Si intitola "Hard times come again no more" ed è il primo disco dei Pulin and the little mice, gruppo savonese di musica folk sulle scene ormai da diversi anni. In questo album Marco Crea,Marco Poggio, Giorgio Profetto e Matteo Profetto hanno dato una loro personale lettura a brani della tradizione americana e irlandese. Canzoni note a chi ha avuto il piacere di assistere ad un loro concerto, sicuramente tutte da scoprire per chi non è un esperto del genere. Undici episodi rivisitati con l'ausilio di una strumentazione
rigorosamente acustica che fanno da filo conduttore a un viaggio che parte dalla Liguria e che fa tappa nella verde Irlanda, per ripartire alla volta della Guascogna e poi dell'America del 1800 con le sue vaste praterie e la Grande Depressione, e nel secolo successivo con Leadbelly e i padri della musica folk e con Woody Guthrie che suona la sua "this machine kills the fascists". È un viaggio
piacevole, vissuto in prima classe e organizzato con cura minuziosa dai Pulin and the little mice ma anche un invito alla ricerca di tanta musica che merita solo di essere riscoperta e valorizzata.
Il disco prende il titolo dalla famosa canzone di Stephen Collins Foster del 1854 che in questi ultimi anni ha trovato una nuova giovinezza grazie alle interpretazioni di Bruce Springsteen in occasione del Wrecking Ball Tour, di Mavis Staples, di Iron & Wine, di Paolo Nutini insieme ai Chieftains e di tanti altri. La canzone di Foster chiude il disco e il testo tradotto in italiano trova spazio sul retro copertina.
"Hard times come again no more" è un prodotto che ha visto coinvolte alcune delle migliori realtà del savonese: la registrazione è stata curata a Loano da Alessandro Mazzitelli, vero punto di riferimento per i musicisti della provincia e non solo, mentre la grafica è di Alex Raso che ha lavorato con gusto a tutto il packaging.
Ecco di seguito l'intervista "collettiva" ai Pulin and the little mice.
Come è avvenuta la scelta delle canzoni che presentate nel disco?
«Abbiamo selezionato, fra i pezzi che proponiamo dal vivo, quelli che ci sembrava potessero "dire qualcosa", in cui magari gli arrangiamenti fossero diversi dalle versioni originali. Per tutti i brani è stato così, tranne per "Hard times come again no more", brano che chiude e che dà il titolo al disco, il cui arrangiamento, non a caso, è completamente diverso da tutti gli altri».
Curiosa ma azzeccata l'idea di legare brani diversi per creare piccoli medley a tema. Come vi è venuta questa idea?
«Credo che, insieme all'uso di più voci, sia la caratteristica più importante della band. Il tutto è dettato dal nostro cercare di "vedere" la musica (almeno quella di origine popolare) senza vincoli geografici né storici. D'altronde l'incontro musicale tra differenti culture ha prodotto, in passato come in tempi recenti, risultati a dir poco straordinari. Ed è questo il messaggio che, nel nostro piccolo, cerchiamo di trasmettere a chi ci ascolta».
C'è molta Irlanda in questo disco, forse più di quella che normalmente presentate dal vivo. Mi sbaglio?
«In realtà, per puro caso, i brani irlandesi sono a pari merito con quelli di origine americana, anche se c’è spazio per un rondò della Guascogna così come per un brano tradizionale ligure. Per quanto riguarda i concerti, dipende un po’ dalle situazioni, non teniamo mai una scaletta fissa, quindi a volte può capitare di dare più spazio a un certo tipo di sonorità piuttosto che ad un'altra. Comunque siamo indubbiamente debitori, nonché grandi ammiratori, della cultura musicale irlandese».
Tra tutte queste canzoni della cultura anglosassone c'è un accenno strumentale a un motivo tradizionale ligure: "Baccicin vattene a ca". Perché questa scelta?
«Il set che abbiamo chiamato "Sweet Durin" in cui è inserita "Baccicin vattene a ca" in realtà dal vivo è inserita all’interno di un set di canzoni francofone. Ci sembrava che questa melodia potesse sposarsi bene con "Sweet Marie" e che l’armonica sola potesse rendere efficacemente il brano. Ci piaceva l'idea di usarlo come ponte tra la prima e la seconda metà del disco, attraversando, inoltre, nel nostro viaggio musicale, anche la Liguria».
Ascoltando il disco mi pare di capire che avete lavorato molto sulle voci. E' così?
«Dal vivo cerchiamo di usare con più impegno possibile le armonie vocali (senza esagerare che non siamo CSN&Y) e dal momento che il disco è composto da brani che proponiamo anche nei concerti, la scelta è stata per così dire obbligata».
"Hard times come again no more" è l'ultima canzone ed è anche il titolo dell'album. Un riferimento anche ai tempi amari che devono vivere i musicisti emergenti?
«Il titolo del disco può essere visto da ognuno secondo le proprie sensazioni; per questo motivo il testo del brano omonimo è l’unico di cui si può trovare la traduzione in italiano, nel retro copertina. Certo non è un momento facile per l’Italia e per le persone, ma di sicuro, in scala più piccola, ognuno di noi ha vissuto e vive dei momenti difficili, in cui l’unica motivazione che ti spinge a superarli è il pensiero e l’impegno nel non volerli rivivere mai più».
Quanto sono durate le sessions di registrazione?
«Ecco, questa è forse l’unica vera pecca della registrazione del disco. Ci abbiamo messo più di due anni, un’infinità. Probabilmente abbiamo un po’ pagato la nostra assoluta inesperienza in studio di registrazione, che malgrado possa sembrare un ambiente "più protetto" rispetto a un palco, è al contempo disorientante se non lo conosci. Inoltre abbiamo registrato il disco nel tempo libero, cercando di essere sempre tutti presenti. A tutto questo bisogna aggiungere il fatto che siamo quattro ragazzi a cui piace vivere le cose senza fretta, non è nella nostra indole forzare i tempi».
Quando avete capito che eravate sulla strada giusta?
«E chi lo sa se sia stata la strada giusta? A parte gli scherzi, per tre di noi è stata la prima esperienza in studio, non siamo partiti con un'idea precisa del risultato finale».
E' il vostro primo disco, quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato?
«Mah, come dicevamo prima, è stato tutto molto bello, a posteriori, ma essendo stata un'esperienza inedita per noi, ci siamo scontrati con un mondo completamente sconosciuto, dalla registrazione (a volte non in diretta), al mixaggio, ai tempi lunghissimi, alla burocrazia, alla scelta della copertina».
Molto simpatica e riuscita la copertina…
«Grazie! Abbiamo valutato diverse ipotesi e alla fine abbiamo scelto quella. Ci siamo anche dati un'interpretazione che lega il titolo alla copertina, ma entriamo in discorsi difficili…».
A chi consigliate questo disco?
«Ovviamente a tutti! Uomini, donne, bambini, nonni, coppie, cani e animali di ogni genere. A parte gli scherzi, abbiamo cercato con questo disco, e ancor di più durante i concerti, di mettere del nostro nella musica che suoniamo, evitando di essere solo degli esecutori, infondendo nei brani un briciolo della personalità d'ognuno di noi, nell'umile tentativo di incuriosire chi ci ascolta e avvicinarlo alla musica che amiamo così tanto».
Cosa cambia per i Pulin and the little mice adesso che avete un disco pubblicato?
«Sicuramente la consapevolezza di poter condividere la nostra passione con il pubblico non solo attraverso i concerti».
Dopo un album di cover quale sarà il vostro prossimo passo?
«Come forse si è capito da quanto detto in precedenza, il discorso cover per noi non ha una grossa importanza, visto anche che quasi tutti i brani che suoniamo in concerto sono, ai più, praticamente sconosciuti. Tutto sommato il nostro obiettivo in questo senso è sempre stato quello, come accennavamo prima, di metterci del nostro dal punto di vista dell’arrangiamento, degli accostamenti, delle esecuzioni, poi che il brano sia d’autore, tradizionale o composto da noi importa abbastanza poco. Il prossimo passo? E chi lo sa!»
Qual è il vostro disco preferito di sempre?
«Questa è una bella domanda, a cui è veramente complicato rispondere, essendo quattro teste diverse, ma d’altronde, per contratto, siamo costretti a rispondere "Hard times come again no more" dei Pulin and the little mice».
Titolo: Hard times come again no more Gruppo: Pulin and the little mice Etichetta: autoproduzione Anno di pubblicazione: 2014
Tracce
01. Ain't no grave gonna hold my body down / The old maid of Galway
02. Patrick was a gentleman / Dennis Murphy's polka / The wistful lover
03. The auld triangle
04. Hard travelin' / Seneca square dance
05. St. James infirmary blues
06. Sweet Durin (Sweet Marie + Baccicin vàttene a cà)
07. Goodnight Irene / I always knew you were the one
08. Deep Ellum blues
09. You don't knock
10. Star of the County Down / La passade
11. Hard times come again no more
"Una coraggiosa e intima esplorazione sonora nel mondo del contrabbasso". Ha usato queste parole Paolo Fresu per descrivere il disco d'esordio, in veste di compositore e solista, del musicista genovese Federico Bagnasco. Ne "Le trame del legno", questo il titolo dell'album, il suono del contrabbasso e la sperimentazione elettronica curata da Alessandro Paolini si fondono in un abbraccio sonoro non convenzionale. Elettronica, mai invadente, che sviluppa ed enfatizza i suoni del contrabbasso e le capacità e la fantasia dello strumentista rendendo
possibili soluzioni inaspettate e creando un universo sfaccettato sempre
godibile. Le canzoni, tutte inedite, si susseguono con estrema naturalezza dando vita ad un incessante fluire, ricco di colori e suggestioni. Un suono puro e cristallino che rapisce l'ascoltatore mantenendo una costante tensione sia in occasione di brani più ritmici che in divagazioni oniriche.
Federico Bagnasco è artista poliedrico che ha lavorato in diversi ambiti: dall'orchestra a formazioni cameristiche, dall'accompagnamento di cantautori allo studio della musica antica e contemporanea, da occasionali incontri in ambito jazz e folk all'impegno in spettacoli teatrali. Tutta questa varietà di esperienze e studi ha permesso al musicista genovese di sviluppare un linguaggio personale e un approccio alle diverse tecniche del contrabbasso che trovano la giusta esaltazione in questo album.
Ce ne parla lo stesso Federico Bagnasco in questa intervista.
Federico, complimenti per il disco. Devo riconoscere che al giorno d'oggi, in cui alla musica si dà un veloce ascolto, ci vuole coraggio a produrre un album come il tuo...
«Credo che in questo momento in Italia ci voglia coraggio a scegliere di fare il musicista e a perseverare nella scelta, ciò a prescindere dal mio album. Se uno è forte (o debole) di questa scelta e dei sacrifici che ne conseguono, il resto è un coraggio leggero, lieve, uno dei tanti che si compiono
inevitabilmente quando si agisce. Il mio è un progetto un poco anomalo, me ne rendo conto, ma per altri versi potrebbe essere più coraggioso, o altrettanto coraggioso, esporsi con qualcosa di più conforme allo standard, più paragonabile al conosciuto, più facilmente sottoponibile al giudizio altrui. Se d'altra parte il coraggio è corrispondente all'azione dell'osare, del mettersi in discussione ed esporsi con qualcosa di differente, fuori standard, allora potete anche darmi del leone, o per non esagerare, quantomeno del gatto selvatico».
