mercoledì 19 novembre 2014

In Australia le orme dei passi di Delsaceleste




Una relazione finita male, un viaggio per ritrovare la serenità e la pace interiore, un soggiorno in Australia, a Geelong nello stato di Victoria. Sono queste le esperienze che danno lo spunto a Delsaceleste, all'anagrafe Marco Del Santo, per comporre le canzoni del suo nuovo album, dal titolo "Le orme dei miei passi", uscito in queste settimane per l'etichetta New Model Label. Il cantautore milanese, attivo sulla scena indipendente dal 2006 come polistrumentista, cantante e autore, parte dalla traumatica rottura di una rapporto per affrontare un viaggio catartico, di accettazione della nuova situazione e per riscoprire se stesso. Il tutto in un ambiente affascinante dagli spazi sterminati e ignoti come l'Australia in cui lasciarsi trasportare e ritrovarsi.
Per farlo Delsaceleste («nome che nasce dall’unione del diminutivo del mio cognome, Delsa, usato comunemente da amici e conoscenti, e Celeste, la protagonista di un racconto che ho scritto tra il 2005 e il 2006», spiega) ricorre, come già aveva fatto per il precedente "La fabbrica dei ricordi" (2011), alla formula del concept album, tanto caro al genere progressive. Dal punto di vista musicale però il disco è molto diverso: si passa dal classico cantautorale chitarra e voce, a brani più articolati che esplorano il territorio rock e beat, senza far passare in secondo piano echi sudamericani. A contribuire alla nascita del disco sono stati Giacomo Ferrari (pianoforte), Paolo Zucchetti (batteria), Rino Garzia (basso), Davide Minelli (chitarra elettrica), Barbara Pinna (violino).
Questa nuova esperienza artistica è arricchita da un racconto scritto da Fabio Testa, alias Giovanni Fugazza, che lega le canzoni del disco, e le illustrazioni di Jacopo Silvestri
In questa breve intervista, Marco Del Santo presenta il suo nuovo disco.



Marco, è passato un bel po' di tempo dal precedente "La Fabbrica dei ricordi". Cosa è successo?

«Il periodo di lavorazione de "La Fabbrica dei ricordi", con annessa mostra a tema a cui hanno partecipato diversi artisti, è stato frenetico. Per il progetto successivo, "Le orme dei miei passi" volevo lavorare in maniera più meditata e accurata essendo diversi i fronti coinvolti: musiche, racconto e illustrazioni. Mi sono preso il tempo necessario». 

Perché hai scelto di registrare un concept album?

«Mi capita di vivere periodi di intensa creatività in cui scrivo di getto diversi brani che, proprio per essere stati concepiti in un'unica fase, finiscono per essere naturalmente correlati tra di loro, come elementi differenti di una visione più ampia e complessa».

Quanto ha inciso sulla scrittura delle canzoni del disco la tua esperienza di vita in Australia?

«È stata fondamentale, diretta ispirazione tra realtà e immaginazione».

Quanto tempo hai vissuto nella terra dei canguri?

«Solamente tre mesi, ma nella mente direi senz'altro di più».

Per un cittadino di una grande città come Milano deve essere abbastanza "traumatico" essere trasportato negli spazi sconfinati di quel continente. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«È stata l'esperienza più forte che abbia vissuto sinora. Ho avuto modo di mettermi alla prova, di riscoprire le mie potenzialità e analizzare i miei limiti, cercando sia di ritrovarmi che di rinnovarmi».

Sembra che tutta questa libertà ti abbia condizionato nel titolo di alcune canzoni come "Spazi immensi" e "Dolce solitudine" e nella musica dei brani strumentali…

«Verissimo, ho cercato di esprimere con parole e sonorità quelle sensazioni così liberatorie».

La rottura di un relazione è il punto di partenza di questo viaggio. Sembra però più che altro una liberazione. Non si avverte quel senso di disperazione che ci si potrebbe aspettare. Qual è il messaggio che hai voluto trasmettere?

«In ogni fase della nostra vita convivono benessere e complessità, bisogna riuscire a conservare ciò che di positivo ci è stato dato e farlo diventare parte integrante di noi stessi, è fondamentale avere modo di meditare intensamente, di arrivare in profondità».

Quali difficoltà hai incontrato a mettere in musica le tue emozioni?

«Ogni processo creativo è anche una esplorazione della propria emotività, quindi non è mai qualcosa di neutro. Nel mio caso entro in sintonia con le mie sensazioni e cerco di ricostruirle musicalmente».

Come avete lavorato sugli arrangiamenti di "Le orme dei miei passi"?

«Gli arrangiamenti dei brani sono stati costruiti sopra i miei provini e sono stati scritti assieme ai musicisti che l'hanno suonato. Voglio cogliere l'occasione per ricordarli e ringraziarli tutti: dal batterista Paolo Zucchetti, al pianista Giacomo Ferrari, al chitarrista Davide Minelli, al bassista Rino Garzia, alla violinista Barbara Pinna, per finire col compositore Luca Talamona con cui ho lavorato a "Pensieri in volo"».

Alla base del concept c'è una storia raccontata da Fabio Testa e illustrata da Jacopo Silvestri. Come sono nate queste collaborazioni e come avete portato avanti il progetto?

«Sono entrambi grandi amici e già in passato miei collaboratori. Conoscendo le potenzialità e le abilità di Fabio come scrittore e di Jacopo come artista, in questo caso specifico illustratore, è stato spontaneo e naturale rivolgermi a loro per lavorare al progetto "Le orme dei miei passi". Devo dire che è stato molto stimolante e appagante lavorare con loro fianco a fianco in ogni singola fase del progetto. Siamo partiti dai brani musicali allo stato grezzo per poi creare qualcosa di più ampio e completo».

Hai dei riti precisi nella scrittura?

«Come ti dicevo prima, solitamente diversi brani nascono in una stessa fase e si innesca quel processo che ti ho già descritto. Diciamo che è un rito di cui sono quasi succube».

Un desiderio da realizzare con la musica e uno nella vita…

«Per citare un po' la tematica del disco e della title-track, ogni passo che si compie è parte di un percorso in continua evoluzione, di cui non si può sempre intuire la direzione. Dobbiamo cercare allo stesso tempo di tenere salde le nostre radici e metterci continuamente in discussione».




Titolo: Le orme dei miei passi
Artista: Delsaceleste
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi Marco Del Santo, eccetto dove diversamente indicato)

01. EK 092
02. Contraddizione
03. Pensieri in volo  [musica di Luca Talamona e Marco Del Santo]
04. Spazi immensi
05. Dolce solitudine
06. Ombre
07. Soltanto polvere
08. Non rischiamo di scadere
09. Le orme dei miei passi
10. La metamorfosi
11. Titoli di coda



giovedì 13 novembre 2014

Emiliano Mazzoni torna con "Cosa ti sciupa"





A due anni da "Ballo sul posto", Emiliano Mazzoni torna con il disco "Cosa ti sciupa". Il cantautore di Piandelagotti, paese di montagna a 1.200 metri sull'Appennino Emiliano, prosegue il discorso iniziato con l'album d'esordio. Il pianoforte e la voce restano i cardini della musica di Mazzoni ma, in questo secondo capitolo discografico, la batteria e le chitarre elettriche si fanno più presenti e incalzanti dando più colore alle canzoni. È un disco più potente e vario negli arrangiamenti di quello precedente ed è in grado di mettere maggiormente in risalto le caratteristiche di questo artista che trova la sua naturale espressione nelle esibizioni dal vivo.
Le canzoni testimoniano una evoluzione nella scrittura di Mazzoni. Influssi della tradizione cantautorale francese, accenni tex-mex e di musica popolare si mischiano dando vigore e imprevedibilità al disco. Brani a volte nostalgici, conditi con manciate di disillusioni e cose ormai perdute, altre volte visionari ed evocativi, trasmettono sensazioni ed emozioni forti. Il disco evidenzia la buona capacità raggiunta da Mazzoni nel costruire immagini originali e rappresentative di un percorso compositivo importante. Anche in questo progetto è fondamentale l'esperienza di Luca A. Rossi (Üstmamò, Giovanni Lindo Ferretti) che cura la produzione artistica e suona basso, chitarre elettriche e acustiche, cembalo. A contribuire alla realizzazione del disco, firmato dalla Gutenberg Records/Primigenia Produzioni Musicali, sono Simone Filippi (batteria), Mirko Zanni (chitarra elettrica), Michael Mac Bello (batteria), Dominic Palandri (chitarra), Romy Chenelat e Angus Palandri (cori). 
A presentare il nuovo disco è lo stesso Emiliano Mazzoni in questa intervista.




Sono passati due anni da "Ballo sul posto". Leggendo sul retro della copertina si intuisce che è stato un lavoro molto lungo ed elaborato. È così o ci sono stati degli eventi che ti hanno costretto a prendere tempo?

«Ci sono stati degli eventi esterni che hanno condizionato la genesi di questo disco. Dopo nemmeno sei mesi dall'uscita di "Ballo sul posto" abbiamo iniziato a registrare con molta calma, a casa mia, e a maggio del 2013 tutto il materiale era già registrato. Poi è subentrata la ristrutturazione della casa e ho dovuto sospendere tutto per un bel po'. Non amo stare molto tempo sulle cose ma in questo caso, paradossalmente, era la maniera per far prima».

Pianoforte e voce continuano ad essere elementi portanti della tua musica ma, rispetto al disco precedente, batteria e chitarre elettriche colorano maggiormente le tue canzoni…

«Erano canzoni che immaginavo un po' più movimentate e alla fine son soddisfatto. Una volta terminato "Ballo sul posto" avevo già i pezzi e le idee per "Cosa ti sciupa", mantenendo sempre lo stesso modo di lavorare in casa. Così ora ho già da parte i pezzi per il prossimo disco, ma sarà molto diverso».

Anche in questo secondo episodio discografico ti sei avvalso della collaborazione di Luca A. Rossi. Quanto è importante questo sodalizio per te e la tua musica?

«È fondamentale! Mi ha aiutato molto a sviluppare quello che avevo solo abbozzato costruendo i pezzi voce e piano. Poi dalla sua esperienza ho imparato molto ed è stato molto disponibile ad attrezzare la mia casa con quello che gli serviva per il suono che aveva in mente. Tutte cose che io ho poi capito dopo. Devo molto a Luca». 

Nelle canzoni del nuovo disco le figure femminili sono le protagoniste…

«Me ne accorgo ora. Per me queste canzoni parlano di cose che accadono e "Cosa ti sciupa" vuol far uscire certe difficoltà. Certo è che alcuni tribolamenti amorosi sono protagonisti e le figure femminili sono lì a renderli possibili cercando su tutto la semplicità nei testi. Quando riunisco le canzoni da mettere in un disco lo faccio cercandone un sapore comune, che però a volte non so dire a parole quale sia».

È curioso come l'ambiente in cui uno vive possa condizionare anche il pensiero e la scrittura. E mi spiego meglio. Nelle tue canzoni non c'è quasi traccia di ambienti cittadini, con tutte le conseguenti problematiche, mentre la natura e le fotografie di posti a te più familiari sono uno dei cardini della tua scrittura. Cosa ne pensi?

«Penso che mi dispiacerebbe un po' se fosse completamente così. Non posso sapere cosa farò, ma vorrei scrivere anche altre cose, già il prossimo lavoro sarà molto scuro e vorrei che fosse ambientato in nessun luogo, ecco, vorrei scrivere canzoni che siano ambientate in nessun luogo. Però probabilmente è vero, l'ambiente influenza molto e bisognerebbe essere sempre pronti ad andarsene non appena questo diventa un limite, oppure riuscire ad essere bravi nel farlo uscire sempre sotto forma di sincero spirito creativo».

