martedì 24 febbraio 2015

"Dietro il Mondo" eretico dei Laik-Oh!






Con "Dietro il Mondo" i Laik-Oh! aprono la finestra su un universo visionario dominato da atmosfere cupe e sinistre e in cui l'uomo deve fare i conti con le proprie paure e disillusioni. La band mantovana, al suo esordio discografico, lo descrive in sette canzoni dalla grande potenza evocativa e con un suono suggestivo che abbraccia l'elettronica e pesca in ambito dubstep e alternative. Un suono sperimentale, pulsante e in continuo movimento che plasma le storie e i racconti in un unicum dal sapore amaro. Canzoni che raccontano lo sconforto dell'uomo nel momento in cui si rende conto che i cardini della società e i concetti su cui ha basato la sua esistenza sono illusori e menzogneri. Solo in rari frangenti del disco i Laik-Oh! fanno entrare un piccolo sprazzo di luce, di speranza, in questo mondo e in questa società disillusa.
Bastano pochi secondi di ascolto del disco per ritrovarsi immersi al centro di questo universo, avvolti da abiti pesanti, dalle tinte scure e carichi di disillusioni. Con "Secoli di stragi", canzone che apre il disco, i Laik-Oh! puntano il dito contro ogni genere di violenza giustificata da moventi religiosi. E proprio la laicità e la profonda delusione nei confronti delle autorità eclesistiche sono uno dei punti di partenza da cui si sviluppa il pensiero del gruppo. Nel disco si affronta anche il tema del viaggio e dell'Oriente, visto come possibile via di fuga da questa società.
Il gruppo, nato agli inizi del 2012, è composto da Mattia Bortesi (voce e sintetizzatori), Michele "Panf" Mantovani (chitarra, sintetizzatori, loops e beats), Luca Peshow (basso e cori).
Ed è stato Mattia Bortesi a rispondere alle domande dell'intervista che ci fa scoprire questa nuova interessante realtà musicale.




Inizio questa intervista chiedendoti il significato del nome del vostro gruppo…

«"Laik-Oh!" significa sostanzialmente laico, ovvero "aconfessionale". Una scelta figlia del fatto che l'essere slegati da qualsiasi autorità ecclesiastica (ma potrei dire anche l'esserne profondamente delusi) era un po' uno degli aspetti che avevamo maggiormente in comune fin dagli inizi».

Quando è nato il gruppo?

«La band è nata tra il 2011 e il 2012 in una sala prove, scaldata con una stufetta a kerosene, che era anche difficilissima da raggiungere perché la macchina si impantanava nel fango. Michele, detto "Panf", voleva iniziare un proprio progetto electro-rock e ha chiesto a Luca di suonare il basso. Dopo qualche prova, però, si sono resi conto che serviva una voce e altre mani per suonare, così la mia insistente autocandidatura - suonavo già con Luca in un altro progetto - è risultata fatale».

Venite tutti da esperienze in ambito rock ma nel vostro disco puntate con decisione sull'elettronica con influenze dubstep e alternative. È questo l’ambito musicale in cui vi sentite più a vostro agio?

«In effetti si può dire che i nostri primi progetti musicali siano stati tutti molto più rock di questo. Ma se c’è una cosa scomoda da fare è sicuramente classificare questo disco. In "Dietro il Mondo" abbiamo sperimentato tanto: si alternano momenti più rock a parallele digressioni più ambient e annacquate in una ritmica electro. Il difficile poi è stato inserire, in tutto ciò, i testi in italiano in grado di tradurre in parola delle tonalità di lamento e di disillusione».

Quali sono le linee guida dell'album e quale messaggio porta con sé?

«I brani di "Dietro il Mondo" raccontano lo sconforto che accompagna l'uomo nel momento in cui si accorge quanto siano illusori e preconfezionati alcuni concetti e istituzioni cardine della società. La prima amarezza è immediata e riguarda non solo la fede cattolica ma tutti i teologismi, i loro soprusi e le violenze che, purtroppo, sono anche oggi di grandissima attualità. C'è poi anche il tema del viaggio, del tentativo di trovare nell'Oriente o nella natura (e nelle stagioni) qualcosa che possa risollevare da questa infelicità. A tratti è quindi un racconto molto leopardiano che ricama, tra musica e testi, delle atmosfere sinistre, tendenti all'eretico».

Sulla copertina campeggia una geisha che si specchia seduta sul mondo e l'oriente torna alla ribalta con la canzone "Asian trip". Cosa rappresenta per voi l'oriente, artisticamente e anche dal punto di vista umano?

«La dicotomia Oriente-Occidente è uno degli aspetti più limitanti che stanno in questo mondo, "Dietro il Mondo" per l'appunto. La nostra occidentalità traduce tutto ciò che vediamo, ne cambia i colori e i sapori. Purtroppo nell'estremo oriente non ci siamo mai stati ma è bello pensare che un viaggio l'abbia potuto fare l'uomo protagonista del nostro album. La geisha in copertina poi è proprio bella (due di noi se la sono già fatta tatuare) e vestendosi con il pianeta Terra simboleggia al massimo questi concetti».

Continuiamo a parlare della canzone "Asian trip pt. 1" in cui c'è un ospite speciale, Michele Negrini in arte Mud dei Terzobinario. Quando si sono incrociate le vostre strade?

«Michele Negrini è un cantante, è una voce. Però non solo: ha insegnato canto a Luca e a me, è il mio vicino di casa e sono innumerevoli ormai le occasioni artistiche in cui le nostre strade si sono incrociate. Musicalmente siamo distanti da lui - Mud potremmo definirlo un "cantautore alternative-pop" - però la richiesta di questo featuring ci è venuta spontanea. Sapevamo che con le sue sperimentazioni vocali il brano sarebbe potuto diventare molto bello, e così è stato! Il mio rapporto da vicino di casa con Michele Negrini va raccontato. Di solito ci si chiede il burro o la farina oppure ci si denuncia perché il cane fa i bisogni nell'altro cortile o uno ascolta la musica ad un volume esagerato; in questo caso, invece, ha vinto la musica: noi abbiamo chiesto una voce a Mud per il nostro primo lavoro e lui a me una chitarra per il suo primo album, "D'amore e di fango", uscito pochi giorni fa».

Nel disco si possono trovare riferimenti a John Hopkins, Moderat ma anche indierock italiano come Afterhours e Teatro degli Orrori. Chi di voi detta la rotta e su quali insegnamenti avete costruito la vostra unione?

«"Panf" negli ultimi anni è diventato progressivamente un divoratore d'elettronica. È lui che traccia la rotta compositiva della band. Naturalmente gli altri membri danno il loro contributo e mentre il brano cresce si arricchisce di sfaccettature che arrivano dai vari insegnamenti musicali ricevuti. In realtà l'indierock italiano ormai non lo ascoltiamo praticamente più! Gruppi come il Teatro degli Orrori però sono stati fondamentali per farci incontrare e conoscere come persone dato che diversi anni fa, proprio in quei "poghi" sudati, abbiamo iniziato a fraternizzare. Ora siamo sicuramente su altri ascolti ma se ti dovessi dire un gruppo che all'inizio ha influenzato maggiormente la band direi gli Aucan».

Il disco si apre con "Secoli di stragi". Una canzone e un titolo che sono un biglietto da visita impegnativo, non credi?

«Il brano "Secoli di stragi", del quale c'è anche il bellissimo videoclip realizzato da Giovanni Tutti, è sicuramente un inizio tosto e impegnativo! Sia per il testo che per l'argomento che tratta, ovvero tutte quelle occasioni nella storia dell'uomo nelle quali si è abusato di un movente religioso per spargere sangue e morte, dalle crociate in avanti. Il tema è forte così come lo sono le immagini del video ma noi siamo fortemente convinti di questo e penso che la cosa traspaia abbastanza facilmente».

Le atmosfere restano cupe ne "Il racconto dell’uomo deluso" come in "Assalto all’inverno". Perché tutta questa disillusione? Sono i tempi che portano questi pensieri o alla base ci sono esperienze personali?

«Ovviamente non ci siamo imposti queste tonalità noire e pessimiste a tavolino. Sono sensazioni che sono venute fuori pian piano, dai tempi in cui stiamo vivendo e dalle esperienze che tutti i giorni ci troviamo ad affrontare e a conoscere. Tutto questo ha generato delle tinte che non potevano non colorare i nostri brani».

Nella società di oggi chi è il "Neopagano"?

«Oddio, spero non esista. Però è una sorta di provocazione. Vengono ancora perseguite idee talmente vetuste che non mi sorprenderei se si ricominciasse a leggere il futuro guardando nelle interiora degli animali. Tornare al paganesimo nel ventunesimo secolo in quest'ottica non è poi così impossibile, gli altari mediatici sui quali praticare i sacrifici non mancano».

Avete lasciato qualche brano nel cassetto?

«Pochi, qualcosa di vecchio che abbiamo ripreso e aggiornato. Ora stiamo più che altro suonando live ma in testa c'è l'idea di tornare a comporre, magari qualcosa di diverso che segni un'evoluzione. Il futuro è comunque tutto da scrivere».

In quali territori musicali vi piacerebbe sperimentare?

«Già si sperimenta a cavallo di due o tre territori. L'augurio che ci facciamo è quello di poter ritagliare più tempo per comporre ancora tanto e creare un ambiente musicale più circoscritto e magari più elettronico». 


Titolo: Dietro il Mondo
Gruppo: Laik-Oh!
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche di Laik-Oh!, testi di Mattia Bortesi)

01. Secoli di stragi
02. Assalto all'inverno
03. Asian trip pt. 1
04. Il racconto dell'uomo deluso
05. Neopagano
06. Asian trip pt. 2
07. Nel temporale




lunedì 16 febbraio 2015

Cristina Nico, dal Premio Bindi a "Mandibole"





Con l'album "Mandibole" Cristina Nico ci porta in fondo al mare a scoprire l'abisso. Un luogo oscuro dove esperienze personali, ossessioni interiori, gioie e soprattutto dolori regalano una visione disincantata del vivere attuale. La cantautrice genevose, vincitrice della decima edizione del prestigioso Premio Bindi con la canzone "Le creature degli abissi", lo fa con testi amari, caustici, intrisi di malinconia ma allo stesso tempo conditi con una buona dose di ironia e sarcasmo. Una scrittura ispirata, poetica e immediata in cui si rintraccia l'urgenza espressiva dell'esordio ma allo stesso tempo è evidente quanto il tutto sia stato meditato, studiato e "lavorato". Vibrante è l'interpretazione da parte della Nico che asseconda con maestria vocale i momenti minimali e quelli più intensi del disco. Musicalmente si rimane in ambito rock, forse non convenzionale ma le chitarre elettriche ricordano, in alcuni frangenti, sonorità degli anni '70 e creano un substrato pulsante e vivo. Un disco che merita l'ascolto e che è capace di stimolare la curiosità in chi ha voglia di esplorare gli abissi.
Ci ha pensato poi Tristan Martinelli, coproduttore del disco insieme alla Nico e in precedenza a fianco di Numero 6, Dejan e L'Orso Glabro, a dare una impronta decisa alle canzoni, registrate al  Greenfog Studio di Genova da Mattia Cominotto e masterizzate da Raffaele Abbate alla OrangeHome Records. Al disco hanno contribuito anche Jacopo Ristori (violoncello), Alessandro Alecsovitz (violino), Enrico Bovone (batteria e percussioni), Mattia Cominotto (chitarra e cori), Sabrina Napoleone e Valentina Amandolese (cori).
L'album, pubblicato dopo i precedenti Ep autoprodotti "Cinnamomo" del 2006 e "Daimones" del 2010, è l'argomento principale dell'intervista ma Cristina Nico ci regala anche un quadro molto interessante della sua visione della società di oggi.




Quali sono i pregi di Cristina Nico?