Dicono che i musicisti debbano avere una buona dose di pazzia nel loro dna. Pensi anche tu di far parte di questa categoria?
«Francamente sì, seppur moderatamente e in maniera adeguatamente controllata. La pazzia è l'altra faccia del coraggio e, come sopra accennavo, in questo paese e in questo momento storico, diventano entrambe caratteristiche imprescindibili di questa professione, o forse più in generale di chiunque voglia fare un qualsiasi lavoro seriamente e con passione. E la pazzia, è risaputo, spesso è anche l'altra faccia della passione».
Come ti è venuta l'idea di registrare un disco puntando solamente sui suoni del contrabbasso e un po' di elaborazioni elettroniche?
«L'idea è nata lentamente un bel po' di anni fa: ho aspettato le circostanze favorevoli per metterla in pratica, cioè un po' di soldi da parte e un po' di tempo da investire. Credo che alla base ci sia stato un bisogno di fare tutto un lavoro in solitario e senza dover rendere conto a nessuno, una sfida, quasi, con i miei mezzi e i miei limiti. Il mio lavoro di musicista mi porta ovviamente a mettermi innanzitutto al servizio dell'arte altrui, di una musica scritta, di un artista da accompagnare, di un gruppo di cui esser parte, di un contesto, di un datore di lavoro. A un certo punto ho voluto provare a mettermi in gioco e vedere cosa ne usciva; ho aspettato finché il desiderio non ha assunto un carattere di urgenza e dunque ho agito. Ho inoltre sempre avuto una forte attrazione per il lavoro in studio di registrazione: la possibilità di fermare la musica, di fissarla, di rubarne l'ineffabilità che le è propria, e creare qualcosa che rimane, costruire l'opera così come il pittore fa il quadro o lo scrittore il libro, senza intermediari (o meglio concedendo questo ruolo soltanto all'apparecchio riproduttore, allo stereo di chi ascolta). Una volta accettato che un disco è un'operazione artificiale, che poco ha a che fare con la musica suonata dal vivo, il passo per manipolare a posteriori del materiale suonato è breve, e si enfatizza così l'aspetto da artista-demiurgo che plasma e manipola se stesso, correggendosi, cambiandosi, comandando e "gestendo il tempo". Il contrabbasso è il mio strumento, che studio da anni e con il quale lavoro e mi esprimo, dunque, in coerenza con quanto detto sopra e in un'ottica ovviamente anche di risparmio, evitando di coinvolgere altri strumentisti, l'idea si è palesata da sé. Imponendomi una coerenza dal non usare materiale sonoro che non derivasse dal contrabbasso, mi sono lasciato libero di poter avere diversi approcci dal punto di vista compositivo ed esecutivo; questo è stato un altro importante stimolo».
Devo ammettere che quando mi hai parlato del disco ero un po' scettico e invece mi sono dovuto ricredere: è un album stimolante, per niente noioso, e cresce con l'ascolto senza essere ripetitivo. Qual è il segreto?
«Spero che questa tua sensazione possa essere condivisa anche da altri ascoltatori, io ho fatto il possibile perché sia così! Credo che il segreto, per così dire, sia legato a una certa facilità che io personalmente ho ad annoiarmi: qui ho cercato di fare qualcosa che innanzitutto non annoiasse me. Ogni brano ha una storia e un percorso diverso, un differente approccio con lo strumento o con l'elettronica, e ciò dà molta varietà al lavoro nel suo complesso, pur mantenendo una coerenza sotto il profilo timbrico, poiché ogni suono è generato dal contrabbasso. Inoltre i brani sono mediamente brevi, una media di circa tre o quattro minuti, con la sola eccezione di "Residui" di sette minuti, e anche questo credo contribuisca a evitar la noia».
Quanto c'è di improvvisato in questo disco e quanto di studiato a tavolino?
«Difficile dirlo. Anche perché c'è molta improvvisazione studiata a tavolino. Ci sono almeno tre brani scritti e definiti già prima di entrare in studio, e altri cinque solo parzialmente scritti o adeguatamente già strutturati; anche in questi casi il lavoro in studio giocando con l'elettronica ha contribuito molto alla ri-creazione dei brani. Il resto è completamente nato in studio: improvvisando e manipolando poi le improvvisazioni, improvvisando con l'elettronica in tempo reale - in live electronic- modellando a tavolino il materiale registrato. Un work in progress».
Quando sei entrato in sala di registrazioni avevi ben presente il risultato che volevi raggiungere?
«No, lo avevo presente all'incirca. Mi era chiara la modalità di lavoro, i limiti del lavoro, gli obiettivi che volevo raggiungere e il tipo di suono e di ricerca sul suono che volevo "rappresentare". Il risultato finale mi si delineava man mano che il lavoro procedeva, mi sono preso tutto il tempo di cui sentivo il bisogno, per capire innanzitutto cosa stavo cercando, e poi per trovarlo».
Come si sono svolte le sessioni di registrazione e quanto sono durate?
«Sono durate moltissimo, un modo di lavorare molto poco consueto oggigiorno. Abbiamo lavorato fondamentalmente in tre sessioni di circa un mese ciascuna, quando impegni personali o professionali, miei o di Alessandro o dello studio, non imponevano altrimenti, comunque per un totale che supera le cento ore di studio; più un breve periodo a mesi di distanza per il suono e il mixaggio complessivo. Ciò che ha reso possibile tutto è stata la collaborazione con Alessandro Paolini, e in particolare la sua disponibilità - seconda solo alla sua competenza - nel venirmi incontro per la realizzazione del tutto. La modalità di ogni sessione di lavoro la decidevo man mano, ma il grosso è stato fatto davanti al computer, valutando assieme e sperimentando diverse soluzioni. Il risultato finale è frutto di diverse scelte: un bel po' di materiale registrato non è stato poi utilizzato, così come qualche tentativo di manipolazione non ci ha convinto e non lo abbiamo portato a termine».
Ottimo disco, dicevamo, ma ha un limite: l'impossibilità di suonarlo dal vivo. Non pensi che questo possa rappresentare un problema?
«Sì, un enorme problema, soprattutto perché oramai i cd si vendono più che altro ai concerti! Infatti ho intenzione di trovare la soluzione al dilemma, e sto iniziando a preparare la versione live del progetto: alcuni brani potranno essere eseguiti con adeguata manipolazione elettronica in tempo reale, abbastanza fedeli al cd, altri subiranno delle opportune modifiche. Non si sentiranno soltanto delle differenze rispetto al disco, la mia intenzione è quella di sfruttare uno spazio sonoro in quadrifonia e un adeguato supporto di subwoofer, tutti particolari che l'ascolto casalingo o in cuffia non può fornire. Sarò accompagnato ovviamente da Alessandro, anche in veste di secondo contrabbassista - …ci siamo conosciuti proprio perché compagni di studi ai tempi del conservatorio - e da Emilio Pozzolini come altro musico elettronico. Il mio suono verrà manipolato in tempo reale in diverse maniere. Tutto è ancora da preparare, ma nelle mie intenzioni, vorrei presentare il cd questo autunno in diverse città, vedremo…».
Che cosa vorresti che le persone sentissero nella tua musica?
«Mi ritengo già soddisfatto se la sentono, o meglio se la ascoltano, come è sempre più difficile che accada. Come rilevi tu nella tua prima domanda c'è oramai la tendenza a un ascolto molto superficiale della musica; siamo circondati da un sacco di stimoli musicali, al limite, o forse già oltre il limite, dell'inquinamento acustico, eppure raramente siamo capaci di fermarci o soffermarci ad ascoltare. Oggi la modalità più comune di fruire della musica avviene su Youtube, magari perdendosi nei dettagli visivi, nei commenti, nello spazio di un social network, credo che questo sia abbastanza significativo».
C'è un episodio che ha dato il via a questa avventura?
«Francamente non saprei, direi che è stato un bisogno crescente di un'idea che prendeva forma mentre spingeva per realizzarsi».
Dove speri che possa portarti questa esperienza discografica?
«Spero possa essere un biglietto da visita per future collaborazioni, magari per altri lavori in studio, o per concerti. Ma non mi sono posto molto il problema delle aspettative, è un lavoro che ho fatto innanzitutto per me, una cosa che avevo in testa e che avevo bisogno di buttar fuori, ovviamente nella speranza che possa interessare, incuriosire o rapire un possibile ascoltatore».
Ascoltando il disco ho immaginato di adattare le canzoni a un film, magari a un thriller o a un film che analizza la psicologia dei personaggi. Hai mai pensato di scrivere musiche per film?
«Sì, e mi piacerebbe molto. Per il momento ho fatto poche cose simili, un cortometraggio, un documentario non ancora pubblico, la sonorizzazione di una mostra, oltre ad avere collaborato con alcuni compositori per musica da film. Io ci penso insomma, ma bisogna anche che qualcuno che fa film pensi a me, perché ciò accada. In ogni caso mi farebbe piacere che alcune tracce di questo album possano essere adoperate in qualche contesto, magari per film, per installazioni, per coreografie, secondo me si prestano e io sono ben disposto a prestarle».
Quale sarà il prossimo passo nella tua carriera artistica?
«Come già ho accennato: la versione live di "Le trame del legno"; un altro progetto a cui sto già lavorando, la produzione di un audiolibro con musica; alcune ricerche musicologiche sulla storia del contrabbasso. Questo è un altro settore che mi ha molto impegnato in prima persona».
Quali sono i pro e i contro di essere un solista?
«Nell'accezione in uso nella musica classica, "solista" è un termine che è ben distante dalla mia persona - di solito si intendono quei pochi musicisti che si esibiscono abitualmente come concertisti in recital o concerti solistici con le orchestre - e francamente anche grandissimi contrabbassisti che conosco ci vanno abbastanza cauti nel definirsi solisti. In un senso più generico posso dirti che proporre un progetto da leader o addirittura in solitario, può essere prima di tutto una fonte di soddisfazione, e inoltre, se il risultato prodotto riesce ad avere un suo mercato, ovviamente il guadagno può essere maggiore rispetto a musicisti al servizio di progetti non propri. I contro sono legati innanzitutto allo sforzo e all'investimento che bisogna fare per la realizzazione del progetto, e all'esposizione che si crea, il "metterci la faccia", la responsabilità, insomma. Solitamente si tratta di un impegno maggiore, di una maggiore difficoltà sotto il profilo tecnico-strumentale, ed esecutivo in senso lato. A ciò si aggiungono tutti gli aspetti organizzativi, di produzione e di promozione, se non si è seguiti da qualcuno e se non si dispongono di liquidità da investire ulteriormente in questi aspetti. Ma qua mi fermo, giacché non vorrei alimentare luoghi comuni sui genovesi e l'attenzione al denaro. Al di là di qualsiasi contro, è forte il piacere nel produrre qualcosa che ti appartiene e che è parte di te, e che può essere consegnata ad altri e condivisa; è un modo per rapportarsi con gli altri, per comunicare; è un gioco, tutto sommato, che fa star bene».
