venerdì 18 luglio 2014

Le canzoni della marea degli Oceans on the Moon





Andrea Leone e Marco Martini si sono conosciuti sui banchi di scuola alla fine degli anni '90. Sono diventati amici e hanno coltivato la comune passione per la musica. Un percorso che li accomuna a molte band che in età giovanile hanno gettato le basi del loro successo. I due giovani musicisti genovesi, dopo aver militato prima nei Monoxide Interlude, band di rock alternativo, e poi nel trio Mr. Tonight Show, progetto maggiormente orientato all'elettronica, nel 2012 hanno dato vita agli Oceans on the Moon. Da lì il passo è stato breve: un Ep, "First step to Graceland" nel 2013, seguito dall'album d'esordio intitolato "Tidal Songs" prodotto al Green Fog Studio di Genova e l'organizzazione di un tour promozionale per l'autunno.
Ispirati dal rock strumentale di band come Mogwai, Destroy You e Mono, dal rock alternativo di Radiohead, Cure, Interpol e dei primi Coldplay, nonché dall'elettronica indie tedesca, gli Oceans on the Moon nel loro album presentano otto brani che fanno viaggiare l'ascoltatore in un costante fluire di sensazioni ed emozioni, tra le onde dell'oceano e la faccia silenziosa della luna. Un senso di anti gravitazione sonica trascina in un mondo nebbioso e stratificato dove l'amalgama di suoni è dominata dall'elettronica, sempre ben calibrata, che non toglie però respiro e spazio ad altre interessanti soluzioni. Un ottimo disco d'esordio per il duo genovese che sarà ora chiamato a confermarsi in ambito live.
Abbiamo parlato con Andrea e Marco del progetto e delle loro speranze future. Il tutto in questa intervista.




Come nasce il progetto Oceans on the Moon?

«Nasce dall'incontro di due… nerd musicali. È stato tutto molto semplice e spontaneo, d'altronde ci conosciamo da tempo. Abbiamo deciso di condividere il nostro bagaglio di gusti e di esperienze, per fare qualcosa che ci desse buone vibrazioni. Volevamo anche provare a ritagliarci uno spazio nella scena underground, senza dover necessariamente "vomitare" nei microfoni  o atteggiarci da superdotati, secondo quella che sembra essere invece una tendenza tanto comune tra le cosiddette band emergenti».

"Tidal songs" è il vostro primo disco. Cosa vi ha spinto a pubblicarlo?
 

«Quest'album è la naturale conseguenza del lavoro svolto assieme in questi anni. Avevamo composto un discreto numero di brani, che avevano coerenza tra di loro e potevano quindi essere raggruppati all'interno di un unico album. Così è nato "Tidal Songs"».

Quale idea è alla base di questo cd?

«Premesso che "Tidal Songs" non è nato come un concept album né ha la pretesa di esserlo, forse più che un'idea ben definita c'è un groviglio di umori e di domande istintive, alla base del cd. Una certa irrequietezza esistenziale, se così si può dire… Ricerca interiore. Chi siamo? La domanda da un milione di dollari che tutti, prima o poi, ci poniamo nel corso della vita. Noi siamo quello che suoniamo».

Ascoltando il vostro disco è inevitabile ripensare ai Mogwai o ai Mono ma quali sono stati gli ascolti musicali che maggiormente vi hanno influenzati?

«Le due band che hai citato hanno avuto, e hanno tuttora, una grande influenza su di noi. I Mono sono un "viaggio"! Possiamo dire che un album in particolare, prima ancora che una band, ci aveva colpito moltissimo, ed è stato "Kid A" dei Radiohead. Quel disco ci ha indicato un modo diverso di fare musica, che prima ignoravamo completamente».

Voi siete di Genova e il mare è lì davanti. Flusso e riflusso delle onde che è avvertibile distintamente anche nelle tracce sonore del disco. Vi siete fatti ispirare?

«Indubbiamente sì, anche in modo inconscio, implicito, per essere nati e cresciuti in una città che sa di mare e di fogna, di grandi masse d’acqua così come di rivoli che si disperdono nei suoi vicoli bui».

Chi di voi si riconosce maggiormente nella luna e chi nell'oceano?

«Abbiamo caratteri diversi. Marco, più flemmatico e costante, ricorda maggiormente la luna, che ogni notte si affaccia sul mondo, regolare, da sempre. Andrea è più spontaneo ed emotivo, in questo ricorda il continuo variare di stato dell'oceano, e il rifrangersi delle onde».

Toglietemi una curiosità. Perché la canzone "Children of Greece" è titolata in greco?

«Il titolo esprime esattamente il significato del brano: si tratta infatti di un pezzo dedicato ai bambini greci, sacrificati sull'altare dell'austerità dall'Unione Europea e dal FMI. Siamo rimasti profondamente turbati dai racconti provenienti dalla Grecia, riguardanti tantissimi minori costretti a trovare rifugio negli istituti religiosi, poiché i genitori non avevano più sufficienti risorse per mantenerli. Anche la scelta di inserire un frammento vocale dallo splendido film di Wim Wenders "Il cielo sopra Berlino", ha senso nel contesto emotivo, sociale e politico in cui è nato il brano».

Come gestite gli equilibri artistici e umani all'interno del vostro sodalizio?

«Siamo assolutamente "democratici", merce rara nel campo musicale, dove purtroppo abbondano le "prime donne", soggetti abilissimi nello sfasciare i gruppi dall’interno. Quando uno di noi ha un'idea, la sottopone all'altro, e se l'idea è valida ci si lavora insieme, senza preclusioni di alcun tipo, nel pieno rispetto reciproco. Va anche detto che, conoscendoci da tempo, siamo sicuramente facilitati in questo».

In che modo si sono svolte le sessions di registrazione dell'album?

«Home recording: l'album è stato registrato interamente nelle nostre abitazioni. Registravamo le nostre parti da soli, al computer, oppure ci vedevamo appositamente e registravamo assieme. L’home recording è una pratica in linea coi tempi, a fronte di una spesa iniziale per i software e le apparecchiature, ti dà piena libertà in ogni fase del processo di registrazione, dalla scelta dei suoni alla registrazione vera e propria delle parti. Molti singoli di successo oggi vengono  registrati e prodotti letteralmente negli scantinati e nelle soffitte! A registrazioni ultimate, per il missaggio e la produzione ci siamo affidati al Green Fog Studio di Genova».

Quali sono i vostri progetti futuri?

«Abbiamo intenzione di realizzare un videoclip e di rilasciare un singolo, subito dopo l’estate. Ci stiamo anche preparando per suonare dal vivo, stiamo facendo delle sessioni di prova in formazione a quattro, con batterista e chitarrista, per rendere più solido il nostro live. Stiamo già ragionando su alcune ipotesi di date, contiamo di portare "Tidal Songs" in giro per l’Italia nel prossimo autunno».



Titolo: Tidal songs
Gruppo: Oceans on the Moon
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(testi e musiche di Marco Martini e Andrea Leone)

01. Kali yuga
02. Kate austen
03. In stop motion
04. Prometheus failure
05. Garden
06. Nuvole
07. Παιδιά της Ελλάδας (Children of Greece)
08. Quick love






giovedì 10 luglio 2014

John Strada con "Meticcio" tra l'America e l'Emilia





Ci sono tutti gli ingredienti delle storie di provincia e il suono dell'America nel nuovo album di John Strada. "Meticcio", il sesto lavoro del cantautore emiliano, è un ponte che lega piccoli frammenti di vita quotidiana, i personaggi, gli ideali, le passioni, i sogni in frantumi e i drammi di una comunità di provincia alla maestosità del rock, alla sensibilità del folk e al calore del soul. Una lente d'ingrandimento che negli ormai venticinque anni di carriera John Strada, all'anagrafe Gianni Govoni, ha imparato a usare con precisione mettendo in evidenza la poesia e i sentimenti delle piccole cose. Quella porzione di Emilia compresa tra Modena e Ferrara è il punto di riferimento per racconti che possono però adattarsi a molte altre realtà. I bar aperti fino a tardi, le storie d'amore andate a finire male, le promesse che diventano bugie, i sogni di ragazzo che si scontrano con la dura realtà del diventare adulto e soprattutto l'amore incondizionato per la propria terra sono alcuni degli elementi che compongono il canovaccio che John Strada canta con estrema onestà in questo disco. "Meticcio" è un album che spalanca una finestra sulla vita di tutti i giorni e lo fa con freschezza e sensibilità.
In questo compito John Strada si è fatto aiutare dai fidati Wild Innocents formati dal bassista Fabio Monaco, dal batterista Alex Cuocci, dal tastierista Daniele De Rosa e dal chitarrista Dave Pola. Il disco è stato pubblicato dalla New Model Label.
I particolari e le curiosità su "Meticcio" ce le ha rivelate John Strada in questa intervista. 




John, partiamo da una domanda semplice. Come e quando è nato questo tuo nuovo disco?
 

«Avrebbe dovuto essere pubblicato quasi due anni fa, ma poi abbiamo deciso di fare uscire il doppio "Live in Rock’a" e così le registrazioni sono state posticipate. L’idea originale era di pubblicare un doppio cd, di cui uno rock e uno acustico, poi mentre mixavamo "Live in rock’a" ho scritto nuove canzoni e il progetto del nuovo disco è cambiato fino ad arrivare a "Meticcio"».

Che significato ha il titolo "Meticcio"?

«Un cd con più generi musicali. Essenzialmente rock, ma ci sono canzoni folk, swing, rhythm’n’blues. Avrebbe dovuto esserci anche un bluesaccio ma alla fine non abbiamo fatto in tempo a registrarlo».

Anche in questo disco paghi con onestà e buon gusto il tuo debito di ispirazione al rock americano. Quando è iniziato il tuo amore per quel genere musicale?

«A 13 anni ascoltavo Motorhead, Ted Nugent (di cui non condivido nulla di quello che dice e pensa!) ed altri. Poi per caso ho sentito una canzone di Bruce Springsteen e mi si è aperto il Nuovo Mondo».

Come spieghi il fatto che l'Emilia sia forse la regione italiana che più ha risentito dell'influenza del rock americano?

«Non lo so proprio, un po’ è vero, ma sinceramente credo sia diventato un po’ un mito, una piccola leggenda metropolitana, anche se devo ammettere che molti dei gruppi di rock americano vengono proprio da qua. Tuttavia ci sono anche altre zone rock in Italia, il problema è che non siamo valorizzati dal mercato nazionale».

Hai vissuto a New York e per un paio di anni a Londra, eppure dalle tue canzoni traspare un amore incondizionato per la tua terra….

«Sì, a Londra tre anni. Sono state esperienze meravigliose. Mi sono trovato benissimo e ho imparato tantissimo, ma ho voluto portare tutto a casa. Volevo vivere le mie radici e non guardarle da lontano».

So che sei anche docente di lingua inglese nelle scuole superiori. I tuoi alunni sanno della tua seconda vita da rocker?

«Eccome se lo sanno! A volte vengono ai concerti e spesso mi chiedono informazioni sulla mia attività musicale».

Trovo che sia tutto molto bello. I tuoi ragazzi sono mai stati fonte di ispirazione per la tua musica e per il tuo modo di vedere la vita?

«Sì certamente. Essere insegnante è un privilegio. Ti permette di essere costantemente in contatto con un mondo a cui diversamente non avresti accesso. Ti permette di capire meglio la direzione che potrebbe prendere il mondo».

