mercoledì 26 febbraio 2014

Valentina Amandolese, le note rosa di Genova






Il cantautorato femminile, poco rappresentato nel periodo di massimo splendore della scuola genovese, ha trovato negli ultimi anni interpreti molto interessanti. Una di queste è Valentina Amandolese, cantautrice genovese che si è presentata al grande pubblico vincendo nel 1998 il concorso "Generation Globe" e partecipando al festival francese "Le printemps de Bourges". Dopo un paio di Ep autoprodotti, la Amandolese ha pubblicato, nel 2011, il suo disco d'esordio intitolato "Nella stanza degli specchi". Un album accolto molto bene dalla critica che ha apprezzato la capacità di scrittura e la voce potente e allo stesso tempo melodiosa dell'artista genovese. A tre anni di distanza la Amandolese è al lavoro per dare un seguito a questo disco dalle belle sonorità rock-indie. Oltre a essere una valida musicista, la Amandolese è anche una delle fondatrici dell'associazione culturale Lilith che si occupa di promuovere e dare spazio alle nuove cantautrici e che ogni anno organizza a Genova il "Lilith - Festival della musica d'autrice".
Con Valentina abbiamo parlato della sua musica, dei progetti futuri e naturalmente di Lilith.




Sono passati più di dieci anni dalla vittoria al concorso "Generation Globe". Cosa è cambiato nel tuo modo di intendere la musica?

«Ricordo con estrema tenerezza i miei 17 anni e quella partecipazione, diciamo che in qualche modo ha segnato uno step importante nella mia vita di musicista: da poco avevo iniziato a scrivere canzoni e quello è stato il primo riconoscimento di una certa importanza, mi ha incoraggiata a proseguire. L'entusiasmo è sempre lo stesso, sicuramente è cambiato l'approccio. Dopo tanti anni di esperienza mi sento un pochino più "corazzata" e consapevole rispetto a quella ragazzina che partiva per la Francia con negli occhi sogni ancora da scoprire». 

Dopo un paio di Ep, nel 2011 hai pubblicato il tuo primo disco, "Nella stanza degli specchi". A tre anni distanza lo rifaresti?

«Il primo disco è sempre un passo importante, tante volte lo progetti, lo pianifichi, lo immagini. Poi a un certo punto ti senti pronta, focalizzi le idee su quello che vuoi che sia il tuo biglietto da visita. Ho lavorato tanto per quel disco, registrato a Catania con Daniele Grasso al The Cave Studio, e riascoltandolo oggi credo che non cambierei molto. Sono ancora orgogliosa del lavoro svolto sia in fase di scrittura che poi in fase di arrangiamento e realizzazione. E non è poco, spesso riascoltando cose fatte in passato ci si ritrova a non esserne più tanto convinti, ma a me non è successo». 

Tu genovese sei andata a Catania per realizzarlo. Non potevi restare nella città di Tenco, Paoli, Lauzi, De André e Bindi?

«Eh eh, in tanti mi hanno fatto questa domanda. La risposta è piuttosto semplice: la mia città è molto legata al cantautorato classico, io invece mi sono sempre sentita una "cantautrice atipica", molto più influenzata dalle sonorità inglesi e americane, molto attenta alla componente strumentale delle canzoni. Il rischio è quello, in Italia, di risultare né carne né pesce, né cantautrice né musicista rock. In altri paesi questo problema non si è mai posto, e forse piano piano anche qui, almeno in un certo panorama che sento affine, quello indie, le cose stanno cambiando. Insomma, per seguire questo intento - un cantato in italiano che si fonde con sonorità più internazionali e alternative - Catania e quello studio in particolare mi sono sembrati i luoghi giusti». 

Come hai anticipato, trovo che il tuo disco abbia un suono molto internazionale. A influenzarti sono stati i tuoi ascolti in età giovanile?

«Assolutamente sì - vedi che tutto torna, per fortuna il mio lavoro viene percepito così come volevo che arrivasse al pubblico -. Sono sempre stata molto curiosa, ho sempre ascoltato con attenzione la musica non italiana, in modo direi tecnico, scoprendo che le sfumature sonore da noi sono poco personalizzate... e questa cosa non mi è mai piaciuta. La mia sfida è quella di plasmare piano piano la mia identità sonora che, unita alla mia voce e alla mia scrittura, possa rappresentarmi. Un po' come è stato per alcuni dei miei ascolti preferiti di sempre: PJ Harvey, Radiohead, Low, etc.». 

Che rapporti hai con gli specchi?

«Gli specchi... sono stati il fil rouge del mio primo disco. Specchio inteso come riflettente e generatore di mille punti di vista su me stessa e sulla realtà. Mi piace pensare che, come appunto in una stanza degli specchi, ognuno di noi sia visto dall'esterno in mille modi diversi... come all'interno di un caleidoscopio, la realtà diventa molto più soggettiva e interpretabile». 

A volte possono deformare la realtà, i tuoi testi invece sono molto reali…

«I miei testi nascono quasi sempre con un taglio autobiografico, sia che parlino di storie che mi vedono protagonista, sia che riguardino altri soggetti. Tutto filtra attraverso la mia esperienza, per questo poi si percepisce la realtà del racconto. Del resto, per quanto atipica, sono pur sempre cantautrice e mi piace la veste di narratrice di storie». 

Dopo un ottimo esordio ci vuole una conferma. A che punto sei con il tuo nuovo disco?

«Ho da poco preso decisioni piuttosto importanti in merito. Non voglio ancora svelare troppo. Per ora posso solo dirti che ho trovato il produttore giusto, con cui faremo un lavoro a quattro mani, e che sarà un disco strano, soprattutto per come è stato concepito e verrà realizzato…». 

Resterai fedele alla linea di "Nella stanza degli specchi" oppure punterai a soluzioni diverse?

«Ci saranno soluzioni decisamente diverse, soprattutto negli arrangiamenti: il primo disco è stato suonato, sia in studio che poi nei live, in trio. Quello nuovo mi vedrà finalmente impersonare al cento per cento la mia attitudine di one-girl band. Resterà invece molto forte, rafforzandolo, il rapporto stretto tra il cantato in italiano e le sonorità più anglofone». 

La scena musicale femminile genovese sta vivendo un periodo di grande fermento. Secondo te cosa spinge molte ragazze a cantare?

«Credo che finalmente le donne nella musica si siano prese il loro spazio. Non sono più soltanto le cantanti in band prettamente maschili, ma sono diventate autrici, musiciste e produttrici. Si sporcano le mani insomma, forse stupendo gli ascoltatori abituati a vederle più relegate in vesti meno attive. Io mi sento totalmente partecipe di questa "rivoluzione" iniziata ormai da diverso tempo, e ne sono orgogliosa». 

Sei stata tra le fondatrici dell'associazione Lilith che tutti gli anni organizza un festival tutto al femminile a Genova. Quali sono i progetti futuri e quale artista ti piacerebbe che partecipasse alla prossima edizione?

«Proprio per i motivi descritti prima è nata qualche anno fa l'associazione culturale Lilith, fondata insieme a due colleghe genovesi, Sabrina Napoleone (presidente dell'associazione) e Cristina Nicoletta. Oltre a essere musiciste ci siamo sentite in dovere di diventare organizzatrici di eventi, che creassero il giusto spazio per la canzone d'autrice (ma non solo). Oltre al Lilith Festival, che giunge quest'anno alla quarta edizione e che l'anno scorso ha offerto alla città di Genova una tre giorni completamente gratuita che ha visto sul palco in piazza De Ferrari cantautrici emergenti e le tre madrine d'eccezione Cristina Donà, Marina Rei e Paola Turci, quest'anno abbiamo creato alla Claque una rassegna cui teniamo molto, Lilith Nest, sempre con la preziosa collaborazione di Douce Pâtisserie Café, partner ormai storico del Lilith Festival. Volevamo creare un nido presso la Claque, per ospitare tutte le voci a nostro avviso più rappresentative della scena nazionale attuale, abbiamo già ospitato Levante e Iacampo e nei prossimi mesi ci saranno tante altre sorprese. Insomma, non ci fermiamo mai. Stiamo anche chiudendo la lista delle partecipanti del Lilith 2014. Il sogno, per le prossime edizioni è quello di avere una delle mie artiste preferite, PJ Harvey... magari non sarà quest'estate ma non smetto di sognarlo».