C'è un tema comune che lega le canzoni di "Cosa ti sciupa"?

«Sì, il non riuscire ad acchiappare il brivido che ti dice "eccomi sono qua, prendimi" e il rammarico che rimane. L'impossibilità di compiere l'ultimo passo verso un'ispirazione che ti capita di ricevere, a volte per un limite inevitabile, a volte perché siamo solamente esseri umani e sbagliamo o rinunciamo. "Cosa ti sciupa" è un 'rovello', con un piede dentro una domanda e l'altro dentro un rimprovero».

Quanto c'è di autobiografico in queste undici nuove composizioni?

«Di sicuro molte cose, ma non saprei indicare qualcosa di preciso. Quando scrivo non ho un percorso, ma lascio che il testo si distenda richiamando quello che manca, e se poi lo merita arriva alla fine del viaggio. Quindi per forza le mie esperienze intervengono, ma cerco di farglielo fare senza apparire, a volte riuscendoci a volte no. Forse è "Ragazza aria" il brano dove si scoprono di più. Diverso è il discorso per "Non rivedrò più nessuno" che è abbastanza giornalistica e parla di un fatto accaduto».

Mi piace la frase <Lasciate alla bellezza il vostro cuore e vi soccorrerà non sono favole> con cui si conclude "Canzone di bellezza". È un invito o una constatazione?

«È entrambe le cose. Arriva alla fine di una canzone dove una sfilza di immagini arrivano e vanno, cercando in modo un po' fantasmagorico di recuperare una dimensione intima, cercando di fotografare quei momenti dove ci si ferma a pensare un istante prima che tutto sfugga. Forse son cose solo immaginate o dimenticate, ma che nell'illusione costruiscono un'idea che si va a consolare sulla frase finale. Ha uno stile che amo e che mi ha sempre accompagnato anche nelle esperienze precedenti al progetto solista».

Il brano che in un certo modo esce dagli schemi è "Nell'aria c'era un forte odore" con quella sua cadenza tex-mex. Ce ne parli?

«È la storia di un buon ragazzo che avvilito dal mondo decide di abbandonarlo. Mi è uscito così, con sul finale la sorpresa di cadere fra le braccia di un amore dimenticato. La musica mi ha suggerito questa storia, non so poi perché. Musicalmente è uscito proprio quello che immaginavo mentre mi venivano gli accordi (semplicissimi...) ed era una strada divertente».

"Tornerà la felicità" è una canzone molto intensa ma per te cosa è la felicità?

«Non so rispondere, mi dispiace. E non sono nemmeno sicuro che torni né che ci sia mai stata. Di sicuro è un problema».

Il disco si chiude con l'emozionante "Non rivedrò più nessuno". Come è nata questa canzone?

«È nata da una storia accaduta a un mio prozio, ed è andata proprio così come viene raccontata. Noi la conosciamo perché le persone che erano su quella corriera, una volta tornate a casa, hanno raccontato che quel ragazzo piangeva e tra sé diceva "non rivedrò più i miei amici, non rivedrò più nessuno". Dopo qualche tempo si scoprì che aveva ragione. Quando mi è uscita la musica ho provato a ragionar su quel fatto e in un attimo è riuscita così».

Che cosa vorresti che la gente sentisse nella tua musica?

«Credo che la musica sia di chi la ascolta e ognuno deve farne quel che vuole. Credo che sia un linguaggio che può suonare ampio o meno ampio a prescindere dalle volontà degli artisti».

Pochi giorni fa, Paolo Serra ha scritto su Il Fatto Quotidiano un articolo sulla musica e sui format televisivi. Mi sono appuntato questo passaggio: «E non basta più saper fare il giro di Do con la chitarra, adesso devi imparare a curare la tua immagine, ammiccare con disinvoltura alle telecamere, muoverti nel modo giusto sul palcoscenico e anche fuori, e soprattutto sul web. Perché i casi sono due: o diventi virale, oppure gli anticorpi del sistema ti rigettano negli ultimi dieci piano-bar sopravvissuti alla crisi». Cosa ne pensi di questa affermazione?

«Penso che sarebbe bello dire che ha ragione dimostrando che ha torto. Penso anche però che siano le canzoni a dover trainare l’artista e il pubblico a sostenerlo, se non c'è pubblico puoi ammiccare a quel che vuoi. Ma non lo so poi mica, non sono un esperto».




Titolo: Cosa ti sciupa
Artista: Emiliano Mazzoni
Etichetta: Gutenberg Music/Primigenia
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche e testi di Emiliano Mazzoni)


01. Canzone di bellezza
02. Ma perché te ne vai
03. Diva
04. Un'altra fuga
05. Ciao tenerezza
06. Hey boy
07. Ragazza aria
08. Non lasciarmi qui
09. Nell'aria c'era un forte odore
10. Tornerà la felicità
11. Non rivedrò più nessuno



giovedì 6 novembre 2014

"Che storia!" le Soms cantate da Augusto Forin





Nell'Europa del 1800, in particolare in Germania, Inghilterra e Francia, nacquero le prime forme di mutualità e di autodifesa del mondo del lavoro. Dopo l'ondata rivoluzionaria del 1848 anche sul territorio italiano si registrò un notevole incremento nel numero delle Società Operaie di Mutuo Soccorso. Le persone vi aderirono volontariamente su base territoriale o professionale per scopi di mutuo aiuto. In Italia, attualmente, le Soms attive sono circa duemila mentre in Liguria se ne contano centosettanta.  
Sulle Soms e sulla loro storia è stato scritto da Ivano Malcotti uno spettacolo di teatro-canzone, dal titolo "Soms che storia!", che racconta l'importanza che hanno avuto nel tessuto sociale, dalla loro nascita ai giorni nostri. Le canzoni della pièce sono state invece firmate da Augusto Forin e raccolte nel disco "Che storia!". Brani dal sapore popolare che richiamano le atmosfere delle tipiche giornate trascorse nelle Società, in cui convivialità, incontro e discussione recitano ancora oggi un ruolo fondamentale. Gli arrangiamenti non sono complessi e il disco scorre veloce e gradevole trasportando l'ascoltatore al tavolo di chi racconta e canta storie, magari davanti a un buon bicchiere di vino. Non per questo gli argomenti trattati sono superficiali o di poca importanza. Nelle canzoni, i cui testi sono firmati da Malcotti e adattati da Forin, si parla anche di gioco d'azzardo, società dei consumi che impoverisce il mondo, immigrazione e povertà.
In questa nuova avventura discografica, Forin ha scelto come compagni di viaggio il mandolinista Carlo Aonzo, Sandro Signorile, impegnato alla mandola e al dobro, e Mirco Pagani alle percussioni e glockenspiel. A questi si sono aggiunti Patrizia Litolatta Biaghetti (voce recitante), il Coro degli Agitatori, Monica Astengo e Valter Mereta del Gruppo Città di Genova. 
Nell'intervista che segue Forin risponde alle domande sulla genesi di "Che storia!" e sul suo rapporto con le Soms.



Ci eravamo lasciati parlando di un tuo nuovo progetto musicale ed eccoci ora con in mano l'album "Che storia!". Ce lo vuoi presentare?

«"Che storia!" raccoglie tutte le canzoni dello spettacolo "Soms che storia!" scritto da Ivano Malcotti. Quest'album ha una storia speciale. Ivano aveva trovato una piccola sponsorizzazione nel Gruppo Città di Genova e così decidemmo di utilizzarla per produrre un cd con le canzoni della pièce da vendere nei nostri spettacoli per autofinanziarci. Avevo coinvolto Bruno Cimenti (fonico che ha registrato e mixato l'ultimo lavoro di Max Manfredi, "Dremong") e con lui programmato di iniziare le registrazioni lo scorso novembre. Causa miei problemi di salute è saltato tutto. Nel frattempo Giotto Barbieri, uno degli Agitatori Culturali Irrequieti che di mestiere fa il regista, si stava occupando di realizzare un video promozionale per presentare "Soms che storia!". Occorreva quindi registrare almeno un brano dello spettacolo. Allora il nostro "Marx" (è lui, Giotto che appare truccato da Marx sulla copertina di "Che storia!") ha pensato di contattare un amico fonico così da avere velocemente la demo di una canzone da usarsi per il videoclip. Caspita! L'amico fonico era Alberto Parodi. Proprio l'Alberto Parodi del famoso studio di Mulinetti, quello che ha registrato dischi come "Aguaplano" di Conte o "La pianta del te" di Fossati. Ci siamo incontrati con Alberto che, una volta ascoltato il nostro progetto, si è offerto non solo di registrarci una demo ma addirittura di produrci il cd con tutte le canzoni. Non ci siamo fatti scappare l'occasione e nel giro di due settimane abbiamo avuto in mano il master di "Che storia!"».

Quando è nato il sodalizio con Ivano Malcotti?

«Con la mia compagna Patrizia abbiamo assistito ad uno spettacolo scritto da Ivano per il quale avevamo realizzato la grafica delle locandine. A fine rappresentazione lo abbiamo avvicinato ed è bastato un breve scambio di battute per capire che poteva essere la persona giusta per far parte del nostro gruppo di Agitatori Culturali Irrequieti Gian dei Brughi. È così che è iniziata la collaborazione».

A chi è venuta l'idea di scrivere uno spettacolo di teatro-canzone dedicato alle Soms?

«L'idea è di Ivano. Tra i numerosi testi teatrali che aveva nel cassetto c'era anche questo dedicato alla storia delle Società Operaie. Insieme l'abbiamo rivisto, aggiunto le canzoni e iniziato a proporlo con il gruppo degli Agitatori Culturali Irrequieti. All'inizio in forma di sola lettura ma via via con l'aiuto di Daniela Borsese, che è una degli Agitatori e anche lei regista, abbiamo provato a rappresentarlo diventandone gli interpreti. Alla fine è venuta fuori una divertente pièce teatrale che sta riscuotendo un discreto successo».

Qual è lo scopo dello spettacolo?

«Lo scopo è quello che dovrebbe avere ogni operazione artistica e cioè trasmettere emozione agli spettatori. Il testo si snoda tra nozioni storiche, considerazioni sociali, macchiette e siparietti, si brinda a Don Gallo e a Gino Strada e ci sono comizi di Marx, Garibaldi e pure di Mussolini: insomma cerchiamo di far sorridere e far riflettere. Noi sicuramente ci divertiamo e questo al pubblico arriva».

So che avete anche preparato del materiale per le scuole…

«In realtà è nato prima il progetto formativo per la scuola ideato e curato da Cristiana Ricci. Sulla scia di quel progetto Ivano ha scritto il testo teatrale di "Soms che storia!". Lo spettacolo diventa così anche un mezzo per avvicinare e coinvolgere i giovani, portare nelle scuole e far conoscere quei valori fondamentali per la nostra società: la solidarietà, la mutualità, la partecipazione indispensabili per perseguire il benessere comune».

Trovo che le Soms, con la loro idea fondante del mutuo soccorso, siano ora più che mai un paracadute importante per tante persone. Cosa ne pensi?

«Questa nostra società negli ultimi anni è sempre più individualista. Gli stessi social network non fanno che aumentare l'isolamento delle persone che credono di esprimere un'opinione con un "mi piace" o postando un commento su un blog. Alla fine la loro azione sociale finisce lì, nel fissare un display, sempre più alienati dalla realtà. Ma ci fai caso? Guardati intorno, per la strada, al ristorante, ovunque vedi persone che non si guardano neppure più in faccia intenti a digitare chissà quale importantissima verità. La realtà è che queste persone sono sempre più sole e sempre meno influenti sulle sorti della società in cui vivono. È a questo punto che le Soms possono tornare ad avere un ruolo fondamentale. Più che un paracadute, come le definisci tu, una zattera di salvataggio, un luogo di incontro dove trovare vero confronto e aiuto concreto».