«Dio bono, cominciamo bene! In questo momento ogni mio pregio mi sembra abbia il suo corrispettivo in un difetto e viceversa. Comunque ci provo: il sense of humour (quando sono in buona), una discreta onestà (che non ha nulla a che fare con la coerenza), l'istinto di sopravvivenza (che non vuol dire saper vivere), una buona immaginazione (o sono solo allucinazioni?)».

…e i difetti?

«A volte vedo prima gli aspetti negativi della realtà (il che vuol dire però gioire alla grande di fronte alla bellezza anche di piccole cose). Mugugno parecchio. Sono piuttosto schizofrenica, mi butto giù un sacco oppure mi esalto».

Da poche settimane hai pubblicato il tuo primo disco, "Mandibole". Perché dovremmo ascoltarlo?

«Perché ci ho investito i miei risparmi. E perché è un bel disco, suvvia».

Il disco si apre con "Creature degli abissi" che ha la struttura di una ouverture, quasi fosse l’inizio di un concept album che poi alla fine non si sviluppa, almeno non completamente. Mi sbaglio?

«È un'ouverture, è vero. È uno dei pezzi che ho scritto quando gli altri inclusi nel disco erano già stati composti. Più che alludere ad un concept, è una dichiarazione poetica, una sorta di lettera di presentazione su quello che ci si può aspettare da me e quello che non posso fare attraverso la mia musica e il mio modo di essere».

In un verso di "Formaldeide" parli di <artisti occidentali annoiati e stanchi>. E quindi dove possiamo trovare artisti attivi e pieni di energia?

«Chissà... forse dove c'è meno disincanto, dove c'è più speranza di creare qualcosa attraverso delle idee forti di cambiamento perché magari la libertà non è una cosa scontata. Penso ad un artista (visivo) come il cinese Ai Weiwei, che da una parte sa sfruttare i media, innestarsi sul percorso già battuto dall'arte concettuale occidentale. Ma la pelle l'ha rischiata davvero per denunciare la mancanza di libertà e informazione nel suo paese e, per chi lo conosce, i messaggi delle sue opere sono delicati e potenti assieme».

Mi ha fatto riflettere l’incipit di "Cocoprosit". <Non sprecare il tempo in cose necessarie ma inutili che non nutrono il tuo spirito>. Mi sono divertito a elencarne un po’. Possiamo sapere quali sono invece le cose che tu consideri inutili ma necessarie?

«Credo ce ne siano tante di cose 'inutili ma necessarie'. Prendi il lavoro: sono poche le persone che riescono a vivere facendo un mestiere che le appaghi davvero. Però portare a casa la pagnotta è una necessità, no? Solo che non si può pretendere dal lavoro una piena soddisfazione di bisogni più profondi, chiamiamoli pure spirituali o anche semplicemente morali, emotivi, affettivi. Non voglio sminuire l'importanza del lavoro, tutt'altro, ma credo ci siano delle false mitologie in merito, accresciute dal fatto che molti non lavorano o si trovano a lavorare in condizioni assurde, che creano ancora più frustrazione e false aspettative…».

Il concetto viene ribadito in "Giorno dopo giorno" quando dici di non perdere energie e di concentrarsi su una sola via. Tu hai trovato la tua via oppure i testi delle canzoni sono lo specchio di uno tuo smarrimento esistenziale?

«La mia via è lo smarrimento esistenziale!».

Che significato ha la lucertola di "Cocoprosit"?

«È un animale reale e simbolico assieme. È la lucertola che realmente ho visto spesso sulla tomba di mia madre e a cui ho dato un ruolo di tramite, di messaggero fra il mondo dei vivi e dei morti, della luce e delle ombre. Da bambina le lucertole mi affascinavano perché le vedevo palpitare, per via di quel movimento respiratorio rapidissimo, sembra che si gonfino e si sgonfino continuamente, come dei piccoli mantici».

Le "Mandibole" sono un accessorio meccanico che non ha distinzione di classe, non credi?

«Sì. È un accessorio meccanico, primitivo, che ci accomuna a quasi tutti gli altri animali. Ci servono per mordere, masticare, lacerare, urlare... a volte anche il nostro modo di assimilare concetti, informazioni è un po' meccanico. Inghiottiamo quello che ci mettono in bocca, come quegli uccellini che stanno a fauci spalancate in attesa che i genitori le riempiano di cibo predigerito. Ma prima o poi bisogna imparare a scegliere il 'cibo' giusto, masticarlo e digerirlo».

Sei meteoropatica?

«Un poco... il mio umore è piuttosto 'nivuro' in quelle giornate in cui il cielo sembra essere pesante, appeso, in attesa di scaricarsi in pioggia. Ma in "Meteoropatia" prendo anche un po' in giro coloro che si beano di certi atteggiamenti post-esistenzialisti, me stessa in primis».

Nel disco si affrontano e si confrontano un "io" molto personale e un esterno. È il tuo mondo contro quello che c’è al di fuori?

«Non direi 'contro': c'è il mio mondo che cerca di incontrare quello esterno, anche se a volte tende a rintanarsi in se stesso. Nelle canzoni di "Mandibole" parto spesso da un 'io' che poi diventa 'noi', in questo senso credo sia un disco tanto lirico quanto corale. Non amo le visioni dall'alto, mi sono più congeniali quelle dal basso e dall'interno».

Perché hai scelto di chiudere il disco con la cover di "Mother stands for comfort" di Kate Bush?

«Perché volevo includere un omaggio a un'artista che forse non è tra le mie prime ispirazioni ma che ammiro molto, anche se le sue sonorità sono apparentemente lontane dalle mie: sia io che Tristan siamo più influenzati dalle sonorità degli anni Sessanta e Settanta. La cosa curiosa è che nel fare la cover di "Mother stands for comfort" abbiamo preso un pezzo degli anni Ottanta e ne abbiamo fatto un pezzo anni Novanta!».

Sei nata a Genova ma so che le tue origini sono più lontane… Cosa ti hanno lasciato, a livello umano e naturalmente musicale?

«Tre nonni su quattro erano calabresi. Terre aspre che improvvisamente si aprono in piane verdissime, fiumare limacciose dove vivono grandi granchi, gli incendi che di notte illuminavano i dorsi dei monti... e poi le spiagge di Capo Vaticano, quasi selvagge prima dell'arrivo massiccio del turismo: queste le 'visioni', forse un po' bucoliche, che si sono impresse nei miei paesaggi interiori, che hanno composto il mio Sud come luogo mentale e quasi metafisico. I canti liturgici e le musiche eseguite dalle bande di paese nelle processioni poi su di me avevano grande suggestione: nel ritornello de 'La litania dei pesci' le voci femminili del coro richiamano quella vocalità particolare delle donne che eseguivano i canti alla Madonna nelle processioni. Però nelle mie radici c'è anche la memoria della malinconia, della povertà, del disagio patito dai miei nonni e zii migranti».

Come si fa ad essere cantautrici a Genova? Non trovi che il passato della "scuola genovese" sia ingombrante e che inevitabilmente si tenda a fare confronti con il passato?

«Certo, è un passato importante. Ma le cantautrici di questa nuova ondata genovese secondo me hanno seguito percorsi che si spostano un po' dal solco della vecchia scuola, sia per sonorità che per modalità di scrittura, anche se c'è grande rispetto del passato. Forse anche perché di donne cantautrici, ahimé, è rimasta poca traccia. In un certo senso siamo potenzialmente più libere dei colleghi maschietti».

Hai dei riti precisi nella scrittura delle canzoni?

«No, a volte ho una frase o un'immagine che comincia a girarmi nella testa, altre volte parto da un riff di chitarra o un'armonia. Mi son accorta che spesso gli spunti arrivano in maniera inconscia da conversazioni noiose e da pasti consumati in fretta».

Secondo te le donne hanno più sensibilità nello scrivere canzoni?

«Ma no, non credo proprio. Credo, questo sì, che ci sia una sensibilità leggermente diversa, ma niente di fisiologico. È solo questione di educazione, di ruoli sociali, che portano ancora ad esprimerci e filtrare le nostre emozioni e i nostri pensieri in modo un po' diverso dagli uomini. Cosa che magari finisce per portarti ad essere estremamente lirica e intimista o molto incazzata e dirompente!»

Se potessi vestire per un giorno i panni di un musicista chi sarebbe e perché?

«Un bravo pianista classico, che sa leggere la musica».




Titolo: Mandibole
Artista: Cristina Nico
Etichetta: OrangeHome Records
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi di Cristina Nicoletta, eccetto dove diversamente indicato)

01. Le creature degli abissi
02. Formaldeide
03. L'inopportuna
04. Cocoprosit
05. Giorno dopo giorno
06. La litania dei pesci
07. Mandibole
08. Metereopatia
09. Mother stands for comfort  [Kate Bush]



mercoledì 4 febbraio 2015

"Tramps & Thieves", l'esordio dei Four Tramps




Classic rock americano, esplosivo rock inglese anni '60/'70, una spruzzata di punk e una solida base di malinconico blues. Sono questi gli ingredienti di "Tramps & Thieves", album d'esordio dei Four Tramps, pubblicato in questi giorni dall'etichetta ferrarese New Model Label. La band emiliana è nata nel 2011 dall'incontro di diverse anime con alle spalle percorsi artistici differenti. Questa eterogeneità di stili e di influenze si riversano inevitabilmente anche nella musica e nelle canzoni che compongono il disco, registrato a partire da febbraio del 2014 al Vox Recording Studio di Reggio Emilia. È un album ricco e vario, ma allo stesso tempo omogeneo nell'approccio, nelle linee melodiche e negli assolo, e per quella ispirazione blues che permea tutto il disco. Una musica che si tinge inevitabilmente delle influenze di Muddy Waters, Doors, The Who, dei Rolling Stones degli esordi. Le canzoni raccontano invece la condizione degli ultimi, di coloro che non hanno più il controllo della propria esistenza e a cui è stato portato via tutto, di chi deve vedersela con il proprio demonio e la propria solitudine. E così i Four Tramps ci raccontano i drammi di persone anziane costrette a fare i conti con la violenza della natura, di altre travolte da dissesti finanziari o dall'assurdo diffondersi di armi in una società sempre più dominata dalla violenza. Canzoni che pongono interrogativi sul mondo e sull'attualità senza tralasciare però momenti più surreali e spensierati.
Il gruppo è composto da Simone Montruccoli (voce, chitarra e armonica), Davide Guzzon (chitarra, slide e cori), Elia Braglia (basso e cori), Joe Osiris (batteria). 
Con Simone Montruccoli abbiamo approfondito la conoscenza della band e abbiamo parlato del disco d'esordio dei Four Tramps.



Il progetto Four Tramps è nato nel 2011 e ora ecco il vostro primo disco. Cosa avete fatto in questi anni e quando avete seriamente pensato di registrare il disco?

«Noi tutti veniamo da realtà diverse, da generi musicali diversi, e ognuno ha dei gusti personali a volte anche abbastanza discordanti con gli altri membri. Agli inizi, durante la realizzazione dei primi pezzi, abbiamo sperimentato molto, spaziando tra più sottogeneri del rock. Canzoni di chiara natura punk rock (da dove alcuni di noi provengono), brani più grunge o indie, classic rock, ma anche i primi accenni di blues. Da lì abbiamo registrato nella nostra sala prove una demo distribuendola gratuitamente ai nostri primi concerti. Lo sperimentare dei primi anni ci ha portati verso un'unica direzione, quella attuale, che definiamo rock d’ispirazione anni '60/'70 a forti tinte blues. Dopo aver suonato nei vari locali della zona, e messo da parte qualcosa a livello economico e di esperienza artistica, abbiamo pensato che era giunto il momento di registrare un disco "fatto bene" in uno studio di registrazione adeguato. Così nel 2014 abbiamo registrato il nostro primo album ufficiale "Tramps & Thieves"».

Chi sono i Four Tramps e perché questo nome?