Titolo: Le trame del legno Artista: Federico Bagnasco Etichetta: Old Mill Records Anno di pubblicazione: 2014
Tracce
(musiche di Federico Bagnasco, eccetto dove diversamente indicato)
01. Spire
02. Apnea
03. Tempo al tempo
04. Coincidenze combinate [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
05. Sbracato snob
06. I am sitting in a bass [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
07. Velato
08. AbIpso
09. Sterpi e frattaglie [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
10. Legno pesante [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
11. In Vano [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
12. Comunque
13. Residui
14. Lunari di Giada
"Songs about Lou" è il quarto capitolo discografico de Les Trois Tetons, gruppo savonese che da più di vent'anni porta in scena il verbo del rock'n'roll fatto di grinta, sudore e fisicità. A tre anni da "Dangereyes", la band capitanata dal cantante Roberto "Zac" Giacchello è tornata a far parlare di sé con un album che conferma l'ormai matura capacità di viaggiare nei territori del rock, dai Clash agli Stones, del blues del Delta e di certa psichedelia.
Indossate le camicie e lasciate sui palchi di mezza Italia l'energia, la carica emotiva e una buona dose di follia, il gruppo si è chiuso negli studi del Punto d'Incontro Italo Calvino a Loano, sotto la direzione di Alessandro Mazzitelli, per registrare questo nuovo progetto discografico. Un lavoro di équipe, e lo si capisce anche leggendo i crediti - sei brani sono scritti da Alberto Bella, quattro da Giorgio "Barbon" Somà, altrettanti da Roberto "Zac" Giacchello e uno a quattro mani da Giacchello e Bella -, che aggiunge qualche elemento importante alle esperienze precedenti. Una crescita artistica che ha portato il gruppo a sperimentare e a creare una sorta di concept album, diviso in due atti e una ouverture, che racconta le gioie e i dolori del personaggio Mister Lou. A impreziosire il disco vi è la partecipazione del funambolico violinista Fabio Biale che mette a disposizione il suo strumento in tre brani.
Con Zac abbiamo parlato della genesi del disco e dell'enigmatico personaggio Mister Lou.
Quando abbiamo fatto la nostra ultima chiacchierata, ormai un anno e mezzo fa, avevate 4-5 canzoni e una serie di abbozzi. Adesso eccoci qui a parlare di "Songs about Lou"...
«È andato tutto abbastanza velocemente. Le registrazioni sono iniziate a novembre e si sono concluse a gennaio. Non ci sono stati intoppi e tutto è filato liscio ed eccoci con "Songs about Lou" che è uscito all'inizio di aprile».
Iniziamo dal titolo e dalla dedica a Lou Reed…
«C'era già l'idea di intitolare il disco Lou o qualcosa di simile, poi nel corso delle registrazioni è morto Lou Reed ed è venuto spontaneo dedicargli il nostro disco. Lou Reed è sempre stato fondamentale per la nostra musica, prima con i Velvet e poi da solo ha inciso molto sul nostro stile».
La traccia numero due del disco è appunto intitolata "Mister Lou"...
«È una canzone abbastanza lunga e articolata scritta da Burbon con una vena un po' autobiografica. Vi ha messo la sua visione del mondo, come pensa che le persone lo vedano. Una visione molto personale anche se un po' romanzata naturalmente. "Mister Lou" è stata una delle prime canzoni del nuovo album».
Mister Lou è anche il personaggio che ritroviamo in tutte le canzoni del disco...
«Quando abbiamo iniziato a scrivere queste canzoni non erano necessariamente collegate tra loro. Con "Mister Lou" è venuta l'idea di creare questo personaggio che poteva vivere delle avventure o disavventure nel corso di una storia. Quindi abbiamo provato a collegare le varie canzoni ed è per questo che nel disco ci sono anche brani brevissimi che non avrebbero senso estrapolati dal contesto».
Avete diviso il disco in due atti, quasi a voler richiamare la separazione in due facciate dei vecchi ma mai tramontati LP.
«Inizialmente c'era anche l'idea di pubblicare una versione in vinile ma per il momento l'abbiamo accantonata per questione di costi. La scelta di dividere l'album in due atti è dovuta anche al fatto che la storia si divide in due parti: nella prima viene presentato il personaggio, Mister Lou, con tutti i suoi problemi, i suoi travagli e il momento in cui decide di lasciare tutto e partire; la seconda parte descrive le avventure di questo personaggio».
C'è quindi volutamente anche una differenza di umore tra le canzoni del primo atto e quelle del secondo?
«In parte può essere vero visto che la prima parte racconta il disagio dell'esistenza che può essere in tutti noi. Il personaggio del disco vive questa situazione fino al punto di rottura e c'è appunto una canzone in cui dice 'basta, devo preparare tutto e andare via'».
C'è un lieto fine?
«Il finale è aperto a varie soluzioni, non c'è necessariamente una conclusione certa. L'ultima canzone descrive il ricordo di un amore che può dar vita al rimpianto oppure alla decisione di tornare indietro, non si sa. A me piace che sia l'ascoltatore a scegliere il finale preferito. È più bello non credi?».
Quale esperienza ha condizionato la lavorazione del disco?
«Non c'è stato un evento particolare ma una serie di situazioni che ci hanno portato a decidere di fare un disco diverso dai precedenti. Alberto ha avuto l'idea di pubblicare un concept album e per tutti noi è stata una situazione nuova. Penso che l'operazione sia pienamente riuscita».
Trovo che musicalmente sia più compatto e omogeneo rispetto al vostro precedente disco...
«Ci tenevo molto a fare un disco che fosse incentrato sul suono di due chitarre elettriche, un basso e una batteria. Credo che l'omogeneità e la compattezza del suono siano date dal fatto che tutti i pezzi sono suonati con la stessa strumentazione. C'è qualche intervento di violino ma non c'è una chitarra acustica e anche le seconde voci le abbiamo ridotte al minimo indispensabile. Ho voluto che fosse un disco abbastanza grezzo e diretto. Anche in occasione delle esibizioni dal vivo questa scelta ha i suoi vantaggi non essendo costretti a cambiare strumenti quando si passa da una canzone all'altra».
Non credi che usando sempre la stessa strumentazione possa esserci il rischio che i brani suoni un po' troppo simili tra loro?
«Devo dire che forse è più facile fare canzoni un po' tutte uguali e poi diversificarle con l'arrangiamento e la strumentazione. Invece noi partendo dalla voglia di mantenere costante gli strumenti utilizzati abbiamo dovuto cercare di variare molto dal punto di vista musicale. Le canzoni del disco sono molto varie come struttura, un po' diverse da quelle che abbiamo suonato in precedenza. È un disco molto live, le parti di basso, chitarra e batteria sono state registrate in presa diretta. Abbiamo sovrainciso solo la voce, qualche assolo, il violino e le armoniche».
Rock'n'roll è e rimane ma questa volta c'è questo filo conduttore che lega le canzoni. "Songs about Lou" è il vostro primo concept album…
«Il concept è un format molto utilizzato dal progressive però anche il rock'n'roll ha partorito dischi che ruotano attorno a un unico tema o sviluppano una storia, penso allo "Ziggy Stardust" di David Bowie o lo stesso "New York" di Lou Reed. Decidere di provare a realizzare un concept è stato un ulteriore stimolo per dare un corso diverso a un album che altrimenti avrebbe finito per essere un raccoglitore di canzoni scritte in un determinato periodo e scelte perché suonano bene insieme».
Quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato nella realizzazione del disco?
«Sicuramente nel cercare di legare le varie canzoni in modo che fluissero e che le atmosfere fossero simili. Siamo stati obbligati a pensare non solo alla canzone del momento ma anche a quella che precedeva e a quella che veniva dopo. Più complicato sicuramente».
Altro aspetto interessante è rappresentato dall'overture che apre il disco...
«Mentre registravamo mi è venuto in mente che c'era un disco bellissimo dei Blood, Sweat & Tears intitolato "Child is father to the man", suonato molto bene, intenso, articolato che spazia dal jazz alla bossa nova, con arrangiamenti dei fiati pazzeschi. In quel disco c'è proprio l'overture in cui vengono esposti i temi delle varie canzoni e noi abbiamo provato a fare una cosa simile anche se non ci siamo completamente riusciti perché di temi ne abbiamo messi solo tre e non dodici come invece avremmo dovuto. Però mi sembra che renda bene come inizio, è una bella botta e anche dal vivo è interessante iniziare con uno strumentale. Non lo avevamo mai fatto».
In tre canzoni del disco suona anche il violinista Fabio Biale. Come è nata questa collaborazione?
«Sono quei casi fortunati della vita. Non vedevo Fabio da molto tempo e sono andato a trovarlo nel suo negozio. Abbiamo parlato del disco e mi ha detto che gli avrebbe fatto piacere suonare un paio di pezzi con noi. Gli ho mandato dei brani da ascoltare e lui, con la sua maestria e il suo gusto, ha dato un bel contributo. È bravo sia come musicista da studio che sul palco, è una presenza che ti dà una marcia in più. Abbiamo avuto anche la fortuna di averlo con noi in occasione del concerto di presentazione del disco che si è tenuto al Raindogs a Savona. Speriamo di averlo nuovamente con noi in qualche altra occasione».
Alessandro Mazzitelli, oltre ad aver svolto egregiamente il lavoro di fonico, ha suonato il tanpura nella canzone "Wide mouth". Perché questa scelta?
«Questo pezzo si dilata un po' nella parte centrale, è una improvvisazione, una canzone più libera, un po' alla Grateful Dead per intenderci. L'abbiamo incisa tre-quattro volte e poi abbiamo scelto la seconda take, se non ricordo male. Risentendo la traccia, a Mazzitelli è venuta l'idea di aggiungere il suono di un tanpura, uno strumento indiano che devo ammettere non conoscevo, e il risultato è interessante. Contribuisce a creare una particolare atmosfera».
Torniamo alla canzone "Wide Mouth". Nelle note del disco si legge che è ispirata al racconto scritto da Luca Oddera e intitolato "Bocca larga". Ci puoi dire qualcosa in proposito?
«Oltre a essere un amico e il proprietario del Beer Room di Pontinvrea, uno dei locali più belli della zona, Luca ha la passione per l'Africa, dove ogni anno trascorre parecchi mesi. Ma per chi non lo sapesse è anche un bravo scrittore. I suoi libri sono memoriali di viaggio. Attualmente ne ha uno in cantiere che ho avuto la fortuna di leggere. È molto più romanzato, ci sono racconti a volte più concreti altre volte più onirici. Tra tutti i racconti c'è questo "Bocca larga" in cui ci sono una serie di immagini particolari che mi hanno molto colpito. Ne ho estrapolate alcune e ne ho scritto un testo in inglese. Essendo il racconto molto onirico lo abbiamo messo su un giro di basso di Alberto sul quale poi abbiamo continuato a jammare facendo improvvisazioni anche di 10-15 minuti. Alla fine gli abbiamo dato una forma canzone con due parti cantate intervallate da una parte strumentale. È stata una operazione un po' rischiosa perché non sapevamo dove saremmo andati a parare, poteva anche essere un 'polpettone' e invece ho visto che la canzone piace e dal vivo ha un impatto interessante».
Vedo che hai dato seguito all'esperimento di cantare anche in tedesco inserendo una strofa in "Asphaltnacht". Anche se devo confessarti che dopo "Berlin 1987" mi aspettavo più coraggio da parte tua...
«Un testo intero in tedesco non mi oso ancora cantarlo. Però questa è di nuovo una bella storia. A ispirarmi è stato un film del 1980, "Asphaltnacht", che in Germania è un cult. Un amico tedesco mi ha dato il dvd di questo film che penso non sia mai uscito sottotitolato. L'ho visto tre-quattro volte di seguito e mi ha entusiasmato. Ho preso spunto da queste avventure e qualche frase in tedesco ci stava bene».
Sbaglio o questo è il primo disco con Davide Incorvaia alla batteria?