Nonostante la tua padronanza della lingua inglese hai preferito cantare in italiano le canzoni del nuovo album. Perché questa scelta?

«Adoro la lingua inglese, ma scrivo per un pubblico italiano e voglio che il mio pubblico di riferimento capisca cosa ho da dire. Inoltre scrivere canzoni rock in italiano è una sfida notevole. Devo confessarti però che sto scrivendo canzoni in inglese e l’anno prossimo potrebbe esserci una sorpresa».

Cosa ti ha spinto a celebrare la tua cittadina di residenza con un brano cantato in dialetto, a metà strada tra Van de Sfroos e Modena City Ramblers, in cui tra l'altro hai inserito un richiamo musicale a "This land is your land" di Woody Guthrie?

«Amo la mia cittadina e i rapporti che ci sono fra la gente di paese, così ho voluto lasciare qualcosa. Una canzone, un regalo per tutti. Nella canzone parlo di un fatto successo tanti anni fa che è alla base del soprannome "Tiramola"».

"Torno a casa" è forse la canzone più importante del disco avendola tu scelta anche come singolo. Ce la descrivi?

«E’ l’ultima canzone inserita nel cd. Ha preso il posto di "Sangue caliente". "Torno a casa" è una canzone con un ritornello molto orecchiabile, ma il testo è piuttosto serio. Parla di un cambio totale di vita, una rinascita, forse una conversione».

Il capitolo per me più emozionante è "Sanguepolvere". Spiegaci come e quando è nata questa bellissima canzone?

«Abito a 4-5 km da Finale Emilia, l’epicentro del terremoto che ha colpito l’Emila il 20 maggio di due anni fa. E’ stata un esperienza devastante. Sapevo che sarebbe nata una canzone da quelle sensazioni ma non riuscivo a scriverla. Ce l’ho fatta il 5 ottobre di quell’anno. Lo so con esattezza perché è avvenuto tutto in dieci minuti. Dopo mesi di gestazione l’ho scritta di getto. Il giorno dopo sono andato nello "Studio dei Miracoli" del mio Hammondista Daniele De Rosa e l’abbiamo registrata. Da lì abbiamo cominciato a lavorare al nuovo album».

Il disco si chiude con la toccante "E' Natale in Maghreb", in cui descrivi in maniera pacata la questione della diversità di usi, costumi e credenze delle persone. Qual è il messaggio che vuoi trasmettere?

«Al contrario di "Sanguepolvere" questa canzone è stata un parto infinito. Ci ho messo tre anni a scriverla. Non mi soddisfaceva mai. E’ la storia di questa ragazza maghrebina che gira per Milano con una carrozzina vuota il 24 dicembre. E’ visibilmente in difficoltà ma nessuno delle persone che incrocia in città mostra un minimo di pietà e comprensione. Sono tutti troppo impegnati a prepararsi cristianamente al Natale comprando regali a più non posso. Si è stravolto tutto. Il messaggio della cristianità è completamente diverso dai comportamenti dei sedicenti cristiani. Aisha è in visibile difficoltà sta per compiere l’atto più naturale e dolce che ci sia, ma nessuno l’aiuta, nessuno la vede. C’è tanta ipocrisia fra di noi. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutti noi».

I The Wild Innocents sono stati i tuoi compagni di viaggio in questa nuova avventura. Che ruolo hanno avuto nella realizzazione di questo disco?

«I Wild Innocents sono stati estremamente importanti per questo disco. Ci hanno creduto insieme a me, hanno sofferto insieme a me. Ci siamo impegnati davvero tanto insieme per questo cd».

I tuoi primi dischi sono dell'inizio degli anni '90. Cosa è cambiato per te in questi primi 25 anni di carriera?

«Tantissime cose. Quando abbiamo registrato "Senza Tregua" era il 1990-91. Eravamo dei ragazzini. Non conoscevamo le potenzialità della sala di registrazione e le cose si sono incredibilmente evolute. Il mio modo di scrivere era molto più ingenuo. Una cosa però è rimasta invariata. Sapevo allora e so adesso che non smetterò mai di scrivere canzoni e fare musica!».

Quale sarà la prossima tappa?

«Adesso dobbiamo e vogliamo fare tanti concerti per promuovere "Meticcio". Abbiamo una estate piuttosto impegnata. Suoniamo alcune date nella nostra zona dove apriremo un concerto del grande Garland Jeffreys, poi andremo in Liguria, Toscana, Lombardia e a ottobre faremo un tour in Sicilia. Tuttavia, non riesco a non pensare al prossimo album…».



Titolo: Meticcio
Artista: John Strada
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(testi e musiche di Gianni Govoni)

01. Magico
02. Chi guiderà
03. Rido
04. Torno a casa
05. Hai ucciso tutti i miei eroi
06. Promesse
07. Non mi alzo
08. Rocco & Fanny
09. Tiramola
10. Nella nebbia
11. Sanguepolvere
12. E' Natale in Maghreb



lunedì 30 giugno 2014

Pulin and the little mice all'esordio discografico






Si intitola "Hard times come again no more" ed è il primo disco dei Pulin and the little mice, gruppo savonese di musica folk sulle scene ormai da diversi anni. In questo album Marco Crea, Marco Poggio, Giorgio Profetto e Matteo Profetto hanno dato una loro personale lettura a brani della tradizione americana e irlandese. Canzoni note a chi ha avuto il piacere di assistere ad un loro concerto, sicuramente tutte da scoprire per chi non è un esperto del genere. Undici episodi rivisitati con l'ausilio di una strumentazione rigorosamente acustica che fanno da filo conduttore a un viaggio che parte dalla Liguria e che fa tappa nella verde Irlanda, per ripartire alla volta della Guascogna e poi dell'America del 1800 con le sue vaste praterie e la Grande Depressione, e nel secolo successivo con Leadbelly e i padri della musica folk e con Woody Guthrie che suona la sua "this machine kills the fascists". È un viaggio piacevole, vissuto in prima classe e organizzato con cura minuziosa dai Pulin and the little mice ma anche un invito alla ricerca di tanta musica che merita solo di essere riscoperta e valorizzata.
Il disco prende il titolo dalla famosa canzone di Stephen Collins Foster del 1854 che in questi ultimi anni ha trovato una nuova giovinezza grazie alle interpretazioni di Bruce Springsteen in occasione del Wrecking Ball Tour, di Mavis Staples, di Iron & Wine, di Paolo Nutini insieme ai Chieftains e di tanti altri. La canzone di Foster chiude il disco e il testo tradotto in italiano trova spazio sul retro copertina.
"Hard times come again no more" è un prodotto che ha visto coinvolte alcune delle migliori realtà del savonese: la registrazione è stata curata a Loano da Alessandro Mazzitelli, vero punto di riferimento per i musicisti della provincia e non solo, mentre la grafica è di Alex Raso che ha lavorato con gusto a tutto il packaging.
Ecco di seguito l'intervista "collettiva" ai Pulin and the little mice.



Come è avvenuta la scelta delle canzoni che presentate nel disco?

«Abbiamo selezionato, fra i pezzi che proponiamo dal vivo, quelli che ci sembrava potessero "dire qualcosa", in cui magari gli arrangiamenti fossero diversi dalle versioni originali. Per tutti i brani è stato così, tranne per "Hard times come again no more", brano che chiude e che dà il titolo al disco, il cui arrangiamento, non a caso, è completamente diverso da tutti gli altri».

Curiosa ma azzeccata l'idea di legare brani diversi per creare piccoli medley a tema. Come vi è venuta questa idea?

«Credo che, insieme all'uso di più voci, sia la caratteristica più importante della band. Il tutto è dettato dal nostro cercare di "vedere" la musica (almeno quella di origine popolare) senza vincoli geografici né storici. D'altronde l'incontro musicale tra differenti culture ha prodotto, in passato come in tempi recenti, risultati a dir poco straordinari. Ed è questo il messaggio che, nel nostro piccolo, cerchiamo di trasmettere a chi ci ascolta».

C'è molta Irlanda in questo disco, forse più di quella che normalmente presentate dal vivo. Mi sbaglio?

«In realtà, per puro caso, i brani irlandesi sono a pari merito con quelli di origine americana, anche se c’è spazio per un rondò della Guascogna così come per un brano tradizionale ligure. Per quanto riguarda i concerti, dipende un po’ dalle situazioni, non teniamo mai una scaletta fissa, quindi a volte può capitare di dare più spazio a un certo tipo di sonorità piuttosto che ad un'altra. Comunque siamo indubbiamente debitori, nonché grandi ammiratori, della cultura musicale irlandese».

Tra tutte queste canzoni della cultura anglosassone c'è un accenno strumentale a un motivo tradizionale ligure: "Baccicin vattene a ca". Perché questa scelta?

«Il set che abbiamo chiamato "Sweet Durin" in cui è inserita "Baccicin vattene a ca" in realtà dal vivo è inserita all’interno di un set di canzoni francofone. Ci sembrava che questa melodia potesse sposarsi bene con "Sweet Marie" e che l’armonica sola potesse rendere efficacemente il brano. Ci piaceva l'idea di usarlo come ponte tra la prima e la seconda metà del disco, attraversando, inoltre, nel nostro viaggio musicale, anche la Liguria».

Ascoltando il disco mi pare di capire che avete lavorato molto sulle voci. E' così?

«Dal vivo cerchiamo di usare con più impegno possibile le armonie vocali (senza esagerare che non siamo CSN&Y) e dal momento che il disco è composto da brani che proponiamo anche nei concerti, la scelta è stata per così dire obbligata».

"Hard times come again no more" è l'ultima canzone ed è anche il titolo dell'album. Un riferimento anche ai tempi amari che devono vivere i musicisti emergenti?

«Il titolo del disco può essere visto da ognuno secondo le proprie sensazioni; per questo motivo il testo del brano omonimo è l’unico di cui si può trovare la traduzione in italiano, nel retro copertina. Certo non è un momento facile per l’Italia e per le persone, ma di sicuro, in scala più piccola, ognuno di noi ha vissuto e vive dei momenti difficili, in cui l’unica motivazione che ti spinge a superarli è il pensiero e l’impegno nel non volerli rivivere mai più».

Quanto sono durate le sessions di registrazione?

«Ecco, questa è forse l’unica vera pecca della registrazione del disco. Ci abbiamo messo più di due anni, un’infinità. Probabilmente abbiamo un po’ pagato la nostra assoluta inesperienza in studio di registrazione, che malgrado possa sembrare un ambiente "più protetto" rispetto a un palco, è al contempo disorientante se non lo conosci. Inoltre abbiamo registrato il disco nel tempo libero, cercando di essere sempre tutti presenti. A tutto questo bisogna aggiungere il fatto che siamo quattro ragazzi a cui piace vivere le cose senza fretta, non è nella nostra indole forzare i tempi».

Quando avete capito che eravate sulla strada giusta?

«E chi lo sa se sia stata la strada giusta? A parte gli scherzi, per tre di noi è stata la prima esperienza in studio, non siamo partiti con un'idea precisa del risultato finale».

E' il vostro primo disco, quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato?