«Alcuni di noi sono amici di vecchia data, altri si sono conosciuti grazie a collaborazioni passate quando si suonava rispettivamente in altre band e il nostro membro più giovane è stato trovato tramite un annuncio su un giornale locale. La scelta del nome è stata lunga e difficile. Sul piatto avevamo tante proposte. Alla fine si è scelto il nome attuale un po' per ricordare il tema del "viaggiatore" e delle "esperienze" vissute in giro per il mondo, raccontate spesso nei nostri brani, e un po' per evidenziare il nostro occhio critico nei confronti di quello che attualmente succede nella società. Per qualcuno di noi anche la citazione "Tramps like us, baby we were born to run" di un noto brano di Springsteen ha avuto la sua influenza».

Perché avete registrato un disco quando ai giorni d'oggi lo comprano in pochissimi?

«In primis per soddisfazione personale. Non tutte le band, grazie al cielo, si formano con l'unico intento di sfondare e ottenere successo. È semplicemente la cosa più divertente al mondo, e creare qualcosa, in questo caso un album, dà molta soddisfazione. Se questo sforzo poi lo si riesce a vendere viene da sé che tale soddisfazione aumenta. Inoltre se si vuole suonare il più possibile anche in territori al di fuori della propria provincia, è necessario avere un qualcosa da far ascoltare per presentarsi e promuovere la propria band. La concorrenza è tantissima, e anche nei piccoli club non è più così facile entrare nella programmazione stagionale. Sulla fiducia non ti fanno esibire. Avremmo potuto sfruttare solo il mondo digitale ma il fascino dell'oggetto fisico per noi, e ci rendiamo conto per pochissimi altri, è unico e inimitabile».

Come sono nate le undici canzoni del cd?

«Generalmente partiamo da un riff di chitarra o una sequenza di accordi, poi insieme in studio cerchiamo di costruire tutta la canzone. Poi, con l'aggiunta di un testo, si prova a completare e aggiustare l'opera cercando di capire l’intensità necessaria con la quale suonare ciò che si canta, raggiungendo un equilibrio emotivo tra musica e canto. I testi a volte suonano di critica su alcune questioni della nostra società, altri sono indubbiamente più spensierati o surreali, spesso conditi da ironia, e altri trattano questioni private e fatti di cronaca».

Cosa rappresenta per voi il blues?

«Il blues è il primo punto di un albero genealogico, un nonno che ti racconta la sua saggezza e le sue esperienze, un manuale d'istruzioni fondamentale dal quale attingere per il concepimento della musica pop/rock, ma anche il manuale per cantare con l'anima e con la credibilità necessaria».

Quali sono gli artisti blues che amate di più e come li avete scoperti?

«Credo che ognuno di noi sia entrato nel mondo del blues seguendo quei musicisti rock, in particolare della scena inglese, che a loro volta hanno fatto sentire al mondo intero, a modo loro, quei riff. Ovviamente Rolling Stones, Led Zeppelin, Eric Clapton e molti altri. Ma se torniamo all'America di colore, sicuramente i grandi nomi come Muddy Waters, John Lee Hooker e il leggendario Robert Johnson li apprezziamo molto, e ovviamente il rispetto è infinito per questi miti. Per venire a conoscenza di questa musica non possiamo certo dire che siano stati i mass media attuali ad aiutarci. Abbiamo però fratelli più grandi e anche genitori che ci hanno indirizzati "bene", fortunatamente. Viviamo in una provincia in cui la musica dal vivo si riesce ancora a fare, e soprattutto c'è una scena blues molto attiva. Artisti locali come il grandissimo Johnny La Rosa e tante altre band che oltre ad eseguire magnifici brani propri, suonano grandi classici di artisti americani e inglesi. Possiamo dire quindi che probabilmente ci siamo nati e ci viviamo tutti i giorni col blues. Certo deve comunque interessarti la musica dal vivo e bisogna frequentare i posti giusti».

Oltre al blues, la vostra musica subisce l'influenza del rock di matrice anni '60/'70. Perché la vostra musica guarda al passato? Non vi piace il presente e il futuro che verrà?

«Il presente non ci fa impazzire. Ci sono tante band dei giorni nostri che ascoltiamo e apprezziamo. Ma in linea di massima tra i gruppi più in voga e noti degli anni 2000 c’è poco che ci convince. Più interessante scoprire band o artisti che fanno parte di qualche nicchia ma che mantengono standard qualitativi alti. I grandi nomi degli anni '70 probabilmente avevano (o hanno, per quelli che ci sono ancora) una cosa che adesso non è più così diffusa: il carisma! Ancora oggi sono i grandi nomi del passato a riempire gli stadi e i festival, e a fare concerti lunghi non meno di due ore».

Da una parte il Mississippi e dall’altra il vostro Po. Ci vuole sempre un grande fiume per avere certe atmosfere?

«Diciamo che dalle nostre parti si gioca spesso con questa associazione Mississippi e Po, e sono tante le manifestazioni musicali blues sulle rive del nostro grande fiume, come il noto "Rootsway - Roots'n'Blues & Food Festival". La suggestione e l'atmosfera speciale che si crea durante questi eventi estivi è davvero affascinante. Se non ci fosse il fiume, sarebbe quindi uguale? Per noi no».

Nel disco non mancano canzoni di denuncia come "22 crickett". Ci raccontate da dove nasce e quale significato ha?

«La canzone nasce da un fatto di cronaca vera, sentito semplicemente al telegiornale. È una sorta di denuncia alla cultura americana dell'armamento incontrollato della società civile. Pare che avere un'arma nel comodino sia un fatto normale. E la cosa che più ci ha colpito è la vendita on-line di queste "armi da bambino" come i pink rifle, che sono vere e proprie armi, non giocattoli. Quindi l'incidente è all'ordine del giorno. Non è il fatto di essere antiamericani, ma il fatto di denunciare come anche nella nostra società Occidentale, considerata democratica e avanzata, ci siano enormi buchi neri e contraddizioni».

Con "Morning spread blues" puntate l’indice contro certa finanza. Ma alla maggioranza dei giovani d'oggi siete sicuri che interessi qualcosa?

«Negli ultimi anni l'economia e la capienza delle nostre tasche sono influenzate da quella cosa astratta e gestita da poche persone al mondo che si chiama finanza. Dubitiamo che un ragazzo di 16/20 anni dia il giusto peso a questo concetto. Ma prima o poi ci si accorge che le cose non vanno proprio bene. Sicuramente avrebbe più "appeal" parlare, o meglio, "rappare" di sesso, droga, ragazze, fare video con culi al vento, collane d'oro, eccetera eccetera… Ma i nostri modelli sono altri. E il discorso della "Rivoluzione delle Coscienze" alla Joe Strummer (col dovuto rispetto) ci interessa di più».

In "Tremblin' land blues" parlate del terremoto che ha colpito la vostra regione. In voi che segni ha lasciato questa tragica esperienza?

«Nessuno di noi è residente nei paesi maggiormente colpiti dal sisma. Ma ognuno di noi ha amici o parenti che hanno subìto danni alle proprie case o ai luoghi di lavoro. È stato un momento davvero scioccante per la nostra comunità e ancora oggi si vedono i segni. La canzone si ispira a un fatto vero che abbiamo visto in un servizio giornalistico televisivo. Protagonista, suo malgrado, una signora anziana che viveva sola in casa. La casa è crollata e lei si è salvata per miracolo. I vigili del fuoco l'hanno portata al sicuro mentre lei continuava a chiedere di essere riportata a casa, senza rendersi conto che casa sua non c’era più. Impossibile non emozionarsi e commuoversi».

È proprio vero che le disgrazie come le emozioni forti fanno scrivere buona musica?

«Se uno ha qualcosa da dire o da raccontare, sicuramente ci mette più impegno e attenzione, ha maggiormente voglia di essere ascoltato e capito. Però non bisogna speculare su alcune cose e sulle disgrazie. Non deve essere quello l'obiettivo. È un concetto di sensibilità alla vita quello che deve trapelare».

A chiudere il disco una gradevole rilettura di "Summertime blues" di Eddie Cochran. Cosa vi ha spinti a scegliere questa canzone?

«È indubbiamente uno dei brani più belli ed emozionanti della storia del rock'n'roll. Probabilmente tutti i grandi l'hanno eseguito almeno una volta nella vita. È una canzone piena di vita ed energia, che in tutte le salse emoziona davvero tanto. Dal vivo la suoniamo spesso ed è solitamente molto apprezzata. Quindi abbiamo deciso di farla nostra anche nel disco».

Qual è la vostra situazione preferita: in studio o live? E perché?

«Credo che senza ombra di dubbio i live siano il nostro habitat naturale. Ci piace suonare dal vivo e vorremmo farlo molto più di quanto già non facciamo. Ci sono posti in cui sappiamo che il pubblico ha un calore estremo. In quei momenti ci esaltiamo e ci permettiamo di improvvisare, suonare finché abbiamo energie in corpo con la consapevolezza di essere artefici di un bellissimo clima di festa. Quelli sono i momenti più belli. In studio è tutto diverso. È sicuramente una situazione dove si deve lavorare per migliorare i brani che si hanno, le proprie capacità, ed è una sorta di cantiere per ottenere canzoni nuove. È divertente ma non mancano a volte, come crediamo sia del tutto normale, momenti di tensione e contrasto fra di noi. Le "pause pizza" aiutano a stemperare sempre il clima».

E adesso quali sono i vostri programmi?

«Noi abbiamo un unico grande obiettivo: quello di esibirci il più possibile e anche al di fuori dei nostri confini regionali. Da pochissimo tempo stiamo collaborando con l'etichetta emiliana New Model Label per la promozione e la distribuzione dell'album in formato digitale. Speriamo quindi di aumentare il nostro bacino di utenze, con la speranza di ottenere più visibilità e incrementare notevolmente il numero dei nostri concerti».



Titolo: Tramps & Thieves
Gruppo: Four Tramps
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2015

Tracce
(musiche e testi di Simone Montruccoli, eccetto dove diversamente indicato)

01. 22 Crickett (my first rifle)  [Davide Guzzon e Simone Montruccoli]
02. Moonshiner in love
03. Tramps & Thieves
04. The girl of abnormal dreams
05. Last day of freedom  [Simone Montruccoli e Elia Braglia]
06. Tremblin' land blues  [Davide Guzzon e Simone Montruccoli]
07. Mr Jameson (Irish drunken blues)  [Simone Montruccoli e Elia Braglia]
08. Morning spread blues  [Davide Guzzon]
09. Buster blues
10. Revolution tonight
11. Me & the devil #2
12. Summertime blues  [Eddie Cochran]




mercoledì 28 gennaio 2015

Benvenuti nel "Luna Park" di Davide Solfrini






È una giostra di periferia in cui si incontrano personaggi che si dibattono tra speranze e distruzione, altri in cerca di riscatto o semplicemente impegnati a portare avanti la loro esistenza nel ricordo dell'infanzia e della giovinezza, altri ancora alle prese con storie d'amore ormai finite e consumate. Un mondo piccolo, a tratti caotico e grottesco che Davide Solfrini colloca sotto i riflettori di "Luna Park", il suo secondo album dopo "Muda" e i precedenti due Ep autoprodotti "Shiva e il monolocale" e "Circadian Blues". Un luna park poco appariscente che si può incontrare in una delle tante località della riviera adriatica che perdono la luce dei riflettori nei mesi invernali ma altrettanto bene lo si può immaginare alla periferia di una cittadina degli Stati Uniti. E proprio con la musica d'oltreoceano che Solfrini paga il debito accumulato in tanti anni di ascolti musicali.
Il musicista di Cattolica mette sul piatto una scrittura a tratti malinconica ma nello stesso tempo vigorosa e piacevole che trova ispirazione nelle grandi ballate rock del passato e nelle sonorità di matrice "americana" su cui si innestano però nuovi interessanti spunti. Ne sono esempio le sperimentazioni rythm'n'noise di "Mi piace il blues" o l'electro/wave di "Luna Park", canzone che trasporta l'ascoltatore su una pista da dancefloor.
Nel disco Solfrini suona chitarre elettriche e acustiche, tastiere, programming e si fa aiutare da Gabriele Palazzi Rossi e Francesco R. Cola alla batteria, da Omar Bologna alla chitarra, da Paolo Beccari all'armonica e da Valentina Solfrini ai cori. Il disco è pubblicato dalla etichetta New Model Label.
È lo stesso Davide Solfrini a farci scoprire il suo "Luna Park".