Le Soms possono attirare anche i giovani?

«Certo, non devono fare altro che mettere in pratica i principi dei loro statuti, principi sui quali le Soms sono nate. Rischio di ripetermi ma la solidarietà, il mutuo soccorso ha un potere di coinvolgimento fortissimo, soprattutto nei giovani. Guarda quanta generosità hanno dimostrato gli angeli del fango a Genova. Sono tutti giovani, uniti dalla voglia di fare concretamente qualcosa di utile per il prossimo, per chi si trova in difficoltà. Forse occorre da parte delle Soms uno sforzo maggiore per far conoscere i valori che rappresentano. Credo che il nostro progetto musical-teatrale "Soms che storia!" sia un importante passo in questa direzione».

Qual è il tuo rapporto con le Soms? Ne hai mai fatto parte?

«Ne ho fatto parte e ancora ne faccio parte. Attualmente sono il segretario della Società Operaia Mutuo Soccorso di Sussisa, paese dove abito».

Per questo progetto avete avuto il supporto del Circolo Culturale Irrequieti "Gian dei Brughi". Puoi dirci qualcosa in più?

«La giusta denominazione è "Agitatori Culturali Irrequieti Gian dei Brughi". È una creatura nata da un'idea di Patrizia Biaghetti. Sotto quel nome io e Patrizia abbiamo cominciato ad organizzare eventi culturali in nome di Gian dei Brughi, personaggio del Barone Rampante di Italo Calvino. Gian dei Brughi è un brigante che una volta venuto in contatto con la cultura si redime. Noi crediamo nel potere salvifico dell'arte e intorno a quest'idea ci siamo ritrovati a coinvolgere persone creative e sensibili con le quali lavoriamo dando vita a molti eventi e sono veramente tanti quelli che abbiamo organizzato e che abbiamo in programma. Ti invito a visitare il nostro sito www.giandeibrughi.it per averne un'idea più completa. Comunque nello specifico il progetto "Soms che storia!" ha avuto anche l’importantissimo apporto del Gruppo Città di Genova che ci ha aiutato economicamente».

Ad accompagnarti in questa nuova avventura discografica sono Carlo Aonzo, Sandro Signorile e Mirco Pagano. Come è nato questo quartetto?

«Volevo dare alle canzoni un sapore ruspante e popolare, come se alcuni amici si ritrovassero quasi per caso al tavolo di un bar per suonare insieme. Non ho cercato complessi arrangiamenti per i brani, anzi Carlo ha eseguito le sue parti praticamente in presa diretta seguendo solo alcune mie indicazioni a voce. Sono molto contento che Carlo abbia partecipato al progetto perché la sua incredibile musicalità e bravura erano proprio il tocco che cercavo. Sandro, con cui porto avanti il progetto delle Ristampe di Tex, ha aggiunto alcune sonorità a me care come quelle della mandola e del dobro. Mirco è il batterista con cui suono nel mio gruppo di jazz progressive, i Cripta Quartetto. Con Mirco ho un'intesa che dura da una vita e a lui ho chiesto di abbandonare per un momento i tamburi e cimentarsi con un cajón, strumento sicuramente molto più consono in questo contesto».

Nel disco ci sono anche canzoni molto attuali come "Il paese delle slot" che punta l'indice contro il gioco d'azzardo e lo stato che "s'ingrassa"…

«Come dicevo prima il testo della pièce tocca molti temi sociali. Uno di questi è il disagio, è la dipendenza creata dal gioco d'azzardo. Il ritornello della canzone, "al tuo gioco non ci gioco" è stato adottato dal Comune di Sori ed è diventato lo slogan per una campagna contro il gioco d'azzardo. La canzone è piaciuta anche al movimento NoSlot che l'ha inserita sulle pagine del suo sito (http://www.noslot.org/e-un-paese-triste-che-vive-delle-bische/)».

"Un santo ci vuole" è una sorta di appello all'arrivo di un santo, però molto terreno, con tutti i difetti tipici dell'uomo. Verrebbe da dire che non ci sono più i Santi di una volta…

«Il Vaticano continua a sfornare santi! Evidentemente i fedeli hanno bisogno di nuovi santi a cui rivolgersi perché quelli di una volta forse non riescono più ad esaudire le preghiere che ricevono. Papa Francesco ne ha da poco beatificato alcuni. Cosa importa se uno di questi, fino a poco tempo fa era sorridente a braccetto con Pinochet. Un santo ci vuole!»

In "Cambiare il mondo" l'utopistica visione si scontra con la realtà dei fatti e con il fallimento di un progetto. È ancora realistico pensare che ci possa essere una nuova via da percorrere?

«Questa domanda aprirebbe un discorso vastissimo, cercherò di rispondere in poche battute. Esiste una via da percorrere, ed è sempre la stessa. La magia del fare. Per cambiare il mondo bisogna cominciare a cambiare noi stessi. Dobbiamo prendere coscienza che la terra in cui viviamo è di tutti e che tutti dobbiamo rispettarla. Stiamo vivendo le conseguenze di una politica che ha avuto e continua ad avere come modello il consumismo. Continuiamo a sentire economisti che affermano il bisogno di ritornare a produrre, perché il mercato deve ripartire. Ma produrre cosa? Ripartire per dove? Questa società dei consumi non ha rispetto della vita, sta impoverendo questa terra e i suoi abitanti. Non è con un'automobile o un telefonino in più che potremo nutrirci ma solo la terra e i suoi frutti potranno sfamarci. Finché chi esercita il potere continuerà ad usarlo per il proprio tornaconto non si potrà mai arrivare ad un bene comune. L'utopia esiste solo per chi non ha il coraggio di un'ideale».

Nel brano "In tempi lontani" canti <…erano tempi tanto lontani, di lotta ai fascisti e ai padroni, erano tempi per clandestini, erano tempi da partigiani…>. Quali sono ora gli avversari contro cui lottare e i partigiani che possono farlo?

«Esiste sempre un oppressore da cui liberarsi. Oggi siamo schiavi del profitto, sono i poteri finanziari a decidere la nostra sorte. In realtà non è cambiato granché, la storia insegna, sono sempre i poveri che pagano. Servono guerre per fare profitto? Bene, quando hai le chiavi della dispensa non c'è niente di più facile che portare alla disperazione intere popolazioni per poi scatenarle una contro l'altra nel nome di presunti nazionalismi o devastanti fedi religiose. Servono braccia a basso costo? Bene, prendiamo i disperati di prima e li attiriamo lontano dalla loro terra con il miraggio di una vita migliore, se poi nel tragitto se ne perdono un po' poco importa, anzi meglio. Quelli che arrivano scopriranno amaramente di aver perso tutti i diritti e a quel punto è un gioco da ragazzi sfruttarli, leggi farli schiavi. I partigiani oggi sono coloro che sanno aprire gli occhi su queste realtà e non si lasciano incantare dai media; la vera lotta consiste nell'abbattere le barriere erette dal potere. Molte di queste sono culturali e una rivoluzione poetica sarebbe un'arma formidabile».

Oltre alle dieci canzoni, nel disco troviamo anche una bella poesia recitata da Patrizia Biaghetti…

«La poesia di Patrizia apre lo spettacolo "Soms che storia!". L'ha scritta di getto proprio in una società in Toscana dove stavo tenendo un concerto. Lei ha la capacità di cogliere i minimi particolari di un ambiente e ne ricava delle splendide immagini poetiche così come sa cogliere e descrivere le emozioni più intime».

Quali sono le prossime date in programma per poter assistere allo spettacolo?

«Per conoscere i nostri appuntamenti ti invito a visitare le pagine del mio sito (www.augusto.forin.name) o di quello dedicato allo spettacolo (chestoria.giandeibrughi.it)».




Titolo: Che storia!
Artista: Augusto Forin
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(Testi di Ivano Malcotti e adattamento e musiche di Augusto Forin, eccetto dove diversamente indicato)

01. Era un paese piccolino
02. Cambiare il mondo
03. Un santo ci vuole
04. Axi
05. Arriva lo statuto
06. Il paese triste
07. La colt di Garibaldi
08. In vino veritas
09. Tempi lontani
10. Centottantatreparole  [poesia scritta e recitata da Patrizia Biaghetti]
11. La banda della Soms




mercoledì 22 ottobre 2014

Paolo Saporiti canta il suo lungo percorso evolutivo





Ho avuto la fortuna di ascoltare Paolo Saporiti a "Queste piazze davanti al mare", festival musicale che ogni anno si celebra nel periodo estivo a Laigueglia, nella Riviera ligure, sotto la direzione artistica di Massimo Schiavon. È stata una esibizione chitarra e contrabbasso che mi ha piacevolmente sorpreso per gli arrangiamenti ricercati e mai scontati delle canzoni, i testi forti e a tratti visionari e naturalmente la bravura degli interpreti. Inevitabile quindi che mi sia venuta la mia voglia di approfondire la conoscenza di questo cantautore milanese che ha all'attivo cinque album, tutti cantati in inglese. Le canzoni del nuovo disco eponimo, pubblicato quest'anno dalla Orange Home Records di Raffaele Abbate, hanno invece la caratteristica di essere cantate in italiano, un novità per Saporiti.
Un disco ricco di idee e creatività compositiva che si dibatte tra opposti che potrebbero essere anche considerati inconciliabili ma che trovano la giusta miscelazione grazie anche al lavoro di Xabier Iriondo (Afterhours) che ne ha curato la produzione. E così l'improvvisazione e la dissonanza diventano complementari alla melodia e al folk, l'intimismo di certi episodi, molto in linea con la precedente produzione di Saporiti, si scontra con soluzioni ardite e di rottura. Contrasti musicali che viaggiano su binari paralleli a testi in cui l'autore affronta i propri limiti e i propri fantasmi in un percorso di lotta e sofferenza. Dodici brani che hanno permesso a Saporiti di raccontarsi, senza barriere linguistiche e filtri, e di fare i conti con il proprio vissuto e con le proprie radici familiari. 
Alla realizzazione del disco hanno partecipato in sala di registrazione Roberto Zanisi al bouzouki, Cristiano Calcagnile alla batteria, Luca D’Alberto alla viola e al violino, Stefano Ferrian ai sassofoni, lo stesso Xabier Iriondo che ha impugnato il basso e ha gestito l'elettronica.
La voglia di conoscenza mi ha portato a prendere contatto con Saporiti che è stato disponibile a parlarci del disco e della sua carriera. Il tutto è riportato nell'intervista che segue.




Capelli tagliati più corti, un album in italiano, ancora tanta sperimentazione. E' un periodo di cambiamenti sotto molteplici aspetti?

«Direi di sì ma vale un poco per tutta una vita, credo di averla impostata così, in fondo, un poco per scelta, come è forse capitato a tanti altri a un certo punto della propria esistenza. Una lunga serie di mutazioni e cambiamenti per sentirsi sempre più vivi e nuovi. In realtà ora i miei confini sono ben più definiti in ogni cosa che faccio e sono, e il gioco risulta essere sempre più facile e proficuo, anche da un punto di vista creativo. È come se, una volta conquistato uno stato dell'essere interiore sempre più certo e sicuro, tutto scaturisse in maniera più semplice. Credo che si debba in qualche modo raggiungere un piano in cui il giocare con se stessi e con le proprie facce risulti essere sempre più semplice e normale».

Per apprezzare appieno il tuo nuovo disco occorrono diversi ascolti. È una scelta coraggiosa in questi tempi di jingles. Lo sai che rischi di non arrivare mai in testa alle classifiche?

«Lo so e fa parte anche questo di una scelta. Amo giocare, come ti dicevo prima, ma in un campo di coerenza. Il vendersi non ne fa parte e, amando un certo tipo di musica e letture o pensieri o di autori in senso lato, non riesco a sposare un altro tipo di causa. Vorrei che il mondo seguisse questo trend e non il contrario».