«Mah, come dicevamo prima, è stato tutto molto bello, a posteriori, ma essendo stata un'esperienza inedita per noi, ci siamo scontrati con un mondo completamente sconosciuto, dalla registrazione (a volte non in diretta), al mixaggio, ai tempi lunghissimi, alla burocrazia, alla scelta della copertina».

Molto simpatica e riuscita la copertina…

«Grazie! Abbiamo valutato diverse ipotesi e alla fine abbiamo scelto quella. Ci siamo anche dati un'interpretazione che lega il titolo alla copertina, ma entriamo in discorsi difficili…».

A chi consigliate questo disco?

«Ovviamente a tutti! Uomini, donne, bambini, nonni, coppie, cani e animali di ogni genere. A parte gli scherzi, abbiamo cercato con questo disco, e ancor di più durante i concerti, di mettere del nostro nella musica che suoniamo, evitando di essere solo degli esecutori, infondendo nei brani un briciolo della personalità d'ognuno di noi, nell'umile tentativo di incuriosire chi ci ascolta e avvicinarlo alla musica che amiamo così tanto».

Cosa cambia per i Pulin and the little mice adesso che avete un disco pubblicato?

«Sicuramente la consapevolezza di poter condividere la nostra passione con il pubblico non solo attraverso i concerti».

Dopo un album di cover quale sarà il vostro prossimo passo?

«Come forse si è capito da quanto detto in precedenza, il discorso cover per noi non ha una grossa importanza, visto anche che quasi tutti i brani che suoniamo in concerto sono, ai più, praticamente sconosciuti. Tutto sommato il nostro obiettivo in questo senso è sempre stato quello, come accennavamo prima, di metterci del nostro dal punto di vista dell’arrangiamento, degli accostamenti, delle esecuzioni, poi che il brano sia d’autore, tradizionale o composto da noi importa abbastanza poco. Il prossimo passo? E chi lo sa!»

Qual è il vostro disco preferito di sempre?

«Questa è una bella domanda, a cui è veramente complicato rispondere, essendo quattro teste diverse, ma d’altronde, per contratto, siamo costretti a rispondere "Hard times come again no more" dei Pulin and the little mice».



Titolo: Hard times come again no more
Gruppo: Pulin and the little mice
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce

01. Ain't no grave gonna hold my body down / The old maid of Galway
02. Patrick was a gentleman / Dennis Murphy's polka / The wistful lover
03. The auld triangle
04. Hard travelin' / Seneca square dance
05. St. James infirmary blues
06. Sweet Durin (Sweet Marie + Baccicin vàttene a cà)
07. Goodnight Irene / I always knew you were the one
08. Deep Ellum blues
09. You don't knock
10. Star of the County Down / La passade
11. Hard times come again no more





martedì 17 giugno 2014

Federico Bagnasco e "Le trame del legno"





"Una coraggiosa e intima esplorazione sonora nel mondo del contrabbasso". Ha usato queste parole Paolo Fresu per descrivere il disco d'esordio, in veste di compositore e solista, del musicista genovese Federico Bagnasco. Ne "Le trame del legno", questo il titolo dell'album, il suono del contrabbasso e la sperimentazione elettronica curata da Alessandro Paolini si fondono in un abbraccio sonoro non convenzionale. Elettronica, mai invadente, che sviluppa ed enfatizza i suoni del contrabbasso e le capacità e la fantasia dello strumentista rendendo possibili soluzioni inaspettate e creando un universo sfaccettato sempre godibile. Le canzoni, tutte inedite, si susseguono con estrema naturalezza dando vita ad un incessante fluire, ricco di colori e suggestioni. Un suono puro e cristallino che rapisce l'ascoltatore mantenendo una costante tensione sia in occasione di brani più ritmici che in divagazioni oniriche.
Federico Bagnasco è artista poliedrico che ha lavorato in diversi ambiti: dall'orchestra a formazioni cameristiche, dall'accompagnamento di cantautori allo studio della musica antica e contemporanea, da occasionali incontri in ambito jazz e folk all'impegno in spettacoli teatrali. Tutta questa varietà di esperienze e studi ha permesso al musicista genovese di sviluppare un linguaggio personale e un approccio alle diverse tecniche del contrabbasso che trovano la giusta esaltazione in questo album.
Ce ne parla lo stesso Federico Bagnasco in questa intervista.




Federico, complimenti per il disco. Devo riconoscere che al giorno d'oggi, in cui alla musica si dà un veloce ascolto, ci vuole coraggio a produrre un album come il tuo...

«Credo che in questo momento in Italia ci voglia coraggio a scegliere di fare il musicista e a perseverare nella scelta, ciò a prescindere dal mio album. Se uno è forte (o debole) di questa scelta e dei sacrifici che ne conseguono, il resto è un coraggio leggero, lieve, uno dei tanti che si compiono
inevitabilmente quando si agisce. Il mio è un progetto un poco anomalo, me ne rendo conto, ma per altri versi potrebbe essere più coraggioso, o altrettanto coraggioso, esporsi con qualcosa di più conforme allo standard, più paragonabile al conosciuto, più facilmente sottoponibile al giudizio altrui. Se d'altra parte il coraggio è corrispondente all'azione dell'osare, del mettersi in discussione ed esporsi con qualcosa di differente, fuori standard, allora potete anche darmi del leone, o per non esagerare, quantomeno del gatto selvatico».

Dicono che i musicisti debbano avere una buona dose di pazzia nel loro dna. Pensi anche tu di far parte di questa categoria?

«Francamente sì, seppur moderatamente e in maniera adeguatamente controllata. La pazzia è l'altra faccia del coraggio e, come sopra accennavo, in questo paese e in questo momento storico, diventano entrambe caratteristiche imprescindibili di questa professione, o forse più in generale di chiunque voglia fare un qualsiasi lavoro seriamente e con passione. E la pazzia, è risaputo, spesso è anche l'altra faccia della passione».

Come ti è venuta l'idea di registrare un disco puntando solamente sui suoni del contrabbasso e un po' di elaborazioni elettroniche?
 

«L'idea è nata lentamente un bel po' di anni fa: ho aspettato le circostanze favorevoli per metterla in pratica, cioè un po' di soldi da parte e un po' di tempo da investire. Credo che alla base ci sia stato un bisogno di fare tutto un lavoro in solitario e senza dover rendere conto a nessuno, una sfida, quasi, con i miei mezzi e i miei limiti. Il mio lavoro di musicista mi porta ovviamente a mettermi innanzitutto al servizio dell'arte altrui, di una musica scritta, di un artista da accompagnare, di un gruppo di cui esser parte, di un contesto, di un datore di lavoro. A un certo punto ho voluto provare a mettermi in gioco e vedere cosa ne usciva; ho aspettato finché il desiderio non ha assunto un carattere di urgenza e dunque ho agito. Ho inoltre sempre avuto una forte attrazione per il lavoro in studio di registrazione: la possibilità di fermare la musica, di fissarla, di rubarne l'ineffabilità che le è propria, e creare qualcosa che rimane, costruire l'opera così come il pittore fa il quadro o lo scrittore il libro, senza intermediari (o meglio concedendo questo ruolo soltanto all'apparecchio riproduttore, allo stereo di chi ascolta). Una volta accettato che un disco è un'operazione artificiale, che poco ha a che fare con la musica suonata dal vivo, il passo per manipolare a posteriori del materiale suonato è breve, e si enfatizza così l'aspetto da artista-demiurgo che plasma e manipola se stesso, correggendosi, cambiandosi, comandando e "gestendo il tempo". Il contrabbasso è il mio strumento, che studio da anni e con il quale lavoro e mi esprimo, dunque, in coerenza con quanto detto sopra e in un'ottica ovviamente anche di risparmio, evitando di coinvolgere altri strumentisti, l'idea si è palesata da sé. Imponendomi una coerenza dal non usare materiale sonoro che non derivasse dal contrabbasso, mi sono lasciato libero di poter avere diversi approcci dal punto di vista compositivo ed esecutivo; questo è stato un altro importante stimolo».

Devo ammettere che quando mi hai parlato del disco ero un po' scettico e invece mi sono dovuto ricredere: è un album stimolante, per niente noioso, e cresce con l'ascolto senza essere ripetitivo. Qual è il segreto?

«Spero che questa tua sensazione possa essere condivisa anche da altri ascoltatori, io ho fatto il possibile perché sia così! Credo che il segreto, per così dire, sia legato a una certa facilità che io personalmente ho ad annoiarmi: qui ho cercato di fare qualcosa che innanzitutto non annoiasse me. Ogni brano ha una storia e un percorso diverso, un differente approccio con lo strumento o con l'elettronica, e ciò dà molta varietà al lavoro nel suo complesso, pur mantenendo una coerenza sotto il profilo timbrico, poiché ogni suono è generato dal contrabbasso. Inoltre i brani sono mediamente brevi, una media di circa tre o quattro minuti, con la sola eccezione di "Residui" di sette minuti, e anche questo credo contribuisca a evitar la noia».

Quanto c'è di improvvisato in questo disco e quanto di studiato a tavolino?

«Difficile dirlo. Anche perché c'è molta improvvisazione studiata a tavolino. Ci sono almeno tre brani scritti e definiti già prima di entrare in studio, e altri cinque solo parzialmente scritti o adeguatamente già strutturati; anche in questi casi il lavoro in studio giocando con l'elettronica ha contribuito molto alla ri-creazione dei brani. Il resto è completamente nato in studio: improvvisando e manipolando poi le improvvisazioni, improvvisando con l'elettronica in tempo reale - in live electronic- modellando a tavolino il materiale registrato. Un work in progress».

Quando sei entrato in sala di registrazioni avevi ben presente il risultato che volevi raggiungere?

«No, lo avevo presente all'incirca. Mi era chiara la modalità di lavoro, i limiti del lavoro, gli obiettivi che volevo raggiungere e il tipo di suono e di ricerca sul suono che volevo "rappresentare". Il risultato finale mi si delineava man mano che il lavoro procedeva, mi sono preso tutto il tempo di cui sentivo il bisogno, per capire innanzitutto cosa stavo cercando, e poi per trovarlo».

Come si sono svolte le sessioni di registrazione e quanto sono durate?

«Sono durate moltissimo, un modo di lavorare molto poco consueto oggigiorno. Abbiamo lavorato fondamentalmente in tre sessioni di circa un mese ciascuna, quando impegni personali o professionali, miei o di Alessandro o dello studio, non imponevano altrimenti, comunque per un totale che supera le cento ore di studio; più un breve periodo a mesi di distanza per il suono e il mixaggio complessivo. Ciò che ha reso possibile tutto è stata la collaborazione con Alessandro Paolini, e in particolare la sua disponibilità - seconda solo alla sua competenza - nel venirmi incontro per la realizzazione del tutto. La modalità di ogni sessione di lavoro la decidevo man mano, ma il grosso è stato fatto davanti al computer, valutando assieme e sperimentando diverse soluzioni. Il risultato finale è frutto di diverse scelte: un bel po' di materiale registrato non è stato poi utilizzato, così come qualche tentativo di manipolazione non ci ha convinto e non lo abbiamo portato a termine».

Ottimo disco, dicevamo, ma ha un limite: l'impossibilità di suonarlo dal vivo. Non pensi che questo possa rappresentare un problema?

