri ha influenzato la vostra musica?

«L'ispirazione non si fida e prende spunto da qualsiasi cosa, un manifesto, una voce, un autore».

Nelle ultime pagine del libretto riportate un pensiero di Fernando Pessoa: «La letteratura, come tutta l'arte, è la confessione che la vita non basta». Per voi musicisti la vita non basta o la musica non basta alla vita?

«Quando il musicista s'inventa un silenzio consapevole, allora diventa consapevole del senso».

Gabriele, come andrà avanti l'esperienza con gli Equ dopo questo disco?

«Sempre meglio!».



Titolo: L'uomo dei tuoi sogni
Gruppo: Punto e Virgola
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche e testi Gabriele Graziani e Alessandro Maltoni)

01. Bruno Pizzul - Le squadre   [testo scritto in collaborazione con Federico Bellini]
02. La vigile urbana
03. Labbra blu  [Gabriele Graziani e Vanni Crociani]
04. 3,14
05. Non so se mi piego
06. Bruno Pizzul - Primo tempo  [testo scritto in collaborazione con Federico Bellini]
07. Cuoca  [testo di Eugenio Baroncelli]
08. Aiuto bagnino
09. Mia comunque  [testo di Eugenio Baroncelli]
10. Bruno Pizzul - 9° del primo tempo  [testo scritto in collaborazione con Federico Bellini]
11. L'amputato
12. 1915
13. L'ultima cena
14. Bruno Pizzul - Finale partita  [testo scritto in collaborazione con Federico Bellini]
15. L'uomo dei tuoi sogni  [testo di Eugenio Baroncelli]



mercoledì 31 dicembre 2014

L'esordio in "Crescendo" del Duo Bottasso





Originari di Boves in Piemonte, i fratelli Simone (organetto diatonico) e Nicolò Bottasso (violino) sono tra i più apprezzati interpreti di musica tradizionale della nuova generazione. È musica viva, attuale, quella suonata dal Duo Bottasso che non si limita semplicemente a proporre suoni del passato ma, partendo dalle proprie radici musicali, scrive nuove e attuali pagine di musica tradizionale e popolare. Questo è "Crescendo", disco d'esordio pubblicato il 13 dicembre da Simone e Nicolò, che sarà presentato il 2 gennaio a Loano nell'ambito di "Racconti d'Inverno", rassegna collegata alla decima edizione del Premio Città di Loano per la musica tradizionale italiana. Nell'album i fratelli Bottasso hanno raccolto un repertorio originale in cui le influenze jazz e i ritmi brasiliani si mischiano con le peculiarità della musica occitana e francese.
"Crescendo" è un disco di elevato spessore artistico che merita di essere annoverato tra le cose più belle e interessanti pubblicate in ambito tradizionale nel 2014. Musica colta che poggia su basi solide ma allo stesso tempo mai di difficile comprensione, cerebrale o, peggio ancora, noiosa. È invece ritmo e passione quello che sgorga da queste nove tracce che hanno visto la luce dopo un lungo anno di lavoro. Per il loro album i fratelli Bottasso hanno potuto contare sulla collaborazione di artisti di grande fama come la cantante sarda Elena Ledda, il percussionista brasiliano Gilson Silveira, il polistrumentista e compositore Mauro Palmas al liuto cantabile, il direttore dell’Orchestra Tradalp Christian Thoma al corno inglese.
Al ritorno da Rotterdam, dove studia composizione jazz, contemporanea ed elettronica, e prima di ripartire per Gent con gli Stygiens, siamo riusciti a contattare Simone Bottasso che gentilmente ci ha concesso l'intervista che segue.




Simone, spiegaci come siete arrivati a produrre il vostro primo disco.

«Io e mio fratello Nicolò suoniamo insieme da quando lui ha iniziato, a sette anni e adesso ne ha venti. Fin dall'inizio abbiamo sempre suonato in concerti da ballo, poi abbiamo avuto anche richieste in altri contesti e ci siamo esibiti in festival di world music, di musica classica. In questi anni in molti ci hanno chiesto di registrare un disco di musiche da ballo ma l'idea non ci ha mai convinto, anche perché pensiamo che il ballo sia molto legato alla performance, all'esibizione dal vivo. Abbiamo quindi aspettato di avere le idee chiare e l'anno scorso ci siamo finalmente decisi ad andare in studio di registrazione e il lavoro è durato tantissimo. Abbiamo iniziato giusto un anno fa, intorno al 20 dicembre se non ricordo male, e il disco è uscito il 13 dicembre di quest'anno».

"Crescendo" è un disco sorprendente per la qualità delle composizioni, per la freschezza e anche per la varietà di generi. Nel vostro viaggio toccate la musica occitana ma anche le sonorità mediterranee, il funk, la musica scandinava, irlandese, brasiliana. Come siete riusciti a racchiudere tutto questo in nove composizioni mantenendo comunque una struttura equilibrata al disco?

«Abbiamo fatto un bel lavoro di progettazione. Avevamo chiaro fin dall'inizio che il disco sarebbe stato molto vario, con diverse sonorità, anche perché non abbiamo mai ritenuto interessante registrare un album che fosse semplicemente di musica tradizionale. Abbiamo così progettato un disco molto vario e con alcuni ospiti. Certo, c'era il rischio di produrre un disco "arlecchino" con sonorità non collegate tra loro ma mi pare che anche la critica abbia apprezzato il lavoro che è stato fatto e quindi siamo soddisfatti. Per quanto riguarda la metodologia siamo partiti da un progetto iniziale a cui, man mano che siamo andati avanti, abbiamo aggiunto ospiti, brani che all'inizio non erano previsti, abbiamo composto musiche nuove come "Magicicada" e "Crescendo". Non abbiamo mai tolto nulla e questa è un po' una nostra tendenza, abbiamo solo corretto un po' la rotta del progetto».

In pochi anni siete riusciti a conquistare la stima di molti illustri colleghi, a partire da Riccardo Tesi che ha sempre speso parole d'elogio nei vostri confronti. E poi nel disco avete potuto contare sulla collaborazione di Elena Ledda, Mauro Palmas, Gilson Silveira, Christian Thoma direttore dell’Orchestra Tradalp...

«Per noi è un onore. Sono persone che conosciamo da tanto tempo e con cui abbiamo avuto la fortuna di suonare. Riccardo nel disco non c'è ma ci ha aiutati entrambi tantissimo dandoci fiducia e consigli, quindi lo consideriamo presente a tutti gli effetti. Con Riccardo inoltre ho un progetto attivo da tre-quattro anni che si chiama "Triotonico" (il trio di suonatori di organetto diatonico è completato da Filippo Gambetta, ndr). In "Crescendo" ci è sembrato giusto ripercorrere un po' tutta la storia del duo e della nostra musica e invitare questi grandi artisti. La loro presenza è stata per noi di grande aiuto».

Inoltre so che per due anni Riccardo Tesi ti ha affidato un ruolo importante nel festival "Sentieri Acustici" che si tiene tutti gli anni a Pistoia.

«Per due anni ho fatto quello che Patrick Vaillant ha fatto nell'ultima edizione del festival. Insieme a Nicolò, a Pietro Numico che ha curato la direzione corale e che lavora con me anche con Abnoba, e con gli ospiti che sono presenti anche nel disco come Gilson Silveira, il contrabbassista Luca Curcio e il chitarrista Francesco Motta abbiamo curato la produzione originale del festival. Il lavoro è consistito nel fare quello che normalmente faccio con Folkestra ovvero scrivere musiche originali per un ensemble, una orchestra di strumenti tradizionali e non, e un coro. È stata una bella palestra, con un po' di ansia perché è sempre stato molto difficile. In quell'occasione Riccardo mi ha dato tantissima fiducia, ha scommesso su una persona che non era conosciuta come compositore. Non avevo le credenziali per fare una lavoro così ambizioso, però ha funzionato e mi ha trasmesso la voglia di approfondire lo studio della scrittura e della composizione per orchestra e mi ha spinto a iscrivermi al Conservatorio di Rotterdam dove sto studiando adesso».

Dite che vi sentite più eredi che attori della scena folk revival. Ci spieghi il motivo.

«Abbiamo sempre vissuto la diatriba tra i tradizionalisti e chi faceva folk rock e non ci è mai piaciuto schierarci. Sicuramente quello che facciamo non è riprendere la musica tradizionale come veniva fatto dai nostri insegnanti o da chi ha suonato musica tradizionale prima di noi. Non è più tempo di folk revival, c'è poca possibilità di andare a "raccogliere" musica e secondo me è arrivato il momento di creare una nuova tradizione. Fino a 20-30 anni fa c'era ancora un po' di trasmissione di musica orale, adesso tutto viene fissato su cd e il tramandare musica, come avveniva tradizionalmente, non esiste più. Quello che tentiamo di fare è digerire la musica che abbiamo ricevuto e cercare di darle un futuro sottoponendola a un processo forzato di evoluzione».