«Sì, esatto. Davide è con noi da due anni e ha preso il posto di Guido che per dodici anni è stato il batterista del gruppo e aveva dato una impronta precisa al nostro suono. Davide devo dire che si è inserito benissimo e ha dato un bel contributo. Era molto motivato anche perché era il primo disco che faceva con noi. È stato bravissimo, preparato anche in fase di pre-produzione e poi si è rivelato essere un ottimo grafico, siamo stati fortunati».
Infatti, anche la copertina e la grafica del disco è opera di Davide...
«Ed è la prima volta che abbiamo una copertina disegnata e non una fotografia che ci ritrae. Anche questa è una bella novità. Il disco è pieno di belle novità».
Titolo: Songs about Lou Gruppo: Les Trois Tetons Etichetta: autoproduzione Anno di pubblicazione: 2014
Tracce
01. Overture [Bella]
02. Mister Lou [Somà]
03. Hey Girl [Somà]
04. Green is the dream [Somà]
05. Midnight crisis [Bella]
06. Breaking point [Somà]
07. Weeping willow [Bella]
08. Leaving [Bella]
09. I won't be back for Christmas [Giacchello]
10. Asphaltnacht [Giacchello]
11. Wide mouth [Giacchello/Bella]
12. Throne made of bones [Giacchello]
13. After the laughter [Bella]
14. Peculiar [Bella]
15. Long fingered hands [Giacchello]
"Yes I'm Mister No" è l'ultimo capitolo della trilogia musicale che Graziano Romani ha dedicato ai personaggi dei fumetti creati da Sergio Bonelli. Dopo Zagor e Tex, il cantautore emiliano racconta le avventure e descrive la personalità di Jerry Drake in un disco (distribuzione Panini) pubblicato in questi giorni e acquistabile in tutte le edicole. Un lavoro che non esce dalle strade ben tracciate del rock che Romani conosce bene per averle percorse in più di trent'anni di onorata carriera, ma che si arricchisce con influenze che spaziano dal rhythm'n'blues al jazz. Il disco è composto da nove brani inediti che raccontano Mister No e quattro canzoni della tradizione americana degli anni Trenta che Romani canta con la sua inimitabile voce profonda e graffiante. A valorizzare ulteriormente l'album vi è la partecipazione di Carolyne Mas, una delle figure più importanti della scena newyorkese di fine anni Settanta e recentemente tornata in Italia per una serie di fortunati concerti. La Mas duetta a modo suo, toccando le corde dell'anima, sul classico "When the saints go marching in".
Il fondatore dei Rocking Chairs, gruppo che negli anni '80 ebbe un discreto successo con quattro album all'attivo, si avvale anche della collaborazione in studio di alcuni dei componenti della band di quegli anni quali il tastierista Franco Borghi, il chitarrista Mel Previte e il sassofonista Max "Grizzly" Marmiroli. Le percussioni sono state affidate invece al poliedrico Oscar Abelli, capace di aggiungere quelle sonorità latine che colorano le storie cantate da Romani.
Di seguito l'intervista di presentazione che ci ha gentilmente concesso Graziano Romani.
Graziano, il tuo nuovo disco ha come protagonista Mister No. In cosa ti assomiglia il personaggio creato da Sergio Bonelli?
«Innanzitutto credo che Mister No sia il personaggio bonelliano in assoluto più 'musicale' e quindi mi ci ritrovo in pieno. Con tutti i richiami agli anni '50 e al primo rock'n'roll, al rhythm'n'blues, al jazz, al gospel, al folk. Già all'inizio della mia carriera, quando fondai i Rocking Chairs, cercavo di rifarmi a quelle origini della musica popolare nordamericana amata in tutto il globo. Mi ritrovo anche nel carattere del personaggio: anticonformista, indipendente, cocciuto, determinato e perché no anche vulnerabile, umano, passionale e sincero».
Questo è il tuo terzo episodio discografico legato a un personaggio dei fumetti. Come e quando hai avuto l'idea di farti ispirare da queste storie?
«Tutto è iniziato con lo scrivere e concepire una canzone per Zagor, ovvero "Darkwood". Poi ci ho preso gusto e ho scritto anche tutti gli altri brani che sono andati a formare l'ossatura del disco "Zagor king of Darkwood", album che ho realizzato con il benestare e l'aiuto del grande e indimenticabile Sergio Bonelli. Poi la logica e inevitabile conseguenza è stata quella di realizzare un intero album dedicato a Tex, sempre con il grande Sergio a darmi consigli e a spronarmi. Un paio di anni fa ho poi deciso di chiudere questa trilogia bonelliana con il personaggio Mister No, e l'ho voluto come un vero e proprio tributo a Sergio 'Nolitta' Bonelli. L'ho creato non tanto ispirandomi alle sue storie, ma proprio cercando di sviscerare l'essenza dell'uomo e dell'eroe, anzi antieroe. E spero di esserci riuscito».
Quando è iniziata questa tua passione per i fumetti?
«Da molto piccolo. Avevo dei cugini e degli zii che mi passavano interi scatoloni di Topolino, Blek e Miki, Tiramolla, Geppo, Soldino e mille altri... E in quegli scatoloni ci giocavo e ci dormivo letteralmente dentro! Crescendo non ho mai abbandonato questa passione. Prima è toccato agli eroi di Bonelli e a quelli americani della Marvel, fino all'adolescenza con Linus ed Eureka, Metal Hurlant e i fumetti underground. Insomma il fumetto, insieme alla musica ovviamente, è la mia passione. Ma mi interessa tutto quello che riesce ad emozionarmi, ad appassionarmi».
Il tuo rapporto con i fumetti è a tutto campo, so che recentemente hai contribuito alla prima ristampa integrale del Prince Valiant di Hal Foster. Ce ne parli?
«Conoscevo l'eccelsa e recente ristampa americana della saga di Prince Valiant, e ho suggerito l'idea di realizzare una ristampa italiana all'editore Renoir/Nona Arte che ha accettato con entusiasmo. Sono il curatore e traduttore della collana, il terzo volume è in uscita e sto terminando il lavoro di traduzione del quarto che uscirà a ottobre, giusto in tempo per la kermesse di LuccaComics. Sono anche diventato una specie di 'saggista' del fumetto, inizialmente scrivendo dei volumi a quattro mani con il grande Moreno Burattini dedicati ai grandi del fumetto italiano come Gallieno Ferri, Giovanni Ticci e Guido Nolitta. Poi per Panini ho ideato la collana di artbooks che ho chiamato "L'Arte di", monografie dedicate ai maestri del fumetto. I primi due volumi sono stati dedicati ad Aurelio 'Galep' Galleppini, ovvero il creatore grafico di Tex, e a Gallieno Ferri, uno dei due papà di Zagor. Ora sto lavorando a un terzo volume, dedicato a un grande maestro americano di comics...».
Il fatto che esistano personaggi da raccontare già ben delineati rende più agevole la fase compositiva delle tue canzoni?
«Ovviamente questo fatto mi permette per certi versi di approcciarmi alla scrittura come se fosse destinata ad una soundtrack, alla colonna sonora di un film. Ma per contro c'è la difficoltà nel rendere bene il carattere e l'essenza del personaggio e fare stare tutto nel breve tempo di una canzone di quattro minuti. A me interessa emozionare con le mie canzoni, e non è fondamentale descrivere minuziosamente le storie, l'importante è che la canzone risulti evocativa ed efficace, e a giudicare dall'entusiasmo degli appassionati credo di esserci riuscito. Se non ami davvero il personaggio non ha senso scriverci delle canzoni, credo».
Martin Mystère, Dylan Dog, Nathan Never, Brendon… hai già pensato al prossimo capitolo?
«Per ora considero la trilogia bonelliana Zagor/Tex/Mister No un capitolo chiuso. Apprezzo anche i personaggi da te citati ma per ora mi fermo qui. Certo che di idee ne avrei, vedremo».
Nel disco hai inserito anche quattro classici degli anni Trenta. Come è avvenuta la scelta di questi episodi musicali e quali difficoltà hai incontrato per attualizzare queste canzoni?
«La scelta è avvenuta attingendo dalla 'top ten' dei brani preferiti di Sergio Bonelli che era un vero appassionato e cultore degli standard jazz. "Body and soul" era la sua preferita in assoluto, e poi era inevitabile citare Sinatra e quella "When the saints go marching in" che accompagna l'eroe in tante avventure. È stata una bella sfida, una cosa molto stimolante visto che questo genere di canzoni così classiche non l'avevo mai interpretato, non si smette mai di assimilare e di crescere, e questi brani mi hanno insegnato molto».
Carolyne Mas ha dato il suo brillante contributo in "When the saints go marching in". Come è nata questa collaborazione?
«Compravo i dischi in vinile di Carolyne da ragazzo alla fine degli anni '70, erano opere molto belle e sincere, lei era una 'chanteuse' del rock mainstream molto amata in Europa e spesso veniva definita una 'Springsteen in gonnella', mi piaceva molto. La conobbi nel 2006 quando facemmo una serie di concerti assieme in Italia. Poi siamo rimasti in contatto, e in occasione di un suo concerto a Casalgrande, il mio paese d'origine, l'ho invitata in studio di registrazione per duettare con me. Lei ha accettato con entusiasmo e ha cantato con l'anima».
"La vita è dura e so cosa è giusto e cosa è sbagliato, per sopravvivere devi essere tosto" canti nella title track e per fare il musicista per trent'anni che qualità bisogna possedere?
«Proprio quelle che ho scritto nel testo della canzone, e tante altre ancora. Devi imparare dagli errori, non smettere mai di creare ed evolverti. E devi stare sempre vicino al pubblico, cercare di emozionarlo con sincerità, condividere con lui la gioia che è fare musica e raccontare storie e idee tramite essa. La canzone non deve mai essere la stessa, e il fuoco non deve mai spegnersi, è importante stare sempre accesi».
In "Trust myself" parli di reciproca fiducia e di un rapporto che cammina su un terreno instabile. Qual è la tua ricetta per uscire da queste situazioni?
«Ognuno ha la sua ricetta. Forse l'onestà e il rispetto sono gli ingredienti fondamentali per la durata di un rapporto, ma ognuno queste cose le vive e le vede come vuole, e "Trust myself" credo sia una canzone in cui ci si ritrovano in tanti, non solo Jerry Drake alias Mister No!».
C'è anche una tua visione ecologista nell'album. In "Lost Paradise" canti "...Paradiso perduto, noi viviamo tu muori, i nostri peccati non saranno perdonati". Qual è la tua visione della società di oggi e quanta importanza può avere la musica nell'affrontare queste problematiche?
«Le problematiche del mondo di oggi purtroppo le conosciamo bene, sono sotto gli occhi di tutti. E, come spesso hanno detto, la musica o semplicemente una canzone non potrà cambiare il mondo ma può tenere accesi i nostri sogni, i nostri ideali, stimolarci verso un cambiamento. È quello in cui ho sempre creduto».
Cosa farai nei prossimi mesi?
«Sarò in studio di registrazione a seguire i mixaggi per la realizzazione di un disco dal vivo, un doppio live ufficiale che ancora manca nella mia discografia. È la testimonianza integrale di un mio concerto dell'agosto 2013, uno show molto intenso che in un certo modo fa il punto su una carriera iniziata nel lontano 1981, toccando i miei brani in inglese, in italiano e che comprende anche una manciata di covers di prim'ordine: degli Who, di Springsteen, di Chuck Berry e di Woody Guthrie. Uscirà nel 2015 e sarà il mio ventesimo album, un capitolo importante. E poi vedremo, di certo non mi fermerò, continuerò a cavalcare l'onda delle mie due grandi passioni, la musica e il fumetto, finché ne avrò le forze immagino. E resterò acceso».
