martedì 26 agosto 2014

"Marinere", il viaggio di Sergio Arturo Calonego





Si chiama Sergio Arturo Calonego e il suo "Marinere" è un disco per viaggiare, magari in perfetta solitudine lungo la strada fotografata in copertina. Pubblicato dal musicista milanese dopo l'esperienza con gli Arturo Fiesta Circo, l'album d'esordio accompagna l'ascoltatore in un percorso sonoro verso un orizzonte lontano in cui le note della chitarra sono gli unici punti di riferimento del paesaggio. Canzoni in cui compaiono solo raramente la voce dello stesso Calonego e di Sara Maria Giolfo, quasi esclusivamente a colorare melodie e arpeggi chitarristici. Il resto sono note di chitarra, suonata da Calonego in maniera sopraffina utilizzando tecniche percussive miste, basslines e tapping.
"Marinere" non è un disco da sentire distrattamente ma da ascoltare con attenzione per cogliere l'essenza espressiva e interpretativa di questo artista che non è passato inosservato alla critica (Premio Targa Siae 2014) e agli addetti ai lavori. Tanto che in questi giorni è stato coinvolto nel progetto "Happy birthday Grace", disco che celebra il ventennale della pubblicazione di "Grace", il disco capolavoro di Jeff Buckley. L'album tributo, registrato, mixato e masterizzato da Roberto Rizzi e Daniele Cetrangolo al QB Music Studio di Milano, è scaricabile gratuitamente da questo link http://goo.gl/N1FtI9
Abbiamo intervistato Sergio Arturo Calonego durante la registrazione della buckleyana "Lilac wine", un blues in cui la chitarra e la profonda voce folk del musicista milanese trovano massima espressività.




Sergio Arturo Calonego. Chitarrista o cantautore?

«Non credo siano cose tanto diverse. Personalmente quando scrivo, sia brani con testo che strumentali, cerco comunque di tradurre una storia o un'immagine. Non subisco più di tanto il fascino delle definizioni in sé. Personalmente mi trovo molto a mio agio nella definizione simpatica, spero nelle intenzioni, che mi è stata data di "acoustic sailor" (navigatore acustico, ndr) nella quale mi ritrovo molto perché credo definisca bene il mio approccio alla chitarra acustica».

La tua carriera è iniziata però con gli Arturo Fiesta Circo...

«In realtà ho iniziato molto prima, alla fine degli anni '80, sul finire della "Milano da bere". Ho suonato per molto tempo blues. Lo dico con un pizzico di orgoglio: sono uno di quelli che può dire di aver avuto il privilegio di aver suonato al Capolinea di Milano. Ho avuto la fortuna e l'onore di conoscere musicisti splendidi da cui ho imparato molto. Arturo Fiesta Circo è stata una cavalcata bellissima, di cui sono orgoglioso ancora oggi, iniziata nel 2007. Con il "Circo" ho approfondito il linguaggio dei cantautori. L'Arturo Fiesta Circo è stata un'esperienza preziosa che ha arricchito molto il mio bagaglio personale e quello di tutti i musicisti che hanno partecipato a questa avventura musicale che ci ha portato a suonare per tutta l'Italia».

Con l'album "Marinere", il primo a tuo nome, hai convinto la critica. La chiamata del Club Tenco e la Targa Siae cosa hanno cambiato nella tua carriera artistica?

«Con "Marinere" effettivamente è successo qualcosa che non ho capito bene neppure io. Ho registrato questo disco veramente a titolo personale e con una dichiarata intenzione d'archivio. E poi è successo che ho vinto una Targa Siae 2014, che mi è stata consegnata da Mogol in persona, e questa cosa mi ha dato una visibilità che non avevo mai avuto prima e che sicuramente ha anche sdoganato alcune occasioni e soprattutto alcuni giudizi molto lusinghieri nei miei confronti. Con il Club Tenco il discorso è un po' diverso perché sono persona conosciuta da tempo, ben prima della Targa Siae. Quello che mi ha sorpreso in Club Tenco non è stato l'invito ma l'accoglienza ricevuta; mi sono esibito da solo con questo formato che si posiziona fra quello del cantautore e quello del chitarrista acustico fingerstyle eppure l'accoglienza del pubblico del Tenco è stata davvero bella e mi ha sorpreso. Sono davvero riconoscente ad Antonio Silva ed Enrico de Angelis per avermi dato questa bellissima opportunità».

Sono arrivati anche i complimenti di Davide Van De Sfroos. Cosa ricordi e cosa ti ha lasciato a livello emotivo tutta questa notorietà?

«A livello umano mi è rimasto tanto. Davide Van De Sfroos è un musicista molto colto e, soprattutto, uomo cordiale ed elegante. La sua presentazione del mio set acustico a Monza in una Piazza Trento gremita di gente mi ha lusingato non poco e ti assicuro che non era assolutamente preparata né scontata. Detto questo però io devo dirti che vivo una condizione un po' diversa da quella dei musicisti pop. Vivo profondamente ed intimamente la necessità di migliorarmi come musicista e di approfondire ed espandere le potenzialità della "chitarra acustica contemporanea" - cito l’amico chitarrista Davide Sgorlon -; sento il dovere di scrivere musica di qualità e di pretendere da me stesso il massimo a livello di composizione ma del resto non mi cruccio più di tanto. Sono tutto tranne che un presenzialista, non credo di essere un personaggio molto mediatico e sono cordialmente disinteressato a cose tipo la notorietà fine a se stessa. Non fosse così avrei fatto scelte diverse e sono perfettamente consapevole che "Marinere" non è esattamente un disco per tutti».

Davide Van De Sfroos ha detto che il tuo modo di suonare la chitarra è come avere un laser e allo stesso tempo una fiamma ossidrica. Spiegaci questa tua tecnica.

«Davide è un cantautore che scrive testi di rara profondità per i giorni d'oggi ma è pure un chitarrista ritmico assolutamente credibile e convincente. Non è un virtuoso ma Davide la chitarra la suona bene. Detto questo il primo a essere sorpreso della presentazione che mi ha fatto sono stato io perché con Davide ci ho passato il pomeriggio ma non avevamo davvero preparato nulla. Per cui sentirgli citare nomi quali Michael Hedges o Tuck Andress mi ha lusingato e sorpreso allo stesso tempo perché in realtà abbiamo parlato più dei nostri figli che di chitarre. Credo volesse dire che sono preciso ed ho una buona tecnica di base. Innanzitutto io non utilizzo effettistica, loop o raddoppiatori di note per cui tutto quello che senti è veramente una chitarra acustica con l'aggiunta di un po' di riverbero. Chi si accorge subito di queste cose, solitamente, sono i fonici al check sound. Restando sulla tecnica della chitarra sgombero subito qualsiasi dubbio: tutti i chitarristi che sperimentano la percussività sulla chitarra acustica sono debitori con gente come Michael Hedges, Preston Reed, Don Rossed, io non faccio eccezione. Devo però riconoscere che il mio riferimento, chitarristicamente parlando, è Pierre Bensusan, un compositore e chitarrista franco-algerino a cui devo tanto in termini di ispirazione e consapevolezza. Paradossalmente la mia scelta di accordare la chitarra in DADGAD nasce lontano dai dischi di Bensusan, che è indiscutibilmente il maestro di questa accordatura, e più precisamente nella bottega di Paolo Zanni, mio amico e liutaio di fiducia. È lui in realtà che mi ha introdotto alla chitarra acustica e che mi ha fatto conoscere la musica di maestri quali John Renbourn. Per il resto devo dirti che, al di là della tecnica individuale, quello che conta nella musica sono le immagini o le storie che si ha intenzione di evocare. Viceversa un concerto di chitarra acustica, come qualsiasi tipo di concerto, rischia di risultare sterile e noioso».

Il tuo disco, "Marinere", ha avuto una genesi molto particolare. Ce la vuoi raccontare?

«"Marinere" in realtà doveva essere una demo "di classe". La verità è che è diventato un disco strada facendo. L'ho registrato in tre giorni con l'aiuto di Dario Ravelli (SuonoVivo / Bergamo) che è stato fonico e costruttore del suono dei concerti italiani di musicisti fantastici quali Gianluigi Trovesi, Jack DeJohnette, Robben Ford, Enrico Rava, Stefano Bollani, Jim Hall, Archie Shepp, Dave Holland e Pierre Bensusan. Abbiamo registrato la chitarra in una sala molto ampia, tutta in legno, adatta alla registrazione delle orchestre, per questo motivo il suono è così caldo e profondo. Insomma, alla fine il suono era bellissimo, l'esecuzione pulita e l'intenzione narrativa convincente: era un disco. A quel punto ho dovuto rincorrere le cose e fare, ex post, tutto quello che solitamente si deve fare per un disco: copertine, ufficio stampa, comunicati, fotografie, presentazioni... E da allora non mi sono ancora fermato. Colgo l'occasione per ricordare che "Marinere" è disponibile in versione digitale su tutte le principali piattaforme web mentre chi, romanticamente, desiderasse il supporto fisico potrà acquistarlo direttamente dal mio sito: www.calonego.it».

A chi sono dedicate queste canzoni?

«Le canzoni a nessuno. Il disco sì. "Marinere" è dedicato alle donne che "hanno saputo, sanno e sapranno aspettare". Il termine "Marinere" in realtà non esiste, è un'invenzione letteraria. Vuole essere un richiamo alle donne di mare, donne antiche, pazienti ma mai stupide. Donne che sanno essere forti, pazienti ma determinate. Donne che sanno cosa vogliono essere e che vogliono solo essere quel che sono. Donne mitiche, invincibili e dolci allo stesso tempo. Queste sono le immagini evocate in questo disco».

"Non ti crucciar" è forse il brano che più si differenzia dal resto del disco...

«"Non ti crucciar" è stato come inciampare la domenica mattina in una colazione che per le strade è già primavera. Una colazione all'aperto che ben ti dispone al sorriso. In realtà quando sei uscito di casa pensavi si trattasse di un giorno qualunque. Ma ti accorgi che non è così. È un giorno speciale e dicidi di viverlo così, senza farti troppe domande. Spiegar canzoni non è mai stato il mio forte».

Un disco intimo, per certi versi non immediato ma talmente ricco di suggestioni e spunti che invita a protrarre l'ascolto nel tempo. Ti aspettavi di raggiungere questo risultato?

«Rischiando di essere considerato un po' presuntuoso la risposta è sì. Perché questa intenzione è stata fortemente immaginata, perseguita e, mi permetto, cercata nel posto giusto che è il suono; perché al di là di quelli che possono essere i gusti personali, che non discuto, una chitarra acustica suona così oggi, suonerà così domani e suonava così anche ieri. Ho fortemente corteggiato questi colori perché desideravo un disco che non sfiorisse nel tempo. "Marinere" è così lontano dalle mode e dalla modernità che fra cinquant'anni suonerà nello stesso modo, e questo era esattamente quello che volevo che fosse».