Nella canzone che dà il titolo al disco ti sei cimentato nella composizione per un ensemble allargato di undici elementi. Quali difficoltà hai incontrato?

«Le difficoltà sono state legate alla mia crescita come compositore. Sto facendo un percorso da musicista contemporaneo e ho avuto difficoltà a trovare una relazione tra quello che sto studiando e quello che faccio abitualmente nel mio lavoro, cioè scrivere musica non troppo complessa, non troppo dissonante. La difficoltà è stata appunto trovare un collegamento tra il passato di musicista tradizionale e il mio presente di compositore contemporaneo. E poi ci sono state difficoltà logistiche visto che io ero in Olanda e i musicisti in Italia, e fare le prove e mettere insieme due universi musicali diversi, ovvero il quartetto d'archi classici e i fiati jazz, non è stato facile».

Che rapporto hai con tuo fratello Nicolò?

«Ci sono dinamiche interessanti. Certo, suonare in famiglia è per certi versi più facile. È più agevole comunicare quando si va d'accordo e quando invece non c'è unicità di vedute si trova facilmente una quadra perché c’è molta più sincerità e fiducia reciproca. Questo aiuta a superare le inevitabili difficoltà».

Ma alla fine chi prende l'ultima decisione?

«Alla fine sono io ad impormi perché sono più grande, ho più esperienza, ho avuto la possibilità di suonare in diversi gruppi, di fare musica. Poi adesso studiando composizione mi sto chiarendo le idee su certe dinamiche e quindi l'ultima parola ce l'ho io anche se non è sempre facile».

Mentre i vostri coetanei ascoltavano Kylie Minogue, Eminem, Cristina Aguilera e Robbie Williams voi quale musica ascoltavate?

«Tutte le cose che non ascoltavano gli altri. Questo a volte è un vantaggio ma ora lo considero anche un limite perché sento che mi manca un collegamento con la musica che la gente comune ascolta e capisce. A livello pratico abbiamo iniziato ascoltando tanta musica tradizionale, sia delle nostre parti che in generale di tutta l'Europa, poi ci siamo interessati entrambi al jazz e alla musica classica. Io ero un fanatico del rock progressive. E poi funk e ultimamente musica elettronica. Penso che sia indispensabile avere ampi orizzonti quando si vuole creare una musica al passo con i tempi».

L'album si chiude con "Magicicada", la storia della cicala che dopo diciassette anni passati sotto terra completa il suo ciclo vitale alla luce del sole. Una metafora per rappresentare cosa?

«Ho visto un documentario sulle cicale e mi è venuto da pensare a questi animaletti che passano quasi tutta la loro esistenza sotto terra. Sono la metafora di quelle persone che a un certo punto della vita si accorgono che la strada intrapresa è diversa da quella che immaginavano, e magari scoprono che c'è un sole che li aspetta da qualche altra parte. Quel sole è anche la foresta che si riempie di musica, come appunto quella della cicale. È l'augurio di un futuro migliore per tutti gli uomini che scoprono che là fuori c'è qualcosa di nuovo, magari legato alla musica. Ed è anche l'augurio che cresca l'interesse ad andare ai concerti e a investire nell'arte come liberazione dalle sofferenze».

Cosa hanno a che fare con la musica tradizionale le percussioni brasiliane di Gilson Silveira e l'uso della loop station nella canzone "Cosa faresti se non avessi paura?"?

«Un amico ha fatto una ricerca e ha scoperto che in Brasile vivono persone di origine occitana e le percussioni fanno parte di questo gioco. Poi sono anche il frutto di questa bella collaborazione che abbiamo avuto con Gilson Silveira nel progetto di "Sentieri Acustici". Il fatto di utilizzare l'elettronica e la loop station è un piccolo mattoncino che abbiamo posato per il futuro. Di cose che vorremmo fare… È stimolante l'idea di utilizzare le macchine per modificare il suono degli strumenti».

I puristi storceranno il naso, naturalmente…

«Temo che lo abbiamo già fatto ascoltando questo disco».

Quali sono le difficoltà più grandi che avete dovuto affrontare nella vostra carriera?

«Se devo essere sincero la produzione del disco è stata una di queste. Adesso che l'album è finito e che si fanno i concerti va un po' meglio. Il generale la situazione culturale e musicale in Italia è veramente terrificante e se ti capita leggi quel bel libro della Banda Osiris intitolato "Le note dolenti. Il mestiere del musicista: se lo conosci lo eviti", che descrive bene la situazione della musica attuale e consiglia a tutti di non iniziare assolutamente a suonare uno strumento perché non è quella la strada per sopravvivere».



Titolo: Crescendo
Gruppo: Duo Bottasso
Etichetta: autoproduzione / Visage Music
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche di Simone Bottasso, eccetto dove diversamente indicato)

01. Cosa faresti se non avessi paura?
02. Diatofonia N.7
03. Reina  [Simone Bottasso, Maria Gabriella Ledda]
04. Monkerrina
05. Bourrée  [trad.]
06. Receita de Samba / Scottish sfasà  [Jacob do Bandolim, Silvio Peron]
07. The rose of Raby / Incantata  [Dave Shepherd / Nicolò Bottasso]
08. Crescendo
09. Magicicada



martedì 23 dicembre 2014

"Wood Rock", il variopinto paesaggio dei Tamuna





I Tamuna arrivano da Palermo, dal triangolo formato dai quartieri Kalsa, Zisa e Noce. Nella loro musica si scorgono i segni delle culture che per millenni hanno contaminato e contribuito a creare quello che è oggi la Sicilia, la sua arte, i suoi uomini. Le mille sfaccettature di uno dei paesaggi culturali più ricchi e affascinanti si possono trovare in "Wood Rock", secondo album del gruppo dopo "Sicily World Music" e l'Ep in edizione limitata "15 minutes with Tamuna” pubblicato in allegato al libro di Daniele Billitteri "Homo Panormitanus". I ritmi della tradizione, quelli scanditi dalla tammorra, si mischiano e si fondono con influenze blues, reggae, rock e pop. Il "rock di legno" dei Tamuna ci mostra ancora una volta come la musica, così come la cultura popolare e l'arte, non siano entità statiche ma dinamiche che si evolvono e mutano attraverso continue contaminazione. In quest'ottica non ci si deve stupire se il tamburello va a braccetto con il cajón o se i testi delle canzoni dei Tamuna passano con disinvoltura dal siciliano all'italiano e all'inglese. Così come solo apparentemente può apparire strana la scelta del nome di questo quartetto. Il termine Tamuna è infatti di origine georgiana e significa portatori di pace ma è anche il nome della regina più importante della Georgia, "Tamar", detta anche "re dei re, regina delle regine", un personaggio leggendario di questa regione caucasica crocevia tra Europa e Asia.
Un mix di contaminazioni, quindi, che rendono questo disco, pubblicato sotto etichetta New Model Label,  fresco, moderno, ricco di fascino e suggestioni.
La line-up del gruppo è Marco Raccuglia (voce), Giovanni Parrinello (tamburello e percussioni), Carlo Di Vita (chitarre), Riccardo Romano (basso). In qualità di ospiti hanno collaborato Fabio Rizzo e il trombettista Alberto "Anguss" Anguzza.
In questa intervista collettiva ai Tamuna parliamo del disco e della variopinta cultura siciliana. 




Dal cuore di Palermo un album che sia apre all'esterno con canzoni che costruiscono ponti linguistici tra italiano, siciliano e inglese e di genere. Qual è il substrato culturale che ha fatto nascere questo interessante progetto?

«Nella nostra cultura sicula è insito più che mai il concetto di commistione, è più forte di noi, probabilmente è quasi un bisogno ancestrale quello di mettere insieme lingue e culture differenti. Basti pensare alle diverse matrici del nostro dialetto, condizionato da tante dominazioni (araba, greca, normanna, gallica, iberica). Siamo cresciuti ascoltando attorno a noi le mille sfaccettature del nostro dialetto, che cambia di quartiere in quartiere, penso che tutto questo ci abbia in qualche modo influenzato».

Prima dei Tamuna quali sono state le vostre esperienze in ambito musicale?

«Ognuno di noi viene da esperienze differenti, Giovanni con la compagnia del suo teatro ha portato la musica popolare siciliana in giro per il mondo, Marco ha lavorato dentro alcune importanti produzioni di musical, Charlie come chitarrista blues ha suonato il lungo e largo vivendo per un po' in Ungheria, e Riccardo ha alle spalle diversi anni di palco di ogni tipo».