Dopo cinque album in inglese la scelta di cantare in italiano rende però tutto più semplice. Sei cosciente che così facendo hai reso pubblico una parte della tua vita e delle tue emozioni?

«Credo che il discorso riguardi soltanto una maggiore consapevolezza di questo aspetto. È quello che cercavo e che ho fortemente voluto e inseguito. Essere sempre di più me stesso e raccontarlo agli altri; ha a che fare con un discorso di verità e le acquisizioni sono state tante e lente, giorno per giorno. L'italiano rende, come dici, tutto ancora più diretto ma non credo in fin dei conti di essermi poi troppo nascosto prima. Chi voleva capire il mio messaggio, poteva senza troppi problemi. Non ho mai pensato alla lingua come a un vero ostacolo anche se oggi non posso che confermare la bontà e la necessità di questo che comunque considero un salto importante ed epocale per me e la mia vita».

Nel disco ci sono dodici canzoni che ti vedono combattere un dramma interiore. L'uomo triste e l'uomo felice sono impegnati in una continua lotta. Chi vincerà alla fine di questa epica battaglia?

«Io non credo che la felicità risieda da altra parte se non nella ricerca e nell’affrontare se stessi, i propri limiti e i propri fantasmi e spesso bisogna scontrarsi con un bel grumo di sofferenza. È una questione di volontà e di fede, di capacità di credere in un sogno e la conquista della meta prevede fatica e sofferenza. Lì sta la felicità. Il percorso è lungo, perfino metodico nella sua evoluzione, disciplinare e sicuramente disciplinato, ma i frutti che porta la voglia di emancipazione e di conquista della libertà, sono sempre felici, in qualsiasi forma poi essi vengano a esprimersi. Faccio parte di quelle persone che credono che solo dal vivere in maniera completa quello che si prova possa scaturire il bene e il buono».

Anche dal punto di vista sonoro si assiste a uno scontro tra il folk della tua chitarra acustica e una marcata sperimentazione. Quanto ha influito da questo punto di vista la tua collaborazione con Xabier Iriondo?

«Xabier l’ho scelto, una volta conosciuto. Ho apprezzato la sua ricerca, il suo modo di gestire una carriera e il suo modo di essere e per questo gli ho chiesto aiuto. Volevo tradurre un certo tipo di sensazione interiore che sento corrispondere tremendamente all'uomo contemporaneo, molto più di quanto tutti vogliano provare a fingere di non accettare e capire, negando la verità a se stessi o non ascoltando quel che faccio e suono io ma prima o poi qualcuno capirà, ne sono convinto».

Ho ascoltato con molto interesse la tua esibizione a Laigueglia in occasione del festival "Queste piazze davanti al mare" e mi ha incuriosito il testo di "Io non ho pietà". Che significato ha in generale e in particolare la frase ‹Perché non muori e non prendi me›?

«Perché non ti rinnovi, perché non ti ripulisci, cambi vita e scegli me in relazione al tuo passato, ai tuoi vissuti, anche i più angoscianti. È una cosa che chiedevo alla donna che amo ma che chiederei a tutti, compresi i miei genitori o a quello che ne rimane di loro. Il difetto più grande della società che abbiamo creato è la sfiducia totale nella figura del figlio, dei figli. Questo è un mondo di ex-padri, padri finiti o logori e madri stanche e annoiate, nella migliore delle ipotesi. I figli, che sono presente e futuro, sono concepiti già morti o soltanto come costole di se stessi o in funzione utilitaristica ed egoistica e questo è quello che mi uccide e che forse mi ha ucciso per così tanto tempo. Chiediamo uno scatto a questo mondo. È necessario, senza pietà, anche nel riconoscere e accettare le nostre zone d'ombra. Il gioco del nascondino ha stufato davvero, la scissione e la rimozione hanno perso ed è ora che chi ha sbagliato si tolga dal campo e lasci giocare chi ne ha voglia e diritto».

Hai presentato "Erica" dicendo che è una canzone che risale a tanto tempo fa. Anche in questo brano è presente il continuo gioco di contrapposizioni tra un messaggio positivo e uno negativo. ‹Erica come posso riuscire ad amare se sei ancora qui› ne è una sintesi straordinaria…

«Vero. Amare e rendersi conto di non esserne ancora capaci e accettare la messa in discussione e lavorare per un cambiamento profondo. Come tanti, la figura materna è una figura importante, bisogna riuscire ad affrancarsene e cercare delle nuove vie e ipotesi di relazione. Ci si nasconde dietro false acquisizioni date per scontate ma non è oro tutto quello che luccica e anche dietro la sensazione di una grossa passione o amore non è detto che risieda la verità».

Entra subito nella carne la rullata di batteria che apre "Come hitler". Un brano di poco più di un minuto e mezzo di durata che sbeffeggia simbolicamente il Führer "dai baffetti sporchi" ma che penso abbia un significato ben più ampio. Mi sbaglio?

«Assolutamente no. "Come hitler”" parla di qualsiasi forma di sopruso, manipolazione, coercizione fisica o psicologica che sia. Odio chi usa il proprio potere o la propria posizione a fini personali e che per fare ciò violenta, abusa o prevarica. Immagina due file di ragazzi e ragazze in collegio e il precettore che li picchietta e insidia col suo passo riconoscibile fra mille nelle loro memorie. Vorrei che questo tipo di vissuti scomparisse dalla faccia della Terra e che la gente sia sempre più consapevole dei danni che può arrecare. Ci vuole più rispetto a questo mondo».

"Ho bisogno di te" segna una rivincita verso chi ha condizionato la tua vita in questi anni o è una dichiarazione di guerra?

«Tutte e due le cose, una dichiarazione di intenti a fronte di un comportamento, un'azione o un modo di essere col quale volente o nolente ho dovuto confrontarmi negli anni. Parla di colleghi, case discografiche, amore e odio e della necessità a volte perversa di avere a che fare anche con l'aggressore, nella speranza di una pulizia dalla sporcizia. Credo che manifestare la rabbia, quando ce n'è, sia una delle prime acquisizioni e vie per la libertà, il che non vuol dire essere violenti o rispondere alla violenza e all'ignoranza con la violenza e l'ignoranza ma concedersi di sentire e di ascoltarsi al fine di crescere e l'arte è uno degli strumenti che l'uomo si è dato a disposizione e di cui vado fiero in quanto appartenente alla specie».

Ascoltando "Caro presidente" mi sono chiesto se sei credente?

«Lo sono stato ma nel modo sbagliato. Mi avevano insegnato a immaginare un mondo in cui Dio risponde positivamente alle tue preghiere e richieste prima o poi se ti comporti bene e preghi e ti penti o fai del bene o altro, vai a Messa, etc. Ora so che la fede, di qualsiasi tipo sia, non ha aspettative e non prevede risultato: c'è se c'è, se non c'è, non c'è».

Con "In un mondo migliore" lasci aperta una porta verso il futuro. Quali sono le tue speranze?

«Che il mondo cambi grazie alla nostra voglia di farlo. Prima di tutto bisogna che la gente ammetta che così non va, poi si vedrà. Per ora mi accontenterei di questo, una messa in discussione di tutti o buona parte degli status symbol a cui ci hanno e ci siamo piegati e abituati e la presa di coscienza che non tutto il nostro passato è da buttare, anzi, e che il bruciare libri, dischi, musica, teatro, cinema e quadri non porta e non porterà o mai ha portato alcunché di buono all'uomo e alla sua vita sulla Terra».

Sulla copertina sono raffigurati tuo papà da piccolo e tuo nonno. Anche nel libretto ci sono altre foto della parte maschile della tua famiglia. Che significato hanno queste foto e perché nessun ricordo delle donne della tua famiglia?

«In realtà sul posteriore c'è anche la bisnonna, oltre a bisnonno e nonno, mio padre è nel booklet interno ma hai ragione, questo voleva essere un tributo alla parte maschile della mia famiglia, quella che mi ha donato manualità e creatività a mio modo di sentire e che mi ha messo nella condizione di poter sognare e osare quello che altri rifuggono, un percorso diverso e indipendente».

Cosa può trovare l'ascoltatore nel tuo disco?

«Me e se stesso attraverso me o almeno, spero, qualche spunto utile e qualche forma di identificazione positiva con le proprie emozioni profonde».


Titolo: Paolo Saporiti
Artista: Paolo Saporiti
Etichetta: Orange Home Records
Anno di pubblicazione: 2014



Tracce
(Testi e musiche di Paolo Saporiti)

01. Come venire al mondo
02. Io non ho pietà
03. Cenere
04. Sangue
05. Come hitler
06. L'effetto indesiderato
07. Ho bisogno di te
08. Erica
09. In un mondo migliore
10. Caro presidente
11. P.S.



lunedì 6 ottobre 2014

La disperata "Beggar town" dei Cheap Wine




Diciotto anni di musica, concerti dal vivo e dieci dischi pubblicati fanno dei Cheap Wine una delle band indipendenti più longeve del panorama musicale italiano. Il gruppo pesarese, guidato da Marco Diamantini, ha presentato in questi giorni il nuovo atteso disco intitolato "Beggar town", che arriva a quasi due anni di distanza dal precedente "Based on lies". Se i personaggi del disco pubblicato nel 2012 erano travolti e sconvolti dall'inaspettato peggioramento delle loro condizioni di vita, le figure presenti in "Beggar town" hanno preso coscienza della situazione e fanno i conti con la loro esistenza, con luoghi pieni di desolazione e smarrimento, con la prospettiva di una vita fatta di lotte per garantirsi la sopravvivenza. Gli stati d'animo dominanti sono frustrazione, rabbia, disperazione e cinismo ma a questi si uniscono potenti squarci di luce, momenti di speranza e sogni. Nei testi, di una importanza forse anche superiore alla musica stessa, si passa dallo sconforto più cupo alla speranza più vivida. Situazioni e stati d'animo che condizionano anche la musica, ricca di sfumature, che appare nella sua totalità più cupa rispetto al lavoro precedente. Potente è la sezione ritmica affidata al bassista Alessandro Grazioli e al batterista Alan Giannini, così come altrettanto importanti sono le incursioni chitarristiche di Michele Diamantini e il tappeto sonoro messo sul piatto delle tastiere di Alessio Raffaelli.
"Beggar town" è un disco intenso, compatto, crepuscolare che necessita di attenzione per essere apprezzato e interiorizzato ma che ha grandi potenzialità per rimanere a lungo nella memoria di chi lo ascolta. La grafica è firmata, come nel disco precedente, da Serena Riglietti, che ha curato le copertine dell'edizione italiana di "Harry Potter" ed è una delle illustratrici più apprezzate in ambito nazionale. Nel libretto, a conferma dell'importanza dei testi scritti da Marco Diamantini, sono riportate anche le traduzioni in italiano.
Nell'intervista che segue Marco Diamantini ci presenta il nuovo disco dei Cheap Wine.



Nell'era in cui gli U2 regalano le loro canzoni, voi siete rimasti al cd. Siete all'antica ma trovo che ci sia molto più amore nelle canzoni di "Beggar Town" rispetto a quelle abbastanza fredde del gruppo irlandese...