Ci sono aspetti che ora vorresti cambiare nel tuo album?

«No!».

Artisticamente il tuo viaggio come proseguirà?

«Mi piace che mi parli di viaggio e non di progetti. Credo di più ai viaggi che ai progetti. Mi piace e ti ringrazio per la domanda perché mi permette di chiarire un paio di cose che mi stanno davvero a cuore. Prima di tutto mi piace risponderti che mi sento di dover proseguire con lo studio e l'approfondimento del mio strumento, la chitarra acustica. Intuisco un ampliamento della sua capacità espressiva in questo formato "one man orchestra" che ormai mi è stato cucito addosso. Artisticamente parlando il mio viaggio va in questa direzione. Dal punto di vista "rituale" invece devo dirti che mi sento lontano dalle liturgie consolidate dell'ambiente musicale mainstream, pop, indie. La visibilità che ho avuto in questi mesi mi ha molto gratificato e mi ha sicuramente aiutato a sdoganare alcune situazioni, questo non lo nego, ma non mi ci sono affezionato. Prevedo quindi mesi piuttosto silenziosi e di ricerca. Devo ammettere che con tre bimbi piccoli la sonorità che ci culla quotidianamente in casa rimanda più a un mercato di Marrakech che ai silenzi di una notte Himalayana ma io ho una grande capacità di astrazione e, soprattutto, dimestichezza con radici e luoghi dell'anima che sono sospesi fra la Val Cavallina e la Val Camonica. La maggior parte del mio materiale nasce lì. Sento il richiamo di queste valli e del loro silenzio autentico. Queste sono le coordinate, il viaggio poi si vedrà. Ho imparato a viaggiare senza troppe aspettative o programmi; quindi qualche concerto laddove richiesto e poi tanto studio».

Raccontaci qualcosa di "Baby", la tua chitarra acustica…

«"Baby"… Los Angeles è una città strana. Non si può dire che sia una bella città, eppure ha una luce tutta sua. Ricordo perfettamente questo cielo azzurro che sorride strano. "Baby" l'ho incontrata lì, a Los Angeles un po' per caso ed è stato amore a prima vista, come con quella città. Si tratta di una Martin HD28 una chitarra tradizionalmente votata al bluegrass ma io mi ci trovo bene anche se suono un altro tipo di musica. Ci sono chitarre molto più adatte al fingerstyle, lo riconosco, eppure nel tempo i suoi difetti sono diventati dei pregi. Ho imparato a dosare la sua voce potente e a utilizzare la potenza quando serve; ho imparato a usare bene la mano destra che è determinante nella gestione delle frequenze perché le nostre dita sono il miglior equalizzatore disponibile sul mercato. Le dreadnought sono considerate chitarre abbastanza scomode da suonare, e un fondo di verità in questa fama c'è, ma io ho trovato questa postura a metà fra il chitarrista flamenco ed il messicano che fa la siesta che forse è un po' irrituale ma alla fine risulta molto efficace perché mi permette di avere a portata di mano tutto lo strumento. Questo aspetto è molto importante se, come nel mio caso, utilizzi la chitarra acustica anche in funzione percussiva. E poi "Baby" ha un sorriso bellissimo. È una donna matura, gentile ma determinata. Sa benissimo quello che vuole e soprattutto quello che non è e che non vuole essere. Risultato finale è che quando la accarezzi lei sussurra ma se le chiedi di più, te lo sa dare».



Titolo: Marinere
Artista: Sergio Arturo Calonego
Etichetta: Via Audio Records
Anno di pubblicazione: 2013


Tracce
(Testi e musiche di Sergio Arturo Calonego)

01. Solisud
02. Suite R.
03. Marinere
04. Selina
05. Non ti crucciar
06. Saint Malo
07. Sotto la pioggia
08. Donegal



venerdì 22 agosto 2014

Fabio Balzano canta e suona "...per 10 minestre"






L'amore per la musica di Giorgio Gaber, Paolo Conte, Adriano Celentano fino ad arrivare a Vinicio Capossela a formare il fertile substrato, la parentela di sangue con la grande Rosa Balistreri, e la voglia di illustrare l'attualità con ironia, sarcasmo e poesia sono gli ingredienti di "…per 10 minestre", album d'esordio del cantautore fiorentino Fabio Balzano. Un disco in cui fotografie di un mondo in decadenza, dai colori a forte contrasto, si sposano a trame fiabesche. Il tutto prodotto da Gianfilippo Boni che ha saputo creare una miscela musicale che cattura e trascina l'ascoltatore in un travolgente giro di giostra. Un grande luna park di ritmo e imprevedibili citazioni in cui si spalancano ambienti jazz, popolari e manouche. I testi raffinati e la voce calda e ricca di teatralità di Balzano completano l'anatomia di questo disco d'esordio che si colloca tra i più interessanti e riusciti del 2014.
Un grande contributo lo hanno dato i musicisti chiamati a collaborare a questo progetto. A iniziare da Maurizio Geri, una delle anime di Banditaliana, il cui tocco di chitarra risulta essere fondamentale per tracciare l'intelaiatura delle canzoni. A completare il ricco elenco di collaboratori sono Gabriele Savarese (chitarra, mandolino e violino) e Mirco Capecchi (contrabbasso), già ospiti delle produzioni di Riccardo Tesi e Banditaliana, Andrea Melani (batteria), Nicola Cellai (tromba), Giacomo Tosti (pianoforte e fisarmonica), Marco Zenzocchi (basso), Claudia Borghesi (cori) e Simon Chiappelli (trombone) già al fianco di Paolo Benvegnù.
Dieci canzoni, dieci modi di vedere la realtà che analizziamo in questa intervista con la fondamentale collaborazione di Fabio Balzano.



Chi è Fabio Balzano?

«È una persona un pò balzana».

Ti presenti al pubblico con un disco dal titolo curioso: "…per 10 minestre". Che cosa rappresenta?

«Mi sono ispirato vedendo un documentario sulla vita del pittore Ligabue che cedeva i suoi quadri in cambio di qualche minestra. Rappresenta anche la volontà di parlare in almeno dieci modi diversi per poter raggiungere più persone possibili; le dieci minestre sono anche gli spiccioli che vengono dati all'arte; le dieci minestre sono dieci diversi sapori, le dieci minestre sono dieci "scomodamenti"».

Gaber, Paolo Conte, Capossela sembrano essere le tue fonti di ispirazione primarie. Sei cresciuto sentendo la loro musica o è stata una evoluzione?

«Quando ero piccolo mi addormentavo con Renato Carosone e Renzo Arbore in cuffia ma non sapevo nemmeno chi fossero. Poi, quando ho iniziato a studiare chitarra, mi sono avvicinato alla musica americana, alla fusion nera, ad artisti come Billy Cobham, Herbie Hancock, John Scofield. In seguito mi è capitato di ascoltare un paio di brani, "Canto e cunto" e "Cu ti lu dissi", della zia di mia madre, la cantautrice folk siciliana Rosa Balistreri; da quel momento ho iniziato a interessarmi solo al mondo del cantautorato italiano, partendo da Carosone per arrivare a Vinicio Capossela. In queste sonorità ho trovato un mondo che mi ha permesso di esprimermi come più ho desiderato, avvicinandomi alle mie stesse origini e tornando quindi a cantare anche le canzoni di Rosa».

Decisivo per la nascita di questo disco sembra essere stato l'incontro con Gianfilippo Boni. Ci racconti come è avvenuto e cosa ha dato al progetto?

«L'incontro con Gianfilippo è avvenuto grazie al contatto passatomi da un'amica in comune dopo che ha ascoltato, attraverso il telefono cellulare, le mie povere tracce di chitarra e voce. Le ho chiesto se conosceva qualcuno che mi poteva aiutare a registrare queste canzoni e lei mi ha indicato Gianfilippo Boni. Anche lui ha ascoltato i pezzi al cellulare e subito dopo mi ha proposto di fare un disco, e così abbiamo iniziato le registrazioni. Lavorare con Gianfilippo è stato facile dato che avevamo ben chiaro il risultato che volevamo ottenere, poi via via che il progetto ha preso forma è stato anche divertente! Per non parlare di quanto ho imparato in più di un anno di lavoro».

Con immagini evocative dipingi un mondo in decadenza. È questa la tua visione della società attuale?

«La mia è una visione, ce ne sono anche altre. Comunque basta pensare al significato stesso della parola società e a quanto in realtà applichiamo l'esatto contrario, in una forma di sterilizzazione e individualismo che realmente non aiuta nessuno. Capita spesso di stare, ad esempio, al tavolo con persone che invece di dialogare, hanno gli occhi fissi sui loro cellulari e puoi stare certo che l'unica informazione che riceverai sarà la data di acquisto del prossimo telefono. Insomma, mi pare che ci sia una tangibile dispersione e confusione nella società d'oggi. Si cerca, con estrema velocità, un'identità sempre più difficile da trovare, fino ad essere "barattoli di informazioni" e sempre meno individui con idee proprie basate su conoscenze esatte».

La figura femminile è molto presente nelle tue composizioni. Che rapporto compositivo hai con l'altra parte dell'universo?

«Sono tutte canzoni e "la canzone" è femminile! Il contrasto tra l'uomo e la donna e ciò che serve a sottolineare il continuo confronto, quindi la continua crescita, la scoperta dell'altra parte dell'universo. È attraverso la donna che si impara la vita».

In questo disco ti avvali di un nutrito gruppo di ospiti tra cui Maurizio Geri, chitarrista di Banditaliana. Cosa ti ha insegnato?

«Lavorare con Maurizio Geri è stato come assistere a un seminario sui tuoi stessi brani. Mi ha permesso di capire tanto e di crescere».

Ci presenti anche gli altri componenti della band che hanno contribuito alla realizzazione di "…per 10 minestre"?

«Certo! Andrea Melani, grande batterista, suonare con lui è divertimento e dottrina, il trombettista Nicola Cellai, il bassista Marco Zenzocchi con cui sin dall'inizio abbiamo lavorato e poi rodato le strutture dei brani, Giacomo Tosti che ha registrato sia il piano che la fisarmonica, Gabriele Savarese al violino, alla chitarra e al mandolino. Al contrabbasso Mirco Capecchi, più la voce di Claudia Borghesi e il trombone di Simon Chiappelli a rifinire. E un singolo intervento, nella decima traccia del disco, di Gianfilippo Boni».

Esordire a 35 con un disco in un momento in cui il mercato è saturo ha ancora un senso? Perché lo hai fatto?

«Questa è la domanda che mi facevo anche io e in realtà ci ho scritto anche una canzone che propongo dal vivo. È un valzer e si intitola "Valse la lagna…?" Forse no o forse sì ed è proprio questo che mi incuriosisce. La passione che provo per questo mondo non mi avrebbe mai permesso di non farlo».

Quando ti sei avvicinato alla musica?

«Molto tardi, a 17 anni quando ho comprato una chitarra elettrica e e ho iniziato a suonare con gli amici».

Qual è la canzone italiana che preferisci?
 