Con "Wood Rock" il ritmo del tamburo si mischia a strumenti come il cajón che nulla hanno a che fare con la tradizione della musica del sud Italia. Qual è il messaggio che volete trasmettere con la vostra musica?

«Un messaggio di pace, intesa come unione anche tra cose differenti. La musica è una manifestazione assoluta di pace, perché mette insieme, in questo caso, uno strumento peruviano e uno appartenente alla cultura mediterranea senza creare alcun disagio».

"Gerlando" è ispirato al libro di Daniele Billitteri "Homo Panormitanus. Cronaca di un'estinzione impossibile". La musica contaminata, come appunto la vostra, potrebbe però portare, se non proprio ad una estinzione, ad un annacquamento delle caratteristiche peculiari della cultura siciliana, non credete?

«Assolutamente no. A nostro modo di vedere la tradizione deve sempre stare al servizio dell'innovazione. Siamo musicisti, non vorremo mai perdere lo spirito ingegneristico dell'inventore, perché altrimenti saremmo semplici custodi della nostra tradizione».

Proseguiamo a parlare della canzone "Gerlando" che si conclude con una citazione di "Hey Jude" dei Beatles. Un divertissement oppure la scelta voluta di contrapporre i Beatles e la cultura inglese a quella colorata e "rumorosa" siciliana?

«A dire il vero è solo un divertissement, una simpatica citazione che volevamo fare da sempre, ma anche l'ennesima dimostrazione che dentro la musica ci può stare veramente di tutto. Inoltre volevamo dare un'altra gioia a Gerlando».

In "Emanuele" affrontate il problema della condizione dei giovani laureati italiani costretti ad emigrare all'estero per trovare lavoro. Una piaga che colpisce non solo il sud Italia. Secondo voi quali sono le soluzioni migliori da adottare per la vostra terra?

«Purtroppo non abbiamo soluzioni immediate, siamo vittime di decenni di mala politica ed è da una "sana" politica che bisognerebbe ricominciare. Palermo ha uno dei centri storici più grandi d'Europa, colmo d'arte, e prima in classifica per non saperli sfruttare al meglio, bisognerebbe partire anche da questa consapevolezza e iniziare a cambiare lo stato delle cose».

Nel disco ci sono anche due storie d'amore come "Fimmina" e "Oro e rame". Ce ne volete parlare?

«L'amore da due prospettive molto differenti. Quello di "Fimmina" è un amore nostalgico, è quello dei nostri genitori che vivono insieme da una vita e non riescono a immaginarsi l'uno senza l'altro. Ma è anche una visione storica, nel senso che testimonia come la tecnologia, l'innovazione, e tutto ciò che abbia a che fare con l'artificio umano, in qualche modo ci condizioni nelle dimensioni più intime del nostro quotidiano. Quando "il telefono non stava in mano ma nel corridoio", alcune cose erano veramente impensabili. "Oro e rame" invece ci riporta nel nostro tempo, ciò che in "Fimmina" è nostalgico qui è effimero. La canzone gioca sull'idea che l'amore altro non è che una grande, bellissima, illusione, e dunque illuso è colui che confonde il rame per oro».

"Rosalia" è dedicata alla Santa di Palermo. Una bella donna che si è opposta alla volontà del padre e ha scelto di donarsi a Dio. Un vero atto di ribellione…

«Esattamente! Quello che ci piaceva far venir fuori da questa storia è proprio la dimensione profana. Volevamo dedicare una canzone al tema della violenza sulle donne, e abbiamo preso come riferimento una donna con le radici ben salde nella nostra cultura. Rosalia, bella come il sole, costretta a subire la violenza psicologica del padre che l'aveva promessa in sposa ad un ricco uomo che lei non amava, e per questo si rifugiò a Monte Pellegrino, dove morì, per sposarsi a Dio. A Palermo la gente è molto devota alla "santa" pur non avendo idea di chi fosse la "donna"».

Tutte le vostre canzoni si chiudono con un messaggio positivo. È una speranza o una visione della vita che condividete con la vostra generazione?

«È solo il nostro approccio, sentiamo la necessità di canalizzare tutto dentro un messaggio positivo, che poi diventi una speranza o semplicemente la possibilità di estraniarsi da tutto il resto per qualche minuto. Ma non è un dogma o una cosa che ci siamo prestabiliti, è andata così, magari nel prossimo disco sarà tutto diverso».

Partite dalle sonorità tipiche della tradizione siciliana per contaminarle e ampliare l'orizzonte sonoro. Qual è il vostro pubblico più affezionato?

«Vantiamo un pubblico variopinto, fatto di grandi e piccini ed è una cosa che ci rende orgogliosi. Vedere ai nostri concerti adulti "costretti" lì dai loro figli è una sensazione meravigliosa».

In Sicilia l'uso del dialetto in musica non è un evento raro. Mi sembra che ci sia molta voglia di conservare e divulgare la cultura siciliana, forse molta più di altre realtà regionali. Cosa ne pensate?

«Non ci abbiamo mai riflettuto abbastanza in effetti. Però siamo isolani, prima ancora di qualsiasi altra cosa. La nostra identità culturale è molto condizionata da questo fattore».

Il disco si chiude, a sorpresa, con una undicesima traccia che è una reprise di "Rosalia". Perché questa scelta?

«In realtà è esattamente il contrario di come sembra. La prima versione del brano è quella tammorra e voce che chiude l’album, successivamente abbiamo deciso di farne una versione in cui a suonarla eravamo tutti, ma abbiamo poi deciso di tenerle entrambe nel disco».

Con "Wood Rock" avete conquistato il premio della critica e il premio come miglior interpretazione al Premio Parodi. Un bel riconoscimento per un gruppo che è attivo solo da due anni. Che ricordi avete di questa recente esperienza?

«È stata un'esperienza magnifica. Siamo arrivati lì senza grandi aspettative, essendo un festival dedicato alla world music, ci aspettavamo di essere un po' snobbati. Invece abbiamo vinto il premio che proprio non pensavamo di vincere, quello della critica (oltre a quello per la migliore interpretazione) che è sempre quello un po' più ambito da noi musicisti».

È curioso come nel libretto abbiate deciso di non specificare gli strumenti che ognuno di voi suona. La vostra idea è di considerare i Tamuna una entità indivisibile o vi è passato di mente?

«È stata una scelta ponderata, ci piace l'idea di considerare Tamuna come un'entità indivisibile che si avvale di noi quattro ma senza gerarchie di sorta».

Quali sono i vostri prossimi progetti?

«Nei prossimi mesi porteremo la nostra musica fuori dall'Italia, esattamente a Londra. Abbiamo già diverse date e stiamo lavorando per incrementarle. E poi si vedrà».




Titolo: Wood Rock
Gruppo: Tamuna
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche e testi di Riccardo Romano, Carlo Di Vita, Marco Raccuglia, Giovanni Parrinello, eccetto dove diversamente indicato)

01. Penso
02. Fimmina
03. Ciuscia  [Raccuglia, Parrinello, Di Vita]
04. Gerlando  [Raccuglia, Parrinello, Di Vita]
05. Emanuele
06. Oro e rame
07. Rosalia
08. Seguimi
09. Never
10. Lasciala libera
11. Rosalia (reprise)



martedì 9 dicembre 2014

"Mo' mo'", i Gasparazzo e l'essenza delle cose




I Gasparazzo sono sulle scene da oltre dieci anni e si sono ritagliati il loro spazio nel panorama musicale italiano, quello che non si alimenta con show e concorsi televisivi ma che viene mantenuto in vita e in salute macinando chilometri, in macchina o in pullmino, per portare la musica sui palchi, nelle piazze e nei teatri dello "stivale" e anche oltre. Il gruppo emiliano-abruzzese, nato nel 2003 tra Bologna e Reggio Emilia, lo fa con una urgenza espressiva che non è scemata negli anni e che è ben rappresentata dal titolo del loro nuovo album, "Mo' mo'", ovvero, "proprio adesso, ora". Si tratta di un disco ricco di sfaccettature, in cui le tante anime del gruppo concorrono a mischiare sonorità rock a marcate influenze mediterranee, spruzzate reggae a qualche incursione nel combat rock e nel folk nostrano. Una lavoro che ad un primo superficiale ascolto potrebbe sembrare disomogeneo nella sua struttura portante ma che, a una più attenta analisi, dimostra di essere equilibrato e di possedere un filo conduttore ben preciso. Nove canzone, nove storie, compongono il sesto disco del gruppo. Con piglio a volte ironico e scanzonato, altre volte impegnato e drammatico, vengono descritti personaggi e situazioni della società moderna. Si passa così come estrema facilità da "Michelazzo" a "Rovesciala", canzone nata come inno ai Mondiali Antirazzisti, dal ragazzo di strada di "Centopelle" descritto da Carlo Collodi nella raccolta "Occhi e nasi" alla toccante "Cristo è là", in cui si è dato spazio alle parole scritte da Lino Aldrovandi, papà di Federico, studente ferrarese ucciso nel 2005.
La produzione dell'album, uscito sotto etichetta New Model Label, porta la firma del pianista e fisarmonicista Massimo Tagliata.
Dei Gasparazzo fanno parte Alessandro Caporossi (voce), Generoso Pierascenzi (chitarre, voce ed elettroniche), Giancarlo Corcillo  (fisarmonica), Roberto Salario (basso e contrabbasso), Lorenzo Lusvardi (batteria).
Noi abbiamo parlato con Generoso Pierascenzi che ci ha descritto "Mo' mo'", disco bello, stimolante e tutto da scoprire.