Chi è Davide Solfrini?

«Un folle lucido che pensa di avere qualcosa da dire e decide comunque di seguire la sua vocazione, nonostante le sue scarsissime capacità di gestire media e comunicazione, in un periodo dove tutto sembra avverso per chi vuole far musica e una persona su dieci pubblica un disco».

Quale è stato il tuo incontro con la musica e come sei arrivato a fare il musicista?

«Ho scoperto la musica grazie ai dischi di mio padre e poi, fin dai tempi delle elementari, ero più attratto da Video Music piuttosto che dai cartoni animati. Il bisogno di imbracciare una chitarra è stato quasi fisiologico anche se pur sempre da autodidatta».

Citando il finale della canzone “Bruno”, di cosa non hai voglia?

«In quella canzone, senza celebrare o criticare nessuno, guardo la vita di un tossicodipendente degli anni del "boom" dell'eroina in Italia, quando fare il "drogato" era un vero e proprio lavoro a tempo pieno e la guardo con un po' di immedesimazione. Chi imboccava quella strada infatti rinunciava a tutto ciò che era una vita "normale" (famiglia, affetti, lavoro, veri amici, vita sociale) e tante volte guardando queste persone (e soprattutto questa persona, realmente esistita), pur non avendo mai fatto parte di quegli ambienti, mi sono sentito un po' come loro, con un bisogno, una pulsione a mandare tutto e tutti a quel paese e a rinchiudermi in me stesso, per dedicarmi a qualcosa di autodistruttivo e alienante. E "beati loro" che almeno sapevano che nel loro caso quella pulsione era l'eroina, perché io, nel mio caso, non ho ancora capito da dove viene! È il mio desiderio di dire: "Si, sono anche io un drogato e non ho voglia di pensare al lavoro, al futuro, agli altri, a me stesso… non ho voglia punto e basta, senza perché e senza sentirmi in colpa"».

In "Elvis" lanci il messaggio "Pagate meglio il dj!" e i musicisti nel 2015 che fine fanno?

«Se la passano peggio dei drogati di cui parlavo sopra ma hanno ancora la forza di sopravvivere. Siamo personaggi borderline e troviamo nel narcisismo la forza, nel bene e nel male, di esistere».

Canti "Mi piace il blues" ma il disco ha molto poco blues al suo interno. Lo tieni per il prossimo disco o è un genere che non ti attrae?

«Il blues lo apprezzo, mi piacciono John Lee Hooker, i Canned Heat , J.J. Cale e tanti altri, ma di certo non sarebbe un buon mezzo o un buon supporto per il mio tipo di testi o di sentire la musica. È molto improbabile che in futuro dalle mie corde esca un disco blues».

Qual è il tuo "Luna Park" preferito?

«Youtube».

Dici che "Ci vuole tempo" ma per fare cosa?

«Per fare le cose belle, quelle che ci soddisfano, ci insegnano e ci cambiano. Leggere un libro, educare un cane, fare un disco, crescere un figlio, studiare un argomento, conoscere una persona… Purtroppo molti vivono in un'ottica secondo la quale se l'obiettivo non è ben chiaro, vicino e facilmente raggiungibile tutto ciò che si fa è uno spreco di tempo e di energia».

Chi sono i protagonisti delle tue canzoni?

«Personaggi più o meno borderline, ma, positivi o negativi che siano, hanno una parte di loro nella quale mi identifico, e soprattutto una parte che rappresenta in maniera scomoda un po' tutto il genere umano».

A cosa serve una canzone?

«Mi pare che una volta Miles Davis abbia detto <Se devi chiedere cos’è il jazz allora non lo saprai mai>. Io riutilizzo questo concetto dicendo che <Se devi chiedere a cosa serve una canzone significa che per te non servirà mai a nulla>. Super citazioni a parte solo chi nell'adolescenza o da giovane ha comprato un disco, lo ha ascoltato per giorni fino a lasciare che questo cambiasse la sua percezione delle cose conosce la risposta a questa domanda, io a parole non so dartela».

Ti ricordi la prima canzone che hai scritto?

«Era orribile, tante parole per non dire assolutamente nulla».

C'è un artista con il quale ti piacerebbe collaborare?

«Ce ne sono tanti, dai Flor che dopo anni sono tornati sulle scene a personaggi del calibro di Bersani o Dente. Artisti che non si siedono sugli allori ma cercano in continuazione nuove strade e nuovi stimoli».

Guarderai il Festival di Sanremo?

«Probabilmente non lo guarderò ma tanto alle mie orecchie in un modo o nell'altro arriverà e onestamente non so nemmeno io cosa ne penso. È un aspetto del mondo musicale italiano del quale bisogna tenere conto, ma io non ho più le energie né per valutarlo, né per misurarmici. Ipocrisie a parte: non mi piace ma se qualcuno mi mandasse a San Remo non direi certo di no».

Se avessi la possibilità di scegliere il tuo destino su cosa punteresti?

«Musica, suonare con una band elettrica e soprattutto pubblicare più album possibili».

Qual è la tua idea di qualità della vita?

«Essere padroni del proprio tempo».




Titolo: Luna Park
Artista: Davide Solfrini
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2015


Tracce
(testi e musiche di Davide Solfrini)

01. Cenere
02. Luna Park
03. Bruno
04. Mi piace il blues
05. Ballata
06. Lavanderia
07. Mai più ogni cosa
08. Elvis
09. Hardcore
10. Ci vuole tempo






mercoledì 21 gennaio 2015

"La parte migliore" donata da Sabrina Napoleone






"La parte migliore", album d'esordio della cantautrice genovese Sabrina Napoleone, è un viaggio alla scoperta dell'intimità dell'uomo tra canzoni potenti e momenti riflessivi e più raccolti. Il disco, il primo da solista dopo l'esperienza formativa a metà anni '90 con gli Aut-Aut (all'attivo l'Ep "Aria di Vetro" e il disco "Anacronismi"), mette sul piatto dieci canzoni viscerali che raccontano con sensibilità le disillusioni dei tempi che stiamo vivendo. È un album a tratti ruvido, visionario, dalle atmosfere vagamente psichedeliche, denso di citazioni filosofiche (la Napoleone è laureata con lode in Filosofia), in cui la canzone d'autore si unisce alla sperimentazione elettroacustica di matrice rock, in cui il noise va a braccetto con certe influenze alt-rock degli anni '90 e in cui la rabbia e la speranza sono facce di una stessa medaglia.
Tema centrale del disco è la mancanza, la perdita, la privazione della fede, dell'amore, della libertà, delle certezze ma anche della vita stessa, come celebra la Napoleone in "Fire", brano che apre il disco. Sentimenti ed esperienze di vita che la quarantunenne artista genovese racconta e descrive da una prospettiva non convenzionale. La privazione, materiale o spirituale che sia, non è vista dall'autrice sempre come un fattore negativo. Anzi, la parte migliore rappresenta proprio quella capacità di condividere senza avvertire il peso della privazione o della rinuncia.  
Sul piano musicale grande merito va anche a Giulio Gaietto che cura la produzione artistica e contribuisce suonando basso, synth, chitarra elettrica e soundscapes. Completano l'organico Marco Topini alle chitarre, Osvaldo Loi al piano, al synth e agli archi, Jess alla batteria.
Nell'intervista che segue parliamo con Sabrina del suo disco, che ha fatto parte dei candidati al Premio Tenco 2014 nella categoria Opere Prime, e del recente tour a fianco di Lene Lovich, artista di culto della scena new wave.




Sono tempi difficili e nel tuo disco d'esordio traspare evidente una buona dose di disagio nei rapporti con gli altri e con il quotidiano. È proprio una vita così complicata?

«La nostra vita è così complessa che il solo tentativo di osservare il dedalo di relazioni tra noi e l'ambiente che ci circonda (sia sociale che naturale) provoca un violento senso di vertigine. Forse è per questo che tutti noi la accettiamo passivamente, senza porci troppe o ripetute domande. Il nostro atteggiamento nei confronti degli altri e del mondo è per lo più pratico ed acritico. Naturalmente se ci soffermassimo su ogni dettaglio e cercassimo di comprendere le ragioni di tutto resteremmo paralizzati. Ogni tanto però credo sia bene dare un'occhiata all'abisso, a quello dentro di noi e a quello che sta fuori. Solo ogni tanto».

L'argomento centrale del disco è la privazione, in tutte le sue sfaccettature. Quale parte migliore dovremmo lasciare al prossimo?

«Sì, ogni brano porta in scena la perdita o la privazione, ma non sempre in senso negativo o pessimistico. La parte migliore di noi è quella che non conosce il valore delle cose e divide, dona, condivide, senza avvertire il peso della privazione. È la parte di noi che sta al di là di concetti quali egoismo e altruismo. Al prossimo dovremmo insegnare a coltivare quella parte di sé e a difenderla affinché nessuno possa svilirla, umiliarla e sottrarle a forza la propria purezza, la propria fiducia».

Da chi hai appreso questo insegnamento?

«È un insegnamento che hanno impresso a fuoco dentro di me i miei genitori. Li ringrazio per questo, ma li rimprovero per non avere protetto e non avermi insegnato a proteggere ciò che mi stavano donando».

A un approccio molto superficiale sembrerebbe un disco "buonista", dai buoni intendimenti. Invece c'è rabbia e sofferenza nelle tue parole…

«Il titolo potrebbe trarre in inganno, ma la copertina disegnata da Priscilla Jamone già lascia intuire che non ci si addentrerà in un mondo fatato e rassicurante».

Così come rabbia c'è nella musica aspra, a tratti dura e noise. Da chi ti sei lasciata ispirare?

«Non c'è stato un riferimento diretto, ma so che ogni cosa che ho ascoltato nella vita ha lasciato traccia. La cosa principale è che ho cercato di essere, anche acusticamente, fedele alle emozioni che volevo esprimere. Giulio Gaietto, che ha curato la produzione artistica de "La Parte Migliore", e con cui collaboro da sempre, ha compreso questa mia esigenza. Se potessimo dare volume a quello che abbiamo in testa, ai nostri pensieri, ebbene credo che difficilmente sarebbero armonici. Per questo il rumore è una componente essenziale della mia musica».

Il disco inizia con "Fire", una breve canzone in cui immagini il giorno della tua morte…

«L'album inizia dalla fine. Mi immagino indifesa, esposta... Bisogna essere totalmente inermi ed inerti per permettere agli altri di entrare per intero nel nostro mondo più intimo. Quando compongo e quando mi esibisco non ho filtri, vorrei non ne avesse neppure chi ascolta, ma so che ci vuole molto tempo e coraggio per liberarsi dai cliché, per essere liberi».

In "Dorothy" prendi una posizione netta contro l'accettazione passiva dei dogmi religiosi e ideologici. Qual è il tuo rapporto con la religione e la chiesa?

«Il mio misticismo ha rischiato di essere annientato dalla dottrina. Come molti italiani ho ricevuto un'educazione cattolica ma ho sempre preferito il dubbio e la ricerca alla verità assoluta. Una nota opera del pittore spagnolo Francisco Goya si intitola "Il Sonno della Ragione Genera Mostri"». 

Sei andata alla messa di Natale?

«No, non sono andata alla messa di Natale. Sono stata a casa con le persone che amo».

"È Primavera", brano che affronta alcuni aspetti della Primavera Araba, si chiude con la citazione "È primavera… svegliatevi bambine" tratta da "Mattinata fiorentina", canzone cantata negli anni Trenta dallo chansonnier Odoardo Spadaro. Secondo te le bambine, in questo caso la parte femminile del mondo arabo, hanno in mano la soluzione per riportare finalmente la pace?