«"Storia d'amore" di Adriano Celentano».

Secondo te quale tra espressività, capacità tecnica, scrittura è la dote indispensabile per essere un buon cantautore?

«La scrittura è indispensabile ma da sola non basta. Penso che ci voglia il giusto equilibrio tra la conoscenza e l'estro. Ci vuole sia il cielo che la terra, la tecnica e l'espressione… ma soprattutto la vita».

Cosa c'è nel tuo futuro?

«Domanda di riserva?».



Titolo: ...per 10 minestre
Artista: Fabio Balzano
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(Testi e musiche di Fabio Balzano, eccetto dove diversamente indicato)

01. Il mio castello
02. Sol le ali del mio angelo  [testo di Daniele Guidotti e Giuseppe Luchetti, musica Fabio Balzano]
03. Tengo tango
04. Il passo della scossa
05. Il peso di una rosa
06. Esosa
07. Ti rubo i rossetti
08. Punto zero  [testo di Daniele Guidotti e Giuseppe Luchetti, musica Fabio Balzano]
09. Thunderberry STFMRR
10. Sveglio





sabato 16 agosto 2014

"Iettavuci", il grido di verità di Francesca Incudine





La cultura e la memoria della Sicilia risuonano forti in "Iettavuci", primo disco della cantautrice Francesca Incudine. La ventisettenne artista, originaria di Enna, manifesta in queste tredici canzoni, prodotte sotto la direzione artistica del fratello Mario Incudine, tutta l'urgenza di far sentire al mondo la propria voce. Brani che raccontano e descrivono con straordinaria freschezza e intensità il complesso mondo femminile segnato da delusioni, amori presenti e passati, sentimenti e scelte di vita. Quasi fosse un personalissimo diario scritto da Francesca utilizzando il dialetto siciliano, a conferma del marcato spirito di appartenenza alla terra e alla cultura della sua regione. Una scelta che esalta la musicalità delle parole e i colori dell'isola in un contesto musicale nuovo che trova però nella tradizione i caratteri fondanti. Gli arrangiamenti raffinati ed eleganti hanno la riconoscibile impronta della mano di Mario Incudine che ha potuto contare sulla collaborazione di Antonio Vasta (fisarmonica, organetto e pianoforte) e di Carmelo Colajanni (flauto, clarinetto e zampogna). Al disco partecipano anche Rita Botto (voce), Angelo Loia (chitarra e voce), Giorgio Rizzo (percussioni), Salvo Compagno (percussioni), Manfredi Tumminello (chitarra), Pino Ricosta (basso e contrabbasso), Placido Salamone (chitarra), il Dammen Quartet (Alexandra Butnaru, Elisabetta Ligresti, Maria Antonietta Pappalardo e Joanna Pawlik) diretto da Antonio Putzu e lo stesso Mario Incudine (cori, mandola, mandolino, chitarra battente, chitarra classica, armonica a bocca) in cinque canzoni.
Un disco che ha conquistato la critica e che ha ottenuto quattro riconoscimenti al Premio Parodi 2013, ha permesso a Francesca Incudine di vincere recentemente il concorso nazionale "L'artista che non c'era" ed è entrato nella top ten dei migliori dischi del 2013 scelti dalla giuria del prestigioso Premio nazionale Città di Loano per la musica tradizionale italiana.
In questa intervista abbiamo approfondito la conoscenza di Francesca e della sua musica.    




Una ragazza giovane e bella che "grida ad alta voce"! Perché tutta questa urgenza espressiva dichiarata dal titolo?

«L'urgenza espressiva è una necessità dell'anima. "Iettavuci" letteralmente non si può tradurre, e si fa carico di questa impellenza nel farsi sentire, nel dire a voce alta a se stessi e al mondo ciò che si pensa; spesso non riusciamo a dire la nostra, o rinunciamo a farlo, perché prima non lo abbiamo detto a noi stessi. Quindi è un grido di verità, uno sfogo personale, ma anche una volontà forte di dire quello che non va, di denunciare, di essere voce per chi voce non ne ha. La musica mi è sempre stata alleata in questo, mi ha sempre sostenuta e mi ha dato la forza dell'espressione, e d'altronde penso che a questo serva. Per cui la musica al mio "servizio" e io al servizio della musica per dire a tutti "chista è la vuci mia", eccomi, eccomi al mondo».

Qual è il messaggio che vuoi che tutti capiscano? 

«Il messaggio che canto vuole toccare la profondità di ognuno, vuole tentare di risvegliare la testa e il cuore, la coscienza, la propria capacità di stare al mondo e di dire ciò che si pensa senza paura, ma con forza e determinazione (non con la violenza), rimanendo fedeli a se stessi, ma nello stesso tempo aprendosi al confronto per riceverne arricchimento. Vorrei fosse un messaggio, il mio, non da comprendere, ma da "sentire" e vivere nella propria vita come meglio si crede, come meglio si può».

Per farlo hai usato il siciliano. Non pensi che possa essere un limite nella comprensione dei testi? 

«Il fatto che qualcosa si possa "sentire" (e quindi poi comprendere, sicuramente) prescinde dalla lingua che si usa. Per me il siciliano è sicuramente lo strumento linguistico più affine a quello che ho da dire, in questo momento, ma è al pari di qualsiasi altra lingua. Facendo esperienza all'estero, ho avuto modo di constatare come di fatto, il siciliano, e ripeto qualsiasi altra lingua, se si fa veicolo di un "sentire vero", non costituisca limite alcuno. Certo, è chiaro che a volte mi trovo in contesti in cui non vengo compresa, ma perché non fare uno sforzo e fare appello anche alla propria curiosità e voglia di imparare? Io, per prima, adoro cantare e imparare una nuova lingua. E spesso, mi chiedo anche... quanta musica "altra" circuita nelle nostre radio che accogliamo anche senza capirla. La domanda diventa quindi (secondo me), quanta voglia abbiamo di misurarci con quello che non conosciamo? È solo quello il limite».

Con straordinaria intensità riesci a descrivere il complesso universo femminile. Quali sono state le esperienze che ti hanno fatto raggiungere questa maturità compositiva? 

«Ti ringrazio di avermi attribuito questa maturità compositiva, ma sono felice di potere dire che sono ancora in crescita. Tanto vasto è l'universo femminile, e tradurlo in musica è stato il mio primo passo per tentare di comprenderlo, per tentare di comprendermi in un periodo di grandi cambiamenti, di grandi travolgimenti, di amori perduti, di amori ritrovati, di pensieri impauriti. Alcuni brani sono storie e sentimenti comuni, in cui ogni giovane donna, anche solo per un momento, si è ritrovata; altri sono sguardi delicati, sognanti, sospesi; altri ancora, come "Mi mettu o suli" sulla violenza sulle donne, sono reali, moniti per riconquistarsi e tornare a vivere».

L'attaccamento alla tua terra traspare evidente dai testi delle tue canzoni ma saresti disposta a trasferirti al nord per fare carriera?

«Proprio in questi giorni ho tanto pensato alle tante battaglie quotidiane che affronto nella mia terra; quanto è difficile amarla e sentirsi morire quando il pensiero di lasciarla ti sfiora, quando la stanchezza e la paura di non farcela prendono il sopravvento. Ma se andiamo via tutti, chi resta a curare le ferite che noi stessi siciliani le infliggiamo? Cantare è un modo di resistere, di amarla, anche se non sempre basta. Sì, sono molto attaccata alla mia terra e voglio provarci a farmi sentire da qui. Per me non esiste il nord e il sud, esiste solo la voglia di fare a qualsiasi latitudine».

Il disco è prodotto da tuo fratello Mario, di sei anni più grande di te. Che rapporto hai con lui e quanto ha inciso nella realizzazione di questo disco?

«Sono onorata di avere avuto accanto Mario in questo mio primo lavoro; come fa ogni fratello più grande, mi ha preso per mano e mi ha guidata, lasciandomi cadere, lasciandomi sbagliare, lasciandomi essere me stessa. È un fratello fantastico, e un artista eccellente, la mia stella polare, una fucina di idee, inesauribile, per cui collaborare con lui è una ricchezza, ma la cosa più bella è che ognuno lascia libero l'altro di scegliere cosa essere e cosa fare, perché i punti di vista sulle cose sono diverse, e questa è una grande risorsa per entrambi».

Ci racconti come è nata la cantautrice Francesca Incudine?

«La cantautrice Francesca Incudine è nata una notte di qualche anno fa, in preda a una disperata esigenza di scrivere e di affidare a un foglio le parole più nascoste e rimaste in gola; poi le parole hanno chiamato la musica e da quel momento il flusso è stato inarrestabile. Penso che succeda così per chi comincia a sentire di avere delle cose da dire. Ho iniziato a suonare e a cantare molto piccola, ma non avevo mai cantato qualcosa di mio, mi ero rifugiata nelle parole degli altri, fino a quando ho sentito di dovere mettere in musica me stessa, per cui ho iniziato a cantare di me, e poi della mia terra, e poi delle storie degli altri, di quelle che vado cercando ogni giorno negli occhi che incontro».

Un disco e hai già conquistato la critica. Dopo i riconoscimenti ottenuti al Premio Parodi 2013 è arrivato anche il successo nel concorso "L'artista che non c'era" e sei entrata nella top ten del Premio Città di Loano per la musica tradizionale italiana. Quale sarà il prossimo passo?

«È stato un anno intenso, di tanti riconoscimenti e gratificazioni, che mi hanno fatto sentire di essere sulla strada giusta. Le speranze e i passi da compiere sono molteplici e le persone da raggiungere ancora di più. Un occhio al presente e uno al futuro, con un secondo disco da realizzare e tanti palchi ancora da calcare e dai quali farmi sentire».

Nel disco ci sono anche ospiti importanti tra cui Rita Botto, recentemente protagonista a Loano con la Banda di Avola. Come è nata questa collaborazione?

«Rita Botto è sempre stata un albero di canto per me. Quando abbiamo messo le mani sul brano "Sula", nel quale duettiamo insieme, sentivamo di avere bisogno di una voce che facesse da contraltare per timbrica e per intensità alla mia giovane e delicata voce, a raccontare i due volti di una stessa medaglia, i volti di una terra che è nello stesso tempo madre, donna, "isula" solitaria in mezzo al mare, in attesa che qualcosa di buono accada. E Rita era la voce giusta, è stata disponibile, gentile, splendida e per me è stato un sogno sentire la mia voce accanto la sua».

Nel disco rendi omaggio anche a Bianca d'Aponte cantando e adattando "Ninna nanna in re". Cosa ti ha colpito di questo brano?

«"Ninna nanna in re" mi è entrata nel cuore e non è andata più via. La dolcezza di questo brano mi ha rapita; cantarla rende viva la memoria di Bianca, tutti i suoi sogni. Me ne sono innamorata subito dopo averla ascoltata e ne ho tradotto una parte in siciliano. È la canzone delle possibilità, delle strade che non abbiamo mai percorso, delle chiavi che non abbiamo mai trovato per aprire le porte che avremmo voluto aprire, delle paure che si sciolgono nel canto. E la cosa più bella è stato leggere tutto questo negli occhi commossi di Gaetano, il padre di Bianca. La cosa più bella è leggere l'emozione negli occhi di chi ascolta questo brano».