"Mo' mo'" …proprio ora, adesso. Per fare cosa?

«Per catturare l’essenza. Per dare alle sensazioni il tempo e lo spazio che meritano, per dare una valenza reale agli scambi interpersonali, agli incontri ed agli scontri. Non è un inno alla velocità o alla sintesi, al contrario il concetto è proprio quello di dare priorità all'istinto e poi "coccolarsi" le scelte fatte, che chiaramente non saranno perfette, ma resteranno nella nostra storia».

Il titolo però non è una espressione linguistica tipica della vostra regione d'adozione, l'Emilia…

«La nostra band è formata per 3/5 da abruzzesi ed io che sono cresciuto a Teramo sento molto familiare questa espressione. La nostra regione di adozione è l'Emilia dove il "mo'", che sta per adesso appunto, è sempre più presente ma è chiaro che è un termine migrante».

È il vostro quinto album in studio. Cosa è cambiato da "Tiro di classe", il vostro disco d'esordio del 2007?

«È cambiato soprattutto il metodo compositivo. Nel primo album avevamo attinto alla nostra passione per l'elettronica e per gli ascolti variegati cercando varie vesti ai brani e affidandoci, poi, a studi di registrazione. Sul nuovo lavoro siamo arrivati a comporre e preprodurre nello stesso momento, senza accanimento alcuno sui brani. Dedicando più tempo alla ricerca di timbri ed agli arrangiamenti anche grazie al fatto che registriamo nei nostri studi personali. Oggi, a differenza del primo album ricco di molte sonorità anche lontane tra loro, l’architettura sonora è più chitarristica anche se non emerge ad un primo ascolto».

Quale è stata la molla che vi ha spinti ad iniziare la registrazione del vostro nuovo disco?

«Nell'estate del 2013 avevamo pensato che potesse essere ora di tornare a comporre ma le idee erano vaghe e confuse. Nell'agosto dello stesso anno ho avuto un momento molto doloroso in famiglia in Abruzzo che mi ha riportato a Bologna in un isolamento fisico e sociale che è diventato immediatamente creativo e produttivo. Suonavo e registravo a tutte le ore con una vecchia Framus a 5 corde, una chitarra baritona per le linee di basso, un controller midi ed il microfono per la voce. Dopo un mesetto ho espresso ai ragazzi della band l'urgenza di suonare il materiale catturato in quei giorni. Abbiamo aggiunto un paio di idee di Alessandro (Caporossi, ndr) che erano già in cantiere e ci siamo messi al lavoro».

Raccontaci la genesi della canzone "Rovesciala", nata come inno dei Mondiali Antirazzisti.

«I Mondiali Antirazzisti hanno tenuto a "battesimo" o meglio "battezzo" la band Gasparazzo. Nel 2003 e poi nel 2004 abbiamo suonato per questo evento che abbiamo sempre comunque frequentato giocando con la squadra di Materiale Resistente, che era una associazione antifascista di Correggio. Nel 2013 ci hanno suggerito di partecipare al contest per creare un inno ed abbiamo scritto raccontando un pochino la nostra storia, oltre a "rovesciare" le parole del gioco del calcio a favore di un calcio e un mondo diversi. Ci hanno premiati con il secondo posto per il brano ed abbiamo quindi festeggiato i dieci anni suonando di nuovo, nel 2013, sul bellissimo palco nel tendone dei Mondiali Antirazzisti».

In "Michelazzo" cantante un personaggio <che mangia, beve e si fa il mazzo>. Chi è Michelazzo e quale personaggio famoso potrebbe rappresentare?

«D'istinto ti direi che nel mondo della cosiddetta indie music di "Michelazzi" ce ne sono tanti. Ma non è il musicista l'obiettivo della canzone. Michelazzo, quello creativo, è in ognuno di noi, alcuni ne hanno il talento e riescono a farne uno stile di vita. Alcuni hanno solo le possibilità economiche ma non il talento e vivono di imbarazzi. Io ne conosco almeno quattro dalla Sicilia al Piemonte. I più famosi (ma poco creativi) siedono in parlamento».

"Se i posacenere potessero parlare" è invece scritta in collaborazione con Mezzafemmina, all'anagrafe Gianluca Conte. Quando si sono incrociate le vostre strade?

«Con questa domanda approfitto per ringraziare Andrea Caporossi detto Zichietto che, oltre ad averci suggerito il nome della nostra band, è un valido collaboratore anche sul piano testuale. Lui ascoltava la musica di Gianluca, si sono conosciuti e loro hanno deciso il featuring coi Gasparazzo. È stato molto interessante lavorare con Mezzafemmina».

"Cristo è là" è dedicata a Federico Aldrovandi e il testo è basato sulle parole scritte da papà Lino in memoria del figlio assassinato. Come è nata questa canzone?

«Anche in questo caso Zichietto ha fatto da ponte tra noi e Lino Aldrovandi chiedendo materiali ed autorizzazioni. Avevamo a cuore il caso di Federico e di tutte le vittime delle istituzioni, così abbiamo conosciuto Lino e Patrizia. Ne è nata una collaborazione e soprattutto un incontro davvero speciale. Nel brano le parole di tutte le strofe sono opera di Lino».

Morti che in Italia, vista anche l'ultima sentenza in merito all’uccisione di Stefano Cucchi, non hanno un colpevole. Qual è la tua idea?

«La cosa assurda sta nel fatto che è ormai chiaro che il nostro Stato genera ed alleva la mostruosità. Occulta l'evidenza come se non fossimo tutti umani e digerisce la barbarie come se non esistesse più l'anima. Senza il rumore mediatico, la collaborazione di cittadini sensibili e l'incredibile forza delle disperate famiglie, non ci sarebbe neanche la ricerca della verità per queste morti assurde che, a mio personale avviso, sono anche rivendicate dai branchi in divisa quando attaccano Patrizia o Stefania che vogliono solo verità».

Per la produzione dell’album vi siete affidati a Massimo Tagliata. Da cosa possiamo riconoscere il suo contributo?

«Aveva masterizzato il nostro primo album e lo conosciamo dal 2006. Abbiamo pensato a Massimo perché ci piace il suo modo di lavorare, è molto schietto con noi e vive a dieci minuti da casa mia, per cui gli incontri ravvicinati, quelli veri, sono comodi e forse fanno la differenza. Il suo intervento è riconoscibile nelle eleganti sonorità delle fisarmoniche (il suo strumento oltre al piano) e nel carattere pop delle voci. Anche nella produzione dei beat elettronici il suo lavoro è notevole. In pratica Massimo ha reinterpretato quelle che erano le nostre sequenze elettroniche scure e giurassiche e come le sentiamo noi, in una veste più pop forse più adatta alle canzoni».

Come avete lavorato sugli arrangiamenti?

«Come ti spiegavo prima, io ho fatto un arrangiamento generale e di getto in fase di preproduzione. Era mia intenzione osservare l'album nella sua completezza per poi arrangiare i singoli brani, quindi volutamente si è lavorato su più canzoni simultaneamente. Nel registrare le tracce definitive si sono uniti i ragazzi della band per definire il tutto. Anche in studio, con Massimo, abbiamo preso decisioni importanti da questo punto di vista».

Questo disco è nato tra Bologna e Reggio Emilia ma il suono è geograficamente molto più esteso e se vogliamo anche molto più mediterraneo di quello che si potrebbe pensare…

«Forse viene fuori la voglia di viaggiare e l'ascolto di musica a 360 gradi. La band Gasparazzo ha comunque girato in lungo e in largo l'Europa, è stata anche più volte in Africa, in Albania e in tutta l'Italia. Abbiamo vissuto e suonato con brasiliani, argentini, africani, tedeschi. Anche le forme d'arte diverse tra loro si proiettano nel nostro lavoro e spesso in fase produttiva dobbiamo ragionare criticamente sui confini stilistici».

Eppure la fisarmonica rimanda a una tradizione folk molto ben radicata nella vostra regione. È questo l'elemento che più vi lega alla vostra terra?