Titolo: Yes I'm Mister No Artista: Graziano Romani Etichetta: Panini Comics Anno di pubblicazione: 2014
Tracce
(testi e musiche di Graziano Romani, eccetto dove indicato)
01. Yes I'm Mister No
02. Amazonas hotel
03. Esse-Esse
04. Cachaca girls
05. Body and soul [Edward Heyman/Robert Sour/Frank Eyton/Johnny Green, 1930]
06. You make my heart sing like Sinatra
07. I've got you under my skin [Cole Porter, 1936]
08. Trust myself
09. Lost paradise
10. When the saints go marching in [traditional, 1930s]
11. My funny Valentine [Richard Rodgers/Lorenz Hart, 1937]
12. Soul traveler (to Sergio)
13. Jerry's farewell
Nuvole grigie e basse all'orizzonte, una strada ferrata che si perde nell'infinito e una desolazione che rimanda ai tempi che sta attraversando la nostra società. E' una visione in bianco e nero quella raffigurata sulla copertina di "Il lato sbagliato della strada", disco d'esordio di Carlo Ozzella & Barbablues. Una fotografia che solo la musica può colorare con le giuste sfumature e l'artista milanese e il suo gruppo lo fanno utilizzando i pennelli a tinte forti del rock sanguigno, intriso di sudore e fatica. Nelle tredici tracce del disco dimostrano di aver imparato bene la lezione. Una 'lezione' iniziata per Ozzella nel 1996 quando assiste in televisione all'esibizione di Bruce Springsteen al Festival di Sanremo. Quella "The Ghost of Tom Joad", cantata dall'artista del New Jersey con chitarra e armonica, avvicina Ozzella ai cantautori americani e il passo successivo, fatto di ascolti, concerti dal vivo, approfondimenti musical-letterari, chiude il cerchio.
"Il lato sbagliato della strada" è forse uno degli album più springsteeniani pubblicati negli ultimi anni in Italia. Non solo da un punto di vista musicale ma anche della poetica. Ozzella racconta le incertezze, la rabbia e le speranze del nostro tempo e lo fa con un minuzioso lavoro sui testi, carichi di istantanee e sequenze a tratti cinematografiche. Il fallimento della politica e il malaffare, la delusione per i sogni disattesi, le speculazioni finanziari che giocano con i destini delle persone sono alcuni dei temi affrontati ma nelle canzoni c'è anche la voglia di lasciare 'il lato sbagliato della strada', di cercare la via del riscatto, di trovare il coraggio per scrivere una nuova storia, senza arrendersi. Un disco brillante, fresco e ben suonato che merita di essere scoperto e riposto nello scaffale più in vista, sempre a portata di mano.
Nell'intervista che segue abbiamo approfondito la conoscenza di Carlo Ozzella e dei Barbablues.
Carlo, hai intitolato il disco "Il lato sbagliato della strada" ma qual è per te il lato giusto da percorrere?
«Senz’altro quello dell’onestà, verso gli altri e verso sé stessi. Inseguire le proprie vocazioni, non accontentarsi, vivere tutto ciò che accade pienamente, fino in fondo, accettando anche la rabbia e la malinconia che spesso tutto ciò comporta, quando ci si sente sconfitti e senza più scelta. La società di oggi spesso ci delude, ci costringe a pensare che certe cose possano andare in un solo modo. Che tu non possa cambiare la tua vita, che sia meglio farsi furbo e scegliere la via più facile, che ci sarà sempre qualcuno che si arricchirà alle spalle di un altro, che il malaffare continuerà a dilagare. Che sia tu insomma ad essere sul "lato sbagliato". Il brano che dà il titolo all’album parla proprio di questo, di questo sentimento di frustrazione che però a un certo punto è capace di trasformarsi in forza, in nuova vita quando si realizza che non si è soli in realtà in questa condizione, che la vita che ci è data può essere ben spesa, che c’è una nuova giornata e una nuova storia sempre dietro l’angolo pronta a incominciare».
Nelle canzoni affronti i temi della quotidianità e della crisi dei giorni nostri con un piglio grintoso. Pensi che la musica sia più uno strumento di denuncia o di "consolazione"?
«Io credo che il bello della musica stia proprio nel fatto che è entrambe le cose! Ha il potere di veicolare certi messaggi e di farli arrivare con molta più forza rispetto a un semplice discorso perché carichi della forza emotiva che viene dalla melodia, dai suoni, dal ritmo, ma nello stesso tempo quegli elementi sono anche al servizio del piacere, delle belle sensazioni che un canzone deve suscitare all’orecchio e al cuore. Quando suoniamo dal vivo "Al momento della resa" stiamo senz’altro lanciando un messaggio molto forte, ma nello stesso tempo cerchiamo di coinvolgere il pubblico in un rito musicale collettivo, spensierato, dove tutti saltano e cantano con noi: l’essenza più pura del rock & roll! Tutto il mio approccio alla musica si muove lungo questi due estremi: da una parte la vivo come la cosa più importante al mondo, dall’altra cerco sempre di ricordarmi che... it’s only rock & roll!».
Quale canzone senti più tua e perché?
«"Il vento quando passa". E’ quella che considero anche più personale e dolorosa, perché legata a un triste episodio, la morte di un carissimo amico con cui sono praticamente cresciuto. Ricordo che la sera stessa in cui tornai a casa mia, dopo essere stato a trovarlo e aver appreso della malattia che lo aveva colpito, presi il quaderno e scrissi di getto i versi di questo pezzo, praticamente già nella forma che hanno oggi. Di solito i miei quaderni sono pieni di pagine di riscritture, rimaneggiamenti, correzioni. Puoi vedere frasi sparse, parole che dopo alcune pagine iniziano a unirsi, ad avere una forma fino a che non si arriva molto tempo dopo alle liriche finali. In questo caso era come se ci fosse una mano invisibile a guidarmi, come se il pezzo in qualche modo già esistesse e chiedesse solo di essere scritto. Sapevo che lo stavo scrivendo per lui, per farglielo avere e dargli forza, dirgli di non mollare. Sono contento di essere riuscito a farglielo ascoltare e di aver dedicato a lui questo disco. Ma come abbiamo scritto nella dedica... "addio: vietato piangere"».
Quanto tempo hai dedicato a questo lavoro discografico?
«Il precedente EP "Dove comincia la notte" è uscito a maggio del 2011. Questo disco a luglio del 2013. Fanno quasi due anni. Purtroppo non facendo il musicista a tempo pieno nella vita (e lo stesso discorso vale anche per i ragazzi della band) bisogna far coincidere tanti impegni, di lavoro, familiari… Noi non andiamo in studio due settimane e usciamo con il disco finito. Procediamo a piccoli passi, man mano che le canzoni nascono, le registriamo in diversi momenti fino a che a un tratto non si delinea all’orizzonte un disco. A quel punto iniziamo a marciare un po’ più serrati, mettendo sempre più a fuoco cosa va e cosa non va. Per il futuro mi piacerebbe essere più veloce, riuscire a concentrare il momento creativo in un intervallo di tempo più breve, più compatto. Chissà, magari un giorno riuscirò a lasciare il mio lavoro e a dedicarmi totalmente alla musica».
Le influenze della produzione springsteeniana sono evidenti. Cosa avresti fatto nella vita se non avessi incontrato Springsteen sulla tua strada?
«Me lo sono chiesto spesso ed è un gioco divertente perché in realtà incontrare Springsteen per me ha significato molto di più che l’appassionarsi semplicemente a un autore. Ha voluto dire scoprire a 360 gradi il panorama del rock, entrare a pieno in una cultura che in fondo è anche un modo di vivere, che ti cambia la vita. Ha voluto dire conoscere persone che poi sono diventate fondamentali nella mia esistenza. Senza quella svolta, sono certo che non solo avrei fatto altro nella vita (probabilmente mi sarei dato alla letteratura), ma sarei anche stato una persona completamente diversa».
Ma non c’è solo Springsteen nella tua formazione musicale. Mi sbaglio?
«Certo che no. Quando ho iniziato a suonare la chitarra a 11 anni mi sono avvicinato alla musica dei grandi cantautori italiani: De Gregori, Guccini, De Andrè. E’ stata una formazione fondamentale, mi ha insegnato l’importanza della parola, dei testi, che in alcuni casi nel rock americano sono relegati in secondo piano. Credo che tutti loro abbiano scritto pezzi memorabili, nel caso di Faber autentici capolavori che non esito a porre sullo stesso piano, se non superiore, delle cose migliori di Dylan, altro mio grande amore. Poi, dopo la scoperta di Springsteen e del rock, mi sono buttato a capofitto sulle origini di questo genere, sui capostipiti: Elvis, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry, Little Richard, Ray Charles. Non puoi pensare di fare lo scrittore e non conoscere Dante e Petrarca. E poi il blues, il rhythm and blues, il folk. Cerchi sempre di arricchire il tuo bagaglio culturale e musicale. Un genere che adoro e che non mi dispiacerebbe un giorno integrare con qualche influenza nella mia produzione è la musica celtica. Dalle ballate tradizionali irlandesi, suonate con fiddle e whistle, fino al celtic rock in stile Pogues o Dropkick Murphys, ho una vera e propria passione per questo genere di sonorità».
Il testo della canzone "L'ombra" parla di pallottole nel cuore, mani che stringono altre mani, di colpevoli e condanne. E' un atto d'accusa nei confronti di chi?
«Credo che tantissime persone come me vedano ormai con disgusto e delusione tutto ciò che ha a che fare con la politica: i partiti, gli esponenti, il governo… Senza distinzione di schieramento (anche perché spesso le distinzioni fanno fatica a vedersi). Con il forte rischio, è vero, che la generalizzazione e la semplificazione si facciano spazio. Ma la colpa non è nostra, è loro. La percezione che si ha è che la politica, che dovrebbe svolgere una altissima funzione, quella di governare e rendere migliori le condizioni di vita dei cittadini, svolga invece una funzione opposta: si occupa del benessere di pochi, agisce spesso nell’illegalità (lei che dovrebbe garantire la legalità), penalizza i cittadini. In questa canzone ho voluto raccontare la rabbia che tutto ciò suscita, il disprezzo anche violento verso questi personaggi viscidi, falsi. Con la speranza che se non sarà una condanna vera e propria a fermarli ci pensi almeno l’ultimo avanzo della loro coscienza imbruttita».
"Da che parte vuoi trovarti all'alba quando il cielo esploderà, al momento della resa dove andrai?". Questo è uno dei versi di "Al momento della resa". Ma Springsteen non ti ha insegnato che non bisogna arrendersi?