«Certamente nessuno può dire quale sia la soluzione. Tuttavia l'esclusione di metà della popolazione dal mondo della cultura e della politica non arricchisce né l'una né l'altra».

Chi sono le "coscine di pollo" cantate in "Insomnia"?

«Siamo io, tu e tutti quelli che conosciamo. Ci lasciamo cullare ed addormentare. Goya l'ho già citato ma ci fa compagnia anche qui».

Non pensi che la vita senza bellezza sia triste e grigia?

«Certo abbiamo bisogno di bellezza così come di amore. Ci riappacifica con il mondo. Talvolta la scoviamo dove non avremmo mai pensato e non vogliamo più separarcene. Forse la Gorgone Medusa era tanto bella da rendere impossibile a chi l'avesse vista di allontanarsi da lei».

È curioso come a Genova, storicamente patria di grandi cantautori, in questi anni sia nato un movimento di cantautrici molto interessante. È la vostra rivincita?

«Le donne sono autrici della propria musica da poco tempo, in Italia con un ritardo ulteriore rispetto ai paesi anglofoni. Semplicemente prima non c'erano cantautrici. A Genova siamo parecchie e molte di noi collaborano. La musica sta vivendo una nuova stagione malgrado il mercato musicale sia nel caos».

Nelle ultime settimane hai accompagnato in tour Lene Lovich. Come è nata questa collaborazione e cosa ti ha dato a livello professionale e umano?

«Ho incontrato Lene a Genova a giugno durante il Lilith Festival. È un'artista eccezionale ed una persona meravigliosa. Quest'avventura, che ha portato me e la mia band a condividere alcuni importanti palchi da nord a sud Italia, con Lene & band, ha lasciato molti bei ricordi a tutti noi. Siamo stati bene assieme tutti abbiamo imparato ed insegnato qualcosa. Niente divismi o invidie solo un grande rispetto e stima reciproca e naturalmente buon rock».

Ora cosa dobbiamo aspettarci?

«Continueremo a suonare in giro, in preparazione ci sono un paio di tour con qualche data all'estero, grazie anche alla mia etichetta OrangeHome Records che sta lavorando al booking, ma sto già pensando al nuovo album. Ho un bisogno fortissimo di continuare il discorso iniziato, di dare un altro sguardo all'abisso assieme a chi vorrà seguirmi. Non posso prevedere i tempi ma spero non siano lunghissimi. Visto che siamo nel periodo dei buoni propositi spero di terminare almeno la fase di composizione e pre produzione entro il 2015».



Titolo: La parte migliore
Artista: Sabrina Napoleone
Etichetta: OrangeHome Records
Anno di pubblicazione: 2014 


Tracce
(testi di Sabrina Napoleone, musiche di Sabrina Napoleone e Giulio Gaietto)

01. Fire
02. L'indovino islandese
03. Prima dell'alba
04. La parte migliore
05. Dorothy
06. È primavera
07. Insomnia
08. Medusa
09. Pugno di mosche
10. Epochè




martedì 13 gennaio 2015

Punto e Virgola cantano "L'uomo dei tuoi sogni"






Gabriele Graziani, già voce del gruppo Equ, e Alessandro Maltoni, chitarrista con vent'anni di esperienza sui palchi italiani, sono Punto e Virgola. Un "segno di interpunzione" musicale che in questi giorni presenta l'opera prima "L'uomo dei tuoi sogni", un concept album che contiene undici canzoni dai testi raffinati e colti, ricchi di metafore, che mescolano ironia, poesia surrealista e atmosfere oniriche. Il tutto è legato da un linguaggio musicale che attinge a stili e influenze diverse e se da una parte richiama certe composizioni di Daniele Silvestri, dall'altra paga un debito verso atmosfere che rimandano a Gaber e Jannacci. A unire i brani del disco è una ipotetica partita di calcio tra la nazionale dei poeti italiani e quella del resto del mondo commentata da Bruno Pizzul, la più famosa voce del giornalismo sportivo italiano. La telecronaca ha un ruolo di primaria importanza nel disco. Ha la funzione di aprire e concludere l'album, di introdurre le canzoni e nello stesso tempo costringe l'ascoltatore a mantenere alta l'attenzione sulla musica che può essere interrotta in ogni momento da Pizzul che chiede la linea per descrivere una occasione da rete o una sostituzione. La partita si conclude con un nulla di fatto ma a vincere è il duo Punto e Virgola che realizza un disco piacevole che sorprende sin dal primo ascolto.
Il racconto di questa surreale radiocronaca è scritto in collaborazione con il drammaturgo Federico Bellini mentre i testi di tre canzoni sono firmati da Eugenio Baroncelli, scrittore e poeta ravennate. Gli arrangiamenti musicali sono arricchiti dai contributi di Pier Foschi, Fabio Petretti, Roberto Villa, Roberto Leoncini, Giuseppe Zanca, Vanni Crociani, Miguel e Alessandro "Fabar" Fabbri degli Equ.
Con Gabriele Graziani abbiamo parlato in anteprima del disco e dell'incontro con Bruno Pizzul. 



Gabriele, prima di tutto spiegaci come siete riusciti a coinvolgere il grande Bruno Pizzul in questo vostro progetto discografico…

«Quando abbiamo scritto il disco, abbiamo trovato un filo logico invisibile capace di sorprenderci ma non di sorprendere, ci voleva una voce narrante, per collegare il tutto, anzi, la voce, e per quanto mi riguarda la voce in questione doveva essere assolutamente visibile ad occhio nudo; Pizzul fa parte del nostro dna, della nostra storia, anche per chi non ama il gioco del calcio, Pizzul è per eccellenza la nostra voce nostalgica. È stato stupendo parlare con lui, registrare da lui la sua voce tra il salotto e la cucina, dentro la sua quotidianità, tra una telefona alla figlia e un dialogo con la moglie "tutto molto bello". Eravamo a Milano ma potevamo essere ovunque, in un luogo senza età. Con lui il filo è diventato visibile e il disco è diventato romanzo».

Pizzul nel disco fa la radiocronaca di una immaginaria partita tra la nazionale dei poeti italiani e quella del resto del mondo. Chi ha avuto l'idea e quale senso ha all'interno del disco?

«La praticità della partita è il senso della poesia. Per quello che non viviamo ancorati tra il possibile e l'astratto; mi piace mescolare il tutto, due modi e due mondi apparentemente lontani che si uniscono dentro un'ipotetica partita senza tempo, anche se, il tempo paradossalmente passa ed è ben visibile».

Come è nato il duo Punto e Virgola e perché questo nome?

«Il duo è nato da un'amicizia che dura da tanti anni. Siamo due surrealisti che tentano di portare un'ancora da qualche parte... oppure un ancora? Boh, dipendiamo dall'accento. Il nome del gruppo nasce invece dalla salvaguardia della specie. Purtroppo non siamo più abituati alla sospensione lunga e non assoluta; io adoro le sfumature e il punto e la virgola fanno parte di una punteggiatura in via di estinzione».

Quando vi siete conosciuti e come sono nate le canzoni?

«Musicalmente parlando ci conosciamo da un paio d'anni. Nella conoscenza musicale abbiamo cominciato con l'idea di sostenere le canzoni da lato B, in particolar modo quelle di Gaber; il nostro assetto live è molto semplice, una chitarra e due voci. Le canzoni nascono di conseguenza, una voglia di stupire prima di tutto noi stessi con la speranza poi di stupire l'ipotetico pubblico».

Come vi siete divisi i compiti?

«I compiti sono divisi equamente. Parte un giro di chitarra di Alessandro e un testo già preparato in anticipo, il tutto viene modificato lungo il giro melodico…».

Usate testi divertenti e surreali ma in cui si coglie sempre un fondo di amarezza e di disillusione. I protagonisti raggiungono i traguardi sognati ma questi poi non appagano le aspettative. È così o sbaglio?

«Non sbagli, nel senso che dentro una canzone teoricamente ci può stare tutto; l'ironia, la parte surreale e il senso pratico, quando poi si raggiunge la tanto sospirata felicità è giusto cambiare cd. La felicità è nel passaggio, nella sospensione e nel respiro, il tentativo è quello di soffiare cambiando traccia; spostare il tentativo, questa è la regola da inseguire».

Con "1915" raccontate la storia di un ragazzo ventenne disertore che viene arrestato. E quest'anno cade il centenario dell'entrata in guerra dell’Italia. Una coincidenza o la vostra idea per ricordare l’evento?

«Considerando che le coincidenze non esistono il racconto è vero, almeno così mi hanno detto. È la storia del mio trisavolo disertore che per una serie di avvenimenti scappa e si ritrova arrestato durante il conflitto, nel tragitto per andare in prigione incontrerà un battesimo di una bambina, e quella bambina diventerà la sua sposa dopo vent'anni. Il potere della sintesi di una canzone fa il resto. Il tutto è realmente accaduto, il passaggio e il paesaggio temporale è durato vent'anni; la ritengo la canzone più surreale del disco proprio perché vera!».

Perché la scelta di utilizzare come immagine di copertina la foto del poeta ravennate Eugenio Baroncelli?

«Baroncelli oltre ad essere un amico è il più grande scrittore vivente italiano. È un misto tra Dalì, Paolo Conte e Mattia Moreni, è indubbiamente l'uomo dei nostri sogni».

Baroncelli è anche autore del testo di tre canzoni. Avete adattato scritti già esistenti o avete bussato alla sua porta?

«I testi suoi sono stati modificati e riportati alla forma musicale, anche se, fanno rima e hanno già un ritmo».

Il disco è entrato anche a far parte dei candidati all’Opera Prima del Premio Tenco. Poteva andare meglio o va bene così?

«Benissimo così considerando che il disco non è ancora uscito, più surreale di così! Giustamente diventa surreale anche la promozione».

Gaber, Jannacci e chi altri ha influenzato la vostra musica?

«L'ispirazione non si fida e prende spunto da qualsiasi cosa, un manifesto, una voce, un autore».

Nelle ultime pagine del libretto riportate un pensiero di Fernando Pessoa: «La letteratura, come tutta l'arte, è la confessione che la vita non basta». Per voi musicisti la vita non basta o la musica non basta alla vita?

«Quando il musicista s'inventa un silenzio consapevole, allora diventa consapevole del senso».

Gabriele, come andrà avanti l'esperienza con gli Equ dopo questo disco?

«Sempre meglio!».