«Sì, un enorme problema, soprattutto perché oramai i cd si vendono più che altro ai concerti! Infatti ho intenzione di trovare la soluzione al dilemma, e sto iniziando a preparare la versione live del progetto: alcuni brani potranno essere eseguiti con adeguata manipolazione elettronica in tempo reale, abbastanza fedeli al cd, altri subiranno delle opportune modifiche. Non si sentiranno soltanto delle differenze rispetto al disco, la mia intenzione è quella di sfruttare uno spazio sonoro in quadrifonia e un adeguato supporto di subwoofer, tutti particolari che l'ascolto casalingo o in cuffia non può fornire. Sarò accompagnato ovviamente da Alessandro, anche in veste di secondo contrabbassista - …ci siamo conosciuti proprio perché compagni di studi ai tempi del conservatorio - e da Emilio Pozzolini come altro musico elettronico. Il mio suono verrà manipolato in tempo reale in diverse maniere. Tutto è ancora da preparare, ma nelle mie intenzioni, vorrei presentare il cd questo autunno in diverse città, vedremo…».

Che cosa vorresti che le persone sentissero nella tua musica?
 

«Mi ritengo già soddisfatto se la sentono, o meglio se la ascoltano, come è sempre più difficile che accada. Come rilevi tu nella tua prima domanda c'è oramai la tendenza a un ascolto molto superficiale della musica; siamo circondati da un sacco di stimoli musicali, al limite, o forse già oltre il limite, dell'inquinamento acustico, eppure raramente siamo capaci di fermarci o soffermarci ad ascoltare. Oggi la modalità più comune di fruire della musica avviene su Youtube, magari perdendosi nei dettagli visivi, nei commenti, nello spazio di un social network, credo che questo sia abbastanza significativo».

C'è un episodio che ha dato il via a questa avventura?
 

«Francamente non saprei, direi che è stato un bisogno crescente di un'idea che prendeva forma mentre spingeva per realizzarsi».

Dove speri che possa portarti questa esperienza discografica?

«Spero possa essere un biglietto da visita per future collaborazioni, magari per altri lavori in studio, o per concerti. Ma non mi sono posto molto il problema delle aspettative, è un lavoro che ho fatto innanzitutto per me, una cosa che avevo in testa e che avevo bisogno di buttar fuori, ovviamente nella speranza che possa interessare, incuriosire o rapire un possibile ascoltatore».

Ascoltando il disco ho immaginato di adattare le canzoni a un film, magari a un thriller o a un film che analizza la psicologia dei personaggi. Hai mai pensato di scrivere musiche per film?

«Sì, e mi piacerebbe molto. Per il momento ho fatto poche cose simili, un cortometraggio, un documentario non ancora pubblico, la sonorizzazione di una mostra, oltre ad avere collaborato con alcuni compositori per musica da film. Io ci penso insomma, ma bisogna anche che qualcuno che fa film pensi a me, perché ciò accada. In ogni caso mi farebbe piacere che alcune tracce di questo album possano essere adoperate in qualche contesto, magari per film, per installazioni, per coreografie, secondo me si prestano e io sono ben disposto a prestarle».

Quale sarà il prossimo passo nella tua carriera artistica?
 

«Come già ho accennato: la versione live di "Le trame del legno"; un altro progetto a cui sto già lavorando, la produzione di un audiolibro con musica; alcune ricerche musicologiche sulla storia del contrabbasso. Questo è un altro settore che mi ha molto impegnato in prima persona».

Quali sono i pro e i contro di essere un solista?

«Nell'accezione in uso nella musica classica, "solista" è un termine che è ben distante dalla mia persona - di solito si intendono quei pochi musicisti che si esibiscono abitualmente come concertisti in recital o concerti solistici con le orchestre - e francamente anche grandissimi contrabbassisti che conosco ci vanno abbastanza cauti nel definirsi solisti. In un senso più generico posso dirti che proporre un progetto da leader o addirittura in solitario, può essere prima di tutto una fonte di soddisfazione, e inoltre, se il risultato prodotto riesce ad avere un suo mercato, ovviamente il guadagno può essere maggiore rispetto a musicisti al servizio di progetti non propri. I contro sono legati innanzitutto allo sforzo e all'investimento che bisogna fare per la realizzazione del progetto, e all'esposizione che si crea, il "metterci la faccia", la responsabilità, insomma. Solitamente si tratta di un impegno maggiore, di una maggiore difficoltà sotto il profilo tecnico-strumentale, ed esecutivo in senso lato. A ciò si aggiungono tutti gli aspetti organizzativi, di produzione e di promozione, se non si è seguiti da qualcuno e se non si dispongono di liquidità da investire ulteriormente in questi aspetti. Ma qua mi fermo, giacché non vorrei alimentare luoghi comuni sui genovesi e l'attenzione al denaro. Al di là di qualsiasi contro, è forte il piacere nel produrre qualcosa che ti appartiene e che è parte di te, e che può essere consegnata ad altri e condivisa; è un modo per rapportarsi con gli altri, per comunicare; è un gioco, tutto sommato, che fa star bene».



Titolo: Le trame del legno
Artista: Federico Bagnasco
Etichetta: Old Mill Records
Anno di pubblicazione: 2014



Tracce 
(musiche di Federico Bagnasco, eccetto dove diversamente indicato)

01. Spire
02. Apnea
03. Tempo al tempo
04. Coincidenze combinate [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
05. Sbracato snob
06. I am sitting in a bass [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
07. Velato
08. AbIpso
09. Sterpi e frattaglie [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
10. Legno pesante [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
11. In Vano [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
12. Comunque
13. Residui
14. Lunari di Giada



martedì 10 giugno 2014

Con Les Trois Tetons alla scoperta di Mister Lou







"Songs about Lou" è il quarto capitolo discografico de Les Trois Tetons, gruppo savonese che da più di vent'anni porta in scena il verbo del rock'n'roll fatto di grinta, sudore e fisicità. A tre anni da "Dangereyes", la band capitanata dal cantante Roberto "Zac" Giacchello è tornata a far parlare di sé con un album che conferma l'ormai matura capacità di viaggiare nei territori del rock, dai Clash agli Stones, del blues del Delta e di certa psichedelia.
Indossate le camicie e lasciate sui palchi di mezza Italia l'energia, la carica emotiva e una buona dose di follia, il gruppo si è chiuso negli studi del Punto d'Incontro Italo Calvino a Loano, sotto la direzione di Alessandro Mazzitelli, per registrare questo nuovo progetto discografico. Un lavoro di équipe, e lo si capisce anche leggendo i crediti - sei brani sono scritti da Alberto Bella, quattro da Giorgio "Barbon" Somà, altrettanti da Roberto "Zac" Giacchello e uno a quattro mani da Giacchello e Bella -, che aggiunge qualche elemento importante alle esperienze precedenti. Una crescita artistica che ha portato il gruppo a sperimentare e a creare una sorta di concept album, diviso in due atti e una ouverture, che racconta le gioie e i dolori del personaggio Mister Lou. A impreziosire il disco vi è la partecipazione del funambolico violinista Fabio Biale che mette a disposizione il suo strumento in tre brani.
Con Zac abbiamo parlato della genesi del disco e dell'enigmatico personaggio Mister Lou. 



Quando abbiamo fatto la nostra ultima chiacchierata, ormai un anno e mezzo fa, avevate 4-5 canzoni e una serie di abbozzi. Adesso eccoci qui a parlare di "Songs about Lou"...

«È andato tutto abbastanza velocemente. Le registrazioni sono iniziate a novembre e si sono concluse a gennaio. Non ci sono stati intoppi e tutto è filato liscio ed eccoci con "Songs about Lou" che è uscito all'inizio di aprile».

Iniziamo dal titolo e dalla dedica a Lou Reed…

«C'era già l'idea di intitolare il disco Lou o qualcosa di simile, poi nel corso delle registrazioni è morto Lou Reed ed è venuto spontaneo dedicargli il nostro disco. Lou Reed è sempre stato fondamentale per la nostra musica, prima con i Velvet e poi da solo ha inciso molto sul nostro stile».

La traccia numero due del disco è appunto intitolata "Mister Lou"...

«È una canzone abbastanza lunga e articolata scritta da Burbon con una vena un po' autobiografica. Vi ha messo la sua visione del mondo, come pensa che le persone lo vedano. Una visione molto personale anche se un po' romanzata naturalmente. "Mister Lou" è stata una delle prime canzoni del nuovo album».

Mister Lou è anche il personaggio che ritroviamo in tutte le canzoni del disco...

«Quando abbiamo iniziato a scrivere queste canzoni non erano necessariamente collegate tra loro. Con "Mister Lou" è venuta l'idea di creare questo personaggio che poteva vivere delle avventure o disavventure nel corso di una storia. Quindi abbiamo provato a collegare le varie canzoni ed è per questo che nel disco ci sono anche brani brevissimi che non avrebbero senso estrapolati dal contesto».

Avete diviso il disco in due atti, quasi a voler richiamare la separazione in due facciate dei vecchi ma mai tramontati LP.

«Inizialmente c'era anche l'idea di pubblicare una versione in vinile ma per il momento l'abbiamo accantonata per questione di costi. La scelta di dividere l'album in due atti è dovuta anche al fatto che la storia si divide in due parti: nella prima viene presentato il personaggio, Mister Lou, con tutti i suoi problemi, i suoi travagli e il momento in cui decide di lasciare tutto e partire; la seconda parte descrive le avventure di questo personaggio».

C'è quindi volutamente anche una differenza di umore tra le canzoni del primo atto e quelle del secondo?

«In parte può essere vero visto che la prima parte racconta il disagio dell'esistenza che può essere in tutti noi. Il personaggio del disco vive questa situazione fino al punto di rottura e c'è appunto una canzone in cui dice 'basta, devo preparare tutto e andare via'».

C'è un lieto fine?

«Il finale è aperto a varie soluzioni, non c'è necessariamente una conclusione certa. L'ultima canzone descrive il ricordo di un amore che può dar vita al rimpianto oppure alla decisione di tornare indietro, non si sa. A me piace che sia l'ascoltatore a scegliere il finale preferito. È più bello non credi?».

Quale esperienza ha condizionato la lavorazione del disco?

«Non c'è stato un evento particolare ma una serie di situazioni che ci hanno portato a decidere di fare un disco diverso dai precedenti. Alberto ha avuto l'idea di pubblicare un concept album e per tutti noi è stata una situazione nuova. Penso che l'operazione sia pienamente riuscita».

Trovo che musicalmente sia più compatto e omogeneo rispetto al vostro precedente disco...

«Ci tenevo molto a fare un disco che fosse incentrato sul suono di due chitarre elettriche, un basso e una batteria. Credo che l'omogeneità e la compattezza del suono siano date dal fatto che tutti i pezzi sono suonati con la stessa strumentazione. C'è qualche intervento di violino ma non c'è una chitarra acustica e anche le seconde voci le abbiamo ridotte al minimo indispensabile. Ho voluto che fosse un disco abbastanza grezzo e diretto. Anche in occasione delle esibizioni dal vivo questa scelta ha i suoi vantaggi non essendo costretti a cambiare strumenti quando si passa da una canzone all'altra».

Non credi che usando sempre la stessa strumentazione possa esserci il rischio che i brani suoni un po' troppo simili tra loro?