«Personalmente il disco degli U2 non l'ho ascoltato, non mi hanno mai interessato più di tanto, neanche ai temi d'oro. Sul fatto che ci sia più amore nelle nostre canzoni penso che tu abbia ragione, gli U2 hanno raggiunto un tale stato di business che credo che gli affari siano diventati più importanti della musica. Cosa che ovviamente per noi non è. Noi andiamo avanti da tanto tempo proprio perché abbiamo una passione per la musica che supera qualsiasi altra cosa. In tutto quello che facciamo cerchiamo di metterci sempre la massima cura. Infatti, per questo disco abbiamo rinnovato il sito, in questi giorni è uscito il video, abbiamo curato la confezione del cd. Insomma cerchiamo sempre di fare il massimo e di offrire un prodotto che possa competere con i gruppi che hanno un budget diverso dal nostro e, allo stesso tempo, vogliamo dimostrare rispetto nei confronti di chi ci segue e magari acquista quello che facciamo. Per noi è importante che dalle canzoni traspiri il nostro amore per la musica».

Quando ho sentito la prima volta il vostro ultimo disco mi ha fatto tornare in mente la buona musica degli anni Settanta, quella che ha fatto la storia, che si sentiva con la puntina che correva lungo i solchi del vinile…

«Ce lo hanno chiesto in tanti ma il vinile ha costi proibitivi e non ce lo possiamo permettere. Abbiamo già speso tanto, anche perché oltre al cd ci vuole il video, il sito, e tutta una serie di altre cose. Nessuno di noi è ricco anzi, siamo due disoccupati e il più ricco del gruppo prende lo stipendio di un operaio, questo per farti capire la situazione».

Alcuni gruppi e musicisti si affidano al crowdfunding. Voi invece avete voluto fare a meno dell'aiuto dei fans…

«Siamo contrari al crowdfunding. È una formula che non ci piace e non approviamo. Lo potremmo utilizzare solo se fossimo proprio ridotti nella condizione di non poter produrre assolutamente niente. Ma fino a quel momento andremo avanti per la nostra strada, mi sembra più seria. Chiediamo alla gente di acquistare il nostro cd solo se piace, non per una opera di carità o elemosina. Ci lascia perplessi anche vedere che ci sono band che hanno tutti i mezzi per fare da soli e che invece usano quest'altro metodo».

Torniamo alla musica degli anni Settanta…

«Non credo che questo disco sia musicalmente anni Settanta, quello che forse richiama è il modo di suonare. C'è una intensità strumentale che il mercato attuale non vuole, vengono richiesti motivi più accattivanti, suonati in maniera più leggera, più orecchiabili, cose che vanno via. Noi siamo andati controcorrente anche in questo. Siamo cinque appassionati di musica, non facciamo calcoli, abbiamo suonato questo disco nel modo in cui volevamo e secondo me ha una intensità di suono che non si riscontra al giorno d'oggi. È un disco che richiede attenzione, tempo, non è un usa e getta, non è una cosa immediata, ci vuole l'atmosfera giusta, non lo puoi mettere come sottofondo. È un disco che può anche risultare difficile per alcuni e ancora di più per i tempi della vita moderna che non ti permettono di dedicare più di venti minuti al giorno all'ascolto di un disco. Ecco, è fuori dal tempo e probabilmente è anni Settanta proprio perché una volta il disco era una parte centrale nella giornata di una persona. E questo disco è fatto con quella logica».

Trovo che le canzoni siano costruite molto bene e che non si disperdano con gli ascolti. Quanto avete lavorato per arrivare a questo ottimo risultato?

«Il disco è frutto del lavoro di un anno, forse qualcosina in più. Poi ovviamente ci rientrano diciotto anni di musica, di attività, di esperienze personali, di ascolti. C'è stata una selezione molto severa delle canzoni perché inizialmente ce ne erano una quarantina. Abbiamo dovuto incastrare gli impegni di tutti per fare un lavoro serio su questo disco e siamo stati facilitati dal fatto, e io mi tiro fuori, che gli altri quattro componenti del gruppo sono veramente dei musicisti di primo livello. Hanno una preparazione e un gusto artistico che hanno permesso di fare quello che avevamo in testa. Musicisti bravi ce ne sono migliaia, la discriminante è riuscire a fare la cosa giusta al momento giusto e con il giusto feeling, ed è una cosa che sanno fare in pochi».

Dimmi se sbaglio ma mi pare di avvertire nelle prime tre-quattro canzoni una sorta di prosecuzione delle tematiche affrontate nel precedente disco, per poi svoltare verso una visione, non dico ottimista, ma che offre, seppur a fatica, una via di uscita con un futuro ancora da scrivere…

«In realtà diciamo che c'è un filo conduttore a livello di testi che lega "Beggar town" al precedente "Based on lies". Il fatto però che tu lo abbia rilevato nelle prime canzoni è casuale perché, in realtà, la scaletta del disco è stata decisa in un secondo tempo. Non c'è stata una logica relativa ai testi, nella scaletta abbiamo pensato più alle atmosfere musicali. In "Based on lies" è descritta la sorpresa di trovarsi catapultati improvvisamente in nuova situazione, condita da sentimenti quali paura, smarrimento e disperazione. In "Beggar town" si prende atto della situazione e a questo punto la disperazione e lo smarrimento non servono più, serve soltanto cercare una reazione per quanto possa essere difficile, duro e complicato. Gli sprazzi di luce ci sono perché c'è l'esortazione a non arrendersi. Anche nelle difficoltà peggiori non possiamo rassegnarci».

Quanto c'è di autobiografico in queste canzoni?

«Tutto è molto autobiografico perché coincide con la mia storia, con quella di alcuni componenti del gruppo. È chiaro che i testi, scrivendoli io, coincidano più con il mio vissuto che non con quello degli altri. Il fatto di essere disoccupato da oltre due anni è una cosa che si fa fatica ad affrontare e sostenere e quindi in questi dischi c'è tutto questo. C'è una sorta di strana contraddizione: in "Based on lies" la musica era più solare e i testi forse più scuri, in "Beggar town" la musica è abbastanza scura ma i testi lasciano trasparire un poco di speranza e di voglia di reagire e risorgere in qualche modo. Sono quindi due dischi legati da un tema comune ma musicalmente sono molto diversi».

L'ambientazione resta, almeno nei primi episodi, la città. Una città decadente dove mozziconi di sigarette, vetri rotti, pillole nere e nuvole di cocaina che sbuffano sono una triste cornice. Descrizioni di situazioni al limite dell'emarginazione che si vivono quotidianamente anche nelle periferie delle metropoli italiane. Cosa ci ha fatto cadere in questa spirale?

«Esprimo la mia idea e non so se coincida con quella degli altri componenti del gruppo, anche perché non parliamo molto di politica. Io sono convinto che ci siamo trovati in questa situazione per gli effetti del capitalismo. Non voglio fare un discorso ideologico, però non è stato mai accettata, soprattuto in Italia, l'idea che nessuno debba rimanere indietro e questo ha fatto sì che molta gente finisse ai margini. In questo periodo poi si assiste a una ecatombe. Nella mia città, che è sempre stata piuttosto ricca, la Caritas sta lanciando appelli perché non ce la fa più a dare da mangiare a tutti, non ce la fa più a dare i vestiti usati a tutti, non ce la fa neanche più a dare le medicine a tutti quelli che non riescono più a permettersele. E la situazione sta arrivando al limite. Rispetto  alla maggior parte degli stati europei abbiamo un welfare inesistente e questo ha trasformato la vita delle persone e anche l'aspetto delle città».

La crisi economica certamente non ha migliorato una situazione già difficile…

«Chi governa deve pensare in modo solidaristico, capire che una persona non può essere lasciata morire di fame. Altrimenti tutta le persone che sono rimaste senza lavoro e sono in difficoltà cosa devono fare? Rapinare i passanti per procurarsi da vivere? Purtroppo c'è ancora una grossa fetta di popolazione che rifiuta un discorso di questo tipo. Sento tanti che si chiedono, ad esempio, perché bisogna dare il reddito di cittadinanza - che esiste in tutta Europa tranne che in Italia - a chi non fa niente. Ma chi non ha lavoro come fa a sopravvivere? O decidiamo per una soluzione hitleriana e creiamo delle camere a gas in cui porre fine alle loro sofferenze oppure bisogna che venga permesso loro di andare avanti e di vivere. E credo che l'abbrutimento delle città e dei valori morali partano da qua, da un individualismo sfrenato che non tiene più conto dei bisogni degli altri».

Qual è la ricetta per uscire da questa città di mendicanti e re dalla corona d'oro?

«Avere un pasto e un tetto sopra la testa sono cose che non si possono negare perché altrimenti si disumanizza la società. Se la società deve essere fondata su un contratto, su delle regole di convivenza, allora deve essere permesso alle persone di avere uno standard minimo di sopravvivenza. Ci sono i più ricchi e i meno ricchi ma non puoi permettere che ci sia chi muore di fame o persone che dormono su una panchina. Finché ci sarà tutto questo sarà difficile combattere il degrado. Una persona ridotta in quello stato diventa una specie di animale che ha fame e io l'ho provato sulla mia pelle. Mi sono reso conto che finché avevo un lavoro, il mio stipendio, una vita tranquilla, potevo dibattere su tanti temi nobili come il razzismo, i diritti delle minoranze, dei lavoratori, ma nel momento in cui ti trovi a pensare se il giorno dopo riesci a mangiare di tutti questi argomenti non te ne importa più nulla, pensi solo più alla sopravvivenza. Si disumanizza tutto e anche le grandi idee della civiltà occidentale vengono completamente azzerate. Non ho soluzioni, non è il mio compito, vedo però che nessuno sta facendo qualcosa di concreto, li vedo solo parlare in televisione, blaterare, lanciare slogan ma non si occupano della gente. I loro giochetti politici non interessano, adesso noi abbiamo fame».

Dopo quello che io chiamo il trittico cittadino si passa a "Lifeboat". Ma il capitano rimane debole e i marinai sono dei bugiardi, quasi fosse un naufragio a cui tutti assistiamo...

«Il mare torna spesso nelle mie canzoni anche perché vivo in una città di mare, per me è quindi una ambientazione consueta. Il mare è sempre una metafora molto efficace. In "Lifeboat" c'è questo mood della musica che mi ricordava le onde che lentamente scorrono verso la battigia quando il mare è calmo. Mi è venuto naturale scrivere un testo di questo tipo».

La prima potente luce di speranza ce la offrite con "Your time is right now". ‹Troverai la luce, lungo la strada. Troverai il sorriso, lungo la strada›. Ci sono voluti un disco e mezzo per dare qualche speranza?

«Pur essendo i miei dischi sempre ricchi di una sorta di inquietudine, fa parte di me, del mio carattere, del mio modo di essere, non mi è mai piaciuto trasmettere dei messaggi completamente privi di speranza. Nel disco precedente qualche sprazzo c'è anche se contemporaneamente ci sono cose tra le più tremende che abbia mai scritto, soprattutto in un paio di episodi. In "Beggar town" emerge di più perché, assorbita la botta, è necessario attrezzarsi per trovare la via d'uscita, altrimenti non si sopravvive. Il senso di questo disco è appunto cercare la via d'uscita in tutti i modi. Pur nelle difficoltà che sono tante, dobbiamo lottare. La resa non mi è mai piaciuta e non ci sarà mai».

Con "Claim the sun", una delle canzoni più belle del disco, fate un ulteriore passo avanti. Ci invitate a risvegliarci e a pretendere il sole, a trovare la forza per cancellare tutto il grigio e scoprire un colore nuovo ogni giorno. Se dovessi dare un consiglio da cosa dovremmo iniziare questa rivoluzione?

«Siamo sempre portati a vederci circondati da problemi e a sperare nel minimo consentito, anche nella sopravvivenza un po' grigia. Invece io penso che dovremmo pretendere, anche da noi stessi, dalla nostra vita di avere il meglio. Mi sembra di ricordare che Borges, in uno dei suoi racconti, parlasse di un uomo che in punto di morte diceva ‹il mio più grande peccato è stato non essere felice›. È a questo che dobbiamo ambire e non si tratta di una felicità materiale ma di un sentimento più profondo, spirituale. Con l'espressione ‹pretendi il sole›, invitiamo le persone a non accontentarsi ma di pretendere il meglio, di essere felici, di avere una forza vitale interiore che faccia amare la vita. Probabilmente è anche un po' una utopia, però in fondo il r'n'r è un inno all'utopia e io credo che anche la vita debba tendere all'utopia, la dimensione del sogno è fondamentale».