Titolo: L'uomo dei tuoi sogni
Gruppo: Punto e Virgola
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche e testi Gabriele Graziani e Alessandro Maltoni)

01. Bruno Pizzul - Le squadre   [testo scritto in collaborazione con Federico Bellini]
02. La vigile urbana
03. Labbra blu  [Gabriele Graziani e Vanni Crociani]
04. 3,14
05. Non so se mi piego
06. Bruno Pizzul - Primo tempo  [testo scritto in collaborazione con Federico Bellini]
07. Cuoca  [testo di Eugenio Baroncelli]
08. Aiuto bagnino
09. Mia comunque  [testo di Eugenio Baroncelli]
10. Bruno Pizzul - 9° del primo tempo  [testo scritto in collaborazione con Federico Bellini]
11. L'amputato
12. 1915
13. L'ultima cena
14. Bruno Pizzul - Finale partita  [testo scritto in collaborazione con Federico Bellini]
15. L'uomo dei tuoi sogni  [testo di Eugenio Baroncelli]



mercoledì 31 dicembre 2014

L'esordio in "Crescendo" del Duo Bottasso





Originari di Boves in Piemonte, i fratelli Simone (organetto diatonico) e Nicolò Bottasso (violino) sono tra i più apprezzati interpreti di musica tradizionale della nuova generazione. È musica viva, attuale, quella suonata dal Duo Bottasso che non si limita semplicemente a proporre suoni del passato ma, partendo dalle proprie radici musicali, scrive nuove e attuali pagine di musica tradizionale e popolare. Questo è "Crescendo", disco d'esordio pubblicato il 13 dicembre da Simone e Nicolò, che sarà presentato il 2 gennaio a Loano nell'ambito di "Racconti d'Inverno", rassegna collegata alla decima edizione del Premio Città di Loano per la musica tradizionale italiana. Nell'album i fratelli Bottasso hanno raccolto un repertorio originale in cui le influenze jazz e i ritmi brasiliani si mischiano con le peculiarità della musica occitana e francese.
"Crescendo" è un disco di elevato spessore artistico che merita di essere annoverato tra le cose più belle e interessanti pubblicate in ambito tradizionale nel 2014. Musica colta che poggia su basi solide ma allo stesso tempo mai di difficile comprensione, cerebrale o, peggio ancora, noiosa. È invece ritmo e passione quello che sgorga da queste nove tracce che hanno visto la luce dopo un lungo anno di lavoro. Per il loro album i fratelli Bottasso hanno potuto contare sulla collaborazione di artisti di grande fama come la cantante sarda Elena Ledda, il percussionista brasiliano Gilson Silveira, il polistrumentista e compositore Mauro Palmas al liuto cantabile, il direttore dell’Orchestra Tradalp Christian Thoma al corno inglese.
Al ritorno da Rotterdam, dove studia composizione jazz, contemporanea ed elettronica, e prima di ripartire per Gent con gli Stygiens, siamo riusciti a contattare Simone Bottasso che gentilmente ci ha concesso l'intervista che segue.




Simone, spiegaci come siete arrivati a produrre il vostro primo disco.

«Io e mio fratello Nicolò suoniamo insieme da quando lui ha iniziato, a sette anni e adesso ne ha venti. Fin dall'inizio abbiamo sempre suonato in concerti da ballo, poi abbiamo avuto anche richieste in altri contesti e ci siamo esibiti in festival di world music, di musica classica. In questi anni in molti ci hanno chiesto di registrare un disco di musiche da ballo ma l'idea non ci ha mai convinto, anche perché pensiamo che il ballo sia molto legato alla performance, all'esibizione dal vivo. Abbiamo quindi aspettato di avere le idee chiare e l'anno scorso ci siamo finalmente decisi ad andare in studio di registrazione e il lavoro è durato tantissimo. Abbiamo iniziato giusto un anno fa, intorno al 20 dicembre se non ricordo male, e il disco è uscito il 13 dicembre di quest'anno».

"Crescendo" è un disco sorprendente per la qualità delle composizioni, per la freschezza e anche per la varietà di generi. Nel vostro viaggio toccate la musica occitana ma anche le sonorità mediterranee, il funk, la musica scandinava, irlandese, brasiliana. Come siete riusciti a racchiudere tutto questo in nove composizioni mantenendo comunque una struttura equilibrata al disco?

«Abbiamo fatto un bel lavoro di progettazione. Avevamo chiaro fin dall'inizio che il disco sarebbe stato molto vario, con diverse sonorità, anche perché non abbiamo mai ritenuto interessante registrare un album che fosse semplicemente di musica tradizionale. Abbiamo così progettato un disco molto vario e con alcuni ospiti. Certo, c'era il rischio di produrre un disco "arlecchino" con sonorità non collegate tra loro ma mi pare che anche la critica abbia apprezzato il lavoro che è stato fatto e quindi siamo soddisfatti. Per quanto riguarda la metodologia siamo partiti da un progetto iniziale a cui, man mano che siamo andati avanti, abbiamo aggiunto ospiti, brani che all'inizio non erano previsti, abbiamo composto musiche nuove come "Magicicada" e "Crescendo". Non abbiamo mai tolto nulla e questa è un po' una nostra tendenza, abbiamo solo corretto un po' la rotta del progetto».

In pochi anni siete riusciti a conquistare la stima di molti illustri colleghi, a partire da Riccardo Tesi che ha sempre speso parole d'elogio nei vostri confronti. E poi nel disco avete potuto contare sulla collaborazione di Elena Ledda, Mauro Palmas, Gilson Silveira, Christian Thoma direttore dell’Orchestra Tradalp...

«Per noi è un onore. Sono persone che conosciamo da tanto tempo e con cui abbiamo avuto la fortuna di suonare. Riccardo nel disco non c'è ma ci ha aiutati entrambi tantissimo dandoci fiducia e consigli, quindi lo consideriamo presente a tutti gli effetti. Con Riccardo inoltre ho un progetto attivo da tre-quattro anni che si chiama "Triotonico" (il trio di suonatori di organetto diatonico è completato da Filippo Gambetta, ndr). In "Crescendo" ci è sembrato giusto ripercorrere un po' tutta la storia del duo e della nostra musica e invitare questi grandi artisti. La loro presenza è stata per noi di grande aiuto».

Inoltre so che per due anni Riccardo Tesi ti ha affidato un ruolo importante nel festival "Sentieri Acustici" che si tiene tutti gli anni a Pistoia.

«Per due anni ho fatto quello che Patrick Vaillant ha fatto nell'ultima edizione del festival. Insieme a Nicolò, a Pietro Numico che ha curato la direzione corale e che lavora con me anche con Abnoba, e con gli ospiti che sono presenti anche nel disco come Gilson Silveira, il contrabbassista Luca Curcio e il chitarrista Francesco Motta abbiamo curato la produzione originale del festival. Il lavoro è consistito nel fare quello che normalmente faccio con Folkestra ovvero scrivere musiche originali per un ensemble, una orchestra di strumenti tradizionali e non, e un coro. È stata una bella palestra, con un po' di ansia perché è sempre stato molto difficile. In quell'occasione Riccardo mi ha dato tantissima fiducia, ha scommesso su una persona che non era conosciuta come compositore. Non avevo le credenziali per fare una lavoro così ambizioso, però ha funzionato e mi ha trasmesso la voglia di approfondire lo studio della scrittura e della composizione per orchestra e mi ha spinto a iscrivermi al Conservatorio di Rotterdam dove sto studiando adesso».

Dite che vi sentite più eredi che attori della scena folk revival. Ci spieghi il motivo.

«Abbiamo sempre vissuto la diatriba tra i tradizionalisti e chi faceva folk rock e non ci è mai piaciuto schierarci. Sicuramente quello che facciamo non è riprendere la musica tradizionale come veniva fatto dai nostri insegnanti o da chi ha suonato musica tradizionale prima di noi. Non è più tempo di folk revival, c'è poca possibilità di andare a "raccogliere" musica e secondo me è arrivato il momento di creare una nuova tradizione. Fino a 20-30 anni fa c'era ancora un po' di trasmissione di musica orale, adesso tutto viene fissato su cd e il tramandare musica, come avveniva tradizionalmente, non esiste più. Quello che tentiamo di fare è digerire la musica che abbiamo ricevuto e cercare di darle un futuro sottoponendola a un processo forzato di evoluzione».

Nella canzone che dà il titolo al disco ti sei cimentato nella composizione per un ensemble allargato di undici elementi. Quali difficoltà hai incontrato?

«Le difficoltà sono state legate alla mia crescita come compositore. Sto facendo un percorso da musicista contemporaneo e ho avuto difficoltà a trovare una relazione tra quello che sto studiando e quello che faccio abitualmente nel mio lavoro, cioè scrivere musica non troppo complessa, non troppo dissonante. La difficoltà è stata appunto trovare un collegamento tra il passato di musicista tradizionale e il mio presente di compositore contemporaneo. E poi ci sono state difficoltà logistiche visto che io ero in Olanda e i musicisti in Italia, e fare le prove e mettere insieme due universi musicali diversi, ovvero il quartetto d'archi classici e i fiati jazz, non è stato facile».

Che rapporto hai con tuo fratello Nicolò?

«Ci sono dinamiche interessanti. Certo, suonare in famiglia è per certi versi più facile. È più agevole comunicare quando si va d'accordo e quando invece non c'è unicità di vedute si trova facilmente una quadra perché c’è molta più sincerità e fiducia reciproca. Questo aiuta a superare le inevitabili difficoltà».

Ma alla fine chi prende l'ultima decisione?

«Alla fine sono io ad impormi perché sono più grande, ho più esperienza, ho avuto la possibilità di suonare in diversi gruppi, di fare musica. Poi adesso studiando composizione mi sto chiarendo le idee su certe dinamiche e quindi l'ultima parola ce l'ho io anche se non è sempre facile».

Mentre i vostri coetanei ascoltavano Kylie Minogue, Eminem, Cristina Aguilera e Robbie Williams voi quale musica ascoltavate?

«Tutte le cose che non ascoltavano gli altri. Questo a volte è un vantaggio ma ora lo considero anche un limite perché sento che mi manca un collegamento con la musica che la gente comune ascolta e capisce. A livello pratico abbiamo iniziato ascoltando tanta musica tradizionale, sia delle nostre parti che in generale di tutta l'Europa, poi ci siamo interessati entrambi al jazz e alla musica classica. Io ero un fanatico del rock progressive. E poi funk e ultimamente musica elettronica. Penso che sia indispensabile avere ampi orizzonti quando si vuole creare una musica al passo con i tempi».

L'album si chiude con "Magicicada", la storia della cicala che dopo diciassette anni passati sotto terra completa il suo ciclo vitale alla luce del sole. Una metafora per rappresentare cosa?

«Ho visto un documentario sulle cicale e mi è venuto da pensare a questi animaletti che passano quasi tutta la loro esistenza sotto terra. Sono la metafora di quelle persone che a un certo punto della vita si accorgono che la strada intrapresa è diversa da quella che immaginavano, e magari scoprono che c'è un sole che li aspetta da qualche altra parte. Quel sole è anche la foresta che si riempie di musica, come appunto quella della cicale. È l'augurio di un futuro migliore per tutti gli uomini che scoprono che là fuori c'è qualcosa di nuovo, magari legato alla musica. Ed è anche l'augurio che cresca l'interesse ad andare ai concerti e a investire nell'arte come liberazione dalle sofferenze».

Cosa hanno a che fare con la musica tradizionale le percussioni brasiliane di Gilson Silveira e l'uso della loop station nella canzone "Cosa faresti se non avessi paura?"?

«Un amico ha fatto una ricerca e ha scoperto che in Brasile vivono persone di origine occitana e le percussioni fanno parte di questo gioco. Poi sono anche il frutto di questa bella collaborazione che abbiamo avuto con Gilson Silveira nel progetto di "Sentieri Acustici". Il fatto di utilizzare l'elettronica e la loop station è un piccolo mattoncino che abbiamo posato per il futuro. Di cose che vorremmo fare… È stimolante l'idea di utilizzare le macchine per modificare il suono degli strumenti».

I puristi storceranno il naso, naturalmente…

«Temo che lo abbiamo già fatto ascoltando questo disco».

Quali sono le difficoltà più grandi che avete dovuto affrontare nella vostra carriera?

«Se devo essere sincero la produzione del disco è stata una di queste. Adesso che l'album è finito e che si fanno i concerti va un po' meglio. Il generale la situazione culturale e musicale in Italia è veramente terrificante e se ti capita leggi quel bel libro della Banda Osiris intitolato "Le note dolenti. Il mestiere del musicista: se lo conosci lo eviti", che descrive bene la situazione della musica attuale e consiglia a tutti di non iniziare assolutamente a suonare uno strumento perché non è quella la strada per sopravvivere».