«Devo dire che forse è più facile fare canzoni un po' tutte uguali e poi diversificarle con l'arrangiamento e la strumentazione. Invece noi partendo dalla voglia di mantenere costante gli strumenti utilizzati abbiamo dovuto cercare di variare molto dal punto di vista musicale. Le canzoni del disco sono molto varie come struttura, un po' diverse da quelle che abbiamo suonato in precedenza. È un disco molto live, le parti di basso, chitarra e batteria sono state registrate in presa diretta. Abbiamo sovrainciso solo la voce, qualche assolo, il violino e le armoniche».

Rock'n'roll è e rimane ma questa volta c'è questo filo conduttore che lega le canzoni. "Songs about Lou" è il vostro primo concept album…

«Il concept è un format molto utilizzato dal progressive però anche il rock'n'roll ha partorito dischi che ruotano attorno a un unico tema o sviluppano una storia, penso allo "Ziggy Stardust" di David Bowie o lo stesso "New York" di Lou Reed. Decidere di provare a realizzare un concept è stato un ulteriore stimolo per dare un corso diverso a un album che altrimenti avrebbe finito per essere un raccoglitore di canzoni scritte in un determinato periodo e scelte perché suonano bene insieme».

Quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato nella realizzazione del disco?

«Sicuramente nel cercare di legare le varie canzoni in modo che fluissero e che le atmosfere fossero simili. Siamo stati obbligati a pensare non solo alla canzone del momento ma anche a quella che precedeva e a quella che veniva dopo. Più complicato sicuramente».

Altro aspetto interessante è rappresentato dall'overture che apre il disco...

«Mentre registravamo mi è venuto in mente che c'era un disco bellissimo dei Blood, Sweat & Tears intitolato "Child is father to the man", suonato molto bene, intenso, articolato che spazia dal jazz alla bossa nova, con arrangiamenti dei fiati pazzeschi. In quel disco c'è proprio l'overture in cui vengono esposti i temi delle varie canzoni e noi abbiamo provato a fare una cosa simile anche se non ci siamo completamente riusciti perché di temi ne abbiamo messi solo tre e non dodici come invece avremmo dovuto. Però mi sembra che renda bene come inizio, è una bella botta e anche dal vivo è interessante iniziare con uno strumentale. Non lo avevamo mai fatto».

In tre canzoni del disco suona anche il violinista Fabio Biale. Come è nata questa collaborazione?

«Sono quei casi fortunati della vita. Non vedevo Fabio da molto tempo e sono andato a trovarlo nel suo negozio. Abbiamo parlato del disco e mi ha detto che gli avrebbe fatto piacere suonare un paio di pezzi con noi. Gli ho mandato dei brani da ascoltare e lui, con la sua maestria e il suo gusto, ha dato un bel contributo. È bravo sia come musicista da studio che sul palco, è una presenza che ti dà una marcia in più. Abbiamo avuto anche la fortuna di averlo con noi in occasione del concerto di presentazione del disco che si è tenuto al Raindogs a Savona. Speriamo di averlo nuovamente con noi in qualche altra occasione».

Alessandro Mazzitelli, oltre ad aver svolto egregiamente il lavoro di fonico, ha suonato il tanpura nella canzone "Wide mouth". Perché questa scelta?

«Questo pezzo si dilata un po' nella parte centrale, è una improvvisazione, una canzone più libera, un po' alla Grateful Dead per intenderci. L'abbiamo incisa tre-quattro volte e poi abbiamo scelto la seconda take, se non ricordo male. Risentendo la traccia, a Mazzitelli è venuta l'idea di aggiungere il suono di un tanpura, uno strumento indiano che devo ammettere non conoscevo, e il risultato è interessante. Contribuisce a creare una particolare atmosfera».

Torniamo alla canzone "Wide Mouth". Nelle note del disco si legge che è ispirata al racconto scritto da Luca Oddera e intitolato "Bocca larga". Ci puoi dire qualcosa in proposito?

«Oltre a essere un amico e il proprietario del Beer Room di Pontinvrea, uno dei locali più belli della zona, Luca ha la passione per l'Africa, dove ogni anno trascorre parecchi mesi. Ma per chi non lo sapesse è anche un bravo scrittore. I suoi libri sono memoriali di viaggio. Attualmente ne ha uno in cantiere che ho avuto la fortuna di leggere. È molto più romanzato, ci sono racconti a volte più concreti altre volte più onirici. Tra tutti i racconti c'è questo "Bocca larga" in cui ci sono una serie di immagini particolari che mi hanno molto colpito. Ne ho estrapolate alcune e ne ho scritto un testo in inglese. Essendo il racconto molto onirico lo abbiamo messo su un giro di basso di Alberto sul quale poi abbiamo continuato a jammare facendo improvvisazioni anche di 10-15 minuti. Alla fine gli abbiamo dato una forma canzone con due parti cantate intervallate da una parte strumentale. È stata una operazione un po' rischiosa perché non sapevamo dove saremmo andati a parare, poteva anche essere un 'polpettone' e invece ho visto che la canzone piace e dal vivo ha un impatto interessante».

Vedo che hai dato seguito all'esperimento di cantare anche in tedesco inserendo una strofa in "Asphaltnacht". Anche se devo confessarti che dopo "Berlin 1987" mi aspettavo più coraggio da parte tua...

«Un testo intero in tedesco non mi oso ancora cantarlo. Però questa è di nuovo una bella storia. A ispirarmi è stato un film del 1980, "Asphaltnacht", che in Germania è un cult. Un amico tedesco mi ha dato il dvd di questo film che penso non sia mai uscito sottotitolato. L'ho visto tre-quattro volte di seguito e mi ha entusiasmato. Ho preso spunto da queste avventure e qualche frase in tedesco ci stava bene».

Sbaglio o questo è il primo disco con Davide Incorvaia alla batteria?

«Sì, esatto. Davide è con noi da due anni e ha preso il posto di Guido che per dodici anni è stato il batterista del gruppo e aveva dato una impronta precisa al nostro suono. Davide devo dire che si è inserito benissimo e ha dato un bel contributo. Era molto motivato anche perché era il primo disco che faceva con noi. È stato bravissimo, preparato anche in fase di pre-produzione e poi si è rivelato essere un ottimo grafico, siamo stati fortunati».

Infatti, anche la copertina e la grafica del disco è opera di Davide...

«Ed è la prima volta che abbiamo una copertina disegnata e non una fotografia che ci ritrae. Anche questa è una bella novità. Il disco è pieno di belle novità».


Titolo: Songs about Lou
Gruppo: Les Trois Tetons
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce

01. Overture  [Bella]
02. Mister Lou  [Somà]
03. Hey Girl  [Somà]
04. Green is the dream  [Somà]
05. Midnight crisis  [Bella]
06. Breaking point  [Somà]
07. Weeping willow  [Bella]
08. Leaving  [Bella]
09. I won't be back for Christmas  [Giacchello]
10. Asphaltnacht  [Giacchello]
11. Wide mouth  [Giacchello/Bella]
12. Throne made of bones  [Giacchello]
13. After the laughter  [Bella]
14. Peculiar  [Bella]
15. Long fingered hands  [Giacchello]



lunedì 19 maggio 2014

Graziano Romani canta le avventure di Mister No





"Yes I'm Mister No" è l'ultimo capitolo della trilogia musicale che Graziano Romani ha dedicato ai personaggi dei fumetti creati da Sergio Bonelli. Dopo Zagor e Tex, il cantautore emiliano racconta le avventure e descrive la personalità di Jerry Drake in un disco (distribuzione Panini) pubblicato in questi giorni e acquistabile in tutte le edicole. Un lavoro che non esce dalle strade ben tracciate del rock che Romani conosce bene per averle percorse in più di trent'anni di onorata carriera, ma che si arricchisce con influenze che spaziano dal rhythm'n'blues al jazz. Il disco è composto da nove brani inediti che raccontano Mister No e quattro canzoni della tradizione americana degli anni Trenta che Romani canta con la sua inimitabile voce profonda e graffiante. A valorizzare ulteriormente l'album vi è la partecipazione di Carolyne Mas, una delle figure più importanti della scena newyorkese di fine anni Settanta e recentemente tornata in Italia per una serie di fortunati concerti. La Mas duetta a modo suo, toccando le corde dell'anima, sul classico "When the saints go marching in".
Il fondatore dei Rocking Chairs, gruppo che negli anni '80 ebbe un discreto successo con quattro album all'attivo, si avvale anche della collaborazione in studio di alcuni dei componenti della band di quegli anni quali il tastierista Franco Borghi, il chitarrista Mel Previte e il sassofonista Max "Grizzly" Marmiroli. Le percussioni sono state affidate invece al poliedrico Oscar Abelli, capace di aggiungere quelle sonorità latine che colorano le storie cantate da Romani.
Di seguito l'intervista di presentazione che ci ha gentilmente concesso Graziano Romani.




Graziano, il tuo nuovo disco ha come protagonista Mister No. In cosa ti assomiglia il personaggio creato da Sergio Bonelli?

«Innanzitutto credo che Mister No sia il personaggio bonelliano in assoluto più 'musicale' e quindi mi ci ritrovo in pieno. Con tutti i richiami agli anni '50 e al primo rock'n'roll, al rhythm'n'blues, al jazz, al gospel, al folk. Già all'inizio della mia carriera, quando fondai i Rocking Chairs, cercavo di rifarmi a quelle origini della musica popolare nordamericana amata in tutto il globo. Mi ritrovo anche nel carattere del personaggio: anticonformista, indipendente, cocciuto, determinato e perché no anche vulnerabile, umano, passionale e sincero».

Questo è il tuo terzo episodio discografico legato a un personaggio dei fumetti. Come e quando hai avuto l'idea di farti ispirare da queste storie?

«Tutto è iniziato con lo scrivere e concepire una canzone per Zagor, ovvero "Darkwood". Poi ci ho preso gusto e ho scritto anche tutti gli altri brani che sono andati a formare l'ossatura del disco "Zagor king of Darkwood", album che ho realizzato con il benestare e l'aiuto del grande e indimenticabile Sergio Bonelli. Poi la logica e inevitabile conseguenza è stata quella di realizzare un intero album dedicato a Tex, sempre con il grande Sergio a darmi consigli e a spronarmi. Un paio di anni fa ho poi deciso di chiudere questa trilogia bonelliana con il personaggio Mister No, e l'ho voluto come un vero e proprio tributo a Sergio 'Nolitta' Bonelli. L'ho creato non tanto ispirandomi alle sue storie, ma proprio cercando di sviscerare l'essenza dell'uomo e dell'eroe, anzi antieroe. E spero di esserci riuscito».

Quando è iniziata questa tua passione per i fumetti?

«Da molto piccolo. Avevo dei cugini e degli zii che mi passavano interi scatoloni di Topolino, Blek e Miki, Tiramolla, Geppo, Soldino e mille altri... E in quegli scatoloni ci giocavo e ci dormivo letteralmente dentro! Crescendo non ho mai abbandonato questa passione. Prima è toccato agli eroi di Bonelli e a quelli americani della Marvel, fino all'adolescenza con Linus ed Eureka, Metal Hurlant e i fumetti underground. Insomma il fumetto, insieme alla musica ovviamente, è la mia passione. Ma mi interessa tutto quello che riesce ad emozionarmi, ad appassionarmi».

Il tuo rapporto con i fumetti è a tutto campo, so che recentemente hai contribuito alla prima ristampa integrale del Prince Valiant di Hal Foster. Ce ne parli?