«Nessuna resa mai! Come canta il mio amico Massimo Priviero... E’ una lezione importante, cercando di affermarmi come musicista credo di averla imparata piuttosto bene, considerate le difficoltà che si devono affrontare. Ma la resa di cui parlo in quella canzone ha un senso più ampio, figurativo: è una sorta di giudizio finale, una resa dei conti. Che prima o poi dovrà pure arrivare. E in quel momento sarà davvero importante capire da che parte si è scelto di stare, quali decisioni hanno governato la tua vita. Insieme a "L’ombra", questo pezzo è tra i più duri e arrabbiati del disco, ancora una volta mi rivolgo a una casta, questa volta avevo davanti agli occhi i signori della finanza, quelli che muovono soldi ma sempre nella direzione dei più ricchi. Di nuovo la stessa storia, un gruppo ristretto di persone che ha il potere di decidere della vita di tante altre persone. Ho voluto immaginare uno scenario futuristico di guerriglia, di rivolta, cosa potrebbe succedere se davvero a un tratto le persone stanche ed esasperate decidessero di reagire e di rivoltarsi. Non sto offrendo questa soluzione violenta, se guardi bene noterai che le immagini che aprono la canzone non sono piacevoli, il fumo, la polvere da sparo, il respiro che manca... Volevo che suonasse più come un avvertimento».
Ci sono tante albe nelle tue canzoni. Come vivi il passaggio dalla notte al giorno?
«E’ un momento della giornata che mi piace. L’alba è l’inizio e per me rappresenta sempre una nuova possibilità, la chance che hai a disposizione per portare avanti il tuo sogno, per correggere ciò che hai sbagliato il giorno prima, per fare meglio. Più simbolicamente, è una nuova luce che arriva e in questo senso solitamente ha una valenza positiva, di rinascita».
Il disco si chiude con la canzone "Comunque vada". E' un invito ad andare avanti nonostante le inevitabili decisioni sbagliate e occasioni perse. In che direzione va la tua strada?
«In questo momento mi sembra di camminare su due strade, non esattamente parallele: da una parte c’è la mia vita ordinaria, quella di un normale ragazzo che fa la sua vita, va tutte le mattine a lavorare, torna a casa dalla sua famiglia e nel weekend va a farsi un giro. Dall’altra c’è la mia vita artistica, i concerti, la scrittura delle canzoni, le prove, lo studio, i dischi, i contatti. Ogni tanto si incontrano, si scontrano, ogni tanto tutto non ci sta in 24 ore... Ma in questo momento non c’è alternativa e andrà avanti così per un po’, probabilmente per sempre, non mi ci vedo proprio a smettere di suonare. Spero che questo duro lavoro riesca a premiarmi un giorno, e che alla fine la vita artistica possa davvero prendere il sopravvento. Ma sono tempi duri per gli emergenti».
Perché nel disco canti anche alcune canzoni in inglese?
«Ci sono delle melodie che in qualche modo si sposano molto meglio con un testo in inglese, la metrica che la musica richiede non trova facile corrispondenza con quella offerta dai termini italiani e quando ciò è accaduto ho deciso di provare a scrivere in inglese. Mi è piaciuto e così sono venute fuori altre canzoni. Però sono stato abbastanza restio per un po’ all’idea di includerle nel disco, non ero certo che affiancare brani in italiano e brani in inglese nello stesso lavoro fosse la scelta giusta. E ancora non lo sono... (ride). Però erano buone canzoni e ho pensato che in fondo in un disco d'esordio era giusto offrire una visione completa di quello che ero, che anche altri artisti avevano optato per una scelta simile e soprattutto che cantare in inglese avrebbe permesso senz’altro alla mia musica di avere un target di pubblico più vasto».
Il suono, come dicevano, è molto americano, e per renderlo al meglio ti fai accompagnare dai Barbablues. Ce li presenti e come vi siete incontrati?
«Il prossimo settembre saranno 15 anni che questa band esiste. Ci siamo incontrati grazie ad un annuncio: c’era questa band, in cui suonavano già Max e Fede, che cercava un cantante. All’epoca avevo appena compiuto diciotto anni, loro erano già sulla trentina, mi hanno visto arrivare e... erano un po’ dubbiosi! Ma quando abbiamo iniziato a suonare... scintille! Con Federico Melzi, chitarrista, ci ha subito legato l’amore per Springsteen. Su quel terreno abbiamo costruito un’amicizia che si è poi trasformata in fratellanza. Ci sentiamo praticamente tutti i giorni, ci consultiamo in ogni scelta importante e sul palco è davvero la mia controparte scenica, il supporto su cui costruisco lo show, non solo quello musicale. Massimo Miglietta, il batterista, ha un background musicale diverso, ama il pop, il funky, ma anche il rock. Ha una grande sensibilità musicale, un ottimo orecchio, e mi dà spesso utili consigli nella stesura e nell’arrangiamento dei pezzi. Anche con lui c’è un rapporto speciale, quando c’è da organizzare un viaggio o una vacanza siamo sempre in contatto diretto, ci piace fare queste cose insieme. Qualche anno dopo quel primo incontro sono arrivati Andrea Marsili, al basso, Stefano Gilardoni al pianoforte e Claudio Lauria al sax. Andrea è uno degli uomini più divertenti che io conosca, ha un’ironia immediata che ti piega in due. Oltre a suonare il basso con note che non ti aspetteresti. Stefano è senz’altro il musicista più dotato di noi, suona il piano ma anche la chitarra, il violino, il flauto, il mandolino, studia il cinese, ha studiato il russo... è un vulcano! E abbiamo una passione in comune per l’Irlanda e la musica irish. Infine Claudio, virtuoso del sax. Può improvvisare su qualunque pezzo e ha un amore spropositato per la musica, suonerebbe sempre. Ha davvero un cuore grande e generoso».
Quali sono le tue letture preferite e che importanza hanno i libri per un cantautore?
«Sono un vero e proprio amante dei libri. Come tutti gli appassionati per uno che ne leggo ne compro altri tre. Ma mi piace pensare che una libreria sia come la dispensa di casa, non è che ogni giorno si compra solo ciò che si mangerà la sera! Amo un sacco i gialli, i thriller, soprattutto quelli storici. Ho una grande passione per il Medioevo e quindi leggo con piacere tutto ciò che vi è ambientato. Ho letto tanto anche gli autori francesi, da Sarte a Camus. Ultimamente sto leggendo anche qualche noir, in particolare Izzo tra gli stranieri e Carlotto tra gli autori italiani. Ho un debito nei loro confronti contenuto in questo disco. Una frase di "Disillusion Town" è la traduzione del titolo di un capitolo di "Casino totale" di Izzo, "even to lose you gotta know how to fight", mentre l’immagine della pallottola "solenne come una sentenza" la devo a Carlotto e al suo "Arrivederci amore, ciao". Ma la letteratura, i libri, non danno solo spunti diretti come in questo caso. Mi aiutano anche a costruire certe immagini con le parole, a rendere certe canzoni dei racconti. C’è un nesso molto forte tra musica e libri, e infatti quando sono in giro nel mio zaino le cose che non mancano mai sono il quaderno degli appunti e un libro».
So che porti avanti anche un progetto musicale parallelo. Ce ne parli?
«Nel 2005 con alcuni amici musicisti abbiamo messo su una tribute band dedicata al Boss. Non poteva che essere così, tanto grande è la passione per la sua musica. Si chiama The 57th Street Band e con me ci sono anche Stefano e Claudio dei Barbablues. E’ una band di sette elementi che ricalca la E Street Band del periodo 1978-1985. Un bel sound grintoso, con due distinti musicisti a suonare piano ed hammond e il sax di Claudio che ricalca alla grande le note di Clarence. Abbiamo un repertorio piuttosto vasto, circa settanta canzoni e facciamo un sacco di serate, sia in elettrico che in acustico. Devo dire che inizialmente mi ero posto dei dubbi sul fatto di andare in giro con una cover band di Bruce. Non sai mai se devi presentarti là fuori cercando di replicare uno show di Springsteen (cosa peraltro scientificamente provato essere impossibile) o semplicemente cantare le sue canzoni, rischiando però a quel punto di creare un’eccessiva distanza, una personalizzazione non richiesta. Abbiamo deciso di collocarci un po’ nel mezzo, restiamo fedeli alle canzoni, alla grinta, con il sorriso ammicchiamo ad alcune gag che fanno parte dello spettacolo di Bruce... e poi ci mettiamo tutta la passione che abbiamo! Finora mi sembra funzioni».
Quali sono attualmente le prospettive per un artista che vuole vivere di musica?
«Hai presente la canzone dei Creedence? "Bad moon rising"... Purtroppo la situazione del mondo della discografia è ben nota, nessuno compra i dischi, nessuno investe sugli emergenti, sono pochi gli spazi dove si fa musica dal vivo originale, molto più sicuro far suonare l’ennesima cover o tribute band. Bisogna darsi da fare in proprio, investire tempo e qualche soldino, anche se bisogna ammettere che oggi è molto più semplice ed economico registrare un EP o un disco e farlo conoscere grazie alla rete. Arrivare a viverci... beh, sto scoprendo come si fa. Appena ci sono riuscito ti chiamo, ok?».
Titolo: Il lato sbagliato della strada Artista: Carlo Ozzella & Barbablues Etichetta: Avakian Productions Anno di pubblicazione: 2013
Tracce
(testi e musiche di Carlo Ozzella, eccetto dove indicato)
01. La tua ultima occasione
02. Full grace
03. Notturno
04. Il vento quando passa
05. L'ombra
06. Alla periferia della città
07. Weary and proud [Massimo Miglietta e Carlo Ozzella]
08. Trough the storm
09. Il lato sbagliato della strada
10. Disillusion town
11. Vite in gioco
12. Al momento della resa
13. Comunque vada
Voce, violoncello e una manciata di canzoni che raccontano storie della tradizione del Piemonte rurale e contadino hanno convinto la giuria ad assegnare a Simona Colonna il primo posto nella selezione nord-ovest di "Suonare a Folkest - Premio Alberto Cesa". A Loano, nella Riviera ligure di ponente, la bravura, la simpatia e la capacità di interagire con il pubblico, l'energia della performance e la carica teatrale, oltre a una esibizione tecnica mai fine a se stessa, hanno consentito a Simona Colonna di precedere nella speciale classifica di merito il Laboratorio Permanente Figurelle e i Folkamiseria. Nel corso della serata loanese l'artista piemontese ha presentato le canzoni che fanno parte del cd "Masca vola via", pubblicato due anni fa, e alcuni inediti. Brani che dipingono un quadro sonoro minimale arricchito da storie cantate in lingua piemontese capaci di sedurre e incuriosire l'ascoltatore. Un lavoro innovativo e coinvolgente che ha visto la luce dopo quasi vent'anni di carriera al servizio di tantissimi musicisti, in formazioni e generi musicali molto diversi, e al termine di un percorso esplorativo e di ricerca nell'uso del violoncello e della voce.
La serata di Loano ha permesso ai molti appassionati presenti di conoscere e apprezzare Simona Colonna e a noi di gettare le basi per questa intervista.
Simona, a Loano hai vinto le selezioni di "Suonare a Folkest" contro avversari molto motivati e di qualità. Ti aspettavi questo riconoscimento da parte della giuria?
«Sinceramente no. Speravo in un secondo posto che mi avrebbe comunque spalancato le porte del festival di Spilimbergo ma non pensavo di poter vincere. Ne sono stata felicemente sorpresa».
Nel corso della serata hai presentato i brani del cd "Masca vola via". Come è nato questo disco?