Titolo: Nella stanza degli specchi
Artista: Valentina Amandolese
Etichetta: Dcave Records
Anno di pubblicazione: 2011

Tracce
(testi e musiche di Valentina Amandolese, eccetto dove diversamente indicato)

01. Cosmico blu
02. Stringi i denti Valentina
03. Imago
04. Osmosi
05. Bold as love  [Jimi Hendrix]
06. Nessun biglietto per il mare
07. In terza persona
08. Lo stesso viaggio



venerdì 14 febbraio 2014

Le "Piccole partenze" del cantautore Vitrone







Tra l'infinita produzione discografica che ha invaso in questi ultimi anni piattaforme digitali e stores, è sempre più facile che possano sfuggire all'attenzione generale lavori degni di nota. Come è appunto l'album "Piccole partenze" del cantautore casertano Vitrone. Un lavoro raffinato di un artista arrivato alla maturità dopo esperienze come voce di una band metal, i T.R.B., leader del gruppo folk-rock Nafta e come fondatore del duo Vitronemaltempo. Assai apprezzato da Fausto Mesolella che lo ha invitato al Premio Bianca D'Aponte, Vitrone, all'anagrafe Gennaro Vitrone, è tornato sulla scena musicale in veste di solista come già gli era accaduto all'inizio della sua carriera. Il musicista casertano aveva infatti dato alle stampe due album nel classico stile cantautorale prodotti da Ferdinando Ghidelli ("Dapprincipio" del 2001 e "Stravagando" del 2003).
Quindici mesi di lavorazione in casa e in studio sotto la direzione del produttore Mimmo Cappuccio (James Senese, Enzo Avitabile), hanno dato vita a un disco a forte impronta intimista che percorre strade già conosciute senza cadere però in ripetizioni scontate. Effetti, campionamenti, un pizzico di elettronica rendono il disco molto interessante, attuale e per nulla scontato. A impreziosire l'album ci sono collaborazioni illustri come quelle con Vittorio Remino, già bassista degli Avion Travel, Marta Argenio e Maurizio Stellato fondatori dei The Actions, la tromba di Almerigo Pota, il pianista Fabio Tommasone, il cui apporto è fondamentale in quasi tutte le canzoni del disco. E poi con lo scrittore Ivan Montanaro e l'attore-autore teatrale Roberto Solofria.




Gennaro, sei tornato al tuo progetto solista dopo una parentesi di cinque anni in cui sei stato impegnato con Vitronemaltempo. Cosa è cambiato nel tuo approccio alla musica?

«Già nell'album "Ancora quadri alle pareti" del 2008 di Vitronemaltempo c'era la consapevolezza di voler proporre una canzone d'autore che vivesse il contesto, attualizzata, dove era importante sottrarre piuttosto che aggiungere. Lo stesso concetto l'ho reso ancora più estremo in "Piccole partenze". I testi sono essenziali, minimali. Stesso discorso per gli arrangiamenti. La forma canzone c'è in alcuni brani, ma non c'è in altri, al ritornello ho preferito un tema. Credo sia un lavoro istintivo ma anche elaborato».

Di cosa parla il tuo nuovo disco?

«Il disco parla di piccole e grandi storie, spesso sotto forma di metafora. In "Torno al giardino", per esempio, il pretesto di una storia d'amore diventa marginale quando parlo di tornare alle radici. Una frase a cui sono molto legato è ‹guardo i fiori toccati dal vento, colorati coriandoli nel cielo e i frutti cadere dagli alberi, marcire›».

È un disco introspettivo, crepuscolare, dipinto a tinte pastello. Quanto c'è di autobiografico nelle canzoni che lo compongono?

«Era esattamente quello che volevo realizzare, un lavoro introspettivo ma allo stesso tempo fruibile. Qualche brano è autobiografico come, per esempio, "Inverno". In altri sono partito da una attenta osservazione per poi andare a descrivere i personaggi, come la ragazza di "Piccole partenze", che ho conosciuto veramente. Era esattamente così, impaurita ma decisa a lasciare il suo paese, il suo guscio. Ora è una donna realizzata, credo viva a Milano».

Sotto il profilo prettamente musicale hai usato molti effetti e riverberi, specialmente in ambito vocale e chitarristico. Perché?

«In effetti è così: loop, voci filtrate e campionamenti rappresentano un elemento importante nel mio sound. È così è anche per il mio chitarrista Gianpiero Cunto, era così nel progetto Vitronemaltempo ed è così con Vitrone. In "Vitronemaltempo" l'uso dell'elettronica era ancora più presente, il produttore di quell'album aveva lavorato tra gli altri con Massive Attack e Almamegretta. La sua impronta si sente, sono molto fiero di quel disco, ci aprì le porte dei più grandi concorsi nazionali. Di quell'album ho ripreso la canzone "Arcobaleni" che ho completamente riarrangiato per il disco "Piccole partenze"».

Vi ho trovato un pizzico del Riccardo Sinigallia del periodo dei Tiromancino, qualche spruzzata di Niccolò Fabi e Pacifico, una buona iniezione di Battiato, specialmente nella canzone "Inverno". Cosa ho sbagliato e di chi mi sono dimenticato?

«Tutti gli artisti che hai nominato sono per me un punto di riferimento, Battiato su tutti. Aggiungerei anche Virginiana Miller, Verdena e Avion Travel, tra le band straniere Beatles, ancora Beatles e sempre Beatles. John Lennon su tutti, gigantesco, ma anche Radiohead e Depeche Mode».

Perché hai scelto di far recitare a Roberto Solofria un prologo alla title track?

«Roberto è un autore e attore teatrale che come me è di Caserta e vive a Caserta, città di grande fermento culturale. La sua voce impostata si prestava benissimo al testo regalatomi dallo scrittore Ivan Montanaro».

Mi commenti la frase che si trova al centro del libretto ‹… partenza il rumore della cerniera della valigia che chiude…›.

«Questa frase rappresenta la voglia di mettersi in gioco, rappresenta il movimento, il viaggio, la ricerca. Piccole grandi partenze».

Da dove parti e cosa ti lasci indietro?

«Sicuramente il mio è stato un percorso artistico particolare. Ho fatto parte di una rock metal band, T.R.B., da metà degli anni '80 fino al 1992, realizzando una compilation in Inghilterra e un album "Love on the rocks" distribuito allora dall'etichetta fiorentina Contempo Records. Ho tanti ricordi bellissimi. Poi è stata la volta della folk-rock band Nafta, con cui ho suonato in centinaia di concerti, fino ad approdare nel 2001 ai primi progetti solisti».

Qual è il messaggio del brano "Odio"? A me ha dato l'idea di essere una denuncia del problema dello smaltimento dei rifiuti che assilla da tempo tutta la Campania. Sbaglio?

«Il problema in Campania è gravissimo, la realtà supera l'immaginazione. Magari si trattasse solo di spazzatura, qui ci sono rifiuti tossici e tantissimi morti di tumore. Quando ho scritto il testo di "Odio" il problema non era ancora emerso in tutta la sua gravità. In realtà nel testo parlo di un fatto realmente accaduto. Mi trovavo in macchina, in tangenziale nella zona di Napoli e oltre al cemento, alle macchine e alle case a ridosso dell'autostrada, si vedeva in lontananza uno spicchio di verde, riflettevo e pensavo quanto l'ambiente, in quel caso claustrofobico e degradato, possa cambiare una persona, abbruttirla fino a generare odio».

Qual è la tua donna vestita di nero (dal brano "Sentinelle")?

«Nell'immaginario mi sono ispirato a un personaggio di Camilleri, quelle donne siciliane scolpite nella pietra. Nella realtà la nonna di mia moglie era così, viveva in un paesino della Lucania, dove tra l'altro hanno girato il film "Basilicata coast to coast". Una persona incredibile, forte e saggia, le ho voluto molto bene».

Come suonerà questo disco dal vivo?

«Sarà un sound elettro-acustico. La formazione sarà ridotta all'osso, anche per motivi di budget visto che i locali pagano sempre meno. Ci saranno due chitarristi: mio cugino Gianpiero Cunto che è con me da quasi dieci anni, e Dario Crocetta, entrato da pochissimo nel progetto e che nei live assicura una spinta fondamentale. Fiore all'occhiello sarà Mimì Ciaramella, batterista storico degli Avion Travel».

Sul libretto, nel consueto angolo dei ringraziamenti, spendi parole di affetto per Fausto Mesolella. Qual è il tuo rapporto con lui e quali consigli preziosi ti ha dato?

«Con Fausto ci conosciamo da quasi trent'anni. Nel 1991 produsse e suonò alcune chitarre nell'album di rock duro "Love on the rocks" dei T.R.B., eravamo dei ragazzini. È una persona a cui voglio veramente bene, un grande professionista, instancabile, uno dei più grandi chitarristi italiani di sempre. Ho avuto l'onore di dividere il palco con lui. Ci sono due brani prodotti da lui nel 2011 ancora nel cassetto. I consigli che mi ha dato sono di natura tecnica, preziosi. Mi ha fatto anche capire che oggi l'ultimo avamposto dei sentimenti sono le donne, sono loro che sono ancora capaci di slanci, non ne avevo dubbi».