«Conoscevo l'eccelsa e recente ristampa americana della saga di Prince Valiant, e ho suggerito l'idea di realizzare una ristampa italiana all'editore Renoir/Nona Arte che ha accettato con entusiasmo. Sono il curatore e traduttore della collana, il terzo volume è in uscita e sto terminando il lavoro di traduzione del quarto che uscirà a ottobre, giusto in tempo per la kermesse di LuccaComics. Sono anche diventato una specie di 'saggista' del fumetto, inizialmente scrivendo dei volumi a quattro mani con il grande Moreno Burattini dedicati ai grandi del fumetto italiano come Gallieno Ferri, Giovanni Ticci e Guido Nolitta. Poi per Panini ho ideato la collana di artbooks che ho chiamato "L'Arte di", monografie dedicate ai maestri del fumetto. I primi due volumi sono stati dedicati ad Aurelio 'Galep' Galleppini, ovvero il creatore grafico di Tex, e a Gallieno Ferri, uno dei due papà di Zagor. Ora sto lavorando a un terzo volume, dedicato a un grande maestro americano di comics...».

Il fatto che esistano personaggi da raccontare già ben delineati rende più agevole la fase compositiva delle tue canzoni?

«Ovviamente questo fatto mi permette per certi versi di approcciarmi alla scrittura come se fosse destinata ad una soundtrack, alla colonna sonora di un film. Ma per contro c'è la difficoltà nel rendere bene il carattere e l'essenza del personaggio e fare stare tutto nel breve tempo di una canzone di quattro minuti. A me interessa emozionare con le mie canzoni, e non è fondamentale descrivere minuziosamente le storie, l'importante è che la canzone risulti evocativa ed efficace, e a giudicare dall'entusiasmo degli appassionati credo di esserci riuscito. Se non ami davvero il personaggio non ha senso scriverci delle canzoni, credo».

Martin Mystère, Dylan Dog, Nathan Never, Brendon… hai già pensato al prossimo capitolo?
 

«Per ora considero la trilogia bonelliana Zagor/Tex/Mister No un capitolo chiuso. Apprezzo anche i personaggi da te citati ma per ora mi fermo qui. Certo che di idee ne avrei, vedremo».

Nel disco hai inserito anche quattro classici degli anni Trenta. Come è avvenuta la scelta di questi episodi musicali e quali difficoltà hai incontrato per attualizzare queste canzoni?

«La scelta è avvenuta attingendo dalla 'top ten' dei brani preferiti di Sergio Bonelli che era un vero appassionato e cultore degli standard jazz. "Body and soul" era la sua preferita in assoluto, e poi era inevitabile citare Sinatra e quella "When the saints go marching in" che accompagna l'eroe in tante avventure. È stata una bella sfida, una cosa molto stimolante visto che questo genere di canzoni così classiche non l'avevo mai interpretato, non si smette mai di assimilare e di crescere, e questi brani mi hanno insegnato molto».

Carolyne Mas ha dato il suo brillante contributo in "When the saints go marching in". Come è nata questa collaborazione?

«Compravo i dischi in vinile di Carolyne da ragazzo alla fine degli anni '70, erano opere molto belle e sincere, lei era una 'chanteuse' del rock mainstream molto amata in Europa e spesso veniva definita una 'Springsteen in gonnella', mi piaceva molto. La conobbi nel 2006 quando facemmo una serie di concerti assieme in Italia. Poi siamo rimasti in contatto, e in occasione di un suo concerto a Casalgrande, il mio paese d'origine, l'ho invitata in studio di registrazione per duettare con me. Lei ha accettato con entusiasmo e ha cantato con l'anima».

"La vita è dura e so cosa è giusto e cosa è sbagliato, per sopravvivere devi essere tosto" canti nella title track e per fare il musicista per trent'anni che qualità bisogna possedere?

«Proprio quelle che ho scritto nel testo della canzone, e tante altre ancora. Devi imparare dagli errori, non smettere mai di creare ed evolverti. E devi stare sempre vicino al pubblico, cercare di emozionarlo con sincerità, condividere con lui la gioia che è fare musica e raccontare storie e idee tramite essa. La canzone non deve mai essere la stessa, e il fuoco non deve mai spegnersi, è importante stare sempre accesi».

In "Trust myself" parli di reciproca fiducia e di un rapporto che cammina su un terreno instabile. Qual è la tua ricetta per uscire da queste situazioni?

«Ognuno ha la sua ricetta. Forse l'onestà e il rispetto sono gli ingredienti fondamentali per la durata di un rapporto, ma ognuno queste cose le vive e le vede come vuole, e "Trust myself" credo sia una canzone in cui ci si ritrovano in tanti, non solo Jerry Drake alias Mister No!».

C'è anche una tua visione ecologista nell'album. In "Lost Paradise" canti "...Paradiso perduto, noi viviamo tu muori, i nostri peccati non saranno perdonati". Qual è la tua visione della società di oggi e quanta importanza può avere la musica nell'affrontare queste problematiche?

«Le problematiche del mondo di oggi purtroppo le conosciamo bene, sono sotto gli occhi di tutti. E, come spesso hanno detto, la musica o semplicemente una canzone non potrà cambiare il mondo ma può tenere accesi i nostri sogni, i nostri ideali, stimolarci verso un cambiamento. È quello in cui ho sempre creduto».

Cosa farai nei prossimi mesi?

«Sarò in studio di registrazione a seguire i mixaggi per la realizzazione di un disco dal vivo, un doppio live ufficiale che ancora manca nella mia discografia. È la testimonianza integrale di un mio concerto dell'agosto 2013, uno show molto intenso che in un certo modo fa il punto su una carriera iniziata nel lontano 1981, toccando i miei brani in inglese, in italiano e che comprende anche una manciata di covers di prim'ordine: degli Who, di Springsteen, di Chuck Berry e di Woody Guthrie. Uscirà nel 2015 e sarà il mio ventesimo album, un capitolo importante. E poi vedremo, di certo non mi fermerò, continuerò a cavalcare l'onda delle mie due grandi passioni, la musica e il fumetto, finché ne avrò le forze immagino. E resterò acceso».


Titolo: Yes I'm Mister No
Artista: Graziano Romani
Etichetta: Panini Comics
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(testi e musiche di Graziano Romani, eccetto dove indicato)

01. Yes I'm Mister No
02. Amazonas hotel
03. Esse-Esse
04. Cachaca girls
05. Body and soul [Edward Heyman/Robert Sour/Frank Eyton/Johnny Green, 1930]
06. You make my heart sing like Sinatra
07. I've got you under my skin [Cole Porter, 1936]
08. Trust myself
09. Lost paradise
10. When the saints go marching in [traditional, 1930s]
11. My funny Valentine [Richard Rodgers/Lorenz Hart, 1937]
12. Soul traveler (to Sergio)
13. Jerry's farewell


martedì 13 maggio 2014

Carlo Ozzella e "Il lato sbagliato della strada"





Nuvole grigie e basse all'orizzonte, una strada ferrata che si perde nell'infinito e una desolazione che rimanda ai tempi che sta attraversando la nostra società. E' una visione in bianco e nero quella raffigurata sulla copertina di "Il lato sbagliato della strada", disco d'esordio di Carlo Ozzella & Barbablues. Una fotografia che solo la musica può colorare con le giuste sfumature e l'artista milanese e il suo gruppo lo fanno utilizzando i pennelli a tinte forti del rock sanguigno, intriso di sudore e fatica. Nelle tredici tracce del disco dimostrano di aver imparato bene la lezione. Una 'lezione' iniziata per Ozzella nel 1996 quando assiste in televisione all'esibizione di Bruce Springsteen al Festival di Sanremo. Quella "The Ghost of Tom Joad", cantata dall'artista del New Jersey con chitarra e armonica, avvicina Ozzella ai cantautori americani e il passo successivo, fatto di ascolti, concerti dal vivo, approfondimenti musical-letterari, chiude il cerchio.
"Il lato sbagliato della strada" è forse uno degli album più springsteeniani pubblicati negli ultimi anni in Italia. Non solo da un punto di vista musicale ma anche della poetica. Ozzella racconta le incertezze, la rabbia e le speranze del nostro tempo e lo fa con un minuzioso lavoro sui testi, carichi di istantanee e sequenze a tratti cinematografiche. Il fallimento della politica e il malaffare, la delusione per i sogni disattesi, le speculazioni finanziari che giocano con i destini delle persone sono alcuni dei temi affrontati ma nelle canzoni c'è anche la voglia di lasciare 'il lato sbagliato della strada', di cercare la via del riscatto, di trovare il coraggio per scrivere una nuova storia, senza arrendersi. Un disco brillante, fresco e ben suonato che merita di essere scoperto e riposto nello scaffale più in vista, sempre a portata di mano.
Nell'intervista che segue abbiamo approfondito la conoscenza di Carlo Ozzella e dei Barbablues.



Carlo, hai intitolato il  disco "Il lato sbagliato della strada" ma qual è per te il lato giusto da percorrere?

«Senz’altro quello dell’onestà, verso gli altri e verso sé stessi. Inseguire le proprie vocazioni, non accontentarsi, vivere tutto ciò che accade pienamente, fino in fondo, accettando anche la rabbia e la malinconia che spesso tutto ciò comporta, quando ci si sente sconfitti e senza più scelta. La società di oggi spesso ci delude, ci costringe a pensare che certe cose possano andare in un solo modo. Che tu non possa cambiare la tua vita, che sia meglio farsi furbo e scegliere la via più facile, che ci sarà sempre qualcuno che si arricchirà alle spalle di un altro, che il malaffare continuerà a dilagare. Che sia tu insomma ad essere sul "lato sbagliato". Il brano che dà il titolo all’album parla proprio di questo, di questo sentimento di frustrazione che però a un certo punto è capace di trasformarsi in forza, in nuova vita quando si realizza che non si è soli in realtà in questa condizione, che la vita che ci è data può essere ben spesa, che c’è una nuova giornata e una nuova storia sempre dietro l’angolo pronta a incominciare».

Nelle canzoni affronti i temi della quotidianità e della crisi dei giorni nostri con un piglio grintoso. Pensi che la musica sia più uno strumento di denuncia o di "consolazione"?

«Io credo che il bello della musica stia proprio nel fatto che è entrambe le cose! Ha il potere di veicolare certi messaggi e di farli arrivare con molta più forza rispetto a un semplice discorso perché carichi della forza emotiva che viene dalla melodia, dai suoni, dal ritmo, ma nello stesso tempo quegli elementi sono anche al servizio del piacere, delle belle sensazioni che un canzone deve suscitare all’orecchio e al cuore. Quando suoniamo dal vivo "Al momento della resa" stiamo senz’altro lanciando un messaggio molto forte, ma nello stesso tempo cerchiamo di coinvolgere il pubblico in un rito musicale collettivo, spensierato, dove tutti saltano e cantano con noi: l’essenza più pura del rock & roll! Tutto il mio approccio alla musica si muove lungo questi due estremi: da una parte la vivo come la cosa più importante al mondo, dall’altra cerco sempre di ricordarmi che... it’s only rock & roll!».

Quale canzone senti più tua e perché?