«No, l'elemento che più ci lega all'Abruzzo è la cantata in strada, il suonare insieme bevendo vino e inventando giri e strofe con divertimento e dissenso. È vero anche che, se in Italia spesso ai bimbi si inizia a far suonare il piano, in Abruzzo la fisarmonica o meglio il più tradizionale du botte (organetto a due bassi) è quasi d'obbligo per la gioia e non dei piccoli musicisti. Negli anni Ottanta ti assicuro che erano tantissimi i virtuosi adolescenti che studiavano ad orecchio e facevano ballare intere piazze solo col bellissimo e ribelle du botte».

Tra le tante attività extra-musicali in cui siete impegnati c'è anche quella dei laboratori di rumoristica e di doppiaggio che portate nelle scuole. Ci spieghi di cosa si tratta e qual è lo scopo?

«Tra i tanti laboratori che io ed Alessandro (Caporossi, ndr) abbiamo tenuto, quello di cui parli è quello più potente in tutti i sensi. In poche parole lavoriamo con gruppi di ragazzi delle scuole medie ed elementari mettendo al centro dell'attenzione il suono e il rumore soprattutto. Si va dal creare una banca di suoni che i ragazzi portano da casa fino al vero e proprio doppiaggio di cortometraggi, cartoni animati o scene di film. Si producono i suoni e le voci in autonomia inventando strumenti, generando versi, frasi e tutto il necessario alla sonorizzazione di un filmato. L'esperienza, che rapisce noi, i ragazzi e le insegnanti che assieme a noi curano i laboratori, tende a sollecitare i sensi e l'attenzione verso gli eventi esterni, stimola la curiosità ed offre una opportunità per un riciclo creativo oltre a suggerire l'ascolto reciproco e l'interazione tra persone rispettando le dinamiche del lavoro di gruppo e dando voce e suono al silenzio».

Alla fin del libretto che accompagna il cd è riprodotto un personaggio che dice <ma non finisce qui!>. Ci lascia pensare che ci sarà un futuro per i Gasparazzo. In che direzione andrete?

«Il Gasparazzo che dice che non finirà è l'omino in salopette, operaio della Fiat nei primi anni '70, creato dalla matita di Roberto Zamarin. Ci piace contribuire alla sua memoria e lo ringraziamo, con queste citazioni nei nostri album, per la sua arte critica e appassionata. Il futuro della band è quello di suonare il più possibile questo album e nell'imminente è in programma una collaborazione con Massimo Tagliata che suonerà sul brano "Mimi", che probabilmente sarà il terzo singolo, seguito da un nuovo video dedicato all'arte di strada».




Titolo: Mo' mo'
Gruppo: Gasparazzo
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(testi di Alessandro Caporossi e musiche di Generoso Pierascenzi, eccetto dove diversamente indicato)

01. Rovesciala
02. Michelazzo
03. Mo' mo'
04. Agro 400
05. La tromba di Eustachio
06. Impulsi nudi
07. Centopelle
08. Se i posacenere potessero parlare  [testo di Gianluca Conte]
09. Mimi
10. Cristo è là
11. Fondaco



mercoledì 19 novembre 2014

In Australia le orme dei passi di Delsaceleste




Una relazione finita male, un viaggio per ritrovare la serenità e la pace interiore, un soggiorno in Australia, a Geelong nello stato di Victoria. Sono queste le esperienze che danno lo spunto a Delsaceleste, all'anagrafe Marco Del Santo, per comporre le canzoni del suo nuovo album, dal titolo "Le orme dei miei passi", uscito in queste settimane per l'etichetta New Model Label. Il cantautore milanese, attivo sulla scena indipendente dal 2006 come polistrumentista, cantante e autore, parte dalla traumatica rottura di una rapporto per affrontare un viaggio catartico, di accettazione della nuova situazione e per riscoprire se stesso. Il tutto in un ambiente affascinante dagli spazi sterminati e ignoti come l'Australia in cui lasciarsi trasportare e ritrovarsi.
Per farlo Delsaceleste («nome che nasce dall’unione del diminutivo del mio cognome, Delsa, usato comunemente da amici e conoscenti, e Celeste, la protagonista di un racconto che ho scritto tra il 2005 e il 2006», spiega) ricorre, come già aveva fatto per il precedente "La fabbrica dei ricordi" (2011), alla formula del concept album, tanto caro al genere progressive. Dal punto di vista musicale però il disco è molto diverso: si passa dal classico cantautorale chitarra e voce, a brani più articolati che esplorano il territorio rock e beat, senza far passare in secondo piano echi sudamericani. A contribuire alla nascita del disco sono stati Giacomo Ferrari (pianoforte), Paolo Zucchetti (batteria), Rino Garzia (basso), Davide Minelli (chitarra elettrica), Barbara Pinna (violino).
Questa nuova esperienza artistica è arricchita da un racconto scritto da Fabio Testa, alias Giovanni Fugazza, che lega le canzoni del disco, e le illustrazioni di Jacopo Silvestri
In questa breve intervista, Marco Del Santo presenta il suo nuovo disco.



Marco, è passato un bel po' di tempo dal precedente "La Fabbrica dei ricordi". Cosa è successo?

«Il periodo di lavorazione de "La Fabbrica dei ricordi", con annessa mostra a tema a cui hanno partecipato diversi artisti, è stato frenetico. Per il progetto successivo, "Le orme dei miei passi" volevo lavorare in maniera più meditata e accurata essendo diversi i fronti coinvolti: musiche, racconto e illustrazioni. Mi sono preso il tempo necessario». 

Perché hai scelto di registrare un concept album?

«Mi capita di vivere periodi di intensa creatività in cui scrivo di getto diversi brani che, proprio per essere stati concepiti in un'unica fase, finiscono per essere naturalmente correlati tra di loro, come elementi differenti di una visione più ampia e complessa».

Quanto ha inciso sulla scrittura delle canzoni del disco la tua esperienza di vita in Australia?

«È stata fondamentale, diretta ispirazione tra realtà e immaginazione».

Quanto tempo hai vissuto nella terra dei canguri?

«Solamente tre mesi, ma nella mente direi senz'altro di più».

Per un cittadino di una grande città come Milano deve essere abbastanza "traumatico" essere trasportato negli spazi sconfinati di quel continente. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«È stata l'esperienza più forte che abbia vissuto sinora. Ho avuto modo di mettermi alla prova, di riscoprire le mie potenzialità e analizzare i miei limiti, cercando sia di ritrovarmi che di rinnovarmi».

Sembra che tutta questa libertà ti abbia condizionato nel titolo di alcune canzoni come "Spazi immensi" e "Dolce solitudine" e nella musica dei brani strumentali…

«Verissimo, ho cercato di esprimere con parole e sonorità quelle sensazioni così liberatorie».

La rottura di un relazione è il punto di partenza di questo viaggio. Sembra però più che altro una liberazione. Non si avverte quel senso di disperazione che ci si potrebbe aspettare. Qual è il messaggio che hai voluto trasmettere?

«In ogni fase della nostra vita convivono benessere e complessità, bisogna riuscire a conservare ciò che di positivo ci è stato dato e farlo diventare parte integrante di noi stessi, è fondamentale avere modo di meditare intensamente, di arrivare in profondità».

Quali difficoltà hai incontrato a mettere in musica le tue emozioni?

«Ogni processo creativo è anche una esplorazione della propria emotività, quindi non è mai qualcosa di neutro. Nel mio caso entro in sintonia con le mie sensazioni e cerco di ricostruirle musicalmente».

Come avete lavorato sugli arrangiamenti di "Le orme dei miei passi"?

«Gli arrangiamenti dei brani sono stati costruiti sopra i miei provini e sono stati scritti assieme ai musicisti che l'hanno suonato. Voglio cogliere l'occasione per ricordarli e ringraziarli tutti: dal batterista Paolo Zucchetti, al pianista Giacomo Ferrari, al chitarrista Davide Minelli, al bassista Rino Garzia, alla violinista Barbara Pinna, per finire col compositore Luca Talamona con cui ho lavorato a "Pensieri in volo"».

Alla base del concept c'è una storia raccontata da Fabio Testa e illustrata da Jacopo Silvestri. Come sono nate queste collaborazioni e come avete portato avanti il progetto?

«Sono entrambi grandi amici e già in passato miei collaboratori. Conoscendo le potenzialità e le abilità di Fabio come scrittore e di Jacopo come artista, in questo caso specifico illustratore, è stato spontaneo e naturale rivolgermi a loro per lavorare al progetto "Le orme dei miei passi". Devo dire che è stato molto stimolante e appagante lavorare con loro fianco a fianco in ogni singola fase del progetto. Siamo partiti dai brani musicali allo stato grezzo per poi creare qualcosa di più ampio e completo».