‹C'è una nuova frusta per gli schiavi. Ti spacchi la schiena per una paga da fame. Non hai nessun potere›, è questa la drammatica visione della condizione umana nella società capitalistica descritta in "Destination nowhere". E in questi giorni si parla anche dell'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Cosa ne pensi?

«Da qualche anno è in atto un processo che tende a instaurare un nuovo schiavismo e che ha una regia precisa. Per paghe ridicole le persone sono costrette ad accettare qualsiasi tipo di lavoro. Ti propongono un piatto di minestra e devi anche ringraziare perché dietro di te c'è la fila di gente che prenderebbe il tuo posto. Approfittando della situazione disperata stanno togliendo tutti i diritti, il rispetto, e ti dicono vuoi una minestra al mattino e una alla sera allora spaccati la schiena e sei già privilegiato perché c'è chi non ha nemmeno questo. Vedo gente che si distrugge dal lavoro dalla mattina alla sera e poi non riesce ad arrivare alla fine del mese ed è una cosa allucinante. La forbice tra pochi ricchi e tanti poveri, persone che hanno finito di vivere, si è allargata enormemente. La frase di "Destination nowhere" è molto cruda ma è quello che sta accadendo. Hanno iniziato parlando di flessibilità, questa nuova parola che avrebbe garantito il futuro, poi hanno detto che dovevamo capire che non si poteva avere un lavoro per tutta la vita e che si doveva essere disposti a cambiare, poi hanno cominciato a dire che andava bene anche firmare contratti di tre mesi perché almeno si lavorava. È stato un processo iniziato nell'ultimo decennio o qualcosa in più. Hanno cominciato lentamente, piano piano, e adesso lo stanno portando a termine. Stanno distruggendo tutti i diritti, tutto il rispetto che c'era per chi lavorava e per chi non è nella posizione di dettare legge. E in tutto questo, la cosa più triste è che le persone o non se ne rende conto oppure l'approvano perché provvedimenti di questo tipo negli anni Settanta avrebbero scatenato una rivolta popolare».

Il tutto senza che ci sia una vera presa di coscienza da parte dei lavoratori. I grandi scioperi in Italia sono ormai un ricordo lontano…

«Stanno riuscendo a fare tutte queste cose anche perché non hanno bisogno di usare la forza. Attraverso i media hanno un potere di persuasione enorme, le persone non sono più in grado di ribellarsi anche perché per ribellarti ti devi informare e probabilmente molti non hanno neppure il tempo di farlo. Faccio fatica a vedere vie di uscita. Stiamo dando fondo ai risparmi non tanto dei genitori quanto dei nonni, nel momento che saranno finiti allora qualcuno si domanderà come farà a mangiare domani».

In "The fairy has your wings" canti <Il cielo è per volare, per abbandonare le zavorre che ci impediscono di essere liberi nel profondo>. Allora c'è la possibilità di riemergere ed essere protagonisti di un nuovo futuro?

«Quella canzone l'ho scritta per una ragazza che non c'è più e che era importante per noi. È un brano che ho dedicato a lei e anche quella frase ha qualcosa a che fare con lei. Comunque sì, anche la lettura che tu dai non è sbagliata. C'è questa speranza, la convinzione che un giorno le cose ritorneranno ad essere quello che ci aspettiamo che siano».

"Utrillo's wine" è il racconto di una storia vera. Che posizione assume all'interno del disco e quale è il suo significato?

«Il disco si intitola "Beggar Town", cioè città dei mendicanti, e Utrillo e anche Modigliani erano due di loro. Il che è una beffa se si pensa che questi due artisti sono morti nella povertà, mentre oggi le loro opere non hanno prezzo. Questa canzone racconta in maniera tragicomica, con un sorriso amaro, quella che può essere la realtà di persone costrette in quello stato. Pur di seguire la propria arte sono stati disposti a rinunciare a tutto, anche a morire di fame. In qualche modo ci identifichiamo in loro e abbiamo ammirazione per quello che hanno fatto».

La scelta di raccontare episodi e storie di persone realmente vissute non è una scelta nuova per te...

«L'avevo fatto anche in Spirits (2009) raccontando la storia del partigiano Silvio Corbari. Le storie dei partigiani sono sempre un po' retoriche, piene di sangue, e anche in quell'occasione avevo preferito raccontare un episodio ironico della vita di Corbari e della sua attività di partigiano. Magari ti strappa un piccolo sorriso ma ti fa ragionare su quello che certa gente ci ha lasciato e ha patito sulla propria pelle».

Particolarmente bella e significativa è la copertina. Il cane con la testa bassa e la pioggia fredda e acida trasmettono un senso di angoscia e solitudine…

«La copertina in realtà è tutto merito di Serena Riglietti, una illustratrice bravissima, forse la numero uno in Italia, conosciuta anche a livello internazionale. Molto semplicemente le abbiamo fatto avere il titolo del disco e i testi di alcune canzone e ha tirato fuori dal cilindro questa opera d'arte». 

Come si fa a restare per diciotto anni indipendenti e coerenti con la propria musica?

«Si potrebbe parlare due giorni di questo armento. Partiamo dal fatto che tenere insieme una band per diciotto anni senza i guadagni economici è una impresa quasi unica al mondo. Gruppi molto più ricchi e premiati non sono durati tutto questo tempo. Al primo posto c'è la passione per la musica, quella con la "p" maiuscola, quella vera che ti permea ogni momento della giornata. Da piccolo sentivo mio zio che strimpellava le canzoni di De Andrè e  mi sono innamorato del suono della chitarra, è una cosa che probabilmente è nel dna. Amore totale per la musica e anche una serietà professionale. Fin dal primo momento abbiamo affrontato la musica con lo spirito di una vera e propria professione, anche se non mi piace la parola, non l'abbiamo mai considerata un hobby. Ho portato avanti questo discorso pretendendo che questo fosse un principio inviolabile della band. Andare avanti in un modo più raffazzonato non mi ha mai interessato. E quindi anche nella scelta dei componenti della band c'è stata una selezione, abbiamo sempre tenuto in grande considerazioni le motivazioni. Andare avanti per diciotto anni in questo modo è stata dura, abbiamo passato momenti molto difficili, alcuni ogni tanto capitano nuovamente anche perché suoniamo un genere che in Italia non è molto considerato, non va di moda, ed è seguito da un pubblico di nicchia. Però il fatto di aver portato avanti questo discorso senza aver mai delle posizioni ambigue ci ha fatto guadagnare del rispetto e questo aiuta a rimanere coerenti. La nostra musica può piacere o meno ma su una cosa non si può discutere: quello che facciamo è onesto, vero e spontaneo».




Titolo: Beggar town
Gruppo: Cheap Wine
Etichetta: Cheap Wine Records
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(Testi e musiche di Marco Diamantini, eccetto dove diversamente indicato)

01. Fog on the highway
02. Muddy hopes
03. Beggar town  [musica di Alessio Raffaelli, testo di Marco Diamantini]
04. Lifeboat  [musica di Michele Diamantini, testo di Marco Diamantini]
05. Your time is right now  [musica Michele Diamantini e Alessio Raffaelli, testo Marco Diamantini]
06. Keep on playing  [musica di Michele Diamantini, testo di Marco Diamantini]
07. Claim the sun
08. Utrillo's wine  [musica di Alessio Raffaelli, testo Marco Diamantini]
09. Destination nowhere
10. Black man
11. I am the scar
12. The fairy has your wings (for Valeria)



giovedì 2 ottobre 2014

L'urlo spaventoso del "Dremong" di Max Manfredi





A sei anni da "Luna persa", album che gli consentì di vincere la Targa Tenco, Max Manfredi torna sulle scene con "Dremong". Il cantautore genovese ci regala un disco dalle atmosfere di confine che ruota intorno alla figura del Dremong, nome tibetano che identifica l'orso della luna che si pensa abbia dato origine alla leggenda dello Yeti ma che, in realtà, è stato per secoli ed è tuttora cacciato e imprigionato per l'estrazione della bile, sostanza usata nella medicina e nella cosmesi tradizionale cinese. Tredici canzoni, più l'intro firmato da Elisa Montaldo, nate dalla collaborazione con Fabrizio Ugas che cura la produzione artistica e partecipa al disco suonando chitarra classica e laud cubano. Il progetto è invece seguito da Primigenia Produzioni e reso possibile dalla campagna di crowdfunding su MusicRaiser. 
"Dremong" è un disco sorprendente che ci restituisce un Max Manfredi cantautore dalla classe eccelsa che, questa volta, gioca con la musica e con i suoni più di quanto aveva mai fatto in precedenza. E così si possono apprezzare echi prog nella title track, world music in "Finisterre", rebetiko in "Sangue di drago", fini esempi di cantautorato in "Piogge" e "Inutile", rock in "Sestiere del molo". Il tutto utilizzando strumenti della musica classica come violino, violoncello, clarinetto, della musica popolare e di strada, fino a strumenti della tradizione musicale cinese come il gu-qin e il gho-zen suonati da una bravissima Elisa Montaldo e tastiere vintage. Canzoni che attraversano vent'anni di carriera e che raccontano viaggi, storie d'amore, città e disincanti. 
Per riuscire nell'impresa Manfredi si è circondato di un gruppo di validi musicisti come il chitarrista Matteo Nahum, già protagonista con il progetto Nanaue, il pianista genovese Marco Spiccio, il contrabbassista Federico Bagnasco che ha da poco pubblicato il suo primo disco, e poi Daniele Pinceti, Marco Frattini, Daniela Piras, Nino Tubrimec, Loris Lombardo con il suo handpan e Roberto Piga.
Nell'intervista che segue Max Manfredi ci presenta il "Dremong" e la sua musica.




La prima cosa che mi ha colpito è stato il sound del tuo nuovo disco. Come ti è venuta l'idea di utilizzare suoni della world music, progressive, il rebetiko e pure il rock?

«Curiosità e opportunità. Anche in "Luna persa", e forse, in modo meno lampante, nei dischi ancora precedenti, venivano sfiorati tanti mondi musicali. Non sono un intenditore, sono un bevitore di musica. Sono un Casanova musicale che coglie l'occasione. La world music ce l'abbiamo in casa, oppure ci viene a trovare - come in questo caso - sotto forma di strumenti che Elisa (la tastierista) riceve in regalo da un viaggio in Cina. Oppure ci si innamora di un'inflessione musicale, di un mondo tradizionale... come nel caso della musica klezmer, del rebetiko greco. Quanto al rock, anche quello è un'abitudine, lo troviamo ovunque, dai supermercati a Facebook, anche se - come dicevo in una mia vecchia canzone - a volte è ‹tagliato male›. Non dimentichiamo Youtube e le altre diavolerie, che permettono a chiunque di ascoltare - e vedere - più o meno ciò che vuole, e hanno moltiplicato esponenzialmente le possibilità d'ascolto, seppure abbiano contribuito a frantumare l'attenzione».

Un lavoro musicalmente molto stratificato e vario che ha richiesto l'aiuto di un gran numero musicisti, ben ventuno più quattro coriste. Come è andata e cosa ti ha spinto a scegliere questa squadra?