Chiudo con una domanda cattiva: ha ancora senso fare dischi in un momento in cui se ne vendono sempre meno?

«Secondo me sì. Un disco è la fotografia di quello che sei nel momento in cui lo realizzi. È un fine insomma, la quadratura. La crisi delle vendite è allo stesso tempo un bene e un male. È un bene perché i personaggi di plastica se ne vanno a quel paese e poi perché, visto che non c'è più nulla da perdere, si osa di più. È un male perchè vent'anni di berlusconismo ci hanno portati alla cultura del karaoke e quindi al non approfondimento. Sicuramente il problema è planetario ma in Italia si è sentito di più proprio per i motivi che ho spiegato prima. Per promuovere un album oggi c'è un solo modo: suonare dal vivo e vendere il disco...».


Titolo: Piccole partenze
Artista: Vitrone
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2013

Tracce
(testi e musiche di Gennaro Vitrone)

01. Inverno
02. Arcobaleni
03. Ti ritroverò
04. Piccole partenze (prologo)
05. Piccole partenze
06. Ventiparole
07. Torno al giardino
08. Odio
09. Dellestate
10. Sentinelle



lunedì 3 febbraio 2014

Guitar Ray & The Gamblers scattano "Photograph"






La Liguria non è solo terra di grandi cantautori ma anche di ottimi bluesmen. La conferma arriva da Guitar Ray & The Gamblers che hanno pubblicato a metà gennaio il loro nuovo disco intitolato "Photograph". L'album è prodotto dal cantautore canadese Paul Reddick e contiene dieci inediti che uniscono il blues della tradizione a sonorità moderne. Brani in cui Ray Scona esalta il suo tocco chitarristico elegante, preciso e capace di improvvise e coinvolgenti accelerazioni. Un album riuscito, gradevole in ogni suo capitolo e capace di incuriosire anche chi non è appassionato di blues. Le canzoni, molte delle quali scritte da Paul Reddick, spaziano dal blues morbido al R&B, dal rock con incursioni funky, fino al territorio delle ballate.
In questa nuova avventura Ray Scona (voce e chitarra) si è fatto accompagnare dai fidi Gamblers: il bassista Gabriele "Gab D" Dellepiane, il tastierista Henry Carpaneto e il batterista Marco Fuliano. "Photograph" è arricchito inoltre dall'armonica di Fabio Treves, uno dei bluesmen italiani più celebrati, dagli archi dei genovesi Gnu Quartet che vantano collaborazioni con Niccolò Fabi, Federico Sirianni e Simone Cristicchi.
Guitar Ray & The Gamblers vantano un curriculum di tutto rispetto avendo collaborato tra gli altri con mostri sacri di fama internazionale come Big Pete Pearson, con il quale hanno inciso anche un disco, Otis Grand, Jerry Portnoy, armonicista di Muddy Waters ed Eric Clapton.
Con Ray Scona abbiamo parlato di "Photograph", il quinto album della carriera.




Ray, spiegaci come è nato l'album "Photograph"?

«Da un desiderio di rinnovamento e dalla voglia di trovare un suono riconoscibile per Guitar Ray & The Gamblers. Questo era l'obiettivo. Abbiamo quindi lavorato su brani originali e arrangiamenti che potessero essere la "fotografia" mia e di questa band».

"I'm goin, I'm goin" parla di partenze, di viaggio; "I heard that train go by" di un treno che divide due persone. Sono il viaggio, gli addii, le separazioni il filo conduttore di questo disco?

«Sì, ma non solo. Se vuoi una bella foto, devi saper mettere a fuoco quello che davvero ti interessa. Ho scelto di raccontare storie che conosco bene per essere in grado di mettere a fuoco quello che mi sta a cuore. Nello specifico "I'm goin, I'm goin" racconta il viaggio che contempla un ritorno. Mentre il suono del treno di "I heard that train go by" porta con sé un biglietto di sola andata».

In "Everybody wants to win" avete usato i fiati e il groove ricorda l'Albert King degli anni '70. Sei d'accordo?

«Assolutamente sì. Avevo già fatto un tributo ad Albert King nel mio album "Poorman Blues" con il brano "A.K. Stomp". Qui invece il riferimento è forte, ma come in tutto l'album siamo partiti da lì cercando di trovare un modo che ci fosse congeniale per suonare oggi un brano con quell'impronta. E comunque il suo periodo Stax è il mio preferito».

Trovo che sia molto riuscito il brano "You're the one". I Gnu Quartet hanno dato un tocco unico alla canzone. Come vi è venuta l'idea di avvalervi della loro collaborazione?

«Cercavamo qualcosa che desse un colore particolare a questo brano e così abbiamo deciso di sperimentare. Sin dall'introduzione è stata messa cura sulla scelta dei suoni da utilizzare, un lavoro che Simone Carbone ha fatto con grande gusto. Ma il brano necessitava di qualcosa che fosse davvero speciale, e così abbiamo pensato all'inserimento degli archi. L'arrangiamento scritto da Stefano Cabrera dei Gnu Quartet, si è rivelato come un bellissimo vestito da sera, indossato da una bella donna, ai miei occhi una meraviglia».

Il video di "He thinks of you", che trovo molto bello, si chiude con l'inquadratura di un foglio su cui c'è scritta la data 24-11-1984. Che significato ha?

«Sempre per restare fedele a quanto dicevamo prima, il brano che fa da colonna sonora a queste bellissime immagini, è stato rivisitato con sonorità più attuali rispetto alla sua versione originale, quella contenuta nel cd per intenderci. Ci serviva una data sulla fotografia per riuscire a far comprendere la storia che viene raccontata nel video di "He thinks of you", e avevamo una scelta obbligata sulla decade. Io ho scelto mese e giorno».

Il disco si chiude con "Bella bambina", un brano acustico cantato da Paul Reddick in italiano. Come è nata l'idea di questa canzone dall'atmosfera notturna?

«"Bella Bambina" è stato un regalo inaspettato. Il brano è nato in inglese con l'eccezione delle parole "Bella Bambina", ed è stato divertente sentirlo cantare in italiano. Io e Paul, quasi per scherzo, avevamo già provato a suonarlo, ma non era comunque in programma di registrarlo. Era uno degli ultimi giorni in studio e per quel giorno avevamo finito di registrare. Era molto tardi e dopo una cena abbastanza impegnativa, Paul mi ha chiesto di provare a fare un take con la band. Hanno collegato un paio di panoramici e quello che è successo lo abbiamo messo sul disco».

Paul Reddick, oltre ad essere produttore del disco, ha scritto anche alcuni testi della canzoni. Come si è sviluppata questa collaborazione e quanto ha inciso sull'uscita del disco?

«Ho conosciuto Paul nell'aprile del 2010, quando la band lo ha accompagnato nel suo tour europeo. Ci siamo divertiti un mondo. Mi piace moltissimo il suo modo di scrivere ed il suo approccio alla musica. Quando ho pensato a questo progetto mi è venuto immediatamente in mente il suo nome. Abbiamo parlato e Paul si è subito entusiasmato all'idea. Ha scritto praticamente tutti i testi, a parte "Everybody wants to win" che è stato scritto da Pete Pearson».

Oltre a Gnu Quartet, tra gli ospiti c'è anche Fabio Treves. Cosa mi puoi dire di questo incontro?

«Io lo conoscevo da sempre, lui mi ha conosciuto 25 anni fa. Fabio era ospite di una rassegna organizzata nella riviera ligure, dove abbiamo suonato insieme per la prima volta. Ho militato poi nella Treves Blues Band dal 1991 al 1993, ed è nata una bellissima amicizia. Casa Treves mi ha sempre sostenuto durante tutti questi anni di carriera, e oggi, insieme a Gab D, ho l'onore di essere stato invitato a prendere parte al suo tour teatrale che celebra i 40 anni di carriera della Treves Blues Band. Un incontro come ne capitano pochi».

Qual è il brano a cui sei più legato e perché?

«Questo è un album molto importante per me, e i brani hanno tutti un forte significato perché raccontano di me, del mio vissuto. Ma un sapore speciale è quello di "He think of you". Credo sia la fotografia più riuscita di questo album. Quando relazionarsi in questo mondo per qualcuno diventa più difficile che per altri, il bisogno di avere un legame che possa renderti felice, a volte non riesce ad essere soddisfatto. Si può però pensare a qualcuno che forse un giorno potrai conoscere, e che potrà scoprire come sei, ed amarti».