Hai dei riti precisi nella scrittura?

«Come ti dicevo prima, solitamente diversi brani nascono in una stessa fase e si innesca quel processo che ti ho già descritto. Diciamo che è un rito di cui sono quasi succube».

Un desiderio da realizzare con la musica e uno nella vita…

«Per citare un po' la tematica del disco e della title-track, ogni passo che si compie è parte di un percorso in continua evoluzione, di cui non si può sempre intuire la direzione. Dobbiamo cercare allo stesso tempo di tenere salde le nostre radici e metterci continuamente in discussione».




Titolo: Le orme dei miei passi
Artista: Delsaceleste
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi Marco Del Santo, eccetto dove diversamente indicato)

01. EK 092
02. Contraddizione
03. Pensieri in volo  [musica di Luca Talamona e Marco Del Santo]
04. Spazi immensi
05. Dolce solitudine
06. Ombre
07. Soltanto polvere
08. Non rischiamo di scadere
09. Le orme dei miei passi
10. La metamorfosi
11. Titoli di coda



giovedì 13 novembre 2014

Emiliano Mazzoni torna con "Cosa ti sciupa"





A due anni da "Ballo sul posto", Emiliano Mazzoni torna con il disco "Cosa ti sciupa". Il cantautore di Piandelagotti, paese di montagna a 1.200 metri sull'Appennino Emiliano, prosegue il discorso iniziato con l'album d'esordio. Il pianoforte e la voce restano i cardini della musica di Mazzoni ma, in questo secondo capitolo discografico, la batteria e le chitarre elettriche si fanno più presenti e incalzanti dando più colore alle canzoni. È un disco più potente e vario negli arrangiamenti di quello precedente ed è in grado di mettere maggiormente in risalto le caratteristiche di questo artista che trova la sua naturale espressione nelle esibizioni dal vivo.
Le canzoni testimoniano una evoluzione nella scrittura di Mazzoni. Influssi della tradizione cantautorale francese, accenni tex-mex e di musica popolare si mischiano dando vigore e imprevedibilità al disco. Brani a volte nostalgici, conditi con manciate di disillusioni e cose ormai perdute, altre volte visionari ed evocativi, trasmettono sensazioni ed emozioni forti. Il disco evidenzia la buona capacità raggiunta da Mazzoni nel costruire immagini originali e rappresentative di un percorso compositivo importante. Anche in questo progetto è fondamentale l'esperienza di Luca A. Rossi (Üstmamò, Giovanni Lindo Ferretti) che cura la produzione artistica e suona basso, chitarre elettriche e acustiche, cembalo. A contribuire alla realizzazione del disco, firmato dalla Gutenberg Records/Primigenia Produzioni Musicali, sono Simone Filippi (batteria), Mirko Zanni (chitarra elettrica), Michael Mac Bello (batteria), Dominic Palandri (chitarra), Romy Chenelat e Angus Palandri (cori). 
A presentare il nuovo disco è lo stesso Emiliano Mazzoni in questa intervista.




Sono passati due anni da "Ballo sul posto". Leggendo sul retro della copertina si intuisce che è stato un lavoro molto lungo ed elaborato. È così o ci sono stati degli eventi che ti hanno costretto a prendere tempo?

«Ci sono stati degli eventi esterni che hanno condizionato la genesi di questo disco. Dopo nemmeno sei mesi dall'uscita di "Ballo sul posto" abbiamo iniziato a registrare con molta calma, a casa mia, e a maggio del 2013 tutto il materiale era già registrato. Poi è subentrata la ristrutturazione della casa e ho dovuto sospendere tutto per un bel po'. Non amo stare molto tempo sulle cose ma in questo caso, paradossalmente, era la maniera per far prima».

Pianoforte e voce continuano ad essere elementi portanti della tua musica ma, rispetto al disco precedente, batteria e chitarre elettriche colorano maggiormente le tue canzoni…

«Erano canzoni che immaginavo un po' più movimentate e alla fine son soddisfatto. Una volta terminato "Ballo sul posto" avevo già i pezzi e le idee per "Cosa ti sciupa", mantenendo sempre lo stesso modo di lavorare in casa. Così ora ho già da parte i pezzi per il prossimo disco, ma sarà molto diverso».

Anche in questo secondo episodio discografico ti sei avvalso della collaborazione di Luca A. Rossi. Quanto è importante questo sodalizio per te e la tua musica?

«È fondamentale! Mi ha aiutato molto a sviluppare quello che avevo solo abbozzato costruendo i pezzi voce e piano. Poi dalla sua esperienza ho imparato molto ed è stato molto disponibile ad attrezzare la mia casa con quello che gli serviva per il suono che aveva in mente. Tutte cose che io ho poi capito dopo. Devo molto a Luca». 

Nelle canzoni del nuovo disco le figure femminili sono le protagoniste…

«Me ne accorgo ora. Per me queste canzoni parlano di cose che accadono e "Cosa ti sciupa" vuol far uscire certe difficoltà. Certo è che alcuni tribolamenti amorosi sono protagonisti e le figure femminili sono lì a renderli possibili cercando su tutto la semplicità nei testi. Quando riunisco le canzoni da mettere in un disco lo faccio cercandone un sapore comune, che però a volte non so dire a parole quale sia».

È curioso come l'ambiente in cui uno vive possa condizionare anche il pensiero e la scrittura. E mi spiego meglio. Nelle tue canzoni non c'è quasi traccia di ambienti cittadini, con tutte le conseguenti problematiche, mentre la natura e le fotografie di posti a te più familiari sono uno dei cardini della tua scrittura. Cosa ne pensi?

«Penso che mi dispiacerebbe un po' se fosse completamente così. Non posso sapere cosa farò, ma vorrei scrivere anche altre cose, già il prossimo lavoro sarà molto scuro e vorrei che fosse ambientato in nessun luogo, ecco, vorrei scrivere canzoni che siano ambientate in nessun luogo. Però probabilmente è vero, l'ambiente influenza molto e bisognerebbe essere sempre pronti ad andarsene non appena questo diventa un limite, oppure riuscire ad essere bravi nel farlo uscire sempre sotto forma di sincero spirito creativo».

C'è un tema comune che lega le canzoni di "Cosa ti sciupa"?

«Sì, il non riuscire ad acchiappare il brivido che ti dice "eccomi sono qua, prendimi" e il rammarico che rimane. L'impossibilità di compiere l'ultimo passo verso un'ispirazione che ti capita di ricevere, a volte per un limite inevitabile, a volte perché siamo solamente esseri umani e sbagliamo o rinunciamo. "Cosa ti sciupa" è un 'rovello', con un piede dentro una domanda e l'altro dentro un rimprovero».

Quanto c'è di autobiografico in queste undici nuove composizioni?

«Di sicuro molte cose, ma non saprei indicare qualcosa di preciso. Quando scrivo non ho un percorso, ma lascio che il testo si distenda richiamando quello che manca, e se poi lo merita arriva alla fine del viaggio. Quindi per forza le mie esperienze intervengono, ma cerco di farglielo fare senza apparire, a volte riuscendoci a volte no. Forse è "Ragazza aria" il brano dove si scoprono di più. Diverso è il discorso per "Non rivedrò più nessuno" che è abbastanza giornalistica e parla di un fatto accaduto».

Mi piace la frase <Lasciate alla bellezza il vostro cuore e vi soccorrerà non sono favole> con cui si conclude "Canzone di bellezza". È un invito o una constatazione?

«È entrambe le cose. Arriva alla fine di una canzone dove una sfilza di immagini arrivano e vanno, cercando in modo un po' fantasmagorico di recuperare una dimensione intima, cercando di fotografare quei momenti dove ci si ferma a pensare un istante prima che tutto sfugga. Forse son cose solo immaginate o dimenticate, ma che nell'illusione costruiscono un'idea che si va a consolare sulla frase finale. Ha uno stile che amo e che mi ha sempre accompagnato anche nelle esperienze precedenti al progetto solista».

Il brano che in un certo modo esce dagli schemi è "Nell'aria c'era un forte odore" con quella sua cadenza tex-mex. Ce ne parli?

«È la storia di un buon ragazzo che avvilito dal mondo decide di abbandonarlo. Mi è uscito così, con sul finale la sorpresa di cadere fra le braccia di un amore dimenticato. La musica mi ha suggerito questa storia, non so poi perché. Musicalmente è uscito proprio quello che immaginavo mentre mi venivano gli accordi (semplicissimi...) ed era una strada divertente».

"Tornerà la felicità" è una canzone molto intensa ma per te cosa è la felicità?

«Non so rispondere, mi dispiace. E non sono nemmeno sicuro che torni né che ci sia mai stata. Di sicuro è un problema».

Il disco si chiude con l'emozionante "Non rivedrò più nessuno". Come è nata questa canzone?