«È ciò che chiamerei voglia di sperimentare. La 'sperimentazione' oggi ha un senso soggettivo. Non l'acqua che giammai non si corse, ma il percorso che io non ho ancora fatto, o, viceversa, i procedimenti a cui sono affezionato. Qui ci starebbe bene il quartetto d'archi, qui l'arpeggiatore del moog, qua un suono di mellotron, qui un intreccio di cordofoni. Un disco è come una festa con tanti invitati, però frastagliati come in un sogno, nel tempo e nello spazio. Il progetto preesiste, ma con tutte le variabili che inevitabilmente si vengono a creare. Un'avventura che sta fra una gita scolastica e la simulazione, almeno, di una guerra di confine».

Per rendere al meglio certe sonorità hai utilizzato anche strumenti etnici come il gu-qin, il gho-zen cinese o poco noti come l'handpan…

«È stato un uso molto parco. Il gu-qin per i glissati su "Notte", il gho-zen  per l'ostinato 'rock' un po' 'China' di "Sestiere del Molo", l'handpan per dare l'idea della pioggia persistente in "Piogge". E poi il glockenspiel, che ormai è il marchio di fabbrica delle mie canzoni. E archi, arpa, flauti, clarinetti, corni, organetto. Non ci siamo fatti mancare nulla. Un po' come una di quelle cene 'povere' di campagna in cui ognuno porta qualcosa, e si rivelano poi degne dei migliori ristoranti».

Protagonista del disco è l'orso tibetano, il Dremong. Ma dove lo sei andato a scovare?

«Ho una moglie esperta di tradizioni tibetane, mi indicò questo nome presente in alcuni testi antichi. La figura dell'orso l'ho sentita amica fin da bambino. E poi mi piaceva molto il suono del nome. Molto prima dei dibattiti insulsi su testo musica e poesia o non poesia nelle canzoni, Petrarca, il poeta, aveva già capito tutto, dicendo: ‹anzi, mi struggo al suon delle parole›. "Dremong" ha nel suo suono il brivido del freddo o della paura e, insieme, il colpo rituale del gong».

Nella cultura dei Pellerossa d'America, come per i lapponi e i popoli della galassia uralo-altaica l'orso è visto come un dio e al tempo stesso è padre, fratello, figlio, amico. Non così in Italia dove non se l'è mai passata bene e anche nelle ultime settimane gli orsi sono stati protagonisti, loro malgrado, di episodi che hanno attirato l'attenzione dei media. Che idea ti sei fatto al riguardo?

«Le culture che citi sono, o erano, solide, antiche, tradizionali, rituali. La nostra è una cultura putrida, magmatica, contraddittoria, scintillante e opaca,  dove le istanze convivono e confliggono senza durare. Da quanto ho capito c'è stato un progetto di ripopolamento animale, per motivi di convenienza finanziaria, in zone poco compatibili. Non siamo nel Wyoming, l'Italia è stretta. Animali non domestici e uomini, come nell'aneddoto su Genova, convivono ‹facendosi il culo l'un con l'altro›. In città girano branchi di cinghiali, i gabbiani disertano i moli e occupano le discariche, in attesa di qualche segnale hitchcockiano, lungo i contenitori della raccolta differenziata delle metropoli sostano pensosi i Marabù, i lupi li abbiamo appena oltre la periferia e a volte scendono a valle per un panino o per invadere qualche recinto, come gli orsi, e servirsi nell'hard discount dell'ovile. Di qui il rischio, e la precarietà, di una convivenza o 'amicizia' tra l'uomo, animale colonizzatore, e l'orso, animale opportunista».

"Dremong" è anche una canzone di denuncia dello sfruttamento che fanno in Cina degli Orsi della Luna. È in corso in tutto i mondo una campagna per impedire queste atrocità. Magari la tua canzone potrebbe diventarne il manifesto. Ci hai mai pensato?

«Del contrario ho brama, come si legge in Padre Dante. La mia è una ballata, non un manifesto. Non credo che Buzzati, inquietante cantastorie della 'famosa invasione degli orsi in Sicilia', abbia voluto far altro che emozionare e stupire. O che si legga Salgari come una dissertazione sociologica sul fenomeno della pirateria. Una canzone che denuncia le atrocità contro gli orsi  tibetani, in realtà esiste, è cantata dall'amica Rossella Seno, tanto più credibile in quanto i profitti della stessa canzone vengono devoluti in favore della difesa degli Orsi della Luna, o del Tibet, che, come molti sanno - e come anche il mio "Dremong" racconta - vengono da secoli perseguitati e torturati per l'estrazione della loro bile, che si ritiene abbia facoltà mediche o afrodisiache. Allegoricamente, la canzone anche, nella sua bile, può servire da cosmetico, da afrodisiaco, da farmaco. Da antidepressivo, da adattogeno dell'altrove, da rimedio omeopatico contro la nostalgia».

Quanti inquietanti Dremong, non obbligatoriamente a quattro zampe, hai incontrato nella tua vita?

«Voglio ricordare un orso buono, che conobbi nella noiosa adolescenza scolastica. Era un padre gesuita che faceva lezioni di italiano e si occupava di cinema. La sua andatura assomigliava a quella di un orso. Lo prendevamo in giro fra noi alunni snaturati, non tanto per l'andatura, ma per i suoi tic pedagogici - com'è inevitabile far coi professori - e gli volevamo bene».

Ma non c'è solo l'orso nel disco. Con "Disgelo" hai voluto denunciare il fallimento della new economy. Lo chiami, non a torto, mondo d'imbecilli ma quale è la strada per uscirne?

«Che tutto il sistema fallisca, anche solo qui in Occidente, come un immane, apocalittico scorpione cyberpunk che si uccide o uccide i compagni, mi pare tristemente evidente. Ma poi, fallisce in cosa? È evidente, nelle sue promesse di felicità. Ogni sistema fa promesse di felicità (o anche solo di vivibilità) e non le mantiene. Mantiene spesso, invece, le sue minacce di repressione e di sequestro dei beni necessari. Come se ne esce? Non lo so, e non lo sa il piazzista della canzone, che non è piazzista di ideologie. Dà solo l'indicazione di un'esperienza ambigua come il suo scopo: ‹così l'orgoglio l'ho ridotto a zero per infilarmi nella coda del pavone›. Cosa sia, questa coda del pavone, questo passaggio, o iniziazione, non lo dice e, in realtà, lo ignora. Può solo cercare di decifrare, come si fa leggendo le figure dei tarocchi, i Trionfi. E sogna un buen retiro, un ritorno, un precario idillio, forse persino una donna a cui gridare, o che piuttosto gli gridi, come in una tempesta, ‹amore mio›».

C'è anche un po' di Genova in "Dremong". "Sestiere del molo" è la cartolina della città… Genova è ancora la tua città?

«Adesso vivo a Sturla, che è pur sempre Genova, un po' più vicino alle spiagge. È Genova, a un passo dal centro, eppure è così diversa dal centro storico, dove - ovviamente - torno spesso per commissioni o appuntamenti... "Sestiere del Molo" è una cartolina dove qualcuno ha vomitato, che qualcuno ha strappato, ha bucato con la brace di una sigaretta. Sestiere del Molo è proprio l'anticartolina, il rifiuto, lo schifo. Lo sberleffo e il sarcasmo nei confronti dei luoghi 'poetici' della tradizione genovese 'alla Caproni', celebrati in loco, in economia, da una 'culturina' che vive di rendita, luoghi come la circonvallazione di Castelletto percorsa dall'autobus notturno. È il delirio, il capolinea su Saturno, la Casa dell'Artista intesa come ospizio, da dove si aspetta una qualche rivelazione o rivoluzione, o almeno rivalsa, che invece si risolve nel week end di regime, chiamato, non a caso, il sabato fascista, o nella visione degli amici morti, seduti al tavolino del bar».

Il disco si chiude con "Le castagne matte", una sorprendente canzone dedicata alla Resistenza che si ispira, nel titolo e nel tema, a un racconto di Mario Mantovani...

«La mia è una canzone inattuale e necessaria, non certo necessaria socialmente, ma per chi la vuole ascoltare e la fa sua. Quasi un western, non però alla Tarantino, semmai come vecchie pellicole di Howard Hawks oppure Aldrich. In effetti ha una strana nascita. Mi veniva in mente una canzone inglese, inesistente, dove, fra melodia ed armonia, comparivano queste parole: ‹for freedom and revenge›. Un canto desolato, di un reduce. Allora ho cercato di pensare alla Resistenza come al terreno di una nostalgia, lontano da programmi o rivendicazioni, lontano soprattutto da ogni retorica burocratica, da ogni analisi storica e da ogni gioioso zumpa zumpa da festa dell'Anpi, sacrosanti, invero, ma così distanti dal mio sentire. Per inciso, con altri amici componemmo anche una canzone retorica e zumpa zumpa, la controparte di questa, anche utilizzando cellule staminali di questo testo. Nonostante fosse entusiasticamente appoggiata da personalità come Don Gallo e Raimondo Ricci - allora presidente dell'Anpi - sbattemmo contro un muro, spero di gomma. Nonostante il ritmo retorico e sussiegoso, in quest'altro brano c'erano almeno belle immagini, bei concetti espressi magari in forma involuta per esigenze di ritmo, ed a volte mediati da lettere di partigiani, come questa: ‹Dal battito del cuore conoscere l'amico, e non quando il partito decide che lo sia›… "Le castagne matte" l'ho fatta sentire a un'amica che fu staffetta partigiana, nel dubbio che potesse non riconoscersi. Invece, e mi fece piacere, si commosse».

E poi la splendida copertina firmata da Ugo Nespolo. Come è nata questa collaborazione?

«Un felice incontro, procurato dagli amici dell'Isola di Alessandria. Ugo Nespolo già mi conosceva come cantante (e io naturalmente conoscevo lui come artista) ed è stato gentilissimo e veloce nella realizzazione».

Il disco è stato pubblicato anche con l'aiuto della campagna di crowdfunding su MusicRaiser. Penso che per te sia stata la prima volta che hai potuto contare sull'aiuto di questi nuovi "mecenati". Cosa ne pensi?

«È un metodo interessante per almeno due motivi: ti permette di evitare il più possibile le mediazioni, e ti dà il polso dell'esistenza di un nucleo di pubblico personalizzato e appassionato, non casuale o distratto. E quindi, ti fa vincere il primo round di un'ipotetica sfida».