Quando sono state scritte queste canzoni?

«Ho cominciato a lavorare all'album agli inizi del 2012 e siamo entrati in studio nel febbraio del 2013. Non proprio una passeggiata».

Perché la scelta di una copertina in bianco e nero quando le canzoni hanno, al contrario, "colori" a volte unici e sfumature che personalmente mi piacciono molto?

«Ad aprile del 2013 avevamo in programma un tour europeo con Big Pete Pearson, a cui ha preso parte anche Michele Bonivento, che poi ha dato un contributo molto importante all'album, e noi eravamo in piena produzione. È stato un tour speciale perché in programma avevamo anche una data al Baltic Blues Festival di Eutin in Germania, dove eravamo headliners con Pete, ma in cartellone anche come Guitar Ray & The Gamblers. Quindi abbiamo avuto la possibilità di suonare live per la prima volta i brani del disco. Un momento importante per vedere la reazione del pubblico al nuovo spettacolo. Lo show è stato molto emozionante e di grande impatto. Ho avuto la copertina del magazine che si è occupato della rassegna. La foto sulla cover del cd, è uno scatto della fotografa tedesca Beate Grams di quello show, ed era uno scatto in bianco e nero, carico di significato. Mi è piaciuta l'idea che i colori fossero una cosa da scoprire».

Quali sono stati i tre incontri fondamentali della vostra carriera?

«Davvero difficile rispondere. Ognuno degli artisti che abbiamo accompagnato, o con cui abbiamo collaborato, hanno lasciato un segno. Ho imparato a suonare la lap-steel dal grande Sonny Rhodes nel lontano 2001. Accompagnare in tour Jerry Pornoy, che ha suonato nella Muddy Waters Band, nei dischi e nei tour di Eric Clapton, è stata una scuola incredibile. Collaborare con ognuno di loro è stata una bellissima esperienza, ma se devo scegliere tre nomi allora ti dico Fabio Treves, per il rapporto di amicizia che ci lega, Otis Grand, che ha prodotto i miei primi due cd, e Paul Reddick a cui ho affidato la produzione artistica di "Photograph"».


Titolo: Photograph
Artista: Guitar Ray & The Gamblers
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2014





venerdì 24 gennaio 2014

Il "Big Bang" interpretato da Andrea Di Cesare







Un violinista eccentrico, un batterista con vent'anni di carriera alle spalle e un album che unisce echi classici a trame pop-rock condite con una buona dose di elettronica. Il titolo "Big Bang" è quanto mai azzeccato visto che il disco è una esplosione di suoni, contaminazioni, effetti e tecnologia che il violinista e compositore Andrea Di Cesare fonde in queste nove tracce originali. Dopo aver collezionato tante collaborazioni con alcuni dei più importanti nomi della musica italiana (tra questi Carmen Consoli, Paola Turci, Niccolò Fabi, Max Gazzè, Simone Cristicchi, Ron, Renato Zero, Daniele Silvestri e Mariella Nava), l'artista romano si presenta con questo progetto originale che vede il violino giocare con suoni effettati, tappeti elettronici e basi ritmiche. Un esordio discografico ricco di idee, costruito su una architettura melodica complessa che mischia la modernità dei suoni alla tradizione classica del violino, senza cadere in inutili virtuosismi. Si tratta di un linguaggio musicale nuovo, moderno e fuori dagli schemi.
Per riuscire nel suo intento Di Cesare ha chiamato a sé, in questa inedita formazione "duo2", il batterista siciliano Puccio Panettieri, già collaboratore di moltissimi artisti italiani e stranieri. La fatica discografica è impreziosita dalla partecipazione, in veste di cantante, di Niccolò Fabi nel brano "Solo un uomo" e di Paola Turci nella sua "Stai qui". Il disco, disponibile in digital download e su tutte le piattaforme streaming, è mixato da Mirko Cascio.
Abbiamo chiesto ad Andrea Di Cesare di raccontarci la genesi di questo album.


Andrea, cosa ti ha spinto a intraprendere la carriera solista?

«Soprattutto la mia necessità di espressione, privata e intima. Quelle parole musicali che prestavo ad altri artisti ma non dedicavo a me, linee melodiche efficaci per altri ma mai una per me. Mi sentivo bene, da un certo punto di vista, perché regalavo una parte di me agli artisti con cui collaboravo, ma da un altro punto di vista sentivo che non stavo facendo tutto quello che era nelle mie potenzialità di espressione, quindi ecco qui il risultato, il mio primo disco, "Big Bang", una scintilla, un inizio di un dialogo musicale, un linguaggio mio, personale ed intimo, che regalo alle persone che hanno la voglia di scoprire una nuova lingua per farsi coccolare dai suoni del mio violino».

Quali sono state le difficoltà maggiori che hai incontrato in questa nuova veste?

«Le difficoltà maggiori sono nel farsi capire e conoscere, svestito dei propri panni, mettendomi a nudo, perché prima ero un co-protagonista efficace ma silenzioso, adesso sono il protagonista con un linguaggio nuovo e personale. Spero, piano piano, di ritagliarmi il mio spazio culturale».

In "Big Bang", oltre al suono del tuo violino, ti sei fatto accompagnare dal batterista Puccio Panettieri e da un'ipotetica band. Come l'hai creata e come hai studiato gli arrangiamenti?

«L'ho creata partendo da una unica fonte, il violino, da lì l'ho svestito e rivestito con altri suoni, utilizzando varie tecnologie di trasformazione. Gli arrangiamenti li ho creati pensando a come avrei poi potuto rifarli dal vivo, l'unica cosa era pensarli alla Bach, con contrappunti, melodie in orizzontale e non in verticale».

Se consideriamo le opportunità che dà l'elettronica al giorno d'oggi viene da chiedersi che disco avresti potuto registrare con le tecnologie di quarant'anni fa. Ci hai mai pensato e soprattutto come lo avresti prodotto?

«Non ci ho mai pensato perché vivo oggi, ma visto che mi ci fai pensare, l'avrei pensato sempre nella maniera di Bach, cioè con i contrappunti, portandomi dietro vari registratori a bobina e facendoli suonare assieme a me, e le note emesse sarebbero state storpiate. Avrei fatto sicuramente musica sperimentale».

Come si sono svolte le registrazioni?

«Nel mio studio, dentro le mie idee ed i miei pezzi di storia».

Pensi che ci siano ancora ambiti da esplorare nella musica contemporanea?

«Assolutamente sì, se non ci fossero sarebbe finita l'arte contemporanea in generale. Credo che, nel mio piccolo, il disco "Big Bang" abbia questa caratteristica, di essere un ambito nuovo da esplorare, anche per altri violinisti».

Nella tua carriera di musicista hai suonato con alcuni dei più importanti nomi della musica italiana. Quali sono gli episodi che ricordi con più piacere?

«Un tour, se non ricordo male era il 2008, con Paola Turci. In macchina eravamo io, Pierpaolo Ranieri, Marco Rovinelli e Paola. Viaggi, risate, allegria, gioia… in quella macchina ridevamo per piccole cose, si stava bene insieme ed è un legame che ancora oggi prosegue felicemente».

Cosa ti ha insegnato la tua carriera da turnista?

«Mi ha insegnato a suonare il giusto e per gli altri, sottolineando le parole dei cantanti con melodie adatte, senza strafare, essere co-protagonista al loro fianco».

Nel disco ci sono anche due ospiti illustri: Niccolò Fabi e Paola Turci. Come sono nate queste collaborazioni?

«Sono nate perché, prima di tutto, sono amici. Mi è venuto naturale invitarli nel mio disco, per una sinergia e una sensibilità molto simile, e li ringrazio nuovamente per avermi regalato una interpretazione unica, speciale e coinvolgente per il mio disco d’esordio. Niccolò e Paola sono stati felici quando li ho invitati a partecipare al disco come ospiti d'onore e anche per la scelta delle canzoni».

A parte questi due episodi, le altre nove canzoni che compongono il disco sono strumentali. Qual è il messaggio che vuoi trasmettere?

«Un messaggio pulito, di nuova sonorità, un messaggio sereno, tranquillo, ma nello stesso tempo di movimento per risorgere. Un'idea musicale che ti accompagna durante la giornata, un sorriso in musica ed un dirti, con il violino, che non siamo soli, che la scintilla c'è e si sente».

Chi dovrebbe ascoltare il tuo disco?

«Chiunque, bambini e adulti, donne in gravidanza a famiglie. Musicisti e non, tutti insomma».

Cosa farai nei prossimi mesi?