Quale canzone ti rappresenta maggiormente?

«È sempre difficile rispondere a domande di questo tipo, perché sarebbe come scegliere tra dei figli. Sono legata a tutti i brani per un motivo o per un altro, ma se dovessi dire quale brano mi rappresenta maggiormente in questo preciso momento, sceglierei "Iettavuci", perché li racchiude tutti».

Siciliana di Enna, eppure in quattro episodi del disco è presente il mare. Cosa rappresenta per te?

«Sono siciliana. Il mare è dentro di me, nei miei pensieri, è l'infinità possibilità, lo spazio aperto, la profondità, perfetta metafora di uno stato d'animo».

Dopo l'ultimo brano, "Nta sta notti", il disco si chiude con un cantato "fantasma". Ci spieghi il significato?

«Ho sempre desiderato che il mio disco contenesse la "traccia fantasma"; questa, in particolare, è cantata da una mia zia; lei riporta un canto che uno spasimante di mia nonna le cantava alla finestra. Un piccolo ricordo che ho voluto inserire "picchì cu canta nun mori mai"».


Titolo: Iettavuci
Artista: Francesca Incudine
Etichetta: Finisterre
Anno di pubblicazione: 2013


Tracce
(testi e musiche di Francesca Incudine, eccetto dove diversamente indicato)


01. Curri
02. Disiu d'amuri  [testo F. e M. Incudine, musica Mario Incudine, Antonio Vasta, Roberta Gulisano]
03. Iettavuci
04. Ninna nanna in re  [Bianca d'Aponte, rielaborazione in siciliano Francesca Incudine]
05. Intermezzo  [Mario Incudine]
06. Caminu sula
07. Mi mettu o suli  [Mario Incudine]
08. Posidonia  [testo Mario Incudine, musica Mario Incudine e Antonio Vasta]
09. Intermezzo II  [Mario Incudine]
10. Luna  [testo Francesca Incudine e Roberta Gulisano, musica Francesca Incudine]
11. Sula  [testo Francesca e Mario Incudine, musica Francesca Incudine e Mario Di Dio]
12. Cori stunatu  [testo Francesca Incudine, musica Mario Incudine]
13. Nta sta notti  [testo Francesca Incudine, musica Francesca e Mario Incudine]



venerdì 18 luglio 2014

Le canzoni della marea degli Oceans on the Moon





Andrea Leone e Marco Martini si sono conosciuti sui banchi di scuola alla fine degli anni '90. Sono diventati amici e hanno coltivato la comune passione per la musica. Un percorso che li accomuna a molte band che in età giovanile hanno gettato le basi del loro successo. I due giovani musicisti genovesi, dopo aver militato prima nei Monoxide Interlude, band di rock alternativo, e poi nel trio Mr. Tonight Show, progetto maggiormente orientato all'elettronica, nel 2012 hanno dato vita agli Oceans on the Moon. Da lì il passo è stato breve: un Ep, "First step to Graceland" nel 2013, seguito dall'album d'esordio intitolato "Tidal Songs" prodotto al Green Fog Studio di Genova e l'organizzazione di un tour promozionale per l'autunno.
Ispirati dal rock strumentale di band come Mogwai, Destroy You e Mono, dal rock alternativo di Radiohead, Cure, Interpol e dei primi Coldplay, nonché dall'elettronica indie tedesca, gli Oceans on the Moon nel loro album presentano otto brani che fanno viaggiare l'ascoltatore in un costante fluire di sensazioni ed emozioni, tra le onde dell'oceano e la faccia silenziosa della luna. Un senso di anti gravitazione sonica trascina in un mondo nebbioso e stratificato dove l'amalgama di suoni è dominata dall'elettronica, sempre ben calibrata, che non toglie però respiro e spazio ad altre interessanti soluzioni. Un ottimo disco d'esordio per il duo genovese che sarà ora chiamato a confermarsi in ambito live.
Abbiamo parlato con Andrea e Marco del progetto e delle loro speranze future. Il tutto in questa intervista.




Come nasce il progetto Oceans on the Moon?

«Nasce dall'incontro di due… nerd musicali. È stato tutto molto semplice e spontaneo, d'altronde ci conosciamo da tempo. Abbiamo deciso di condividere il nostro bagaglio di gusti e di esperienze, per fare qualcosa che ci desse buone vibrazioni. Volevamo anche provare a ritagliarci uno spazio nella scena underground, senza dover necessariamente "vomitare" nei microfoni  o atteggiarci da superdotati, secondo quella che sembra essere invece una tendenza tanto comune tra le cosiddette band emergenti».

"Tidal songs" è il vostro primo disco. Cosa vi ha spinto a pubblicarlo?
 

«Quest'album è la naturale conseguenza del lavoro svolto assieme in questi anni. Avevamo composto un discreto numero di brani, che avevano coerenza tra di loro e potevano quindi essere raggruppati all'interno di un unico album. Così è nato "Tidal Songs"».

Quale idea è alla base di questo cd?

«Premesso che "Tidal Songs" non è nato come un concept album né ha la pretesa di esserlo, forse più che un'idea ben definita c'è un groviglio di umori e di domande istintive, alla base del cd. Una certa irrequietezza esistenziale, se così si può dire… Ricerca interiore. Chi siamo? La domanda da un milione di dollari che tutti, prima o poi, ci poniamo nel corso della vita. Noi siamo quello che suoniamo».

Ascoltando il vostro disco è inevitabile ripensare ai Mogwai o ai Mono ma quali sono stati gli ascolti musicali che maggiormente vi hanno influenzati?

«Le due band che hai citato hanno avuto, e hanno tuttora, una grande influenza su di noi. I Mono sono un "viaggio"! Possiamo dire che un album in particolare, prima ancora che una band, ci aveva colpito moltissimo, ed è stato "Kid A" dei Radiohead. Quel disco ci ha indicato un modo diverso di fare musica, che prima ignoravamo completamente».

Voi siete di Genova e il mare è lì davanti. Flusso e riflusso delle onde che è avvertibile distintamente anche nelle tracce sonore del disco. Vi siete fatti ispirare?

«Indubbiamente sì, anche in modo inconscio, implicito, per essere nati e cresciuti in una città che sa di mare e di fogna, di grandi masse d’acqua così come di rivoli che si disperdono nei suoi vicoli bui».

Chi di voi si riconosce maggiormente nella luna e chi nell'oceano?

«Abbiamo caratteri diversi. Marco, più flemmatico e costante, ricorda maggiormente la luna, che ogni notte si affaccia sul mondo, regolare, da sempre. Andrea è più spontaneo ed emotivo, in questo ricorda il continuo variare di stato dell'oceano, e il rifrangersi delle onde».

Toglietemi una curiosità. Perché la canzone "Children of Greece" è titolata in greco?

«Il titolo esprime esattamente il significato del brano: si tratta infatti di un pezzo dedicato ai bambini greci, sacrificati sull'altare dell'austerità dall'Unione Europea e dal FMI. Siamo rimasti profondamente turbati dai racconti provenienti dalla Grecia, riguardanti tantissimi minori costretti a trovare rifugio negli istituti religiosi, poiché i genitori non avevano più sufficienti risorse per mantenerli. Anche la scelta di inserire un frammento vocale dallo splendido film di Wim Wenders "Il cielo sopra Berlino", ha senso nel contesto emotivo, sociale e politico in cui è nato il brano».

Come gestite gli equilibri artistici e umani all'interno del vostro sodalizio?

«Siamo assolutamente "democratici", merce rara nel campo musicale, dove purtroppo abbondano le "prime donne", soggetti abilissimi nello sfasciare i gruppi dall’interno. Quando uno di noi ha un'idea, la sottopone all'altro, e se l'idea è valida ci si lavora insieme, senza preclusioni di alcun tipo, nel pieno rispetto reciproco. Va anche detto che, conoscendoci da tempo, siamo sicuramente facilitati in questo».

In che modo si sono svolte le sessions di registrazione dell'album?

«Home recording: l'album è stato registrato interamente nelle nostre abitazioni. Registravamo le nostre parti da soli, al computer, oppure ci vedevamo appositamente e registravamo assieme. L’home recording è una pratica in linea coi tempi, a fronte di una spesa iniziale per i software e le apparecchiature, ti dà piena libertà in ogni fase del processo di registrazione, dalla scelta dei suoni alla registrazione vera e propria delle parti. Molti singoli di successo oggi vengono  registrati e prodotti letteralmente negli scantinati e nelle soffitte! A registrazioni ultimate, per il missaggio e la produzione ci siamo affidati al Green Fog Studio di Genova».

Quali sono i vostri progetti futuri?

«Abbiamo intenzione di realizzare un videoclip e di rilasciare un singolo, subito dopo l’estate. Ci stiamo anche preparando per suonare dal vivo, stiamo facendo delle sessioni di prova in formazione a quattro, con batterista e chitarrista, per rendere più solido il nostro live. Stiamo già ragionando su alcune ipotesi di date, contiamo di portare "Tidal Songs" in giro per l’Italia nel prossimo autunno».



Titolo: Tidal songs
Gruppo: Oceans on the Moon
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(testi e musiche di Marco Martini e Andrea Leone)

01. Kali yuga
02. Kate austen
03. In stop motion
04. Prometheus failure
05. Garden
06. Nuvole
07. Παιδιά της Ελλάδας (Children of Greece)
08. Quick love






giovedì 10 luglio 2014

John Strada con "Meticcio" tra l'America e l'Emilia





Ci sono tutti gli ingredienti delle storie di provincia e il suono dell'America nel nuovo album di John Strada. "Meticcio", il sesto lavoro del cantautore emiliano, è un ponte che lega piccoli frammenti di vita quotidiana, i personaggi, gli ideali, le passioni, i sogni in frantumi e i drammi di una comunità di provincia alla maestosità del rock, alla sensibilità del folk e al calore del soul. Una lente d'ingrandimento che negli ormai venticinque anni di carriera John Strada, all'anagrafe Gianni Govoni, ha imparato a usare con precisione mettendo in evidenza la poesia e i sentimenti delle piccole cose. Quella porzione di Emilia compresa tra Modena e Ferrara è il punto di riferimento per racconti che possono però adattarsi a molte altre realtà. I bar aperti fino a tardi, le storie d'amore andate a finire male, le promesse che diventano bugie, i sogni di ragazzo che si scontrano con la dura realtà del diventare adulto e soprattutto l'amore incondizionato per la propria terra sono alcuni degli elementi che compongono il canovaccio che John Strada canta con estrema onestà in questo disco. "Meticcio" è un album che spalanca una finestra sulla vita di tutti i giorni e lo fa con freschezza e sensibilità.
In questo compito John Strada si è fatto aiutare dai fidati Wild Innocents formati dal bassista Fabio Monaco, dal batterista Alex Cuocci, dal tastierista Daniele De Rosa e dal chitarrista Dave Pola. Il disco è stato pubblicato dalla New Model Label.
I particolari e le curiosità su "Meticcio" ce le ha rivelate John Strada in questa intervista. 