«È nata da una storia accaduta a un mio prozio, ed è andata proprio così come viene raccontata. Noi la conosciamo perché le persone che erano su quella corriera, una volta tornate a casa, hanno raccontato che quel ragazzo piangeva e tra sé diceva "non rivedrò più i miei amici, non rivedrò più nessuno". Dopo qualche tempo si scoprì che aveva ragione. Quando mi è uscita la musica ho provato a ragionar su quel fatto e in un attimo è riuscita così».

Che cosa vorresti che la gente sentisse nella tua musica?

«Credo che la musica sia di chi la ascolta e ognuno deve farne quel che vuole. Credo che sia un linguaggio che può suonare ampio o meno ampio a prescindere dalle volontà degli artisti».

Pochi giorni fa, Paolo Serra ha scritto su Il Fatto Quotidiano un articolo sulla musica e sui format televisivi. Mi sono appuntato questo passaggio: «E non basta più saper fare il giro di Do con la chitarra, adesso devi imparare a curare la tua immagine, ammiccare con disinvoltura alle telecamere, muoverti nel modo giusto sul palcoscenico e anche fuori, e soprattutto sul web. Perché i casi sono due: o diventi virale, oppure gli anticorpi del sistema ti rigettano negli ultimi dieci piano-bar sopravvissuti alla crisi». Cosa ne pensi di questa affermazione?

«Penso che sarebbe bello dire che ha ragione dimostrando che ha torto. Penso anche però che siano le canzoni a dover trainare l’artista e il pubblico a sostenerlo, se non c'è pubblico puoi ammiccare a quel che vuoi. Ma non lo so poi mica, non sono un esperto».




Titolo: Cosa ti sciupa
Artista: Emiliano Mazzoni
Etichetta: Gutenberg Music/Primigenia
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche e testi di Emiliano Mazzoni)


01. Canzone di bellezza
02. Ma perché te ne vai
03. Diva
04. Un'altra fuga
05. Ciao tenerezza
06. Hey boy
07. Ragazza aria
08. Non lasciarmi qui
09. Nell'aria c'era un forte odore
10. Tornerà la felicità
11. Non rivedrò più nessuno



giovedì 6 novembre 2014

"Che storia!" le Soms cantate da Augusto Forin





Nell'Europa del 1800, in particolare in Germania, Inghilterra e Francia, nacquero le prime forme di mutualità e di autodifesa del mondo del lavoro. Dopo l'ondata rivoluzionaria del 1848 anche sul territorio italiano si registrò un notevole incremento nel numero delle Società Operaie di Mutuo Soccorso. Le persone vi aderirono volontariamente su base territoriale o professionale per scopi di mutuo aiuto. In Italia, attualmente, le Soms attive sono circa duemila mentre in Liguria se ne contano centosettanta.  
Sulle Soms e sulla loro storia è stato scritto da Ivano Malcotti uno spettacolo di teatro-canzone, dal titolo "Soms che storia!", che racconta l'importanza che hanno avuto nel tessuto sociale, dalla loro nascita ai giorni nostri. Le canzoni della pièce sono state invece firmate da Augusto Forin e raccolte nel disco "Che storia!". Brani dal sapore popolare che richiamano le atmosfere delle tipiche giornate trascorse nelle Società, in cui convivialità, incontro e discussione recitano ancora oggi un ruolo fondamentale. Gli arrangiamenti non sono complessi e il disco scorre veloce e gradevole trasportando l'ascoltatore al tavolo di chi racconta e canta storie, magari davanti a un buon bicchiere di vino. Non per questo gli argomenti trattati sono superficiali o di poca importanza. Nelle canzoni, i cui testi sono firmati da Malcotti e adattati da Forin, si parla anche di gioco d'azzardo, società dei consumi che impoverisce il mondo, immigrazione e povertà.
In questa nuova avventura discografica, Forin ha scelto come compagni di viaggio il mandolinista Carlo Aonzo, Sandro Signorile, impegnato alla mandola e al dobro, e Mirco Pagani alle percussioni e glockenspiel. A questi si sono aggiunti Patrizia Litolatta Biaghetti (voce recitante), il Coro degli Agitatori, Monica Astengo e Valter Mereta del Gruppo Città di Genova. 
Nell'intervista che segue Forin risponde alle domande sulla genesi di "Che storia!" e sul suo rapporto con le Soms.



Ci eravamo lasciati parlando di un tuo nuovo progetto musicale ed eccoci ora con in mano l'album "Che storia!". Ce lo vuoi presentare?

«"Che storia!" raccoglie tutte le canzoni dello spettacolo "Soms che storia!" scritto da Ivano Malcotti. Quest'album ha una storia speciale. Ivano aveva trovato una piccola sponsorizzazione nel Gruppo Città di Genova e così decidemmo di utilizzarla per produrre un cd con le canzoni della pièce da vendere nei nostri spettacoli per autofinanziarci. Avevo coinvolto Bruno Cimenti (fonico che ha registrato e mixato l'ultimo lavoro di Max Manfredi, "Dremong") e con lui programmato di iniziare le registrazioni lo scorso novembre. Causa miei problemi di salute è saltato tutto. Nel frattempo Giotto Barbieri, uno degli Agitatori Culturali Irrequieti che di mestiere fa il regista, si stava occupando di realizzare un video promozionale per presentare "Soms che storia!". Occorreva quindi registrare almeno un brano dello spettacolo. Allora il nostro "Marx" (è lui, Giotto che appare truccato da Marx sulla copertina di "Che storia!") ha pensato di contattare un amico fonico così da avere velocemente la demo di una canzone da usarsi per il videoclip. Caspita! L'amico fonico era Alberto Parodi. Proprio l'Alberto Parodi del famoso studio di Mulinetti, quello che ha registrato dischi come "Aguaplano" di Conte o "La pianta del te" di Fossati. Ci siamo incontrati con Alberto che, una volta ascoltato il nostro progetto, si è offerto non solo di registrarci una demo ma addirittura di produrci il cd con tutte le canzoni. Non ci siamo fatti scappare l'occasione e nel giro di due settimane abbiamo avuto in mano il master di "Che storia!"».

Quando è nato il sodalizio con Ivano Malcotti?

«Con la mia compagna Patrizia abbiamo assistito ad uno spettacolo scritto da Ivano per il quale avevamo realizzato la grafica delle locandine. A fine rappresentazione lo abbiamo avvicinato ed è bastato un breve scambio di battute per capire che poteva essere la persona giusta per far parte del nostro gruppo di Agitatori Culturali Irrequieti Gian dei Brughi. È così che è iniziata la collaborazione».

A chi è venuta l'idea di scrivere uno spettacolo di teatro-canzone dedicato alle Soms?

«L'idea è di Ivano. Tra i numerosi testi teatrali che aveva nel cassetto c'era anche questo dedicato alla storia delle Società Operaie. Insieme l'abbiamo rivisto, aggiunto le canzoni e iniziato a proporlo con il gruppo degli Agitatori Culturali Irrequieti. All'inizio in forma di sola lettura ma via via con l'aiuto di Daniela Borsese, che è una degli Agitatori e anche lei regista, abbiamo provato a rappresentarlo diventandone gli interpreti. Alla fine è venuta fuori una divertente pièce teatrale che sta riscuotendo un discreto successo».

Qual è lo scopo dello spettacolo?

«Lo scopo è quello che dovrebbe avere ogni operazione artistica e cioè trasmettere emozione agli spettatori. Il testo si snoda tra nozioni storiche, considerazioni sociali, macchiette e siparietti, si brinda a Don Gallo e a Gino Strada e ci sono comizi di Marx, Garibaldi e pure di Mussolini: insomma cerchiamo di far sorridere e far riflettere. Noi sicuramente ci divertiamo e questo al pubblico arriva».

So che avete anche preparato del materiale per le scuole…

«In realtà è nato prima il progetto formativo per la scuola ideato e curato da Cristiana Ricci. Sulla scia di quel progetto Ivano ha scritto il testo teatrale di "Soms che storia!". Lo spettacolo diventa così anche un mezzo per avvicinare e coinvolgere i giovani, portare nelle scuole e far conoscere quei valori fondamentali per la nostra società: la solidarietà, la mutualità, la partecipazione indispensabili per perseguire il benessere comune».

Trovo che le Soms, con la loro idea fondante del mutuo soccorso, siano ora più che mai un paracadute importante per tante persone. Cosa ne pensi?