«Porterò la mia musica oltre oceano, in Sud America e nel Nord America, tornerò in Spagna e presto andrò a Londra e a Parigi, suonerò in Italia e ho tanti progetti da seguire. Il disco sarà ristampato con l'aggiunta di altre collaborazioni illustri e farò altri video… comunque tutto questo sarà aggiornato nella mia pagina Facebook».


Titolo: Big bang
Artista: Andrea Di Cesare
Etichetta: autoprodotto
Anno di pubblicazione: 2013

Tracce
(musiche di Andrea Di Cesare, eccetto dove diversamente indicato)

01. Claudia
02. Run
03. Londra
04. Stai qui  [Paola Turci; arrang. e adatt. Andrea Di Cesare]
05. My memories
06. The sound
07. The sun
08. Two voices
09. Solo un uomo  [Niccolò Fabi; arrang. e adatt. Andrea Di Cesare]
10. Bit
11. Christopher



mercoledì 15 gennaio 2014

"Christmas in jazz", il Natale di Danila Satragno








Raffinata, dallo sguardo vivace e intenso, con la battuta pronta ma anche spirito inquieto trascinato nel divenire dalla sua musica e dalla passione per l'insegnamento. Danila Satragno è senza ombra di dubbio una delle figure più apprezzate della scena jazz femminile italiana e soprattutto punto di riferimento per chi, professionisti e non, ha necessità di imparare a usare la voce. Cairese di nascita, Danila Satragno, dopo un paio di dischi che l'hanno fatta conoscere agli addetti ai lavori, è stata corista di Fabrizio De André sul finire degli anni Novanta, in occasione del tour "Anime salve". Incontro di straordinaria importanza per Danila, sia dal punto di vista artistico che umano.
La Satragno non è però solo cantante e interprete elegante ma anche insegnante. Con l'aiuto del medico foniatra Franco Fussi, l'artista savonese ha inventato un metodo scientifico, il vocal care, per insegnare a cantare. Sono stati pubblicati libri, dvd e addirittura una app per divulgare questo metodo che ha avuto grande successo anche tra i professionisti del microfono. Danila è infatti vocal coach di Ornella Vanoni, Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, Giusy Ferreri, Bernardo Lanzetti, Roby Facchinetti e Red Canzian dei Pooh e tanti altri. 
Sul fronte discografico il 2013 è stato ricco di novità. Dopo "Sanremo in jazz", uscito all'inizio dell'anno, Danila è tornata in sala di registrazione per "Christmas in jazz", disco benefico che vanta la partecipazione di Ornella Vanoni, Gino Paoli, Paolo Fresu, e che contiene alcuni tra i più noti classici di Natale riadattati in chiave jazz e alcuni inediti. All'album hanno collaborato anche Luca Mannutza, Rosario Bonaccorso e Nicola Angelucci.
Quello che segue è un estratto della piacevole chiacchierata fatta con Danila a Savona.



Danila, anche tu hai voluto rendere omaggio alla festività più sentita dell'anno...

“Era un desiderio che avevo da tantissimo tempo, già da quando, ancora bambina, vedevo in televisione grandi stelle come Judy Garland e Bing Crosby impegnati in programmi natalizi bellissimi. Questo disco è praticamente la realizzazione di un desiderio adolescenziale. Il processo è stato naturale anche perché questi brani si sposano benissimo con la musica jazz".

So però che questo disco ha anche uno scopo nobile...

"Sì, a questo desiderio si è aggiunta la voglia di fare del bene. Natale ha in sé questo senso di condivisione e ho voluto unire la magia di questi giorni a qualcosa di concreto. Il ricavato del disco andrà in beneficenza all'ospedale pediatrico Gaslini di Genova, ma lo potremo dire ufficialmente solo quando avremo raccolto la somma da consegnare. Lavoro molto volentieri per i bambini come per gli animali".

Non sono mancate le collaborazioni di prestigio...

"Ornella Vanoni ha avuto una esperienza triste ma finita benissimo con il Gaslini e ha voluto partecipare gratuitamente al progetto. Gino Paoli mi ha detto <sono di Genova e voglio esserci assolutamente>. Paolo Fresu non era purtroppo dalle nostre parti ma ha registrato il suo intervento a Catania e grazie alla tecnologia anche lui ha dato il suo apporto. Poi i liguri Giampaolo Casati, Fabio Rinaudo e tanti altri. Ed è venuta fuori questa cosa straordinariamente bella, a detta dei critici".

Canzoni di Natale che hanno incuriosito anche l'emiro del Dubai. Raccontaci questa inaspettata trasferta araba...

"E' stata una bellissima sorpresa, nata da un incontro inaspettato da amici. Ho conosciuto queste personalità del mondo arabo che ammirano molto i Pooh e Ornella Vanoni, di cui sono vocal coach, e glieli ho fatti incontrare. Così mi hanno invitata a Dubai a portare un po' della mia musica. In quei giorni si stava disputando il campionato mondiale di offshore, che a Dubai è una cosa meravigliosa".

Musica di Natale in un paese arabo, anche questo è stato un piccolo miracolo, non credi?

"Effettivamente le canzoni di Natale c'entravano poco anche perché non è la loro religione ma devo dire che l'emiro è stato molto carino. E' venuto al concerto, ha ascoltato le musiche e ci ha fatto complimenti bellissimi. Ho cantato anche un brano a voce nuda che è piaciuto tantissimo".

Realtà molto diversa da quella che siamo abituati. Come ti sei inserita?

"Ero un po' timorosa e ho guardato sempre gli ospiti italiani per capire come stava andando. Indubbiamente hanno una visione molto diversa dalla nostra ed è molto difficile capire i loro riti. Sono stata seguita da un maestro di cerimonie che mi ha insegnato a muovermi. Ho fatto qualche errore, stavo per andare a baciare l'emiro in segno di ringraziamento ma per fortuna il mio maestro mi ha tirato una occhiataccia e mi sono fermata. Poi, se c’è voglia di comunicare con un po' di buona volonta le difficoltà si superano. Ci ammirano molto per la musica, la creatività, la moda e persino per il modo di costruire le case. Sono molto curiosi e ho nota che si stanno allineando molto al nostro paese".

Esibirsi in un paese così diverso, in una situazione così particolare, non è roba da tutti i giorni. Cosa ti ricordi di questo viaggio?

"Ho avuto la possibilità di entrare nella loro moschea e ho pregato con le donne arabe. Sono state emozioni forti. Mi sono esibita su un meraviglioso panfilo offerto dall'emiro e tra gli invitati c'erano i personaggi più inaspettati: da Maradona alla principessa dell’Afghanistan, di cui sono diventata molto amica e con cui ho intessuto rapporti importanti. La musica ha fatto da collante tra emiri, Maradona, principesse, politici italiani".

Nel corso del 2013, oltre a "Christmas in jazz", hai pubblicato anche "Sanremo in Jazz". Due dischi in un anno, cosa ha provocato questa accelerata? Ricordo che l'album precedente, "Un lupo in darsena", è stato pubblicato ben sette anni fa...

"E’ stata una presa di coscienza. Sono sempre stata molto lenta nel consapevolizzare le cose e ho pensato a questo strano mestiere di cantante e vocal coach come a un percorso ed è poi quello che dico sempre ai miei ragazzi: non pensate di bruciare le tappe ma gettate le basi per una carriera lunga. Probabilmente è meno altisonante, hai meno picchi, ma vivi di musica e quindi hai bisogno di costruire le cose lentamente. Io forse sono fin troppo lenta, probabilmente perché non ho mai voluto lasciare la mia vita completamente in mano all’arte, perché non volevo piegarmi a troppi compromessi. Per me la musica è sempre stata molto importante e se fosse diventata il mio lavoro sarei stata obbligata a cedere agli inevitabili compromessi. Sono invece convinta che l'arte debba essere lasciata libera. Motivo per cui i grandi artisti sono sempre stati squattrinati: le due cose non vanno molto d’accordo".

E così oltre a fare la cantante hai deciso di dedicarti anche all'insegnamento…

"Avere un lavoro stabile mi ha permesso di lasciare la mia musica immune da compromessi e mi ha aiutato perché ora sono un essere libero e riesco a vivere, a cantare con chi voglio e fare le cose che desidero. Certo, vuol dire aver due lavori, avere 48 ore al giorno a disposizione. E' molto più faticoso, però guardandomi indietro adesso sono molto più contenta. Anche contenta di non aver accettato per due volte di partecipare al Festival di Sanremo perché non era in linea con le mie idee musicali. Ci ho messo molto per maturare, adesso però mi sento una artista più sicura, ho voglia di fare più cose perché sono più consapevole. Ancora quando lavoravo con De André non sapevo bene come collocarmi musicalmente, avevo tanti desideri. Ecco Fabrizio è stato uno di quelli che mi ha dato una illuminazione: nel 1998 mi ha detto canta in italiano perché vedrai che troverai delle sfumature che in inglese non ci sono. Aveva ragione. E "Sanremo in jazz" è figlio di quella frase di Fabrizio".