John, partiamo da una domanda semplice. Come e quando è nato questo tuo nuovo disco?
 

«Avrebbe dovuto essere pubblicato quasi due anni fa, ma poi abbiamo deciso di fare uscire il doppio "Live in Rock’a" e così le registrazioni sono state posticipate. L’idea originale era di pubblicare un doppio cd, di cui uno rock e uno acustico, poi mentre mixavamo "Live in rock’a" ho scritto nuove canzoni e il progetto del nuovo disco è cambiato fino ad arrivare a "Meticcio"».

Che significato ha il titolo "Meticcio"?

«Un cd con più generi musicali. Essenzialmente rock, ma ci sono canzoni folk, swing, rhythm’n’blues. Avrebbe dovuto esserci anche un bluesaccio ma alla fine non abbiamo fatto in tempo a registrarlo».

Anche in questo disco paghi con onestà e buon gusto il tuo debito di ispirazione al rock americano. Quando è iniziato il tuo amore per quel genere musicale?

«A 13 anni ascoltavo Motorhead, Ted Nugent (di cui non condivido nulla di quello che dice e pensa!) ed altri. Poi per caso ho sentito una canzone di Bruce Springsteen e mi si è aperto il Nuovo Mondo».

Come spieghi il fatto che l'Emilia sia forse la regione italiana che più ha risentito dell'influenza del rock americano?

«Non lo so proprio, un po’ è vero, ma sinceramente credo sia diventato un po’ un mito, una piccola leggenda metropolitana, anche se devo ammettere che molti dei gruppi di rock americano vengono proprio da qua. Tuttavia ci sono anche altre zone rock in Italia, il problema è che non siamo valorizzati dal mercato nazionale».

Hai vissuto a New York e per un paio di anni a Londra, eppure dalle tue canzoni traspare un amore incondizionato per la tua terra….

«Sì, a Londra tre anni. Sono state esperienze meravigliose. Mi sono trovato benissimo e ho imparato tantissimo, ma ho voluto portare tutto a casa. Volevo vivere le mie radici e non guardarle da lontano».

So che sei anche docente di lingua inglese nelle scuole superiori. I tuoi alunni sanno della tua seconda vita da rocker?

«Eccome se lo sanno! A volte vengono ai concerti e spesso mi chiedono informazioni sulla mia attività musicale».

Trovo che sia tutto molto bello. I tuoi ragazzi sono mai stati fonte di ispirazione per la tua musica e per il tuo modo di vedere la vita?

«Sì certamente. Essere insegnante è un privilegio. Ti permette di essere costantemente in contatto con un mondo a cui diversamente non avresti accesso. Ti permette di capire meglio la direzione che potrebbe prendere il mondo».

Nonostante la tua padronanza della lingua inglese hai preferito cantare in italiano le canzoni del nuovo album. Perché questa scelta?

«Adoro la lingua inglese, ma scrivo per un pubblico italiano e voglio che il mio pubblico di riferimento capisca cosa ho da dire. Inoltre scrivere canzoni rock in italiano è una sfida notevole. Devo confessarti però che sto scrivendo canzoni in inglese e l’anno prossimo potrebbe esserci una sorpresa».

Cosa ti ha spinto a celebrare la tua cittadina di residenza con un brano cantato in dialetto, a metà strada tra Van de Sfroos e Modena City Ramblers, in cui tra l'altro hai inserito un richiamo musicale a "This land is your land" di Woody Guthrie?

«Amo la mia cittadina e i rapporti che ci sono fra la gente di paese, così ho voluto lasciare qualcosa. Una canzone, un regalo per tutti. Nella canzone parlo di un fatto successo tanti anni fa che è alla base del soprannome "Tiramola"».

"Torno a casa" è forse la canzone più importante del disco avendola tu scelta anche come singolo. Ce la descrivi?

«E’ l’ultima canzone inserita nel cd. Ha preso il posto di "Sangue caliente". "Torno a casa" è una canzone con un ritornello molto orecchiabile, ma il testo è piuttosto serio. Parla di un cambio totale di vita, una rinascita, forse una conversione».

Il capitolo per me più emozionante è "Sanguepolvere". Spiegaci come e quando è nata questa bellissima canzone?

«Abito a 4-5 km da Finale Emilia, l’epicentro del terremoto che ha colpito l’Emila il 20 maggio di due anni fa. E’ stata un esperienza devastante. Sapevo che sarebbe nata una canzone da quelle sensazioni ma non riuscivo a scriverla. Ce l’ho fatta il 5 ottobre di quell’anno. Lo so con esattezza perché è avvenuto tutto in dieci minuti. Dopo mesi di gestazione l’ho scritta di getto. Il giorno dopo sono andato nello "Studio dei Miracoli" del mio Hammondista Daniele De Rosa e l’abbiamo registrata. Da lì abbiamo cominciato a lavorare al nuovo album».

Il disco si chiude con la toccante "E' Natale in Maghreb", in cui descrivi in maniera pacata la questione della diversità di usi, costumi e credenze delle persone. Qual è il messaggio che vuoi trasmettere?

«Al contrario di "Sanguepolvere" questa canzone è stata un parto infinito. Ci ho messo tre anni a scriverla. Non mi soddisfaceva mai. E’ la storia di questa ragazza maghrebina che gira per Milano con una carrozzina vuota il 24 dicembre. E’ visibilmente in difficoltà ma nessuno delle persone che incrocia in città mostra un minimo di pietà e comprensione. Sono tutti troppo impegnati a prepararsi cristianamente al Natale comprando regali a più non posso. Si è stravolto tutto. Il messaggio della cristianità è completamente diverso dai comportamenti dei sedicenti cristiani. Aisha è in visibile difficoltà sta per compiere l’atto più naturale e dolce che ci sia, ma nessuno l’aiuta, nessuno la vede. C’è tanta ipocrisia fra di noi. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutti noi».

I The Wild Innocents sono stati i tuoi compagni di viaggio in questa nuova avventura. Che ruolo hanno avuto nella realizzazione di questo disco?

«I Wild Innocents sono stati estremamente importanti per questo disco. Ci hanno creduto insieme a me, hanno sofferto insieme a me. Ci siamo impegnati davvero tanto insieme per questo cd».

I tuoi primi dischi sono dell'inizio degli anni '90. Cosa è cambiato per te in questi primi 25 anni di carriera?

«Tantissime cose. Quando abbiamo registrato "Senza Tregua" era il 1990-91. Eravamo dei ragazzini. Non conoscevamo le potenzialità della sala di registrazione e le cose si sono incredibilmente evolute. Il mio modo di scrivere era molto più ingenuo. Una cosa però è rimasta invariata. Sapevo allora e so adesso che non smetterò mai di scrivere canzoni e fare musica!».

Quale sarà la prossima tappa?

«Adesso dobbiamo e vogliamo fare tanti concerti per promuovere "Meticcio". Abbiamo una estate piuttosto impegnata. Suoniamo alcune date nella nostra zona dove apriremo un concerto del grande Garland Jeffreys, poi andremo in Liguria, Toscana, Lombardia e a ottobre faremo un tour in Sicilia. Tuttavia, non riesco a non pensare al prossimo album…».



Titolo: Meticcio
Artista: John Strada
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(testi e musiche di Gianni Govoni)

01. Magico
02. Chi guiderà
03. Rido
04. Torno a casa
05. Hai ucciso tutti i miei eroi
06. Promesse
07. Non mi alzo
08. Rocco & Fanny
09. Tiramola
10. Nella nebbia
11. Sanguepolvere
12. E' Natale in Maghreb



lunedì 30 giugno 2014

Pulin and the little mice all'esordio discografico






Si intitola "Hard times come again no more" ed è il primo disco dei Pulin and the little mice, gruppo savonese di musica folk sulle scene ormai da diversi anni. In questo album Marco Crea, Marco Poggio, Giorgio Profetto e Matteo Profetto hanno dato una loro personale lettura a brani della tradizione americana e irlandese. Canzoni note a chi ha avuto il piacere di assistere ad un loro concerto, sicuramente tutte da scoprire per chi non è un esperto del genere. Undici episodi rivisitati con l'ausilio di una strumentazione rigorosamente acustica che fanno da filo conduttore a un viaggio che parte dalla Liguria e che fa tappa nella verde Irlanda, per ripartire alla volta della Guascogna e poi dell'America del 1800 con le sue vaste praterie e la Grande Depressione, e nel secolo successivo con Leadbelly e i padri della musica folk e con Woody Guthrie che suona la sua "this machine kills the fascists". È un viaggio piacevole, vissuto in prima classe e organizzato con cura minuziosa dai Pulin and the little mice ma anche un invito alla ricerca di tanta musica che merita solo di essere riscoperta e valorizzata.
Il disco prende il titolo dalla famosa canzone di Stephen Collins Foster del 1854 che in questi ultimi anni ha trovato una nuova giovinezza grazie alle interpretazioni di Bruce Springsteen in occasione del Wrecking Ball Tour, di Mavis Staples, di Iron & Wine, di Paolo Nutini insieme ai Chieftains e di tanti altri. La canzone di Foster chiude il disco e il testo tradotto in italiano trova spazio sul retro copertina.
"Hard times come again no more" è un prodotto che ha visto coinvolte alcune delle migliori realtà del savonese: la registrazione è stata curata a Loano da Alessandro Mazzitelli, vero punto di riferimento per i musicisti della provincia e non solo, mentre la grafica è di Alex Raso che ha lavorato con gusto a tutto il packaging.
Ecco di seguito l'intervista "collettiva" ai Pulin and the little mice.



Come è avvenuta la scelta delle canzoni che presentate nel disco?

«Abbiamo selezionato, fra i pezzi che proponiamo dal vivo, quelli che ci sembrava potessero "dire qualcosa", in cui magari gli arrangiamenti fossero diversi dalle versioni originali. Per tutti i brani è stato così, tranne per "Hard times come again no more", brano che chiude e che dà il titolo al disco, il cui arrangiamento, non a caso, è completamente diverso da tutti gli altri».

Curiosa ma azzeccata l'idea di legare brani diversi per creare piccoli medley a tema. Come vi è venuta questa idea?

«Credo che, insieme all'uso di più voci, sia la caratteristica più importante della band. Il tutto è dettato dal nostro cercare di "vedere" la musica (almeno quella di origine popolare) senza vincoli geografici né storici. D'altronde l'incontro musicale tra differenti culture ha prodotto, in passato come in tempi recenti, risultati a dir poco straordinari. Ed è questo il messaggio che, nel nostro piccolo, cerchiamo di trasmettere a chi ci ascolta».