«Dopo vent'anni di carriera passati in giro per il mondo a cantare e suonare, quattro anni fa ho deciso di fermarmi un po' in Italia, a casa mia a Baldissero D'Alba, un piccolo paese del Roero, e dedicare un po' di tempo e attenzione alle mie radici. Così è nato il desiderio di cantare in lingua piemontese alcuni dei profili del mio territorio, tra cui le masche, le storie di emigranti di contadini e altri. Con la canzone "Masca vola via" ho vinto il Biella Festival nel 2011 e il premio prevedeva, oltre a un contratto per un anno con un ufficio stampa di Roma, l'"Alfa Prom", anche una piccola partecipazione economica per un progetto in corso ed ecco che il mio cd si è materializzato. Ho unito le mie forze artistiche e finanziarie a questo fortunato concorso ed eccomi qua con "Masca vola via", cd che sto proponendo ormai da due anni in giro per il mondo».
Il tuo approccio alla musica tradizionale non è certo convenzionale. Come mai hai scelto di utilizzare violoncello e voce per presentare le tue canzoni?
«La voce è l'emanazione diretta dell'essere umano e del mondo. E il violoncello assume la stessa funzione tra gli strumenti. Ecco qua la risposta: due cose vere in un unico risultato sonoro».
Nei cinque brani del disco racconti un Piemonte del passato fatto di leggende, personaggi bizzarri della tradizione contadina, briganti. Chi o che cosa è stata la tua fonte di ispirazione?
«La mia fonte sono i ricordi. I miei nonni che mi raccontavano le loro tradizioni, un sacco di aneddoti interessanti e al tempo stesso divertenti, insoliti ma veri. Poi, la lingua piemontese che continuo a parlare con chi ancora la parla. E poi mi piace raccontare e attraverso la musica e le parole dei brani lo si può fare in modo così coinvolgente e interessante».
Simona Colonna a Loano. Foto di Martin Cervelli
Se da una parte i testi e le storie richiamano la tradizione non altrettanto si può dire della musica che abbraccia il classico contemporaneo e anche il jazz…
«È vero. Credo sia indispensabile guardare avanti, senza dimenticare però il passato e le radici. E allora perché non mischiare generi contemporanei, armonie moderne che possiamo trovare nei generi pop e jazz con ricordi e parole del passato? Io credo che funzioni, ne sono fermamente convinta! Per me la cosa è geniale. Quindi, credo che possa piacere questo mix di tante variegate sfumature se proposte in modo elegante e divertente».
Al giorno d'oggi pensi che in Italia sia ancora possibile tramandare le tradizioni popolari fuori dai centri di provincia? Mi spiego meglio con un esempio: le storie che racconti troverebbero terreno fertile in una metropoli come Torino?
«Penso di sì. Penso che sia solo il modo e le persone che fanno la differenza. Non è semplice attrarre l'attenzione del pubblico, delle persone, specialmente al giorno d'oggi dove tutto è veloce e superficiale, ma se proponi in maniera accattivante e genuino e, specialmente, in modo competente il pubblico ascolta. È più faticoso per l'artista arrivare a questo risultato ma sicuramente anche più interessante e appagante, non trovi? È così in tutte le cose della vita».
Trovo che sia molto interessante la scelta fatta di presentare nel libretto allegato al cd i testi delle canzoni tradotti in italiano e inglese. Ma non pensi che cantare in piemontese possa a lungo andare essere un limite?
«A mio avviso non è assolutamente un limite, anzi penso sia un punto in più a favore di chi lo fa. Basta trovare la formula giusta. Per come la penso io, la lingua, che come la musica è comunicazione, ha solo bisogno di bravi propositori e interlocutori. Io non faccio solo musica in piemontese ma anche! Quindi racconto cantando di quello che so attraverso i miei linguaggi».
Quando si parla di musica tradizionale del Piemonte si pensa subito alla scuola Occitana. La tua musica però non si colloca in tale ambito a dimostrazione di una cultura molto più variegata di quello che si possa immaginare. Quali sono le tante anime che compongono la tradizione musicale della regione e con quale ti senti più in sintonia?
«Mi definisco un'anima camaleontica perché amo stare in mezzo a persone che hanno differenze di cultura, di formazione e nelle vita stessa quindi non mi sento più in sintonia con un parte o l'altra. Sto bene perché sono curiosa e quindi abbraccio più generi, più linguaggi e più suoni possibili. Anzi, se posso cambio, cambio ma le radici sono profondamente legate alla mia terra e mai lo rinnego. Il risultato è il mio modo di essere artista».
Quali sono i tuoi prossimi progetti artistici?
«Difficilissima domanda. Vorrei incontrare Peter Gabriel e cantargli "Masca vola via" e sono seria, ma più concretamente sto scrivendo, scrivendo e scrivendo nuova musica. Sto finendo una collaborazione importante con Rai World per un programma dal titolo "Community" che mi ha dato modo di reinterpretare le più belle canzoni italiane del nostro patrimonio per voce e cello. Chissà, magari pubblicare un nuovo lavoro discografico che unisca qualche brano di questi e qualche cosa di mio, ancora non so… Ma i progetti che mi stanno più a cuore sono i concerti. Il live offre a tutti emozioni da pelle d'oca che vanno assolutamente provate, non pensi? Cerco di propormi per cantare e suonare la mia opinione sulla musica e che il linguaggio sia bianco, nero, jazz classico o folk non ha importanza. Importante è l'anima attraverso i suoni».
Titolo: Masca vola via Artista: Simona Colonna Etichetta: autoproduzione Anno di pubblicazione: 2012
Tracce
(testi e musiche di Simona Colonna)
1. Bacialè
2. Masca vola via
3. Ninnaoh
4. Portme via da si
5. Brigante Stella
"Qualcuno stanotte" è il frutto dell'incontro tra il cantautore fiorentino Massimiliano Larocca e Antonio Gramentieri, chitarrista romagnolo nonché produttore e leader dei Sacri Cuori. Il disco segna il ritorno sulle scene di Larocca con un album a suo nome dopo molti anni di assenza. Era il 2008 quando fu pubblicato "La breve estate", il secondo disco dopo "Il ritorno delle passioni" del 2005. In questo arco di tempo il musicista fiorentino è stato uno dei protagonisti del progetto Barnetti Bros Band insieme a Massimo Bubola, Andrea Parodi e Jono Manson (il disco "Chupadero!" ha visto la luce nel 2010) e di The Dreamers con Paolo Benvegnù, Riccardo Tesi ed Erriquez (il disco "The Dreamers" è uscito nel 2012). Con questo nuovo lavoro, "Qualcuno stanotte", Larocca si allontana dai suoni roots e dalle suggestioni a tratti folk delle precedenti testimonianze discografiche per abbracciare sonorità rock, a volte più corpose in altre occasioni più scarne. Per compiere questo balzo in avanti Larocca si è avvalso della collaborazione di Antonio Gramentieri e dei componenti dei Sacri Cuori che hanno suonano nelle tracce del disco. La musica "cinematografica" dei Sacri Cuori ha portato nuova linfa e vitalità alla poetica urbana di Larocca che ha firmato dieci delle dodici tracce presenti nel cd.
La voce profonda di Larocca si sposa con testi che descrivono esperienze intime e di vita quotidiana in un susseguirsi di fotografie di "amore e salvezza". E' un disco che cresce alla distanza e che contiene una manciata di canzoni di spessore che sono destinate a rimanere a lungo. Un lavoro che funziona e che evidenzia come il percorso artistico di questo cantautore sia in grado di offrire ancora gradevoli sorprese.
Con Massimiliano è stato piacevole conversare di musica e suggestioni e quello che segue è un sunto di quella serata.
Sono passati sei anni dal tuo ultimo disco solista e quattro dal progetto della Barnetti Bros Band. Cosa hai fatto in tutto questo tempo?
«In questi anni ho lavorato con la musica in una maniera per me nuova e diversa. Mi sono impegnato a sviluppare progetti, che è poi stato anche il cammino che mi ha portato a lavorare con i Sacri Cuori. A livello discografico non è vero che sono rimasto totalmente fermo. L'anno scorso ho curato personalmente la realizzazione di un progetto, chiamato The Dreamers, che ha visto coinvolto un gruppo di ragazzi diversamente abili di Firenze. Insieme a Paolo Benvegnù, Riccardo Tesi ed Erriquez della Bandabardò abbiamo tenuto un laboratorio di scrittura di canzoni a cui hanno partecipato una trentina di ragazzi cosiddetti diversamente abili, che poi da un punto di vista creativo sono molto più abili rispetto a tanti altri. Abbiamo fatto una serie di concerti tutti insieme, abbiamo registrato questo disco. E' stata una esperienza molto bella. La musica è sempre stata quindi il mio strumento ma l'ho usata in maniera diversa, in diversi progetti ed è quello che in questo momento mi piace fare. Mi sono anche concentrato a fare promozione culturale a Firenze. Quest'anno al teatro Alfieri ho curato una rassegna che si chiama Storytellers a cui hanno partecipato anche Hugo Race, Robyn Hitchcock, Chris Eckman. E' andata molto bene».
Come è nata la collaborazione con Antonio Gramentieri e i Sacri Cuori?
«Ci conosciamo da dieci, quindici anni, non ricordo. Ma quando ci siamo conosciuti i nostri percorsi artistici erano veramente molto lontani. Era impensabile trovare un punto d'incontro. Ci sono voluti più di dieci anni per realizzare che un terreno comune l'avevamo. Siamo partiti da strade molto diverse. Io vengo dai cantautori italiani, dal rock americano degli anni '60-'70, quello che mi piace definire con l'espressione rock romantico, mentre Antonio ha fatto un percorso più da musicista anche se ha sempre lavorato a stretto contatto con la canzone. La mia terra d'elezione si è sempre divisa tra New York e il Texas, Antonio guardava all'Arizona dei Calexico, ai Giant Sand, a Steve Wynn. Questo è stato un po' il suo orizzonte che si è arricchito strada facendo anche di elementi insospettabili come la musica folk della Romagna, quindi il liscio. Io partendo dal rock romantico lungo la strada ho incontrato i cantautori italiani, il folk e certe radici della tradizione italiana».
Chi tra i due si è avvicinato di più all'altro?
«Io sicuramente, o meglio io mi sono avvicinato ad Antonio quando ho avuto veramente qualcosa da proporgli. Per il resto l'ho seguito perché il progetto Sacri Cuori mi è piaciuto fin dall'inizio e poi perché lo vedevo suonare con artisti che amo, Hugo Race ma anche Dan Stuart e molti altri».
Eppure un po' di anni sono passati da "La breve estate"...
«In questo mio percorso sono stato fermo tanti anni perché aspettavo una sorta di illuminazione, non volevo fare un disco come il precedente. L'ho sempre considerata la fase uno della mia carriera e la reputavo finita. Cercavo il punto di partenza per una seconda fase».
Dal punto di vista musicale cosa ti ha regalato l'incontro con i Sacri Cuori?
«Essenzialmente ha cambiato il mio modo di pensare la musica. L'avevo messo in preventivo, anzi sono andato a cercare Antonio essenzialmente perché volevo rovesciare le mie categorie. Fino a questo momento fare musica per me significava scrivere belle canzoni, tirarne fuori la bellezza e il romanticismo. Inoltre lavorando sulla musica elettro-acustica, il lavoro nei miei dischi precedenti era volto a restituire il suono nella maniera più fedele possibile. Invece, per riallacciarmi al discorso di prima, con i Sacri Cuori ho voluto iniziare la fase due in un modo nuovo e cambiare un po' il modo di fare musica».
Cosa hai cercato in questa collaborazione?