«"Il vento quando passa". E’ quella che considero anche più personale e dolorosa, perché legata a un triste episodio, la morte di un carissimo amico con cui sono praticamente cresciuto. Ricordo che la sera stessa in cui tornai a casa mia, dopo essere stato a trovarlo e aver appreso della malattia che lo aveva colpito, presi il quaderno e scrissi di getto i versi di questo pezzo, praticamente già nella forma che hanno oggi. Di solito i miei quaderni sono pieni di pagine di riscritture, rimaneggiamenti, correzioni. Puoi vedere frasi sparse, parole che dopo alcune pagine iniziano a unirsi, ad avere una forma fino a che non si arriva molto tempo dopo alle liriche finali. In questo caso era come se ci fosse una mano invisibile a guidarmi, come se il pezzo in qualche modo già esistesse e chiedesse solo di essere scritto. Sapevo che lo stavo scrivendo per lui, per farglielo avere e dargli forza, dirgli di non mollare. Sono contento di essere riuscito a farglielo ascoltare e di aver dedicato a lui questo disco. Ma come abbiamo scritto nella dedica... "addio: vietato piangere"».

Quanto tempo hai dedicato a questo lavoro discografico?

«Il precedente EP "Dove comincia la notte" è uscito a maggio del 2011. Questo disco a luglio del 2013. Fanno quasi due anni. Purtroppo non facendo il musicista a tempo pieno nella vita (e lo stesso discorso vale anche per i ragazzi della band) bisogna far coincidere tanti impegni, di lavoro, familiari… Noi non andiamo in studio due settimane e usciamo con il disco finito. Procediamo a piccoli passi, man mano che le canzoni nascono, le registriamo in diversi momenti fino a che a un tratto non si delinea all’orizzonte un disco. A quel punto iniziamo a marciare un po’ più serrati, mettendo sempre più a fuoco cosa va e cosa non va. Per il futuro mi piacerebbe essere più veloce, riuscire a concentrare il momento creativo in un intervallo di tempo più breve, più compatto. Chissà, magari un giorno riuscirò a lasciare il mio lavoro e a dedicarmi totalmente alla musica».


Le influenze della produzione springsteeniana sono evidenti. Cosa avresti fatto nella vita se non avessi incontrato Springsteen sulla tua strada?

«Me lo sono chiesto spesso ed è un gioco divertente perché in realtà incontrare Springsteen per me ha significato molto di più che l’appassionarsi semplicemente a un autore. Ha voluto dire scoprire a 360 gradi il panorama del rock, entrare a pieno in una cultura che in fondo è anche un modo di vivere, che ti cambia la vita. Ha voluto dire conoscere persone che poi sono diventate fondamentali nella mia esistenza. Senza quella svolta, sono certo che non solo avrei fatto altro nella vita (probabilmente mi sarei dato alla letteratura), ma sarei anche stato una persona completamente diversa».

Ma non c’è solo Springsteen nella tua formazione musicale. Mi sbaglio?

«Certo che no. Quando ho iniziato a suonare la chitarra a 11 anni mi sono avvicinato alla musica dei grandi cantautori italiani: De Gregori, Guccini, De Andrè. E’ stata una formazione fondamentale, mi ha insegnato l’importanza della parola, dei testi, che in alcuni casi nel rock americano sono relegati in secondo piano. Credo che tutti loro abbiano scritto pezzi memorabili, nel caso di Faber autentici capolavori che non esito a porre sullo stesso piano, se non superiore, delle cose migliori di Dylan, altro mio grande amore. Poi, dopo la scoperta di Springsteen e del rock, mi sono buttato a capofitto sulle origini di questo genere, sui capostipiti: Elvis, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry, Little Richard, Ray Charles. Non puoi pensare di fare lo scrittore e non conoscere Dante e Petrarca. E poi il blues, il rhythm and blues, il folk. Cerchi sempre di arricchire il tuo bagaglio culturale e musicale. Un genere che adoro e che non mi dispiacerebbe un giorno integrare con qualche influenza nella mia produzione è la musica celtica. Dalle ballate tradizionali irlandesi, suonate con fiddle e whistle, fino al celtic rock in stile Pogues o Dropkick Murphys, ho una vera e propria passione per questo genere di sonorità».

Il testo della canzone "L'ombra" parla di pallottole nel cuore, mani che stringono altre mani, di colpevoli e condanne. E' un atto d'accusa nei confronti di chi?

«Credo che tantissime persone come me vedano ormai con disgusto e delusione tutto ciò che ha a che fare con la politica: i partiti, gli esponenti, il governo… Senza distinzione di schieramento (anche perché spesso le distinzioni fanno fatica a vedersi). Con il forte rischio, è vero, che la generalizzazione e la semplificazione si facciano spazio. Ma la colpa non è nostra, è loro. La percezione che si ha è che la politica, che dovrebbe svolgere una altissima funzione, quella di governare e rendere migliori le condizioni di vita dei cittadini, svolga invece una funzione opposta: si occupa del benessere di pochi, agisce spesso nell’illegalità (lei che dovrebbe garantire la legalità), penalizza i cittadini. In questa canzone ho voluto raccontare la rabbia che tutto ciò suscita, il disprezzo anche violento verso questi personaggi viscidi, falsi. Con la speranza che se non sarà una condanna vera e propria a fermarli ci pensi almeno l’ultimo avanzo della loro coscienza imbruttita».

"Da che parte vuoi trovarti all'alba quando il cielo esploderà, al momento della resa dove andrai?". Questo è uno dei versi di "Al momento della resa". Ma Springsteen non ti ha insegnato che non bisogna arrendersi?

«Nessuna resa mai! Come canta il mio amico Massimo Priviero... E’ una lezione importante, cercando di affermarmi come musicista credo di averla imparata piuttosto bene, considerate le difficoltà che si devono affrontare. Ma la resa di cui parlo in quella canzone ha un senso più ampio, figurativo: è una sorta di giudizio finale, una resa dei conti. Che prima o poi dovrà pure arrivare. E in quel momento sarà davvero importante capire da che parte si è scelto di stare, quali decisioni hanno governato la tua vita. Insieme a "L’ombra", questo pezzo è tra i più duri e arrabbiati del disco, ancora una volta mi rivolgo a una casta, questa volta avevo davanti agli occhi i signori della finanza, quelli che muovono soldi ma sempre nella direzione dei più ricchi. Di nuovo la stessa storia, un gruppo ristretto di persone che ha il potere di decidere della vita di tante altre persone. Ho voluto immaginare uno scenario futuristico di guerriglia, di rivolta, cosa potrebbe succedere se davvero a un tratto le persone stanche ed esasperate decidessero di reagire e di rivoltarsi. Non sto offrendo questa soluzione violenta, se guardi bene noterai che le immagini che aprono la canzone non sono piacevoli, il fumo, la polvere da sparo, il respiro che manca... Volevo che suonasse più come un avvertimento».

Ci sono tante albe nelle tue canzoni. Come vivi il passaggio dalla notte al giorno?

«E’ un momento della giornata che mi piace. L’alba è l’inizio e per me rappresenta sempre una nuova possibilità, la chance che hai a disposizione per portare avanti il tuo sogno, per correggere ciò che hai sbagliato il giorno prima, per fare meglio. Più simbolicamente, è una nuova luce che arriva e in questo senso solitamente ha una valenza positiva, di rinascita».

Il disco si chiude con la canzone "Comunque vada". E' un invito ad andare avanti nonostante le inevitabili decisioni sbagliate e occasioni perse. In che direzione va la tua strada?

«In questo momento mi sembra di camminare su due strade, non esattamente parallele: da una parte c’è la mia vita ordinaria, quella di un normale ragazzo che fa la sua vita, va tutte le mattine a lavorare, torna a casa dalla sua famiglia e nel weekend va a farsi un giro. Dall’altra c’è la mia vita artistica, i concerti, la scrittura delle canzoni, le prove, lo studio, i dischi, i contatti. Ogni tanto si incontrano, si scontrano, ogni tanto tutto non ci sta in 24 ore... Ma in questo momento non c’è alternativa e andrà avanti così per un po’, probabilmente per sempre, non mi ci vedo proprio a smettere di suonare. Spero che questo duro lavoro riesca a premiarmi un giorno, e che alla fine la vita artistica possa davvero prendere il sopravvento. Ma sono tempi duri per gli emergenti».

Perché nel disco canti anche alcune canzoni in inglese?

«Ci sono delle melodie che in qualche modo si sposano molto meglio con un testo in inglese, la metrica che la musica richiede non trova facile corrispondenza con quella offerta dai termini italiani e quando ciò è accaduto ho deciso di provare a scrivere in inglese. Mi è piaciuto e così sono venute fuori altre canzoni. Però sono stato abbastanza restio per un po’ all’idea di includerle nel disco, non ero certo che affiancare brani in italiano e brani in inglese nello stesso lavoro fosse la scelta giusta. E ancora non lo sono... (ride). Però erano buone canzoni e ho pensato che in fondo in un disco d'esordio era giusto offrire una visione completa di quello che ero, che anche altri artisti avevano optato per una scelta simile e soprattutto che cantare in inglese avrebbe permesso senz’altro alla mia musica di avere un target di pubblico più vasto».

Il suono, come dicevano, è molto americano, e per renderlo al meglio ti fai accompagnare dai Barbablues. Ce li presenti e come vi siete incontrati?

«Il prossimo settembre saranno 15 anni che questa band esiste. Ci siamo incontrati grazie ad un annuncio: c’era questa band, in cui suonavano già Max e Fede, che cercava un cantante. All’epoca avevo appena compiuto diciotto anni, loro erano già sulla trentina, mi hanno visto arrivare e... erano un po’ dubbiosi! Ma quando abbiamo iniziato a suonare... scintille! Con Federico Melzi, chitarrista, ci ha subito legato l’amore per Springsteen. Su quel terreno abbiamo costruito un’amicizia che si è poi trasformata in fratellanza. Ci sentiamo praticamente tutti i giorni, ci consultiamo in ogni scelta importante e sul palco è davvero la mia controparte scenica, il supporto su cui costruisco lo show, non solo quello musicale. Massimo Miglietta, il batterista, ha un background musicale diverso, ama il pop, il funky, ma anche il rock. Ha una grande sensibilità musicale, un ottimo orecchio, e mi dà spesso utili consigli nella stesura e nell’arrangiamento dei pezzi. Anche con lui c’è un rapporto speciale, quando c’è da organizzare un viaggio o una vacanza siamo sempre in contatto diretto, ci piace fare queste cose insieme. Qualche anno dopo quel primo incontro sono arrivati Andrea Marsili, al basso, Stefano Gilardoni al pianoforte e Claudio Lauria al sax. Andrea è uno degli uomini più divertenti che io conosca, ha un’ironia immediata che ti piega in due. Oltre a suonare il basso con note che non ti aspetteresti. Stefano è senz’altro il musicista più dotato di noi, suona il piano ma anche la chitarra, il violino, il flauto, il mandolino, studia il cinese, ha studiato il russo... è un vulcano! E abbiamo una passione in comune per l’Irlanda e la musica irish. Infine Claudio, virtuoso del sax. Può improvvisare su qualunque pezzo e ha un amore spropositato per la musica, suonerebbe sempre. Ha davvero un cuore grande e generoso».

Quali sono le tue letture preferite e che importanza hanno i libri per un cantautore?