C'è molta Irlanda in questo disco, forse più di quella che normalmente presentate dal vivo. Mi sbaglio?

«In realtà, per puro caso, i brani irlandesi sono a pari merito con quelli di origine americana, anche se c’è spazio per un rondò della Guascogna così come per un brano tradizionale ligure. Per quanto riguarda i concerti, dipende un po’ dalle situazioni, non teniamo mai una scaletta fissa, quindi a volte può capitare di dare più spazio a un certo tipo di sonorità piuttosto che ad un'altra. Comunque siamo indubbiamente debitori, nonché grandi ammiratori, della cultura musicale irlandese».

Tra tutte queste canzoni della cultura anglosassone c'è un accenno strumentale a un motivo tradizionale ligure: "Baccicin vattene a ca". Perché questa scelta?

«Il set che abbiamo chiamato "Sweet Durin" in cui è inserita "Baccicin vattene a ca" in realtà dal vivo è inserita all’interno di un set di canzoni francofone. Ci sembrava che questa melodia potesse sposarsi bene con "Sweet Marie" e che l’armonica sola potesse rendere efficacemente il brano. Ci piaceva l'idea di usarlo come ponte tra la prima e la seconda metà del disco, attraversando, inoltre, nel nostro viaggio musicale, anche la Liguria».

Ascoltando il disco mi pare di capire che avete lavorato molto sulle voci. E' così?

«Dal vivo cerchiamo di usare con più impegno possibile le armonie vocali (senza esagerare che non siamo CSN&Y) e dal momento che il disco è composto da brani che proponiamo anche nei concerti, la scelta è stata per così dire obbligata».

"Hard times come again no more" è l'ultima canzone ed è anche il titolo dell'album. Un riferimento anche ai tempi amari che devono vivere i musicisti emergenti?

«Il titolo del disco può essere visto da ognuno secondo le proprie sensazioni; per questo motivo il testo del brano omonimo è l’unico di cui si può trovare la traduzione in italiano, nel retro copertina. Certo non è un momento facile per l’Italia e per le persone, ma di sicuro, in scala più piccola, ognuno di noi ha vissuto e vive dei momenti difficili, in cui l’unica motivazione che ti spinge a superarli è il pensiero e l’impegno nel non volerli rivivere mai più».

Quanto sono durate le sessions di registrazione?

«Ecco, questa è forse l’unica vera pecca della registrazione del disco. Ci abbiamo messo più di due anni, un’infinità. Probabilmente abbiamo un po’ pagato la nostra assoluta inesperienza in studio di registrazione, che malgrado possa sembrare un ambiente "più protetto" rispetto a un palco, è al contempo disorientante se non lo conosci. Inoltre abbiamo registrato il disco nel tempo libero, cercando di essere sempre tutti presenti. A tutto questo bisogna aggiungere il fatto che siamo quattro ragazzi a cui piace vivere le cose senza fretta, non è nella nostra indole forzare i tempi».

Quando avete capito che eravate sulla strada giusta?

«E chi lo sa se sia stata la strada giusta? A parte gli scherzi, per tre di noi è stata la prima esperienza in studio, non siamo partiti con un'idea precisa del risultato finale».

E' il vostro primo disco, quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato?

«Mah, come dicevamo prima, è stato tutto molto bello, a posteriori, ma essendo stata un'esperienza inedita per noi, ci siamo scontrati con un mondo completamente sconosciuto, dalla registrazione (a volte non in diretta), al mixaggio, ai tempi lunghissimi, alla burocrazia, alla scelta della copertina».

Molto simpatica e riuscita la copertina…

«Grazie! Abbiamo valutato diverse ipotesi e alla fine abbiamo scelto quella. Ci siamo anche dati un'interpretazione che lega il titolo alla copertina, ma entriamo in discorsi difficili…».

A chi consigliate questo disco?

«Ovviamente a tutti! Uomini, donne, bambini, nonni, coppie, cani e animali di ogni genere. A parte gli scherzi, abbiamo cercato con questo disco, e ancor di più durante i concerti, di mettere del nostro nella musica che suoniamo, evitando di essere solo degli esecutori, infondendo nei brani un briciolo della personalità d'ognuno di noi, nell'umile tentativo di incuriosire chi ci ascolta e avvicinarlo alla musica che amiamo così tanto».

Cosa cambia per i Pulin and the little mice adesso che avete un disco pubblicato?

«Sicuramente la consapevolezza di poter condividere la nostra passione con il pubblico non solo attraverso i concerti».

Dopo un album di cover quale sarà il vostro prossimo passo?

«Come forse si è capito da quanto detto in precedenza, il discorso cover per noi non ha una grossa importanza, visto anche che quasi tutti i brani che suoniamo in concerto sono, ai più, praticamente sconosciuti. Tutto sommato il nostro obiettivo in questo senso è sempre stato quello, come accennavamo prima, di metterci del nostro dal punto di vista dell’arrangiamento, degli accostamenti, delle esecuzioni, poi che il brano sia d’autore, tradizionale o composto da noi importa abbastanza poco. Il prossimo passo? E chi lo sa!»

Qual è il vostro disco preferito di sempre?

«Questa è una bella domanda, a cui è veramente complicato rispondere, essendo quattro teste diverse, ma d’altronde, per contratto, siamo costretti a rispondere "Hard times come again no more" dei Pulin and the little mice».



Titolo: Hard times come again no more
Gruppo: Pulin and the little mice
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce

01. Ain't no grave gonna hold my body down / The old maid of Galway
02. Patrick was a gentleman / Dennis Murphy's polka / The wistful lover
03. The auld triangle
04. Hard travelin' / Seneca square dance
05. St. James infirmary blues
06. Sweet Durin (Sweet Marie + Baccicin vàttene a cà)
07. Goodnight Irene / I always knew you were the one
08. Deep Ellum blues
09. You don't knock
10. Star of the County Down / La passade
11. Hard times come again no more





martedì 17 giugno 2014

Federico Bagnasco e "Le trame del legno"





"Una coraggiosa e intima esplorazione sonora nel mondo del contrabbasso". Ha usato queste parole Paolo Fresu per descrivere il disco d'esordio, in veste di compositore e solista, del musicista genovese Federico Bagnasco. Ne "Le trame del legno", questo il titolo dell'album, il suono del contrabbasso e la sperimentazione elettronica curata da Alessandro Paolini si fondono in un abbraccio sonoro non convenzionale. Elettronica, mai invadente, che sviluppa ed enfatizza i suoni del contrabbasso e le capacità e la fantasia dello strumentista rendendo possibili soluzioni inaspettate e creando un universo sfaccettato sempre godibile. Le canzoni, tutte inedite, si susseguono con estrema naturalezza dando vita ad un incessante fluire, ricco di colori e suggestioni. Un suono puro e cristallino che rapisce l'ascoltatore mantenendo una costante tensione sia in occasione di brani più ritmici che in divagazioni oniriche.
Federico Bagnasco è artista poliedrico che ha lavorato in diversi ambiti: dall'orchestra a formazioni cameristiche, dall'accompagnamento di cantautori allo studio della musica antica e contemporanea, da occasionali incontri in ambito jazz e folk all'impegno in spettacoli teatrali. Tutta questa varietà di esperienze e studi ha permesso al musicista genovese di sviluppare un linguaggio personale e un approccio alle diverse tecniche del contrabbasso che trovano la giusta esaltazione in questo album.
Ce ne parla lo stesso Federico Bagnasco in questa intervista.




Federico, complimenti per il disco. Devo riconoscere che al giorno d'oggi, in cui alla musica si dà un veloce ascolto, ci vuole coraggio a produrre un album come il tuo...

«Credo che in questo momento in Italia ci voglia coraggio a scegliere di fare il musicista e a perseverare nella scelta, ciò a prescindere dal mio album. Se uno è forte (o debole) di questa scelta e dei sacrifici che ne conseguono, il resto è un coraggio leggero, lieve, uno dei tanti che si compiono
inevitabilmente quando si agisce. Il mio è un progetto un poco anomalo, me ne rendo conto, ma per altri versi potrebbe essere più coraggioso, o altrettanto coraggioso, esporsi con qualcosa di più conforme allo standard, più paragonabile al conosciuto, più facilmente sottoponibile al giudizio altrui. Se d'altra parte il coraggio è corrispondente all'azione dell'osare, del mettersi in discussione ed esporsi con qualcosa di differente, fuori standard, allora potete anche darmi del leone, o per non esagerare, quantomeno del gatto selvatico».

Dicono che i musicisti debbano avere una buona dose di pazzia nel loro dna. Pensi anche tu di far parte di questa categoria?

«Francamente sì, seppur moderatamente e in maniera adeguatamente controllata. La pazzia è l'altra faccia del coraggio e, come sopra accennavo, in questo paese e in questo momento storico, diventano entrambe caratteristiche imprescindibili di questa professione, o forse più in generale di chiunque voglia fare un qualsiasi lavoro seriamente e con passione. E la pazzia, è risaputo, spesso è anche l'altra faccia della passione».

Come ti è venuta l'idea di registrare un disco puntando solamente sui suoni del contrabbasso e un po' di elaborazioni elettroniche?
 

«L'idea è nata lentamente un bel po' di anni fa: ho aspettato le circostanze favorevoli per metterla in pratica, cioè un po' di soldi da parte e un po' di tempo da investire. Credo che alla base ci sia stato un bisogno di fare tutto un lavoro in solitario e senza dover rendere conto a nessuno, una sfida, quasi, con i miei mezzi e i miei limiti. Il mio lavoro di musicista mi porta ovviamente a mettermi innanzitutto al servizio dell'arte altrui, di una musica scritta, di un artista da accompagnare, di un gruppo di cui esser parte, di un contesto, di un datore di lavoro. A un certo punto ho voluto provare a mettermi in gioco e vedere cosa ne usciva; ho aspettato finché il desiderio non ha assunto un carattere di urgenza e dunque ho agito. Ho inoltre sempre avuto una forte attrazione per il lavoro in studio di registrazione: la possibilità di fermare la musica, di fissarla, di rubarne l'ineffabilità che le è propria, e creare qualcosa che rimane, costruire l'opera così come il pittore fa il quadro o lo scrittore il libro, senza intermediari (o meglio concedendo questo ruolo soltanto all'apparecchio riproduttore, allo stereo di chi ascolta). Una volta accettato che un disco è un'operazione artificiale, che poco ha a che fare con la musica suonata dal vivo, il passo per manipolare a posteriori del materiale suonato è breve, e si enfatizza così l'aspetto da artista-demiurgo che plasma e manipola se stesso, correggendosi, cambiandosi, comandando e "gestendo il tempo". Il contrabbasso è il mio strumento, che studio da anni e con il quale lavoro e mi esprimo, dunque, in coerenza con quanto detto sopra e in un'ottica ovviamente anche di risparmio, evitando di coinvolgere altri strumentisti, l'idea si è palesata da sé. Imponendomi una coerenza dal non usare materiale sonoro che non derivasse dal contrabbasso, mi sono lasciato libero di poter avere diversi approcci dal punto di vista compositivo ed esecutivo; questo è stato un altro importante stimolo».