Con la maturità è arrivata quella serenità da sempre cercata?

"Certamente. Non sento più di dover fare i dischi per dimostrare qualcosa. Il disco è solo una testimonianza di quello che si è in quel momento. Prima mi agitavo e avevo paura della critica, del giudizio, ora, da quando ho smesso questo atteggiamento arrivano anche molti più complimenti".

Quando ti sei accorta di questo tuo nuovo atteggiamento?

"Nel 2011 sono cambiate delle cose e ho voluto fermare le esperienze fatte per poterle lasciare agli altri. Ornella Vanoni dice che sono una missionaria perché ho regalato tutto al mio lavoro. Probabilmente è vero, ho proprio voglia di vivere così, non solo per me stessa ma anche un po’ per gli altri. E’ per questo che non ho avuto una famiglia, e adesso capisco un po’ di cose mie perché evidentemente mi sentivo di dover dare, di condividere queste esperienze che ho avuto la fortuna di fare pur abitando a Cairo. Ho incontrato personaggi straordinari, musicisti icredibili. Fortuna o merito non lo so. Partivo con la mia Panda da Cairo e andavo a Milano a fare i mie incontri a sentire i concerti e da lì sono nate tante cose e mi ritengo fortunata di averle vissute".

Ho sentito che il tuo prossimo disco potrebbe essere un omaggio a De Andrè: un cerchio che si chiude?

 "Sono rimasta molto amica della famiglia, con Luvi e Dori, anche con Cristiano ma soprattutto con le signore. Abbiamo fatto uno spettacolo carino ad Albenga da Antonio Ricci, in occasione di questo premio simpatico "La fionda di legno", e c'erano anche Gino Paoli e Dori. Ho cantato un brano di Fabrizio con enorme commozione, tanto che Dori è salita sul palco ad aiutarmi. Dori mi ha poi detto <Fabrizio non ti ha mai detto di cantare la sua musica?>. Le ho risposto <in realtà sì> ma poi non ho mai avuto il coraggio di partecipare a questa corsa ad interpretare De André, solo perché portava buono. Non volevo mettermi nella lista e ho rinunciato".

Ora qualcosa è cambiato?

"Dori ha insistito dicendomi che devo farlo anche perché le canzoni di Fabrizio cantate da una donna si possono ascoltare da una prospettiva diversa. Da quel giorno ad Albenga è passato un sacco di tempo, poi all'Epifania ho chiamato Dori e le ho detto che ero pronta anche per questo. E lei entusiasta mi ha detto <Bè, allora io ti aiuto>. Mi piacerebbe fare qualcosa in cui la Fondazione De André si riconosca, magari anche cantando brani inediti. Mi interesserebbe coinvolgere anche la Fondazione Don Gallo, inserire nel disco qualche voce recitante. Lo so, è completamente anticommerciale però va bene, voglio fare qualcosa di culturale".

Parliamo ora della tua carriera di insegnate di cui ci hai già anticipato qualcosa...

"E' stato forse il mio primo mestiere, ho cominciato facendo la maestrina di pianoforte. Poi questo mestiere si è evoluto, la voce mi ha catturata e ho dedicato la mia vita a studiarla in tutte le sue sfaccettature. Ho fatto un bell'allenamento con i miei allievi che poi sono diventati chi la corista della Nannini, chi di Vecchioni, poi c'è stata Annalisa e si continua con i bambini che vanno ai talent, e alla fine, lavorando con Franco Fussi, che è un grande foniatra, abbiamo inventato questo metodo, il vocal care, pensato proprio per la vocalità moderna. Abbiamo approntato un metodo scientifico molto rapido e veloce perché tu sai bene che i big hanno poco tempo per studiare, e ha avuto molto successo. Lo abbiamo testato sulle voci dei grandi da Giusy Ferreri a Giuliano Sangiorgi. Mi ha dato una credibilità enorme nell'ambiente e adesso quando c'è bisogno di curare una voce mi chiamano e devo dire la verità che mi piace molto".

Professionisti, bambini e alunni della tua scuola. Tanti sono i tuoi allievi...

"Ho lavorato anche su Mario Biondi, adesso è arrivato Manuel Agnelli degli Afterhours che non sta male per niente ma vuole fare nuove esperienze musicali, addirittura penso che voglia sondare un po' il jazz, quindi stiamo lavorando per questo. La cosa più appassionante però è sempre lavorare su un giovane che da zero arriva a dieci. Hai sempre da imparare perché ognuno di loro mi chiede cose diverse, hanno esigenze particolari. In questo modo rimango al passo con i tempi e continuo a migliorarmi. Adesso sto seguendo Zoe Nochi, la bimba protagonista del musical "Alice nel paese delle meraviglie" che tra un po' di giorni sarà premiata da Limiti".

Ripeti spesso che gli stonati non esistono, eppure...

"Pensa che gli stonati veri sono il 3% della popolazione mondiale, quindi è ben raro trovarne uno doc. In genere è una cattiva sintonia tra orecchio e voce, una volta rimesso a posto il collegamento è risolto il problema. Non ho ancora incontrato uno stonato irrecuperabile".

Il saper utilizzare la voce è molto importante anche nei rapporti personali. Hai mai pensato di portare le tue conoscenze anche in ambiti diversi da quelli artistici?

"L'ho già fatto, ho lavorato anche con politici. Mi sto appassionando alla comunicazione, a come insegnare alle persone a comunicare, parlare in modo efficace, siano essi politici, oratori, insegnanti ma anche nei rapporti di famiglia. Saper parlare è molto importante e aumenta il successo nella vita".

Secondo te quali sono i cantanti emergenti da tenere d'occhio?

"Teniamo d'occhio questa giovane cantante albenganese, Miriam Masala, che ho mandato recentemente da Maria De Filippi. E' veramente un personaggio interessante. Poi dico Annalisa che sta costruendo una carriera propria. La cosa bella è che non si è mai piegata troppo alla commerciabilità anche quando ha partecipato a un talent. E' sempre stata se stessa e lo trovo molto coraggioso per una giovane. Significa andare contro corrente e non è mai semplice. Malika sta facendo cose interessanti. Poi trovare un personaggio come Ornella Vanoni che a 80 anni ha voglia, passione, entusiasmo, è una cosa magnifica che porto sempre ad esempio ai miei ragazzi".

Vanoni che è al suo ultimo tour…

"Il suo ultimo tour? Non credo proprio. Ho sempre detto a Ornella che non ci credo. Ornella tra l'altro è molto affezionata a Bergeggi, le piace molto".

Negli anni passati sei stata ospite di format televisivi. Cosa pensi di questo mondo?

"Hanno dato grande rilevanza al canto e alla musica, hanno messo in evidenza l'importanza che può avere la musica per un giovane, come ti può cambiare la vita. Certo è che la rapidità con cui devono svolgersi commercialmente questi format ha interrotto il graduale processo di crescita dell'artista. Non permettono di fare quelle esperienze che preparano musicalmente e umanamente alla vita del cantante, che non è solo successo ma è un continuo progredire. Si creano meteore e conosco molti ragazzi che sono rimasti al palo. Sono ferite molto dolorose, psicologicamente bisogna essere preparati".

Consiglieresti a un giovane di partecipare a un talent show?

"Lo consiglierei solo a un giovane con le idee chiare. L'ho consigliato ad Annalisa perché ha un carattere di ferro, un grande talento, una bella famiglia alle spalle. Lo dico da insegnante, non da mamma perché non ho figli anche se è come se ne avessi tanti, una persona non preparata va incontro a molte lacrime e delusioni. Ho visto molte vite bloccate da queste esperienze negative".

Ci sono soluzioni per evitare tutto questo?

"Sarebbe bello che all'interno di questi format venissero trasmessi principi e segnali importanti e non ingannevoli. Si potrebbero arricchire i programmi con i cinque minuti della verità durante i quali trasmettere informazioni neutre per preparare i ragazzi al gioco. Sarebbe molto interessante anche per vedere la loro reazione".

Nel corso della tua carriera hai collaborato con un elenco sterminato di musicisti e cantanti. Avrai però sicuramente ancora qualche sogno nel cassetto...

"Si chiama Sting! Ho avuto l'opportunità di conoscerlo a un pranzo ed è stato veramente bellissimo. Vorrei lavorare con lui perché mi piace molto e poi perché vorrei dargli due-tre consigli sulla voce che gli sarebbero utili. Trovo che sia un angelo caduto sulla terra. La sua voce ha qualcosa di sovrannaturale. Lo dico spesso anche a Giuliano Sangiorgi: Dio ti ha dato qualcosa di speciale quindi usala bene".