«Questa nostra società negli ultimi anni è sempre più individualista. Gli stessi social network non fanno che aumentare l'isolamento delle persone che credono di esprimere un'opinione con un "mi piace" o postando un commento su un blog. Alla fine la loro azione sociale finisce lì, nel fissare un display, sempre più alienati dalla realtà. Ma ci fai caso? Guardati intorno, per la strada, al ristorante, ovunque vedi persone che non si guardano neppure più in faccia intenti a digitare chissà quale importantissima verità. La realtà è che queste persone sono sempre più sole e sempre meno influenti sulle sorti della società in cui vivono. È a questo punto che le Soms possono tornare ad avere un ruolo fondamentale. Più che un paracadute, come le definisci tu, una zattera di salvataggio, un luogo di incontro dove trovare vero confronto e aiuto concreto».

Le Soms possono attirare anche i giovani?

«Certo, non devono fare altro che mettere in pratica i principi dei loro statuti, principi sui quali le Soms sono nate. Rischio di ripetermi ma la solidarietà, il mutuo soccorso ha un potere di coinvolgimento fortissimo, soprattutto nei giovani. Guarda quanta generosità hanno dimostrato gli angeli del fango a Genova. Sono tutti giovani, uniti dalla voglia di fare concretamente qualcosa di utile per il prossimo, per chi si trova in difficoltà. Forse occorre da parte delle Soms uno sforzo maggiore per far conoscere i valori che rappresentano. Credo che il nostro progetto musical-teatrale "Soms che storia!" sia un importante passo in questa direzione».

Qual è il tuo rapporto con le Soms? Ne hai mai fatto parte?

«Ne ho fatto parte e ancora ne faccio parte. Attualmente sono il segretario della Società Operaia Mutuo Soccorso di Sussisa, paese dove abito».

Per questo progetto avete avuto il supporto del Circolo Culturale Irrequieti "Gian dei Brughi". Puoi dirci qualcosa in più?

«La giusta denominazione è "Agitatori Culturali Irrequieti Gian dei Brughi". È una creatura nata da un'idea di Patrizia Biaghetti. Sotto quel nome io e Patrizia abbiamo cominciato ad organizzare eventi culturali in nome di Gian dei Brughi, personaggio del Barone Rampante di Italo Calvino. Gian dei Brughi è un brigante che una volta venuto in contatto con la cultura si redime. Noi crediamo nel potere salvifico dell'arte e intorno a quest'idea ci siamo ritrovati a coinvolgere persone creative e sensibili con le quali lavoriamo dando vita a molti eventi e sono veramente tanti quelli che abbiamo organizzato e che abbiamo in programma. Ti invito a visitare il nostro sito www.giandeibrughi.it per averne un'idea più completa. Comunque nello specifico il progetto "Soms che storia!" ha avuto anche l’importantissimo apporto del Gruppo Città di Genova che ci ha aiutato economicamente».

Ad accompagnarti in questa nuova avventura discografica sono Carlo Aonzo, Sandro Signorile e Mirco Pagano. Come è nato questo quartetto?

«Volevo dare alle canzoni un sapore ruspante e popolare, come se alcuni amici si ritrovassero quasi per caso al tavolo di un bar per suonare insieme. Non ho cercato complessi arrangiamenti per i brani, anzi Carlo ha eseguito le sue parti praticamente in presa diretta seguendo solo alcune mie indicazioni a voce. Sono molto contento che Carlo abbia partecipato al progetto perché la sua incredibile musicalità e bravura erano proprio il tocco che cercavo. Sandro, con cui porto avanti il progetto delle Ristampe di Tex, ha aggiunto alcune sonorità a me care come quelle della mandola e del dobro. Mirco è il batterista con cui suono nel mio gruppo di jazz progressive, i Cripta Quartetto. Con Mirco ho un'intesa che dura da una vita e a lui ho chiesto di abbandonare per un momento i tamburi e cimentarsi con un cajón, strumento sicuramente molto più consono in questo contesto».

Nel disco ci sono anche canzoni molto attuali come "Il paese delle slot" che punta l'indice contro il gioco d'azzardo e lo stato che "s'ingrassa"…

«Come dicevo prima il testo della pièce tocca molti temi sociali. Uno di questi è il disagio, è la dipendenza creata dal gioco d'azzardo. Il ritornello della canzone, "al tuo gioco non ci gioco" è stato adottato dal Comune di Sori ed è diventato lo slogan per una campagna contro il gioco d'azzardo. La canzone è piaciuta anche al movimento NoSlot che l'ha inserita sulle pagine del suo sito (http://www.noslot.org/e-un-paese-triste-che-vive-delle-bische/)».

"Un santo ci vuole" è una sorta di appello all'arrivo di un santo, però molto terreno, con tutti i difetti tipici dell'uomo. Verrebbe da dire che non ci sono più i Santi di una volta…

«Il Vaticano continua a sfornare santi! Evidentemente i fedeli hanno bisogno di nuovi santi a cui rivolgersi perché quelli di una volta forse non riescono più ad esaudire le preghiere che ricevono. Papa Francesco ne ha da poco beatificato alcuni. Cosa importa se uno di questi, fino a poco tempo fa era sorridente a braccetto con Pinochet. Un santo ci vuole!»

In "Cambiare il mondo" l'utopistica visione si scontra con la realtà dei fatti e con il fallimento di un progetto. È ancora realistico pensare che ci possa essere una nuova via da percorrere?

«Questa domanda aprirebbe un discorso vastissimo, cercherò di rispondere in poche battute. Esiste una via da percorrere, ed è sempre la stessa. La magia del fare. Per cambiare il mondo bisogna cominciare a cambiare noi stessi. Dobbiamo prendere coscienza che la terra in cui viviamo è di tutti e che tutti dobbiamo rispettarla. Stiamo vivendo le conseguenze di una politica che ha avuto e continua ad avere come modello il consumismo. Continuiamo a sentire economisti che affermano il bisogno di ritornare a produrre, perché il mercato deve ripartire. Ma produrre cosa? Ripartire per dove? Questa società dei consumi non ha rispetto della vita, sta impoverendo questa terra e i suoi abitanti. Non è con un'automobile o un telefonino in più che potremo nutrirci ma solo la terra e i suoi frutti potranno sfamarci. Finché chi esercita il potere continuerà ad usarlo per il proprio tornaconto non si potrà mai arrivare ad un bene comune. L'utopia esiste solo per chi non ha il coraggio di un'ideale».

Nel brano "In tempi lontani" canti <…erano tempi tanto lontani, di lotta ai fascisti e ai padroni, erano tempi per clandestini, erano tempi da partigiani…>. Quali sono ora gli avversari contro cui lottare e i partigiani che possono farlo?

«Esiste sempre un oppressore da cui liberarsi. Oggi siamo schiavi del profitto, sono i poteri finanziari a decidere la nostra sorte. In realtà non è cambiato granché, la storia insegna, sono sempre i poveri che pagano. Servono guerre per fare profitto? Bene, quando hai le chiavi della dispensa non c'è niente di più facile che portare alla disperazione intere popolazioni per poi scatenarle una contro l'altra nel nome di presunti nazionalismi o devastanti fedi religiose. Servono braccia a basso costo? Bene, prendiamo i disperati di prima e li attiriamo lontano dalla loro terra con il miraggio di una vita migliore, se poi nel tragitto se ne perdono un po' poco importa, anzi meglio. Quelli che arrivano scopriranno amaramente di aver perso tutti i diritti e a quel punto è un gioco da ragazzi sfruttarli, leggi farli schiavi. I partigiani oggi sono coloro che sanno aprire gli occhi su queste realtà e non si lasciano incantare dai media; la vera lotta consiste nell'abbattere le barriere erette dal potere. Molte di queste sono culturali e una rivoluzione poetica sarebbe un'arma formidabile».

Oltre alle dieci canzoni, nel disco troviamo anche una bella poesia recitata da Patrizia Biaghetti…

«La poesia di Patrizia apre lo spettacolo "Soms che storia!". L'ha scritta di getto proprio in una società in Toscana dove stavo tenendo un concerto. Lei ha la capacità di cogliere i minimi particolari di un ambiente e ne ricava delle splendide immagini poetiche così come sa cogliere e descrivere le emozioni più intime».

Quali sono le prossime date in programma per poter assistere allo spettacolo?

«Per conoscere i nostri appuntamenti ti invito a visitare le pagine del mio sito (www.augusto.forin.name) o di quello dedicato allo spettacolo (chestoria.giandeibrughi.it)».




Titolo: Che storia!
Artista: Augusto Forin
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(Testi di Ivano Malcotti e adattamento e musiche di Augusto Forin, eccetto dove diversamente indicato)

01. Era un paese piccolino
02. Cambiare il mondo
03. Un santo ci vuole
04. Axi
05. Arriva lo statuto
06. Il paese triste
07. La colt di Garibaldi
08. In vino veritas
09. Tempi lontani
10. Centottantatreparole  [poesia scritta e recitata da Patrizia Biaghetti]
11. La banda della Soms