Devo ammettere che quando mi hai parlato del disco ero un po' scettico e invece mi sono dovuto ricredere: è un album stimolante, per niente noioso, e cresce con l'ascolto senza essere ripetitivo. Qual è il segreto?

«Spero che questa tua sensazione possa essere condivisa anche da altri ascoltatori, io ho fatto il possibile perché sia così! Credo che il segreto, per così dire, sia legato a una certa facilità che io personalmente ho ad annoiarmi: qui ho cercato di fare qualcosa che innanzitutto non annoiasse me. Ogni brano ha una storia e un percorso diverso, un differente approccio con lo strumento o con l'elettronica, e ciò dà molta varietà al lavoro nel suo complesso, pur mantenendo una coerenza sotto il profilo timbrico, poiché ogni suono è generato dal contrabbasso. Inoltre i brani sono mediamente brevi, una media di circa tre o quattro minuti, con la sola eccezione di "Residui" di sette minuti, e anche questo credo contribuisca a evitar la noia».

Quanto c'è di improvvisato in questo disco e quanto di studiato a tavolino?

«Difficile dirlo. Anche perché c'è molta improvvisazione studiata a tavolino. Ci sono almeno tre brani scritti e definiti già prima di entrare in studio, e altri cinque solo parzialmente scritti o adeguatamente già strutturati; anche in questi casi il lavoro in studio giocando con l'elettronica ha contribuito molto alla ri-creazione dei brani. Il resto è completamente nato in studio: improvvisando e manipolando poi le improvvisazioni, improvvisando con l'elettronica in tempo reale - in live electronic- modellando a tavolino il materiale registrato. Un work in progress».

Quando sei entrato in sala di registrazioni avevi ben presente il risultato che volevi raggiungere?

«No, lo avevo presente all'incirca. Mi era chiara la modalità di lavoro, i limiti del lavoro, gli obiettivi che volevo raggiungere e il tipo di suono e di ricerca sul suono che volevo "rappresentare". Il risultato finale mi si delineava man mano che il lavoro procedeva, mi sono preso tutto il tempo di cui sentivo il bisogno, per capire innanzitutto cosa stavo cercando, e poi per trovarlo».

Come si sono svolte le sessioni di registrazione e quanto sono durate?

«Sono durate moltissimo, un modo di lavorare molto poco consueto oggigiorno. Abbiamo lavorato fondamentalmente in tre sessioni di circa un mese ciascuna, quando impegni personali o professionali, miei o di Alessandro o dello studio, non imponevano altrimenti, comunque per un totale che supera le cento ore di studio; più un breve periodo a mesi di distanza per il suono e il mixaggio complessivo. Ciò che ha reso possibile tutto è stata la collaborazione con Alessandro Paolini, e in particolare la sua disponibilità - seconda solo alla sua competenza - nel venirmi incontro per la realizzazione del tutto. La modalità di ogni sessione di lavoro la decidevo man mano, ma il grosso è stato fatto davanti al computer, valutando assieme e sperimentando diverse soluzioni. Il risultato finale è frutto di diverse scelte: un bel po' di materiale registrato non è stato poi utilizzato, così come qualche tentativo di manipolazione non ci ha convinto e non lo abbiamo portato a termine».

Ottimo disco, dicevamo, ma ha un limite: l'impossibilità di suonarlo dal vivo. Non pensi che questo possa rappresentare un problema?

«Sì, un enorme problema, soprattutto perché oramai i cd si vendono più che altro ai concerti! Infatti ho intenzione di trovare la soluzione al dilemma, e sto iniziando a preparare la versione live del progetto: alcuni brani potranno essere eseguiti con adeguata manipolazione elettronica in tempo reale, abbastanza fedeli al cd, altri subiranno delle opportune modifiche. Non si sentiranno soltanto delle differenze rispetto al disco, la mia intenzione è quella di sfruttare uno spazio sonoro in quadrifonia e un adeguato supporto di subwoofer, tutti particolari che l'ascolto casalingo o in cuffia non può fornire. Sarò accompagnato ovviamente da Alessandro, anche in veste di secondo contrabbassista - …ci siamo conosciuti proprio perché compagni di studi ai tempi del conservatorio - e da Emilio Pozzolini come altro musico elettronico. Il mio suono verrà manipolato in tempo reale in diverse maniere. Tutto è ancora da preparare, ma nelle mie intenzioni, vorrei presentare il cd questo autunno in diverse città, vedremo…».

Che cosa vorresti che le persone sentissero nella tua musica?
 

«Mi ritengo già soddisfatto se la sentono, o meglio se la ascoltano, come è sempre più difficile che accada. Come rilevi tu nella tua prima domanda c'è oramai la tendenza a un ascolto molto superficiale della musica; siamo circondati da un sacco di stimoli musicali, al limite, o forse già oltre il limite, dell'inquinamento acustico, eppure raramente siamo capaci di fermarci o soffermarci ad ascoltare. Oggi la modalità più comune di fruire della musica avviene su Youtube, magari perdendosi nei dettagli visivi, nei commenti, nello spazio di un social network, credo che questo sia abbastanza significativo».

C'è un episodio che ha dato il via a questa avventura?
 

«Francamente non saprei, direi che è stato un bisogno crescente di un'idea che prendeva forma mentre spingeva per realizzarsi».

Dove speri che possa portarti questa esperienza discografica?

«Spero possa essere un biglietto da visita per future collaborazioni, magari per altri lavori in studio, o per concerti. Ma non mi sono posto molto il problema delle aspettative, è un lavoro che ho fatto innanzitutto per me, una cosa che avevo in testa e che avevo bisogno di buttar fuori, ovviamente nella speranza che possa interessare, incuriosire o rapire un possibile ascoltatore».

Ascoltando il disco ho immaginato di adattare le canzoni a un film, magari a un thriller o a un film che analizza la psicologia dei personaggi. Hai mai pensato di scrivere musiche per film?

«Sì, e mi piacerebbe molto. Per il momento ho fatto poche cose simili, un cortometraggio, un documentario non ancora pubblico, la sonorizzazione di una mostra, oltre ad avere collaborato con alcuni compositori per musica da film. Io ci penso insomma, ma bisogna anche che qualcuno che fa film pensi a me, perché ciò accada. In ogni caso mi farebbe piacere che alcune tracce di questo album possano essere adoperate in qualche contesto, magari per film, per installazioni, per coreografie, secondo me si prestano e io sono ben disposto a prestarle».

Quale sarà il prossimo passo nella tua carriera artistica?
 

«Come già ho accennato: la versione live di "Le trame del legno"; un altro progetto a cui sto già lavorando, la produzione di un audiolibro con musica; alcune ricerche musicologiche sulla storia del contrabbasso. Questo è un altro settore che mi ha molto impegnato in prima persona».

Quali sono i pro e i contro di essere un solista?

«Nell'accezione in uso nella musica classica, "solista" è un termine che è ben distante dalla mia persona - di solito si intendono quei pochi musicisti che si esibiscono abitualmente come concertisti in recital o concerti solistici con le orchestre - e francamente anche grandissimi contrabbassisti che conosco ci vanno abbastanza cauti nel definirsi solisti. In un senso più generico posso dirti che proporre un progetto da leader o addirittura in solitario, può essere prima di tutto una fonte di soddisfazione, e inoltre, se il risultato prodotto riesce ad avere un suo mercato, ovviamente il guadagno può essere maggiore rispetto a musicisti al servizio di progetti non propri. I contro sono legati innanzitutto allo sforzo e all'investimento che bisogna fare per la realizzazione del progetto, e all'esposizione che si crea, il "metterci la faccia", la responsabilità, insomma. Solitamente si tratta di un impegno maggiore, di una maggiore difficoltà sotto il profilo tecnico-strumentale, ed esecutivo in senso lato. A ciò si aggiungono tutti gli aspetti organizzativi, di produzione e di promozione, se non si è seguiti da qualcuno e se non si dispongono di liquidità da investire ulteriormente in questi aspetti. Ma qua mi fermo, giacché non vorrei alimentare luoghi comuni sui genovesi e l'attenzione al denaro. Al di là di qualsiasi contro, è forte il piacere nel produrre qualcosa che ti appartiene e che è parte di te, e che può essere consegnata ad altri e condivisa; è un modo per rapportarsi con gli altri, per comunicare; è un gioco, tutto sommato, che fa star bene».



Titolo: Le trame del legno
Artista: Federico Bagnasco
Etichetta: Old Mill Records
Anno di pubblicazione: 2014



Tracce 
(musiche di Federico Bagnasco, eccetto dove diversamente indicato)

01. Spire
02. Apnea
03. Tempo al tempo
04. Coincidenze combinate [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
05. Sbracato snob
06. I am sitting in a bass [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
07. Velato
08. AbIpso
09. Sterpi e frattaglie [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
10. Legno pesante [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
11. In Vano [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
12. Comunque
13. Residui
14. Lunari di Giada



martedì 10 giugno 2014

Con Les Trois Tetons alla scoperta di Mister Lou







"Songs about Lou" è il quarto capitolo discografico de Les Trois Tetons, gruppo savonese che da più di vent'anni porta in scena il verbo del rock'n'roll fatto di grinta, sudore e fisicità. A tre anni da "Dangereyes", la band capitanata dal cantante Roberto "Zac" Giacchello è tornata a far parlare di sé con un album che conferma l'ormai matura capacità di viaggiare nei territori del rock, dai Clash agli Stones, del blues del Delta e di certa psichedelia.
Indossate le camicie e lasciate sui palchi di mezza Italia l'energia, la carica emotiva e una buona dose di follia, il gruppo si è chiuso negli studi del Punto d'Incontro Italo Calvino a Loano, sotto la direzione di Alessandro Mazzitelli, per registrare questo nuovo progetto discografico. Un lavoro di équipe, e lo si capisce anche leggendo i crediti - sei brani sono scritti da Alberto Bella, quattro da Giorgio "Barbon" Somà, altrettanti da Roberto "Zac" Giacchello e uno a quattro mani da Giacchello e Bella -, che aggiunge qualche elemento importante alle esperienze precedenti. Una crescita artistica che ha portato il gruppo a sperimentare e a creare una sorta di concept album, diviso in due atti e una ouverture, che racconta le gioie e i dolori del personaggio Mister Lou. A impreziosire il disco vi è la partecipazione del funambolico violinista Fabio Biale che mette a disposizione il suo strumento in tre brani.
Con Zac abbiamo parlato della genesi del disco e dell'enigmatico personaggio Mister Lou. 



Quando abbiamo fatto la nostra ultima chiacchierata, ormai un anno e mezzo fa, avevate 4-5 canzoni e una serie di abbozzi. Adesso eccoci qui a parlare di "Songs about Lou"...