Neil Young nella sua biografia, "Il sogno di un hippie", ha scritto <Non c'è nulla di peggio che avere una grande idea ma perderla perché non puoi controllarne il processo>. Cosa ne pensi?

"Penso che molti artisti ne abbiano sofferto, non solo cantanti, musicisti ma anche scultori, pittori, scrittori. Questo perché la comunione tra spirito libero e arte fa tanta fatica ad andare di pari passo con la contemporaneità e la commerciabilità. Sono due realtà molto diverse e spesso succede che una grande idea messa in un contesto non possa più essere controllata. Pochi forse lo capiscono ma è un fatto che ha danneggiato tante forme d'arte e di pensiero. Nella mia lentezza ho cercato sempre di protegge la mia arte, senza metterla molto in risalto. Un giornalista recentemente mi ha chiesto <ma cantavi così anche vent'anni fa, perché adesso Blue Note e prima ti esibivi ad Albissola?>. Ecco, probabilmente per questa voglia di proteggere e rimanere me stessa. Adesso sono contenta, ho trovato un equilibrio perfetto. Poi il fatto che si faccia fatica questo dipende molto dal coraggio".

E dopo l'esibizione al Blue Note di Milano cosa farai?

"Ci sarà lo Sporting a Montecarlo, poi ritornerò a fare un giro nei club degli Stati Uniti però stavolta con un gruppo interamente americano, forse rimarrà Dado Moroni ma non sono ancora sicura. Canterò jazz in italiano perché credo che nelle contaminazioni nascano le cose più belle. E poi mi farà piacere ritornare a casa".


Titolo: Christmas in jazz
Artista: Danila Satragno
Etichetta: autoproduzione/Artist First
Anno di pubblicazione: 2013


Tracce

01. Silent night (feat. Paolo Fresu)
02. Let it snow! Let it snow! Let it snow!
03. The Christmas song
04. Jesus, oh what a wonderful child
05. White Christmas
06. Amazing Grace
07. Ave Maria
08. All I want for Christmas is You
09. Jingle bells
10. A child is born
11. Babbo Natale e Maria (feat. Gino Paoli)
12. Silent night (feat. Ornella Vanoni e Paolo Fresu)




venerdì 3 gennaio 2014

"Qualcosa che vale", il Battisti di Patrizia Cirulli








C'è voluto molto coraggio e un pizzico di sana follia per decidere di cantare le canzoni di "E già", l'album meno conosciuto, spiazzante e a suo tempo criticato di Lucio Battisti. Patrizia Cirulli, con l'appoggio del giornalista Francesco Paracchini ("L'isola che non c'era") nelle vesti di coordinatore del progetto, riavvolge il nastro e a trent'anni di distanza dall'uscita di quel disco che ha segnato uno spartiacque nella carriera di Battisti, pubblica "Qualcosa che vale". La cantautrice milanese rilegge il disco dell'artista di Poggio Bustone dando alle canzoni nuova vita e slancio, e dimostrando, al tempo stesso, una ormai raggiunta maturità da interprete che le evita di cadere in facili autocelebrazioni. Non si tratta quindi di un mero tributo ma di una esperienza musicale di stile, capace di mettere in luce aspetti nuovi di canzoni troppo presto dimenticate. "E già", uscito nel 1982, fu infatti l'album di transizione tra le due importanti fasi della carriera di Battisti. È un disco che segna il passaggio tra la produzione precedente firmata con Mogol e quella successiva affidata al paroliere Panella. Le canzoni di "E già" sono brani brevi, senza orpelli, scritti a quattro mani con la moglie Grazia Letizia Veronese ma rinforzati da una base elettronica, una novità che in Italia anticiperà in qualche modo l'evoluzione musicale degli anni Ottanta. 
La Cirulli ne dà una lettura differente. Lascia da parte i suoni elettronici e punta a una più essenziale chiave di lettura acustica per voce e chitarra. Soluzione che esalta il testo e le "verità nascoste" di queste dodici tracce. Per farlo la Cirulli vuole al suo suo fianco alcuni dei più bravi chitarristi italiani. Uno, o al massimo due, per ogni brano. Quattordici maestri della sei corde che impreziosiscono e personalizzano le canzoni pescando nelle più diverse sensibilità musicali: Pacifico per "Scrivi il tuo nome", Luigi Schiavone per "Mistero", Massimo Germini e Andrea Zuppini per "Windsurf windsurf", Giorgio Mastrocola per "Rilassati ed ascolta", Fausto Mesolella per "Non sei più solo", Walter Lupi per "Straniero", Giuseppe Scarpato per "Registrazione", Fabrizio Consoli per "La tua felicità", Paolo Bonfanti per "Hi-Fi", Carlo De Bei per "Slow motion", Carlo Marrale e Simone Chivilò per "Una montagna", Mario Venuti per "E già".
Abbiamo parlato con Patrizia Cirulli della genesi di questo album che le ha regalato il quarto posto al Premio Tenco 2013 nella categoria "Interpreti". Il tutto nell'intervista che segue.



Cantare Battisti, una bella sfida non credi?

"In realtà  non ho pensato a questo quando ho deciso di avvicinarmi a questi suoi brani. Battisti non ha certo bisogno di qualcuno che canti le sue canzoni, le sue realizzazioni sono dei capolavori. Tuttavia mi sono avvicinata con rispetto e curiosità a questo repertorio cercando di sentire nel profondo queste composizioni".

Perché proprio Battisti?

"Di Battisti si é soliti ricordare il periodo in cui i testi erano affidati a Mogol. Si tratta del periodo di maggior successo e visibilità, le canzoni che tutti conosciamo e che ancora oggi ci accompagnano. Poi esiste il periodo dei cinque album bianchi, dove i testi sono di Panella. E poi esiste un album che unisce i due periodi, quello del 1982 "E già", dove i testi sono scritti da Grazia Letizia Veronese (moglie di Battisti). Il secondo Battisti (da quest'ultimo album in poi) é quello meno conosciuto. Ed é un peccato perché ci sono delle cose molto belle che vale la pena recuperare. Questo Battisti era quello che mi interessava scoprire e interpretare".

In "Qualcosa che vale" canti le canzoni di "E già", un disco originale e allo stesso tempo spiazzante, che si poggia su moltissima elettronica e che è forse il meno conosciuto della produzione di Battisti. Anche questa scelta poteva essere un azzardo, non credi?

"Certamente. Ma credo sia proprio una delle cose interessanti. É un disco poco conosciuto, ed é un peccato. Non ci si può fermare ad un primo ascolto. Si tratta di canzoni particolari che meritano attenzione. Ci sono cose che si scoprono e apprezzano nel lungo periodo, non necessariamente nell'immediato. Il veloce consumo musicale di oggi e la superficialità non mi interessano".

Come e quando è nata l'idea di interpretare questi brani?

"L'idea é nata cinque anni fa (entrando nel 2014 quasi sei!) parlando con Franco Zanetti. Ho sentito qualcosa di molto bello in quel disco di Battisti. Ho preso la chitarra e ho iniziato a cantare i primi tre brani che mi avevano colpito inizialmente. "Scrivi il tuo nome", "Mistero" e "Rilassati ed ascolta". Per me tre capolavori. Poi sono andata avanti con gli altri. É successo qualcosa di magico, un incontro straordinario. Concetti di grande profondità, una ricerca interiore e allo stesso tempo un senso di leggerezza. Ho quindi deciso di realizzare un disco con questi brani. Ho contattato Francesco Paracchini, direttore della rivista di musica "L'isola che non c'era" e gli ho parlato di questa mia idea. Francesco ha apprezzato molto il lavoro di pre-produzione da me svolto e ha voluto unirsi a me nella realizzazione del progetto".

Non paga delle inevitabili insidie che si incontrano quando si interpretano brani di mostri sacri, come è appunto Battisti, hai voluto stravolgere il tutto rinunciando completamente all'elettronica. Hai scelto di farlo puntando solo su voce e chitarra. Una scelta che, rispetto all'originale, dà molta più importanza ai testi o sbaglio?

"É proprio così. La realizzazione in acustico, lascia molto più spazio al valore dei testi. Come ti dicevo, vengono trattati temi importanti, profondi. A volte, invece, si sente anche un senso di leggerezza. In ogni caso, la particolarità e la bellezza va ricercata anche nella comunicazione di questi testi".