Titolo: Crescendo
Gruppo: Duo Bottasso
Etichetta: autoproduzione / Visage Music
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche di Simone Bottasso, eccetto dove diversamente indicato)

01. Cosa faresti se non avessi paura?
02. Diatofonia N.7
03. Reina  [Simone Bottasso, Maria Gabriella Ledda]
04. Monkerrina
05. Bourrée  [trad.]
06. Receita de Samba / Scottish sfasà  [Jacob do Bandolim, Silvio Peron]
07. The rose of Raby / Incantata  [Dave Shepherd / Nicolò Bottasso]
08. Crescendo
09. Magicicada



martedì 23 dicembre 2014

"Wood Rock", il variopinto paesaggio dei Tamuna





I Tamuna arrivano da Palermo, dal triangolo formato dai quartieri Kalsa, Zisa e Noce. Nella loro musica si scorgono i segni delle culture che per millenni hanno contaminato e contribuito a creare quello che è oggi la Sicilia, la sua arte, i suoi uomini. Le mille sfaccettature di uno dei paesaggi culturali più ricchi e affascinanti si possono trovare in "Wood Rock", secondo album del gruppo dopo "Sicily World Music" e l'Ep in edizione limitata "15 minutes with Tamuna” pubblicato in allegato al libro di Daniele Billitteri "Homo Panormitanus". I ritmi della tradizione, quelli scanditi dalla tammorra, si mischiano e si fondono con influenze blues, reggae, rock e pop. Il "rock di legno" dei Tamuna ci mostra ancora una volta come la musica, così come la cultura popolare e l'arte, non siano entità statiche ma dinamiche che si evolvono e mutano attraverso continue contaminazione. In quest'ottica non ci si deve stupire se il tamburello va a braccetto con il cajón o se i testi delle canzoni dei Tamuna passano con disinvoltura dal siciliano all'italiano e all'inglese. Così come solo apparentemente può apparire strana la scelta del nome di questo quartetto. Il termine Tamuna è infatti di origine georgiana e significa portatori di pace ma è anche il nome della regina più importante della Georgia, "Tamar", detta anche "re dei re, regina delle regine", un personaggio leggendario di questa regione caucasica crocevia tra Europa e Asia.
Un mix di contaminazioni, quindi, che rendono questo disco, pubblicato sotto etichetta New Model Label,  fresco, moderno, ricco di fascino e suggestioni.
La line-up del gruppo è Marco Raccuglia (voce), Giovanni Parrinello (tamburello e percussioni), Carlo Di Vita (chitarre), Riccardo Romano (basso). In qualità di ospiti hanno collaborato Fabio Rizzo e il trombettista Alberto "Anguss" Anguzza.
In questa intervista collettiva ai Tamuna parliamo del disco e della variopinta cultura siciliana. 




Dal cuore di Palermo un album che sia apre all'esterno con canzoni che costruiscono ponti linguistici tra italiano, siciliano e inglese e di genere. Qual è il substrato culturale che ha fatto nascere questo interessante progetto?

«Nella nostra cultura sicula è insito più che mai il concetto di commistione, è più forte di noi, probabilmente è quasi un bisogno ancestrale quello di mettere insieme lingue e culture differenti. Basti pensare alle diverse matrici del nostro dialetto, condizionato da tante dominazioni (araba, greca, normanna, gallica, iberica). Siamo cresciuti ascoltando attorno a noi le mille sfaccettature del nostro dialetto, che cambia di quartiere in quartiere, penso che tutto questo ci abbia in qualche modo influenzato».

Prima dei Tamuna quali sono state le vostre esperienze in ambito musicale?

«Ognuno di noi viene da esperienze differenti, Giovanni con la compagnia del suo teatro ha portato la musica popolare siciliana in giro per il mondo, Marco ha lavorato dentro alcune importanti produzioni di musical, Charlie come chitarrista blues ha suonato il lungo e largo vivendo per un po' in Ungheria, e Riccardo ha alle spalle diversi anni di palco di ogni tipo».

Con "Wood Rock" il ritmo del tamburo si mischia a strumenti come il cajón che nulla hanno a che fare con la tradizione della musica del sud Italia. Qual è il messaggio che volete trasmettere con la vostra musica?

«Un messaggio di pace, intesa come unione anche tra cose differenti. La musica è una manifestazione assoluta di pace, perché mette insieme, in questo caso, uno strumento peruviano e uno appartenente alla cultura mediterranea senza creare alcun disagio».

"Gerlando" è ispirato al libro di Daniele Billitteri "Homo Panormitanus. Cronaca di un'estinzione impossibile". La musica contaminata, come appunto la vostra, potrebbe però portare, se non proprio ad una estinzione, ad un annacquamento delle caratteristiche peculiari della cultura siciliana, non credete?

«Assolutamente no. A nostro modo di vedere la tradizione deve sempre stare al servizio dell'innovazione. Siamo musicisti, non vorremo mai perdere lo spirito ingegneristico dell'inventore, perché altrimenti saremmo semplici custodi della nostra tradizione».

Proseguiamo a parlare della canzone "Gerlando" che si conclude con una citazione di "Hey Jude" dei Beatles. Un divertissement oppure la scelta voluta di contrapporre i Beatles e la cultura inglese a quella colorata e "rumorosa" siciliana?

«A dire il vero è solo un divertissement, una simpatica citazione che volevamo fare da sempre, ma anche l'ennesima dimostrazione che dentro la musica ci può stare veramente di tutto. Inoltre volevamo dare un'altra gioia a Gerlando».

In "Emanuele" affrontate il problema della condizione dei giovani laureati italiani costretti ad emigrare all'estero per trovare lavoro. Una piaga che colpisce non solo il sud Italia. Secondo voi quali sono le soluzioni migliori da adottare per la vostra terra?

«Purtroppo non abbiamo soluzioni immediate, siamo vittime di decenni di mala politica ed è da una "sana" politica che bisognerebbe ricominciare. Palermo ha uno dei centri storici più grandi d'Europa, colmo d'arte, e prima in classifica per non saperli sfruttare al meglio, bisognerebbe partire anche da questa consapevolezza e iniziare a cambiare lo stato delle cose».

Nel disco ci sono anche due storie d'amore come "Fimmina" e "Oro e rame". Ce ne volete parlare?

«L'amore da due prospettive molto differenti. Quello di "Fimmina" è un amore nostalgico, è quello dei nostri genitori che vivono insieme da una vita e non riescono a immaginarsi l'uno senza l'altro. Ma è anche una visione storica, nel senso che testimonia come la tecnologia, l'innovazione, e tutto ciò che abbia a che fare con l'artificio umano, in qualche modo ci condizioni nelle dimensioni più intime del nostro quotidiano. Quando "il telefono non stava in mano ma nel corridoio", alcune cose erano veramente impensabili. "Oro e rame" invece ci riporta nel nostro tempo, ciò che in "Fimmina" è nostalgico qui è effimero. La canzone gioca sull'idea che l'amore altro non è che una grande, bellissima, illusione, e dunque illuso è colui che confonde il rame per oro».

"Rosalia" è dedicata alla Santa di Palermo. Una bella donna che si è opposta alla volontà del padre e ha scelto di donarsi a Dio. Un vero atto di ribellione…

«Esattamente! Quello che ci piaceva far venir fuori da questa storia è proprio la dimensione profana. Volevamo dedicare una canzone al tema della violenza sulle donne, e abbiamo preso come riferimento una donna con le radici ben salde nella nostra cultura. Rosalia, bella come il sole, costretta a subire la violenza psicologica del padre che l'aveva promessa in sposa ad un ricco uomo che lei non amava, e per questo si rifugiò a Monte Pellegrino, dove morì, per sposarsi a Dio. A Palermo la gente è molto devota alla "santa" pur non avendo idea di chi fosse la "donna"».

Tutte le vostre canzoni si chiudono con un messaggio positivo. È una speranza o una visione della vita che condividete con la vostra generazione?

«È solo il nostro approccio, sentiamo la necessità di canalizzare tutto dentro un messaggio positivo, che poi diventi una speranza o semplicemente la possibilità di estraniarsi da tutto il resto per qualche minuto. Ma non è un dogma o una cosa che ci siamo prestabiliti, è andata così, magari nel prossimo disco sarà tutto diverso».

Partite dalle sonorità tipiche della tradizione siciliana per contaminarle e ampliare l'orizzonte sonoro. Qual è il vostro pubblico più affezionato?

«Vantiamo un pubblico variopinto, fatto di grandi e piccini ed è una cosa che ci rende orgogliosi. Vedere ai nostri concerti adulti "costretti" lì dai loro figli è una sensazione meravigliosa».

In Sicilia l'uso del dialetto in musica non è un evento raro. Mi sembra che ci sia molta voglia di conservare e divulgare la cultura siciliana, forse molta più di altre realtà regionali. Cosa ne pensate?

«Non ci abbiamo mai riflettuto abbastanza in effetti. Però siamo isolani, prima ancora di qualsiasi altra cosa. La nostra identità culturale è molto condizionata da questo fattore».

Il disco si chiude, a sorpresa, con una undicesima traccia che è una reprise di "Rosalia". Perché questa scelta?

«In realtà è esattamente il contrario di come sembra. La prima versione del brano è quella tammorra e voce che chiude l’album, successivamente abbiamo deciso di farne una versione in cui a suonarla eravamo tutti, ma abbiamo poi deciso di tenerle entrambe nel disco».

Con "Wood Rock" avete conquistato il premio della critica e il premio come miglior interpretazione al Premio Parodi. Un bel riconoscimento per un gruppo che è attivo solo da due anni. Che ricordi avete di questa recente esperienza?

«È stata un'esperienza magnifica. Siamo arrivati lì senza grandi aspettative, essendo un festival dedicato alla world music, ci aspettavamo di essere un po' snobbati. Invece abbiamo vinto il premio che proprio non pensavamo di vincere, quello della critica (oltre a quello per la migliore interpretazione) che è sempre quello un po' più ambito da noi musicisti».

È curioso come nel libretto abbiate deciso di non specificare gli strumenti che ognuno di voi suona. La vostra idea è di considerare i Tamuna una entità indivisibile o vi è passato di mente?

«È stata una scelta ponderata, ci piace l'idea di considerare Tamuna come un'entità indivisibile che si avvale di noi quattro ma senza gerarchie di sorta».

Quali sono i vostri prossimi progetti?

«Nei prossimi mesi porteremo la nostra musica fuori dall'Italia, esattamente a Londra. Abbiamo già diverse date e stiamo lavorando per incrementarle. E poi si vedrà».




Titolo: Wood Rock
Gruppo: Tamuna
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche e testi di Riccardo Romano, Carlo Di Vita, Marco Raccuglia, Giovanni Parrinello, eccetto dove diversamente indicato)

01. Penso
02. Fimmina
03. Ciuscia  [Raccuglia, Parrinello, Di Vita]
04. Gerlando  [Raccuglia, Parrinello, Di Vita]
05. Emanuele
06. Oro e rame
07. Rosalia
08. Seguimi
09. Never
10. Lasciala libera
11. Rosalia (reprise)



martedì 9 dicembre 2014

"Mo' mo'", i Gasparazzo e l'essenza delle cose




I Gasparazzo sono sulle scene da oltre dieci anni e si sono ritagliati il loro spazio nel panorama musicale italiano, quello che non si alimenta con show e concorsi televisivi ma che viene mantenuto in vita e in salute macinando chilometri, in macchina o in pullmino, per portare la musica sui palchi, nelle piazze e nei teatri dello "stivale" e anche oltre. Il gruppo emiliano-abruzzese, nato nel 2003 tra Bologna e Reggio Emilia, lo fa con una urgenza espressiva che non è scemata negli anni e che è ben rappresentata dal titolo del loro nuovo album, "Mo' mo'", ovvero, "proprio adesso, ora". Si tratta di un disco ricco di sfaccettature, in cui le tante anime del gruppo concorrono a mischiare sonorità rock a marcate influenze mediterranee, spruzzate reggae a qualche incursione nel combat rock e nel folk nostrano. Una lavoro che ad un primo superficiale ascolto potrebbe sembrare disomogeneo nella sua struttura portante ma che, a una più attenta analisi, dimostra di essere equilibrato e di possedere un filo conduttore ben preciso. Nove canzone, nove storie, compongono il sesto disco del gruppo. Con piglio a volte ironico e scanzonato, altre volte impegnato e drammatico, vengono descritti personaggi e situazioni della società moderna. Si passa così come estrema facilità da "Michelazzo" a "Rovesciala", canzone nata come inno ai Mondiali Antirazzisti, dal ragazzo di strada di "Centopelle" descritto da Carlo Collodi nella raccolta "Occhi e nasi" alla toccante "Cristo è là", in cui si è dato spazio alle parole scritte da Lino Aldrovandi, papà di Federico, studente ferrarese ucciso nel 2005.
La produzione dell'album, uscito sotto etichetta New Model Label, porta la firma del pianista e fisarmonicista Massimo Tagliata.
Dei Gasparazzo fanno parte Alessandro Caporossi (voce), Generoso Pierascenzi (chitarre, voce ed elettroniche), Giancarlo Corcillo  (fisarmonica), Roberto Salario (basso e contrabbasso), Lorenzo Lusvardi (batteria).
Noi abbiamo parlato con Generoso Pierascenzi che ci ha descritto "Mo' mo'", disco bello, stimolante e tutto da scoprire.