«Sono un vero e proprio amante dei libri. Come tutti gli appassionati per uno che ne leggo ne compro altri tre. Ma mi piace pensare che una libreria sia come la dispensa di casa, non è che ogni giorno si compra solo ciò che si mangerà la sera! Amo un sacco i gialli, i thriller, soprattutto quelli storici. Ho una grande passione per il Medioevo e quindi leggo con piacere tutto ciò che vi è ambientato. Ho letto tanto anche gli autori francesi, da Sarte a Camus. Ultimamente sto leggendo anche qualche noir, in particolare Izzo tra gli stranieri e Carlotto tra gli autori italiani. Ho un debito nei loro confronti contenuto in questo disco. Una frase di "Disillusion Town" è la traduzione del titolo di un capitolo di "Casino totale" di Izzo, "even to lose you gotta know how to fight", mentre l’immagine della pallottola "solenne come una sentenza" la devo a Carlotto e al suo "Arrivederci amore, ciao". Ma la letteratura, i libri, non danno solo spunti diretti come in questo caso. Mi aiutano anche a costruire certe immagini con le parole, a rendere certe canzoni dei racconti. C’è un nesso molto forte tra musica e libri, e infatti quando sono in giro nel mio zaino le cose che non mancano mai sono il quaderno degli appunti e un libro».

So che porti avanti anche un progetto musicale parallelo. Ce ne parli?

«Nel 2005 con alcuni amici musicisti abbiamo messo su una tribute band dedicata al Boss. Non poteva che essere così, tanto grande è la passione per la sua musica. Si chiama The 57th Street Band e con me ci sono anche Stefano e Claudio dei Barbablues. E’ una band di sette elementi che ricalca la E Street Band del periodo 1978-1985. Un bel sound grintoso, con due distinti musicisti a suonare piano ed hammond e il sax di Claudio che ricalca alla grande le note di Clarence. Abbiamo un repertorio piuttosto vasto, circa settanta canzoni e facciamo un sacco di serate, sia in elettrico che in acustico. Devo dire che inizialmente mi ero posto dei dubbi sul fatto di andare in giro con una cover band di Bruce. Non sai mai se devi presentarti là fuori cercando di replicare uno show di Springsteen (cosa peraltro scientificamente provato essere impossibile) o semplicemente cantare le sue canzoni, rischiando però a quel punto di creare un’eccessiva distanza, una personalizzazione non richiesta. Abbiamo deciso di collocarci un po’ nel mezzo, restiamo fedeli alle canzoni, alla grinta, con il sorriso ammicchiamo ad alcune gag che fanno parte dello spettacolo di Bruce... e poi ci mettiamo tutta la passione che abbiamo! Finora mi sembra funzioni».

Quali sono attualmente le prospettive per un artista che vuole vivere di musica?

«Hai presente la canzone dei Creedence? "Bad moon rising"... Purtroppo la situazione del mondo della discografia è ben nota, nessuno compra i dischi, nessuno investe sugli emergenti, sono pochi gli spazi dove si fa musica dal vivo originale, molto più sicuro far suonare l’ennesima cover o tribute band. Bisogna darsi da fare in proprio, investire tempo e qualche soldino, anche se bisogna ammettere che oggi è molto più semplice ed economico registrare un EP o un disco e farlo conoscere grazie alla rete. Arrivare a viverci... beh, sto scoprendo come si fa. Appena ci sono riuscito ti chiamo, ok?».



Titolo: Il lato sbagliato della strada
Artista: Carlo Ozzella & Barbablues
Etichetta: Avakian Productions
Anno di pubblicazione: 2013


Tracce
(testi e musiche di Carlo Ozzella, eccetto dove indicato)

01. La tua ultima occasione
02. Full grace
03. Notturno
04. Il vento quando passa
05. L'ombra
06. Alla periferia della città
07. Weary and proud [Massimo Miglietta e Carlo Ozzella]
08. Trough the storm
09. Il lato sbagliato della strada
10. Disillusion town
11. Vite in gioco
12. Al momento della resa
13. Comunque vada




giovedì 8 maggio 2014

"Masca vola via": la tradizione di Simona Colonna





Voce, violoncello e una manciata di canzoni che raccontano storie della tradizione del Piemonte rurale e contadino hanno convinto la giuria ad assegnare a Simona Colonna il primo posto nella selezione nord-ovest di "Suonare a Folkest - Premio Alberto Cesa". A Loano, nella Riviera ligure di ponente, la bravura, la simpatia e la capacità di interagire con il pubblico, l'energia della performance e la carica teatrale, oltre a una esibizione tecnica mai fine a se stessa, hanno consentito a Simona Colonna di precedere nella speciale classifica di merito il Laboratorio Permanente Figurelle e i Folkamiseria. Nel corso della serata loanese l'artista piemontese ha presentato le canzoni che fanno parte del cd "Masca vola via", pubblicato due anni fa, e alcuni inediti. Brani che dipingono un quadro sonoro minimale arricchito da storie cantate in lingua piemontese capaci di sedurre e incuriosire l'ascoltatore. Un lavoro innovativo e coinvolgente che ha visto la luce dopo quasi vent'anni di carriera al servizio di tantissimi musicisti, in formazioni e generi musicali molto diversi, e al termine di un percorso esplorativo e di ricerca nell'uso del violoncello e della voce.
La serata di Loano ha permesso ai molti appassionati presenti di conoscere e apprezzare Simona Colonna e a noi di gettare le basi per questa intervista.




Simona, a Loano hai vinto le selezioni di "Suonare a Folkest" contro avversari molto motivati e di qualità. Ti aspettavi questo riconoscimento da parte della giuria?

«Sinceramente no. Speravo in un secondo posto che mi avrebbe comunque spalancato le porte del festival di Spilimbergo ma non pensavo di poter vincere. Ne sono stata felicemente sorpresa».

Nel corso della serata hai presentato i brani del cd "Masca vola via". Come è nato questo disco?

«Dopo vent'anni di carriera passati in giro per il mondo a cantare e suonare, quattro anni fa ho deciso di fermarmi un po' in Italia, a casa mia a Baldissero D'Alba, un piccolo paese del Roero, e dedicare un po' di tempo e attenzione alle mie radici. Così è nato il desiderio di cantare in lingua piemontese alcuni dei profili del mio territorio, tra cui le masche, le storie di emigranti di contadini e altri. Con la canzone "Masca vola via" ho vinto il Biella Festival nel 2011 e il premio prevedeva, oltre a un contratto per un anno con un ufficio stampa di Roma, l'"Alfa Prom", anche una piccola partecipazione economica per un progetto in corso ed ecco che il mio cd si è materializzato. Ho unito le mie forze artistiche e finanziarie a questo fortunato concorso ed eccomi qua con "Masca vola via", cd che sto proponendo ormai da due anni in giro per il mondo».

Il tuo approccio alla musica tradizionale non è certo convenzionale. Come mai hai scelto di utilizzare violoncello e voce per presentare le tue canzoni?

«La voce è l'emanazione diretta dell'essere umano e del mondo. E il violoncello assume la stessa funzione tra gli strumenti. Ecco qua la risposta: due cose vere in un unico risultato sonoro».

Nei cinque brani del disco racconti un Piemonte del passato fatto di leggende, personaggi bizzarri della tradizione contadina, briganti. Chi o che cosa è stata la tua fonte di ispirazione?

«La mia fonte sono i ricordi. I miei nonni che mi raccontavano le loro tradizioni, un sacco di aneddoti interessanti e al tempo stesso divertenti, insoliti ma veri. Poi, la lingua piemontese che continuo a parlare con chi ancora la parla. E poi mi piace raccontare e attraverso la musica e le parole dei brani lo si può fare in modo così coinvolgente e interessante».
Simona Colonna a Loano. Foto di Martin Cervelli

Se da una parte i testi e le storie richiamano la tradizione non altrettanto si può dire della musica che abbraccia il classico contemporaneo e anche il jazz…

«È vero. Credo sia indispensabile guardare avanti, senza dimenticare però il passato e le radici. E allora perché non mischiare generi contemporanei, armonie moderne che possiamo trovare nei generi pop e jazz con ricordi e parole del passato? Io credo che funzioni, ne sono fermamente convinta! Per me la cosa è geniale. Quindi, credo che possa piacere questo mix di tante variegate sfumature se proposte in modo elegante e divertente».

Al giorno d'oggi pensi che in Italia sia ancora possibile tramandare le tradizioni popolari fuori dai centri di provincia? Mi spiego meglio con un esempio: le storie che racconti troverebbero terreno fertile in una metropoli come Torino?

«Penso di sì. Penso che sia solo il modo e le persone che fanno la differenza. Non è semplice attrarre l'attenzione del pubblico, delle persone, specialmente al giorno d'oggi dove tutto è veloce e superficiale, ma se proponi in maniera accattivante e genuino e, specialmente, in modo competente il pubblico ascolta. È più faticoso per l'artista arrivare a questo risultato ma sicuramente anche più interessante e appagante, non trovi? È così in tutte le cose della vita».

Trovo che sia molto interessante la scelta fatta di presentare nel libretto allegato al cd i testi delle canzoni tradotti in italiano e inglese. Ma non pensi che cantare in piemontese possa a lungo andare essere un limite?

«A mio avviso non è assolutamente un limite, anzi penso sia un punto in più a favore di chi lo fa. Basta trovare la formula giusta. Per come la penso io, la lingua, che come la musica è comunicazione, ha solo bisogno di bravi propositori e interlocutori. Io non faccio solo musica in piemontese ma anche! Quindi racconto cantando di quello che so attraverso i miei linguaggi».

Quando si parla di musica tradizionale del Piemonte si pensa subito alla scuola Occitana. La tua musica però non si colloca in tale ambito a dimostrazione di una cultura molto più variegata di quello che si possa immaginare. Quali sono le tante anime che compongono la tradizione musicale della regione e con quale ti senti più in sintonia?

«Mi definisco un'anima camaleontica perché amo stare in mezzo a persone che hanno differenze di cultura, di formazione e nelle vita stessa quindi non mi sento più in sintonia con un parte o l'altra. Sto bene perché sono curiosa e quindi abbraccio più generi, più linguaggi e più suoni possibili. Anzi, se posso cambio, cambio ma le radici sono profondamente legate alla mia terra e mai lo rinnego. Il risultato è il mio modo di essere artista».

Quali sono i tuoi prossimi progetti artistici?

«Difficilissima domanda. Vorrei incontrare Peter Gabriel e cantargli "Masca vola via" e sono seria, ma più concretamente sto scrivendo, scrivendo e scrivendo nuova musica. Sto finendo una collaborazione importante con Rai World per un programma dal titolo "Community" che mi ha dato modo di reinterpretare le più belle canzoni italiane del nostro patrimonio per voce e cello. Chissà, magari pubblicare un nuovo lavoro discografico che unisca qualche brano di questi e qualche cosa di mio, ancora non so… Ma i progetti che mi stanno più a cuore sono i concerti. Il live offre a tutti emozioni da pelle d'oca che vanno assolutamente provate, non pensi? Cerco di propormi per cantare e suonare la mia opinione sulla musica e che il linguaggio sia bianco, nero, jazz classico o folk non ha importanza. Importante è l'anima attraverso i suoni».



Titolo: Masca vola via
Artista: Simona Colonna
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2012

Tracce
(testi e musiche di Simona Colonna)

1. Bacialè
2. Masca vola via
3. Ninnaoh
4. Portme via da si
5. Brigante Stella