«Due cose mi sono sembrate particolarmente stimolanti nei Sacri Cuori e di conseguenza nella poetica sonora di Antonio Gramentieri, che è un po' la punta dei Sacri Cuori. La prima la spiego identificando la band come una sorta di organismo capace, mantenendo la propria essenza e identità, di allungarsi, dilatarsi, cambiare a seconda con quali altri organismi interagisce. Quando i Sacri Cuori suonano con un musicista è come se si scatenasse una reazione chimica dando vita a una nuova entità e questo contrasta con la cultura del musicista italiano che è prevalentemente un turnista impegnato a svolge il lavoro senza influenzarlo. Questa "officina sonora" in Arizona, a partire da Howe Gelb, è sempre esistita. Ero interessato a vedere quale poteva essere la reazione chimica che poteva scaturire dal mio incontro con i Sacri Cuori. La seconda è stata la voglia di cambiare le mie categoria musicali: non solo per quanto riguarda il suono, la canzone e la scrittura ma anche per l'idea di musica come ambiente. Nella musica dei Sacri Cuori è presente, infatti, una visione cinematografica che procede per immagini e suggestioni. Due cose che alla fine ho trovato in questa collaborazione».
Fabbriche, strade, uomini perdenti. Ci sono tutti gli ingredienti di una storia noir dedicata ai "loser" della tradizione cantautorale americana. Sei d'accordo?
«Non solo della tradizione americana, abbiamo ottimi esempi di chi ha cantato gli ultimi anche in casa nostra. Però sì, è vero che in ogni mio disco c'è una letteratura di riferimento in filigrana. La mia ambizione, per quanto possibile, è di essere letterario nella canzone. Rispetto a questo disco c'è anche una iconografia cinematografica, che è quella legata al mondo noir in bianco e nero. Però quando mi è stato chiesto di spiegare questo disco ho preferito definire le canzoni di amore e salvezza. E per me dire canzoni d'amore è una cosa senza precedenti, anche in questo c'è stato un bello scarto rispetto al passato».
In più di un episodio del disco ho ritrovato echi della produzione springsteeniana. A cominciare dal nebraskiano "Scarpe di lavoro" che mi ha ricordato "State trooper". Springsteen è uno dei tuoi punti di riferimento?
«Assolutamente sì. Ci sono canzoni la cui scrittura può tradire delle influenze della produzione di Springsteen come di molti altri, Dylan e Van Morrison in testa. "Scarpe di lavoro" è una sorta di blues un po' alla Los Lobos. Con quel ritmo ossessivo e quel riff dritto, quasi asettico. Il brano è un buon esempio di come una canzone scarna si trasformi passando attraverso vari filtri, ultimo dei quali, il più importante, è quello rappresentato dalla band. E quello che passa dalle mani dei Sacri Cuori ne esce sempre trasformato».
Cosa ti ha spinto a proporre una versione della canzone dei Gaslight Anthem "Blue jeans & white t-shirt"?
«Non ci sono particolari motivi se non che quella canzone mi piaceva veramente tantissimo, tra l'altro l'ho scoperta per caso e devo anche confessare che non sono un fan sfegatato dei Gaslight Anthem. Però quella canzone mi ha colpito subito e mi sono trovato a tradurla quasi per caso. Tratta un tema che nelle canzoni mi ha sempre toccato e commosso, che è quello dell'adolescenza e comunque delle grandi promesse dell'adolescenza. Quando siamo adolescenti ci si sente in grado di fare grandi promesse senza sentirsi bugiardi, poi questa innocenza la perdi e quando da adulto fai grandi promesse sai di essere un po' bugiardo. E forse questo è l'aspetto che mi ha sempre affascinato dell'adolescenza. Per me quella canzone è una fotografia incredibile della grande magia di quel periodo della vita. E' un tema che nel disco c'è e si lega ai miei ricordi da adolescente nel quartiere fiorentino in cui sono cresciuto; ci sono dei riferimenti personali che tra l'altro si amalgamano bene con la letteratura di cui parlavo prima».
Strade perdute" è la tua "Drive all night". Dove ti portano queste strade?
«Strade perdute è anche la mia "Madame George". Ho sempre amato queste lunghe canzoni dove alla fine quello che dava la dinamica alta-bassa, pieno-vuoto, erano sempre la voce e le parole. Volevo fare una canzone di questo tipo, dove la fine non termina mai. "Strade perdute" rientra in una certa tipologia di canzoni d'amore che sono presenti in questo disco, almeno in due episodi. "Strade perdute" sono tutti i grandi amori della vita che non si realizzano».
Nel disco c'è anche la canzone d'amore "Ti porto con me". Qual è il messaggio di questo brano?
«E' dedicata alla mia ragazza, Giulia. La capacità di parlare dei sentimenti o semplicemente della mia vita, direttamente senza filtri, mediazioni, senza utilizzare altri personaggi, è assolutamente una cosa nuova per me, è forse il più bel traguardo che ho raggiunto negli ultimi anni. "Ti porto con me" è una semplicissima canzone d'amore che dice una verità e meritava che non rimanesse nascosta».
Quanto c'è di autobiografico quindi nelle canzoni di questo disco?
«E' un disco veramente personale e non solo e non tanto perché ci sono pezzi di vita qua e là. Ci sono molte canzoni con riferimenti all'adolescenza, al quartiere in cui sono cresciuto. In "Nella città degli angeli" racconto alcune storie e parlo di certi personaggi che vivevano nella Firenze di metà anni '80, primi anni '90. Li vedevo in quel quartiere di periferie, Rifredi, dove c'era la grossa piaga dell'eroina che all'epoca si trovava dappertutto, anche sotto i sassi, e il mio quartiere ne era infestato. Vedevo ragazzi più grandi di me che si bucavano davanti a casa mia. Ho voluto raccontare Firenze, la mia Firenze come fosse una grande metropoli. Le cose personali sono anche molto più sottili della storia d'amore o dei ricordi dell'adolescenza. Sicuramente il rapporto uomo-donna ha un grosso peso. "Invisibili" e "Sottomondo" analizzano la luce e le ombre di un rapporto di coppia, d'amore».
Scommetto che le atmosfere da film western di "Le luci della città" sono di marca Sacri Cuori. E' così?
«Dici bene, è il brano che sembra più Sacri Cuori degli altri anche se era una canzone nata come una sorta di blues notturno metropolitano e loro lo hanno contaminato. E' un altro esempio di come quello che alla fine ha concorso a dare vita a questo disco siano state le tante identità, le tante suggestioni che hanno trovato insospettabilmente un terreno comune nelle canzoni».
Un netto stacco musicale si ha con "Invisibili", canzone scritta a quattro mani con Gramentieri e interpreta con chitarra e due voci. Come è nata e perché hai deciso di inserirla?
«Questa canzone non esisteva, avevo presentato ad Antonio le altre undici che avevo scelto per il disco. Avevamo iniziato il mix, quindi il disco era finito, però un giorno Antonio mi ha detto che nel disco mancava una canzone da un minuto e mezzo. Lì per lì non l'ho preso molto sul serio, non ho capito cosa volesse dire. Abbiamo finito quella giornata di lavoro e ci ho ripensato. Quella notte ho cercato in tutti gli archivi e ho provato a ricordare se avessi qualcosa del genere ma non ce l'avevo. Il giorno dopo ci siamo rivisti e ho detto ad Antonio che non avevo una canzone così. Allora gli ho chiesto se aveva una melodia carina su cui lavorare. E così mi ha mandato sul telefono questa melodia che aveva registrato in casa, suonata con la chitarra percussiva, come si sente poi nella registrazione. Il giorno dopo sono tornato da lui con il testo e l'abbiamo registrata seduti intorno a un microfono aperto con Antonio alla chitarra classica e due voci. L'abbiamo registrata così, infatti si sente che è un po' sporca sembra quasi presa per caso. Quando l'ho sentita finita ho capito e ti assicuro che se non ci fosse stato quel minuto e mezzo sarebbe stato un altro disco. Crea quella discontinuità che in un disco del genere è fondamentale affinché il cerchio si chiuda».
E' stato il colpo da novanta del produttore…
«Gramentieri lo considero un grande produttore, non tanto e non solo per gli arrangiamenti e le idee ma perché solo un grande produttore ti vien fuori con queste idee. E ripensando mi viene in mente l'episodio che mi ha citato Antonio e che credo sia descritto da Dylan in "Chronicles" e cioè che nel corso della registrazione dell'album "Time out of mind" Daniel Lanois abbia detto a Dylan che mancava una canzone d'amore. Quasi litigarono ma alla fine Dylan pare abbia scritto in cinque minuti "Make you feel my love". Sono cose belle che succedono quando lavori con i grandi produttori che sanno come tirare fuori il meglio dagli artisti».
Hai scelto una copertina old style, ricorda quelle della mitica Blue Note, e trasmette il senso del viaggio. Un piccolo film, di provincia...
«Volevo che quel mondo, quell'iconografia, quella letteratura di riferimento fosse ben chiara. Volevo che vendendo la copertina le persone sapessero il film che andavano a vedere. Il riferimento al noir o alla Blue Note con il caratteristico blu elettrico aumentano l'aspetto cinematografico. La foto e tutta la storia che si racconta graficamente possono riferirsi a tutte le canzoni del disco ma in particolare a "Strade perdute", che termina con questa donna che prende un treno senza destinazione».
Il disco lascia aperta la porta alla salvezza con "Dopo il diluvio". Qual è la formula per uscire dalla tua "City of ruins"?
«L'idea è proprio di chiudere il disco con una canzone che trasmetta il messaggio di salvezza e quindi quale migliore musica del gospel, seppur molto edulcorato, per restituire questa idea? In questo disco la salvezza può essere rappresentata dalle storie che si raccontano, dal fatto che ogni vita è unica senza precedenti. Credo che alla fine chi ascolta il disco possa scegliere di portarsi con sé una o più storie fra le tante, personali o impersonali non fa differenza, che sono raccontate. Una bella storia se te la porti dietro tutta la vita penso che sia sempre fonte di conforto e consolazione e quindi anche di salvezza».
Il sound dei Sacri Cuori è inconfondibile, lo porterai anche in tour?
«Insieme abbiamo tre date tra aprile e maggio, poi vediamo per l'estate. Quando ci sarà modo e occasione le si faranno. Quando invece non sarò con loro farò in modo che quello che è nato sul disco non sia un limite. Gli arrangiamenti di queste canzoni penso che siano molto aperti, che dicano tanto ma che non dicano tutto. Ognuna di queste canzoni poteva essere sviluppata ancora di più. Proverò a catturare dal vivo, in una formula diversa da quella presentata con i Sacri Cuori, quel margine di ancora non detto che si cela in ogni canzone. Portando però con me quella che è stata la cosa più importante di questa esperienza con loro, cioè il modo diverso di pensare la musica. Credo alla fine di questo disco di aver fatto un salto in avanti come musicista e cantante ed era quello che andavo cercando».
Titolo: Qualcuno stanotte Artista: Massimiliano Larocca Etichetta: Brutture Moderne/Audioglobe Anno di pubblicazione: 2014
Tracce
(testi e musiche Massimiliano Larocca, eccetto dove indicato)
01. Angelina
02. Scarpe di lavoro
03. Le luci della città
04. Magnifici perdenti
05. Strade perdute
06. Sottomondo
07. Invisibili [Massimiliano Larocca e Antonio Gramentieri]
08. Piccolo eden [Gaslight Anthem, adattamento in italiano Massimiliano Larocca]
09. Interludio: Il Grande Caldo
10. Nella città degli angeli
11. Ti porto con me
12. Niente amore (in questa città)
13. Dopo il diluvio