"Mo' mo'" …proprio ora, adesso. Per fare cosa?

«Per catturare l’essenza. Per dare alle sensazioni il tempo e lo spazio che meritano, per dare una valenza reale agli scambi interpersonali, agli incontri ed agli scontri. Non è un inno alla velocità o alla sintesi, al contrario il concetto è proprio quello di dare priorità all'istinto e poi "coccolarsi" le scelte fatte, che chiaramente non saranno perfette, ma resteranno nella nostra storia».

Il titolo però non è una espressione linguistica tipica della vostra regione d'adozione, l'Emilia…

«La nostra band è formata per 3/5 da abruzzesi ed io che sono cresciuto a Teramo sento molto familiare questa espressione. La nostra regione di adozione è l'Emilia dove il "mo'", che sta per adesso appunto, è sempre più presente ma è chiaro che è un termine migrante».

È il vostro quinto album in studio. Cosa è cambiato da "Tiro di classe", il vostro disco d'esordio del 2007?

«È cambiato soprattutto il metodo compositivo. Nel primo album avevamo attinto alla nostra passione per l'elettronica e per gli ascolti variegati cercando varie vesti ai brani e affidandoci, poi, a studi di registrazione. Sul nuovo lavoro siamo arrivati a comporre e preprodurre nello stesso momento, senza accanimento alcuno sui brani. Dedicando più tempo alla ricerca di timbri ed agli arrangiamenti anche grazie al fatto che registriamo nei nostri studi personali. Oggi, a differenza del primo album ricco di molte sonorità anche lontane tra loro, l’architettura sonora è più chitarristica anche se non emerge ad un primo ascolto».

Quale è stata la molla che vi ha spinti ad iniziare la registrazione del vostro nuovo disco?

«Nell'estate del 2013 avevamo pensato che potesse essere ora di tornare a comporre ma le idee erano vaghe e confuse. Nell'agosto dello stesso anno ho avuto un momento molto doloroso in famiglia in Abruzzo che mi ha riportato a Bologna in un isolamento fisico e sociale che è diventato immediatamente creativo e produttivo. Suonavo e registravo a tutte le ore con una vecchia Framus a 5 corde, una chitarra baritona per le linee di basso, un controller midi ed il microfono per la voce. Dopo un mesetto ho espresso ai ragazzi della band l'urgenza di suonare il materiale catturato in quei giorni. Abbiamo aggiunto un paio di idee di Alessandro (Caporossi, ndr) che erano già in cantiere e ci siamo messi al lavoro».

Raccontaci la genesi della canzone "Rovesciala", nata come inno dei Mondiali Antirazzisti.

«I Mondiali Antirazzisti hanno tenuto a "battesimo" o meglio "battezzo" la band Gasparazzo. Nel 2003 e poi nel 2004 abbiamo suonato per questo evento che abbiamo sempre comunque frequentato giocando con la squadra di Materiale Resistente, che era una associazione antifascista di Correggio. Nel 2013 ci hanno suggerito di partecipare al contest per creare un inno ed abbiamo scritto raccontando un pochino la nostra storia, oltre a "rovesciare" le parole del gioco del calcio a favore di un calcio e un mondo diversi. Ci hanno premiati con il secondo posto per il brano ed abbiamo quindi festeggiato i dieci anni suonando di nuovo, nel 2013, sul bellissimo palco nel tendone dei Mondiali Antirazzisti».

In "Michelazzo" cantante un personaggio <che mangia, beve e si fa il mazzo>. Chi è Michelazzo e quale personaggio famoso potrebbe rappresentare?

«D'istinto ti direi che nel mondo della cosiddetta indie music di "Michelazzi" ce ne sono tanti. Ma non è il musicista l'obiettivo della canzone. Michelazzo, quello creativo, è in ognuno di noi, alcuni ne hanno il talento e riescono a farne uno stile di vita. Alcuni hanno solo le possibilità economiche ma non il talento e vivono di imbarazzi. Io ne conosco almeno quattro dalla Sicilia al Piemonte. I più famosi (ma poco creativi) siedono in parlamento».

"Se i posacenere potessero parlare" è invece scritta in collaborazione con Mezzafemmina, all'anagrafe Gianluca Conte. Quando si sono incrociate le vostre strade?

«Con questa domanda approfitto per ringraziare Andrea Caporossi detto Zichietto che, oltre ad averci suggerito il nome della nostra band, è un valido collaboratore anche sul piano testuale. Lui ascoltava la musica di Gianluca, si sono conosciuti e loro hanno deciso il featuring coi Gasparazzo. È stato molto interessante lavorare con Mezzafemmina».

"Cristo è là" è dedicata a Federico Aldrovandi e il testo è basato sulle parole scritte da papà Lino in memoria del figlio assassinato. Come è nata questa canzone?

«Anche in questo caso Zichietto ha fatto da ponte tra noi e Lino Aldrovandi chiedendo materiali ed autorizzazioni. Avevamo a cuore il caso di Federico e di tutte le vittime delle istituzioni, così abbiamo conosciuto Lino e Patrizia. Ne è nata una collaborazione e soprattutto un incontro davvero speciale. Nel brano le parole di tutte le strofe sono opera di Lino».

Morti che in Italia, vista anche l'ultima sentenza in merito all’uccisione di Stefano Cucchi, non hanno un colpevole. Qual è la tua idea?

«La cosa assurda sta nel fatto che è ormai chiaro che il nostro Stato genera ed alleva la mostruosità. Occulta l'evidenza come se non fossimo tutti umani e digerisce la barbarie come se non esistesse più l'anima. Senza il rumore mediatico, la collaborazione di cittadini sensibili e l'incredibile forza delle disperate famiglie, non ci sarebbe neanche la ricerca della verità per queste morti assurde che, a mio personale avviso, sono anche rivendicate dai branchi in divisa quando attaccano Patrizia o Stefania che vogliono solo verità».

Per la produzione dell’album vi siete affidati a Massimo Tagliata. Da cosa possiamo riconoscere il suo contributo?

«Aveva masterizzato il nostro primo album e lo conosciamo dal 2006. Abbiamo pensato a Massimo perché ci piace il suo modo di lavorare, è molto schietto con noi e vive a dieci minuti da casa mia, per cui gli incontri ravvicinati, quelli veri, sono comodi e forse fanno la differenza. Il suo intervento è riconoscibile nelle eleganti sonorità delle fisarmoniche (il suo strumento oltre al piano) e nel carattere pop delle voci. Anche nella produzione dei beat elettronici il suo lavoro è notevole. In pratica Massimo ha reinterpretato quelle che erano le nostre sequenze elettroniche scure e giurassiche e come le sentiamo noi, in una veste più pop forse più adatta alle canzoni».

Come avete lavorato sugli arrangiamenti?

«Come ti spiegavo prima, io ho fatto un arrangiamento generale e di getto in fase di preproduzione. Era mia intenzione osservare l'album nella sua completezza per poi arrangiare i singoli brani, quindi volutamente si è lavorato su più canzoni simultaneamente. Nel registrare le tracce definitive si sono uniti i ragazzi della band per definire il tutto. Anche in studio, con Massimo, abbiamo preso decisioni importanti da questo punto di vista».

Questo disco è nato tra Bologna e Reggio Emilia ma il suono è geograficamente molto più esteso e se vogliamo anche molto più mediterraneo di quello che si potrebbe pensare…

«Forse viene fuori la voglia di viaggiare e l'ascolto di musica a 360 gradi. La band Gasparazzo ha comunque girato in lungo e in largo l'Europa, è stata anche più volte in Africa, in Albania e in tutta l'Italia. Abbiamo vissuto e suonato con brasiliani, argentini, africani, tedeschi. Anche le forme d'arte diverse tra loro si proiettano nel nostro lavoro e spesso in fase produttiva dobbiamo ragionare criticamente sui confini stilistici».

Eppure la fisarmonica rimanda a una tradizione folk molto ben radicata nella vostra regione. È questo l'elemento che più vi lega alla vostra terra?

«No, l'elemento che più ci lega all'Abruzzo è la cantata in strada, il suonare insieme bevendo vino e inventando giri e strofe con divertimento e dissenso. È vero anche che, se in Italia spesso ai bimbi si inizia a far suonare il piano, in Abruzzo la fisarmonica o meglio il più tradizionale du botte (organetto a due bassi) è quasi d'obbligo per la gioia e non dei piccoli musicisti. Negli anni Ottanta ti assicuro che erano tantissimi i virtuosi adolescenti che studiavano ad orecchio e facevano ballare intere piazze solo col bellissimo e ribelle du botte».

Tra le tante attività extra-musicali in cui siete impegnati c'è anche quella dei laboratori di rumoristica e di doppiaggio che portate nelle scuole. Ci spieghi di cosa si tratta e qual è lo scopo?

«Tra i tanti laboratori che io ed Alessandro (Caporossi, ndr) abbiamo tenuto, quello di cui parli è quello più potente in tutti i sensi. In poche parole lavoriamo con gruppi di ragazzi delle scuole medie ed elementari mettendo al centro dell'attenzione il suono e il rumore soprattutto. Si va dal creare una banca di suoni che i ragazzi portano da casa fino al vero e proprio doppiaggio di cortometraggi, cartoni animati o scene di film. Si producono i suoni e le voci in autonomia inventando strumenti, generando versi, frasi e tutto il necessario alla sonorizzazione di un filmato. L'esperienza, che rapisce noi, i ragazzi e le insegnanti che assieme a noi curano i laboratori, tende a sollecitare i sensi e l'attenzione verso gli eventi esterni, stimola la curiosità ed offre una opportunità per un riciclo creativo oltre a suggerire l'ascolto reciproco e l'interazione tra persone rispettando le dinamiche del lavoro di gruppo e dando voce e suono al silenzio».

Alla fin del libretto che accompagna il cd è riprodotto un personaggio che dice <ma non finisce qui!>. Ci lascia pensare che ci sarà un futuro per i Gasparazzo. In che direzione andrete?

«Il Gasparazzo che dice che non finirà è l'omino in salopette, operaio della Fiat nei primi anni '70, creato dalla matita di Roberto Zamarin. Ci piace contribuire alla sua memoria e lo ringraziamo, con queste citazioni nei nostri album, per la sua arte critica e appassionata. Il futuro della band è quello di suonare il più possibile questo album e nell'imminente è in programma una collaborazione con Massimo Tagliata che suonerà sul brano "Mimi", che probabilmente sarà il terzo singolo, seguito da un nuovo video dedicato all'arte di strada».




Titolo: Mo' mo'
Gruppo: Gasparazzo
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(testi di Alessandro Caporossi e musiche di Generoso Pierascenzi, eccetto dove diversamente indicato)

01. Rovesciala
02. Michelazzo
03. Mo' mo'
04. Agro 400
05. La tromba di Eustachio
06. Impulsi nudi
07. Centopelle
08. Se i posacenere potessero parlare  [testo di Gianluca Conte]
09. Mimi
10. Cristo è là
11. Fondaco