Titolo: Dremong
Artista: Max Manfredi
Etichetta: Gutenberg Music/Primigenia Produzioni
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(testi e musica di Max Manfredi, eccetto dove diversamente indicato)

01. Intro Dremong  [musica Montaldo]
02. Dremong  [musica Manfredi, Stefanelli, Montaldo]
03. Disgelo  [musica Manfredi, Spiccio]
04. Diadema  [musica Manfredi, Ugas, Spiccio, Nahum]
05. Notte  [musica Manfredi, Ugas, Nahum]
06. Finisterre  [musica Manfredi, Ugas]
07. Rabat girl  [musica Manfredi, Nahum]
08. Piogge  [musica Manfredi, Ugas]
09. Inutile  [musica Manfredi, Ugas]
10. Sangue di Drago  [musica Manfredi, Ugas]
11. Il negro [musica Manfredi, Ugas]
12. Sestiere del molo  [musica Manfredi, Ugas]
13. Anni Settanta  [musica Manfredi, Ugas]
14. Le castagne matte  [musica Manfredi, Ugas]


lunedì 29 settembre 2014

La comunicazione musicata da Edmondo Romano






"Missive Archetipe" è il secondo capitolo della trilogia discografica di Edmondo Romano. Dopo aver indagato il rapporto tra il lato maschile e quello femminile dell'universo con il precedente "Sonno Eliso", il polistrumentista e compositore genovese ha messo sotto la lente d'ingrandimento il tema della parola, del verbo raccontato attraverso la poesia, della comunicazione nel significato più ampio e generale. Un viaggio musicale per immagini che parte dalla creazione fino ad arrivare alle pagine più drammatiche dei giorni moderni, il tutto attraverso improvvisazioni jazzate, contaminazioni minimaliste e sbocchi prog e classici. Canzoni scritte da Romano, eccetto un canto tradizionale e due episodi firmati insieme al fiatista Gianfranco De Franco ("Carme") e al pianista Fabio Vernizzi ("Dato al mondo"), con la consueta classe e ricercatezza nelle soluzioni compositive a cui ci ha abituato in questi anni. Rispetto al precedente "Sonno Eliso", in questo disco sono presenti alcune parti cantate o recitate: reading di poesie di Catullo, del mistico persiano Jalal al-Din Rumi, di Charlotte Delbo sull'esperienza personale nei campi di concentramento, e un canto popolare tra i più noti.
Romano (sax soprano, clarinetti, clarinetto basso, low whistle, chalumeau) si è avvalso della collaborazione di un nutrito gruppo di musicisti e artisti. A partire da Lina Sastri, Marco Basley, Simona Fasano, Laura Curino e Alessandra Ravizza alla voce; Arturo Stalteri, Elena Carrara e Fabio Vernizzi al pianoforte; Kim Schiffo al violoncello; Redouane Amir al fagotto; Vittoria Palumbo all'oboe; Roberto Piga, Alessandra Dalla Barba e Gabriele Imparato al violino; Riccardo Barbera al contrabbasso; Marco Fadda alle percussioni; Max Di Carlo alla tromba; Gianfranco De Franco al flauto traverso e al clarinetto.
Come già accaduto in occasione del precedente capitolo, abbiamo trovato in Edmondo Romano un interlocutore cortese e disponibile. I temi affrontati sono riportati nell'intervista che segue.



In questo disco, il secondo dopo "Sonno Eliso" dedicato al rapporto maschile-femminile, affronti il tema della parola e della comunicazione. Comunicazione tra chi e con chi?

«"Missive Archetipe" rappresenta la storia immaginaria di un uomo o dell’essere umano, dalla sua creazione fino all'aberrazione dei giorni moderni. Vuole guidare l'ascoltatore in un viaggio dentro il proprio essere, guidarlo attraverso i suoni e le parole che esprime, le metafore che ognuno può liberamente interpretare. Un percorso che non ti lasci indifferente, perché il ricordo, la memoria, sono sicuramente i beni più preziosi che possediamo, ma anche la capacità di viaggiare dentro noi stessi è consapevolezza che mai dovremmo perdere, anzi accrescere».

C'è ancora spazio per il verbo scritto e parlato in una società che è più propensa a perdersi nel mondo virtuale?

«Forse mai come oggi una così grande moltitudine di persone "scrive" ogni giorno, e questo grazie all'avvento del nuovo mondo tecnologico. Basta pensare alla grande quantità di pensieri continui che navigano sui social network. Come sempre non è il mezzo ad essere "il Diavolo" - come si diceva una volta della radio, poi della televisione… -, ma è l'uso errato del mezzo stesso che può portare a snaturarne la forma. Credo che la parola, la comunicazione avrà sempre più un ruolo fondamentale nella vita comune».

Alcuni brani del disco sono legati a poesie, come "A Lesbia" di Catullo. Che significato riveste all'interno dell'album e perché questa scelta?

«Rivestono un ruolo di completezza e forse anche un naturale bisogno di inserire all’interno del lavoro alcune "voci". La scelta è avvenuta in modo involontario, devo ammettere… Talmente naturale da sembrare a volte casuale. Nulla in realtà è casuale, quando esiste una reale libertà creativa accade che si approfondiscano alcuni temi, emozioni…, in modo completo, profondo. Questo poi si riflette quasi sempre nel lavoro che in quel momento si sta portando avanti, anche in diversi ambiti. Si segue in libertà un percorso in realtà obbligato, questo credo faccia parte di una crescita consapevole».

Hai inserito anche una ninna nanna tradizionale. È questa la tua visione della comunicazione nell'eta dello sviluppo?

«Ogni età è "dello sviluppo". Ogni cosa si evolve grazie a quello che prima c’è stato tramandato ed insegnato, quindi nulla può essere più attuale di una lezione, una emozione, una riflessione che arriva dalla tradizione, dal personale passato».

In "Di questo amore morite" viene recitata la poesia "Morite morite" del poeta e mistico persiano Jalal al-Din Rumi. Che significato ha e perché la scelta di un poema in arabo? In questo caso la comunicazione difficilmente sarà completa. E poi la toccante poesia di Charlotte Delbo in "Vestire la tua pelle" che racconta la sua tragica esperienza diretta nei campi di concentramento...

«"Missive Archetipe" è un lavoro sul "Verbo" ed ospita al suo interno alcune parti cantate o recitate, porzioni volutamente mancanti in "Sonno Eliso" ma indispensabili per completare questo secondo capitolo. Poesie che amo particolarmente: "A Lesbia" di Catullo - recitata da Lina Sastri - per me rappresenta la passione amorosa; "Morite, morite" di Jalal al-Din Rumi - recitata in persiano da Alessandra Ravizza - è l’eterno dilemma dell'essere umano; "Vestire la tua pelle" di Charlotte Delbo - cantata da Marco Beasley - al tempo stesso denuncia una modernità violenta ed è un inno alla vita che sorge dalle macerie del Male; "Ninna nanna sette e venti" - cantata da Laura Curino e Simona Fasano - è tra i canti più belli della nostra tradizione popolare, la protezione verso un figlio».

Di "Vestire la tua pelle" nel cd si trova una traccia video di cui hai curato anche la regia. Devo dire che sei riuscito benissimo a trasmettere il senso di claustrofobia e di angoscia che si potevano respirare in quelle tragiche situazioni. Come ti è venuta l'idea?

«La realizzazione del video nasce dalle riprese effettuate a "Il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa", meglio conosciuto come Museo dell'Olocausto e della Shoah situato a Berlino. La telecamera viaggia all'interno di questo enorme labirinto senza fine creando un effetto di tensione e prigionia. Tutte le altre immagini che compongono e completano il video, dalla coreografia di Giovanni Di Cicco realizzata dalla Compagnia Teatro Nudo alla fotografia di Fabrizio Giusti, si sviluppano sempre con la stessa profondità di campo presente nel labirinto. L'idea è nata sul momento, mentre ero a Berlino al centro del monumento, da solo, ed ho iniziato a girare senza fermarmi, in silenzio, realizzando le riprese come se fossero un video. Quando le ho montate sulla musica, la lunghezza delle immagini era perfetta».

Perché la scelta di costruire brani più orchestrali e se vogliamo anche con un suono più omogeneo rispetto a quelli dell'album precedente?

«Anche "Missive Archetipe" come "Sonno Eliso" è un disco composto da 'musica per immagini'. Come per il primo lavoro molte scritture sono scaturite dallo stretto rapporto che da anni conduco con il teatro, terreno che considero fertile per poter creare in grande libertà espressiva. Alcuni brani invece sono stati composti appositamente, per completarne il discorso. Le differenze tra i due lavori in realtà sono numerose: il secondo album adotta una composizione molto più orchestrale, arrangiamenti più lineari, omogeneo nei suoni e nell'utilizzo degli strumenti, scelta in parte voluta ed in parte naturale perché il risultato di una scrittura svolta in un tempo relativamente più breve, quindi sicuramente più concentrata e focalizzata».

È curioso come tu abbia il completo controllo nella produzione del tuo lavoro. Anche in questo disco hai curato tutto, dalla produzione al mixaggio, dalla grafica alla regia del video. Sei un accentratore o hai timore che i collaboratori possano in qualche modo alterare il tuo messaggio?

«Non esiste nessun timore nella collaborazione con altri artisti o produttori, difatti questo in parte avviene, vivo sempre uno stretto rapporto collaborativo con chi produce il lavoro, fatto anche di lunghi scambi di opinione. Come per "Sonno Eliso" ne ho curato la produzione, le registrazioni, i missaggi, la grafica, il video. Questa visione globale del lavoro che applico a ogni mio cd, sin dal primo Eris Pluvia, è a mio avviso, se non si possiedono budget alti, l’unico reale modo per lavorare in totale libertà creativa, libertà che ti permette di realizzare materialmente le tue idee. Ho comunque sempre vissuto in modo naturale questo tipo di visione globale sul mio lavoro, capacità che ho sviluppato negli anni con serietà, applicazione e molte ore dedicate allo studio dei mezzi tecnologici».

Scorrendo i crediti del disco ho notato che ti sei affidato a molti musicisti, addirittura a tre differenti pianisti. Perché questa scelta?

«Come ho già accennato vivo la composizione in modo completamente indipendente da vincoli creativi, produttivi, di mercato. La musica nasce in totale libertà, non si indirizza ad un pubblico specifico e non viene pensata per qualche specificità, credo che il compositore sia solo un mezzo per amplificare ad altri ciò che già esiste, solo un essere capace di cogliere e trasformare un messaggio che in qualche modo doveva comunque nascere. Questo criterio ha indirizzato anche la mia scelta per i musicisti: come tu fai notare, in questo disco ho lavorato per esempio con tre pianisti differenti - Arturo Stalteri, Elena Carrara, Fabio Vernizzi - che hanno completato con la loro differente sensibilità la parte da me composta. Per me è il tocco, il modo in cui si vive ed interpreta la musica a scegliere il musicista adatto per un brano, è la composizione stessa a farlo».

Avremo la possibilità di ascoltare "Missive Archetipe" in versione live nel prossimo autunno?

«La prima uscita in concerto di "Missive Archetipe" sarà a Genova nel pomeriggio del 10 ottobre, evento realizzato in collaborazione con il Comune di Genova all’interno delle manifestazioni legate alle Colombiane. Ho scelto come spazio il bellissimo Museo Orientale "Chiossone", spazio magico e sospeso, dove il pubblico si muoverà liberamente al suo interno durante lo spettacolo e i musicisti si esibiranno tra le antiche statue d’oriente».

Il tema del prossimo capitolo della trilogia sarà la religione ma nel frattempo in quale altro progetto sei coinvolto?

«Sicuramente ci saranno progetti paralleli sia nell’ambito teatrale con la Compagnia Teatro Nudo con la quale lavoro da anni nel teatro di ricerca, sia in quello discografico. Prevedo la realizzazione di altri tre cd con musicisti con i quali collaboro da tempo: il nuovo lavoro con Orchestra Bailam e Compagnia di Canto Trallalero che sta ottenendo ottimi riscontri in tutto il mondo nell’ambito etno/folk; sto terminando un  nuovo lavoro che uscirà a breve con alcuni musicisti con i quali ho lavorato negli Eris Pluvia una ventina d’anni fa, Alessandro Serri e Mauro Montobbio che vede la partecipazione di John Hackett; si parla anche di un nuovo cd con Vittorio de Scalzi ed uno con Federico Sirianni; andrò a suonare a Tokyo con la formazione di Picchio dal Pozzo. Ma quello che maggiormente sento vivo in me oggi è il percorso da solista, strada sicuramente più difficile da consolidare, ma che spero divenga unica concentrazione e guida musicale nel futuro».


Titolo: Missive Archetipe
Artista: Edmondo Romano
Etichetta: Felmay
Anno di pubblicazione: 2014



Tracce
(musiche e arrangiamenti di Edmondo Romano, eccetto dove diversamente indicato)

01. Petali di carne
02. Parabola
03. Carme  [poesia di Catullo; Edmondo Romano / Gianfranco De Franco]
04. Ahava
05. Dato al mondo  [Edmondo Romano / Fabio Vernizzi]
06. Ninna nanna
07. Il giardino degli animali eterni
08. Di questo amore morite
09. Diluvio
10. Questa terra
11. Vestire la tua pelle
12. Missive archetipe