«È andato tutto abbastanza velocemente. Le registrazioni sono iniziate a novembre e si sono concluse a gennaio. Non ci sono stati intoppi e tutto è filato liscio ed eccoci con "Songs about Lou" che è uscito all'inizio di aprile».

Iniziamo dal titolo e dalla dedica a Lou Reed…

«C'era già l'idea di intitolare il disco Lou o qualcosa di simile, poi nel corso delle registrazioni è morto Lou Reed ed è venuto spontaneo dedicargli il nostro disco. Lou Reed è sempre stato fondamentale per la nostra musica, prima con i Velvet e poi da solo ha inciso molto sul nostro stile».

La traccia numero due del disco è appunto intitolata "Mister Lou"...

«È una canzone abbastanza lunga e articolata scritta da Burbon con una vena un po' autobiografica. Vi ha messo la sua visione del mondo, come pensa che le persone lo vedano. Una visione molto personale anche se un po' romanzata naturalmente. "Mister Lou" è stata una delle prime canzoni del nuovo album».

Mister Lou è anche il personaggio che ritroviamo in tutte le canzoni del disco...

«Quando abbiamo iniziato a scrivere queste canzoni non erano necessariamente collegate tra loro. Con "Mister Lou" è venuta l'idea di creare questo personaggio che poteva vivere delle avventure o disavventure nel corso di una storia. Quindi abbiamo provato a collegare le varie canzoni ed è per questo che nel disco ci sono anche brani brevissimi che non avrebbero senso estrapolati dal contesto».

Avete diviso il disco in due atti, quasi a voler richiamare la separazione in due facciate dei vecchi ma mai tramontati LP.

«Inizialmente c'era anche l'idea di pubblicare una versione in vinile ma per il momento l'abbiamo accantonata per questione di costi. La scelta di dividere l'album in due atti è dovuta anche al fatto che la storia si divide in due parti: nella prima viene presentato il personaggio, Mister Lou, con tutti i suoi problemi, i suoi travagli e il momento in cui decide di lasciare tutto e partire; la seconda parte descrive le avventure di questo personaggio».

C'è quindi volutamente anche una differenza di umore tra le canzoni del primo atto e quelle del secondo?

«In parte può essere vero visto che la prima parte racconta il disagio dell'esistenza che può essere in tutti noi. Il personaggio del disco vive questa situazione fino al punto di rottura e c'è appunto una canzone in cui dice 'basta, devo preparare tutto e andare via'».

C'è un lieto fine?

«Il finale è aperto a varie soluzioni, non c'è necessariamente una conclusione certa. L'ultima canzone descrive il ricordo di un amore che può dar vita al rimpianto oppure alla decisione di tornare indietro, non si sa. A me piace che sia l'ascoltatore a scegliere il finale preferito. È più bello non credi?».

Quale esperienza ha condizionato la lavorazione del disco?

«Non c'è stato un evento particolare ma una serie di situazioni che ci hanno portato a decidere di fare un disco diverso dai precedenti. Alberto ha avuto l'idea di pubblicare un concept album e per tutti noi è stata una situazione nuova. Penso che l'operazione sia pienamente riuscita».

Trovo che musicalmente sia più compatto e omogeneo rispetto al vostro precedente disco...

«Ci tenevo molto a fare un disco che fosse incentrato sul suono di due chitarre elettriche, un basso e una batteria. Credo che l'omogeneità e la compattezza del suono siano date dal fatto che tutti i pezzi sono suonati con la stessa strumentazione. C'è qualche intervento di violino ma non c'è una chitarra acustica e anche le seconde voci le abbiamo ridotte al minimo indispensabile. Ho voluto che fosse un disco abbastanza grezzo e diretto. Anche in occasione delle esibizioni dal vivo questa scelta ha i suoi vantaggi non essendo costretti a cambiare strumenti quando si passa da una canzone all'altra».

Non credi che usando sempre la stessa strumentazione possa esserci il rischio che i brani suoni un po' troppo simili tra loro?

«Devo dire che forse è più facile fare canzoni un po' tutte uguali e poi diversificarle con l'arrangiamento e la strumentazione. Invece noi partendo dalla voglia di mantenere costante gli strumenti utilizzati abbiamo dovuto cercare di variare molto dal punto di vista musicale. Le canzoni del disco sono molto varie come struttura, un po' diverse da quelle che abbiamo suonato in precedenza. È un disco molto live, le parti di basso, chitarra e batteria sono state registrate in presa diretta. Abbiamo sovrainciso solo la voce, qualche assolo, il violino e le armoniche».

Rock'n'roll è e rimane ma questa volta c'è questo filo conduttore che lega le canzoni. "Songs about Lou" è il vostro primo concept album…

«Il concept è un format molto utilizzato dal progressive però anche il rock'n'roll ha partorito dischi che ruotano attorno a un unico tema o sviluppano una storia, penso allo "Ziggy Stardust" di David Bowie o lo stesso "New York" di Lou Reed. Decidere di provare a realizzare un concept è stato un ulteriore stimolo per dare un corso diverso a un album che altrimenti avrebbe finito per essere un raccoglitore di canzoni scritte in un determinato periodo e scelte perché suonano bene insieme».

Quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato nella realizzazione del disco?

«Sicuramente nel cercare di legare le varie canzoni in modo che fluissero e che le atmosfere fossero simili. Siamo stati obbligati a pensare non solo alla canzone del momento ma anche a quella che precedeva e a quella che veniva dopo. Più complicato sicuramente».

Altro aspetto interessante è rappresentato dall'overture che apre il disco...

«Mentre registravamo mi è venuto in mente che c'era un disco bellissimo dei Blood, Sweat & Tears intitolato "Child is father to the man", suonato molto bene, intenso, articolato che spazia dal jazz alla bossa nova, con arrangiamenti dei fiati pazzeschi. In quel disco c'è proprio l'overture in cui vengono esposti i temi delle varie canzoni e noi abbiamo provato a fare una cosa simile anche se non ci siamo completamente riusciti perché di temi ne abbiamo messi solo tre e non dodici come invece avremmo dovuto. Però mi sembra che renda bene come inizio, è una bella botta e anche dal vivo è interessante iniziare con uno strumentale. Non lo avevamo mai fatto».

In tre canzoni del disco suona anche il violinista Fabio Biale. Come è nata questa collaborazione?

«Sono quei casi fortunati della vita. Non vedevo Fabio da molto tempo e sono andato a trovarlo nel suo negozio. Abbiamo parlato del disco e mi ha detto che gli avrebbe fatto piacere suonare un paio di pezzi con noi. Gli ho mandato dei brani da ascoltare e lui, con la sua maestria e il suo gusto, ha dato un bel contributo. È bravo sia come musicista da studio che sul palco, è una presenza che ti dà una marcia in più. Abbiamo avuto anche la fortuna di averlo con noi in occasione del concerto di presentazione del disco che si è tenuto al Raindogs a Savona. Speriamo di averlo nuovamente con noi in qualche altra occasione».

Alessandro Mazzitelli, oltre ad aver svolto egregiamente il lavoro di fonico, ha suonato il tanpura nella canzone "Wide mouth". Perché questa scelta?

«Questo pezzo si dilata un po' nella parte centrale, è una improvvisazione, una canzone più libera, un po' alla Grateful Dead per intenderci. L'abbiamo incisa tre-quattro volte e poi abbiamo scelto la seconda take, se non ricordo male. Risentendo la traccia, a Mazzitelli è venuta l'idea di aggiungere il suono di un tanpura, uno strumento indiano che devo ammettere non conoscevo, e il risultato è interessante. Contribuisce a creare una particolare atmosfera».

Torniamo alla canzone "Wide Mouth". Nelle note del disco si legge che è ispirata al racconto scritto da Luca Oddera e intitolato "Bocca larga". Ci puoi dire qualcosa in proposito?

«Oltre a essere un amico e il proprietario del Beer Room di Pontinvrea, uno dei locali più belli della zona, Luca ha la passione per l'Africa, dove ogni anno trascorre parecchi mesi. Ma per chi non lo sapesse è anche un bravo scrittore. I suoi libri sono memoriali di viaggio. Attualmente ne ha uno in cantiere che ho avuto la fortuna di leggere. È molto più romanzato, ci sono racconti a volte più concreti altre volte più onirici. Tra tutti i racconti c'è questo "Bocca larga" in cui ci sono una serie di immagini particolari che mi hanno molto colpito. Ne ho estrapolate alcune e ne ho scritto un testo in inglese. Essendo il racconto molto onirico lo abbiamo messo su un giro di basso di Alberto sul quale poi abbiamo continuato a jammare facendo improvvisazioni anche di 10-15 minuti. Alla fine gli abbiamo dato una forma canzone con due parti cantate intervallate da una parte strumentale. È stata una operazione un po' rischiosa perché non sapevamo dove saremmo andati a parare, poteva anche essere un 'polpettone' e invece ho visto che la canzone piace e dal vivo ha un impatto interessante».

Vedo che hai dato seguito all'esperimento di cantare anche in tedesco inserendo una strofa in "Asphaltnacht". Anche se devo confessarti che dopo "Berlin 1987" mi aspettavo più coraggio da parte tua...

«Un testo intero in tedesco non mi oso ancora cantarlo. Però questa è di nuovo una bella storia. A ispirarmi è stato un film del 1980, "Asphaltnacht", che in Germania è un cult. Un amico tedesco mi ha dato il dvd di questo film che penso non sia mai uscito sottotitolato. L'ho visto tre-quattro volte di seguito e mi ha entusiasmato. Ho preso spunto da queste avventure e qualche frase in tedesco ci stava bene».

Sbaglio o questo è il primo disco con Davide Incorvaia alla batteria?

«Sì, esatto. Davide è con noi da due anni e ha preso il posto di Guido che per dodici anni è stato il batterista del gruppo e aveva dato una impronta precisa al nostro suono. Davide devo dire che si è inserito benissimo e ha dato un bel contributo. Era molto motivato anche perché era il primo disco che faceva con noi. È stato bravissimo, preparato anche in fase di pre-produzione e poi si è rivelato essere un ottimo grafico, siamo stati fortunati».

Infatti, anche la copertina e la grafica del disco è opera di Davide...

«Ed è la prima volta che abbiamo una copertina disegnata e non una fotografia che ci ritrae. Anche questa è una bella novità. Il disco è pieno di belle novità».


Titolo: Songs about Lou
Gruppo: Les Trois Tetons
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce

01. Overture  [Bella]
02. Mister Lou  [Somà]
03. Hey Girl  [Somà]
04. Green is the dream  [Somà]
05. Midnight crisis  [Bella]
06. Breaking point  [Somà]
07. Weeping willow  [Bella]
08. Leaving  [Bella]
09. I won't be back for Christmas  [Giacchello]
10. Asphaltnacht  [Giacchello]
11. Wide mouth  [Giacchello/Bella]
12. Throne made of bones  [Giacchello]
13. After the laughter  [Bella]
14. Peculiar  [Bella]
15. Long fingered hands  [Giacchello]