Ad accompagnarti però hai voluto ben quattordici chitarristi: da Fausto Mesolella a Pacifico, da Marrale a Mario Venuti, solo per citarne alcuni. Ciò ha richiesto sicuramente un grande impegno organizzativo…

"Certo, anche perché mettere insieme quattordici grandi musicisti, ognuno impegnato con le proprie attività, non é stato semplice. É stato semplice avere la loro adesione nel senso che hanno accettato tutti subito con entusiasmo. Poi, a livello organizzativo, c'è voluto un po' di tempo. E c'é voluto un po' di tempo inizialmente anche per scegliere i musicisti".

In base a quale criterio sono stati scelti i chitarristi?

"Siamo partiti dalle canzoni. Abbiamo pensato: <chi potrebbe realizzare questo brano, con questo stile, con queste caratteristiche?> E da lì abbiamo iniziato a pensare ad alcuni nomi. É iniziato tutto così".

Quanto tempo hai dedicato a questo progetto?

"L'idea é nata nel 2007. La realizzazione del disco é iniziata, invece, nel 2010".

Quale canzone del disco senti più tua?

"Più di una, in realtà tante. Te ne dico due: "Rilassati ed ascolta" e "Non sei più solo". Ma non posso non dirti anche "Scrivi il tuo nome"".

"Qualcosa che vale" è il titolo del disco ma per te cosa è che vale?

"Nel brano "Scrivi il tuo nome" c'è una frase magistrale: <…scrivi il tuo nome su qualcosa che vale>.
Ecco. Appunto. Scrivere il proprio nome, la propria storia, la propria giornata, la propria vita su qualcosa che vale. Dare valore alle cose. Riconoscere il valore delle cose, delle persone, delle emozioni, di quello che accade. Riconoscere il proprio valore. E anche quello degli altri. Autenticità. Questo vale".

Con "Qualcosa che vale" sei approdata alla finale del Premio Tenco 2013 nella categoria "Interpreti". Come hai accolto il quarto posto e cosa pensi della rassegna sanremese?


"É stata una bellissima sorpresa e mi ha fatto molto piacere. Mi piace poter ringraziare i giornalisti che hanno votato il disco e tutti i chitarristi che hanno partecipato con la loro straordinaria creatività e sapienza artistica".

Dopo due singoli e un disco da interprete non pensi che sia arrivata l'ora di pubblicare un disco di canzoni tue?

"Le mie canzoni esistono al di là della pubblicazione dei dischi. E questo da anni. Arriverà anche quel momento probabilmente. In ogni caso, il prossimo disco sarà un disco di poesie da me musicate. Testi di grandi poeti, tipo Quasimodo, D'Annunzio e altri, in forma canzone. Ho avuto modo di vincere il Premio Lunezia nel 2010 e anche nel 2013, proprio per aver musicato questi due poeti. Ecco un altro incontro magico, straordinario. E io mi appassiono. Come con le canzoni di Battisti. Ed eccoci di nuovo... a qualcosa, che per me, vale".



Titolo: Qualcosa che vale
Artista: Patrizia Cirulli
Etichetta: FPPC
Anno di pubblicazione: 2012




giovedì 19 dicembre 2013

Giulia Daici canta il Friuli con "Tal cîl des Acuilis"







Il 2013 è stato un anno ricco di soddisfazioni per Giulia Daici. "Tal cîl des Acuilis", terzo disco della sua carriera dopo l'Ep "Attimi" del 2007 e l'album d'esordio "E poi vivere" del 2011, ha convinto la critica e le ha portato in dote il secondo posto al Premio Tenco nella categoria riservata ai dischi in dialetto, dietro al vincitore Cesare Basile. Dopo i primi due episodi discografici cantati in italiano, la raffinata cantautrice, originaria di Artegna in provincia di Udine, ha voluto rendere omaggio alla sua terra con questo nuovo disco cantato interamente in lingua friulana. Nell'album troviamo dieci brani scritti nell'arco di una decina di anni: da "No tu sês", canzone composta nel 2002, fino a "Tal cîl des acuilis", ultima in ordine di tempo, che ha fatto conquistare a Giulia il secondo posto al Festival della Canzone Friulana 2012 e che è entrata in nomination agli Italian Music Awards nella categoria miglior canzone in dialeto dell'anno. La voce dolce e delicata della Daici presenta, in una originale chiave folk-pop, spaccati autobiografici, emozioni e ricordi in una sorta di appassionato diario dei suoi ultimi dieci anni. Un disco interessante, godibile, che non perde nulla della sua integrità anche per chi non conosce il friulano.
Il disco ha visto la luce grazie alla produzione di Simone Rizzi (presente nell'album anche in veste di musicista con tastiere, basso e computer programming) e l'apporto dei chitarristi Andrea Varnier ed Enrico Maria Milanesi, del pianista Alessio De Franzoni, della cantante Serena Finatti e con la partecipazione del Gruppo "In Arte… Buri" di Buttrio e del coro de I Bambini e le Bambine della Scuola Primaria di Artegna.
Del disco e di molto altro abbiamo parlato con Giulia nell'intervista che segue.




Giulia, perché hai scelto di cantare in lingua friulana? 

"In realtà non è stata una scelta studiata a tavolino ma è stato, ed è tuttora, un percorso artistico che è nato spontaneamente e che da sempre procede parallelamente a quello in italiano. Io, infatti, compongo in entrambe le lingue, sia in italiano che in quella friulana. E dopo aver dato visibilità ad alcuni miei brani italiani con i miei lavori "Attimi" ed "E poi vivere", lo scorso anno ho ritenuto giusto far conoscere anche le mie canzoni friulane e così è nato il disco "Tal cîl des Acuilis", che significa "Nel cielo delle Aquile"".

Non pensi che questa scelta possa tagliare fuori una parte del tuo potenziale pubblico? 

"C’è chi pensa che scrivere in lingua locale possa essere limitante ma io credo che sia invece un valore aggiunto, laddove, ovviamente, il tutto nasca in modo spontaneo e con l’intento sincero di esprimere una parte di sé stessi. È vero che l’idioma locale potrebbe forse rappresentare un ostacolo linguistico per la piena comprensione di un testo, però è anche vero che da sempre tutti noi siamo abituati ad ascoltare brani che ci giungono in una lingua diversa da quella italiana - come per esempio la lingua inglese - e che il più delle volte apprezziamo e cantiamo senza per forza aver capito il significato di tutte le parole. La musica non conosce filtri e ha il potere di entrarti dentro in modo immediato. Se un brano "arriva", arriva in qualunque lingua esso sia composto".

Con "Tal cîl des Acuilis" hai conquistato il secondo posto al Premio Tenco nella categoria miglior "Album in dialetto (e lingua locale)". Come hai accolto questo prestigioso riconoscimento? 

"Ovviamente per me si è trattato di una fonte di gioia e di soddisfazione immensa! E continuo a ringraziare dal profondo del cuore tutti i giornalisti che mi hanno ascoltata e sostenuta, che hanno dimostrato stima e fiducia verso il mio lavoro e che mi hanno dato questa preziosissima possibilità".

A vincere la categoria è stato Cesare Basile che non è andato a Bari a ritirare il premio in polemica con il Club Tenco. Basile ha detto "no grazie" per protesta contro gli attacchi del presidente Siae Gino Paoli al Teatro Valle di Roma, dove avrebbe dovuto svolgersi una manifestazione organizzata proprio dal Club Tenco, e a tutti gli spazi occupati dove si fa musica e arte. Hai seguito la vicenda? Cosa ne pensi del dietrofront del Club Tenco che ha annullato l’evento romano e dell’esternazione di Basile? 

"Sull’argomento si è già detto e scritto tanto e non credo serva aggiungere altro. Sicuramente tutte le decisioni sono state prese con serietà e responsabilità da parte degli interessati. Riguardo al non ritiro della targa, posso solo dire che personalmente non lo trovo un gesto molto corretto nei confronti dei giornalisti che hanno sostenuto e dato la loro fiducia ad un lavoro piuttosto che ad altri progetti e anche nei confronti degli altri finalisti della categoria in oggetto, in questo caso quella del miglior album in dialetto. Ma questa è solo una mia opinione personale".

Cosa pensi del Premio Tenco?

"Indubbiamente si tratta di uno dei riconoscimenti più ambiti ed importanti per la musica d’autore in Italia".

Quando sono nate e di cosa parlano le tue canzoni? 

"Tutte le mie canzoni sono autobiografiche ed ognuna di loro rappresenta una parte di me stessa. Mi piace pensare ad ogni mio brano come ad un ponte che collega il mio mondo interiore, con tutti i suoi moti ed emozioni, con l’universo che mi circonda. Con riferimento specifico all’album "Tal cîl des Acuilis", questo è di fatto una raccolta di canzoni in friulano che io ho scritto negli ultimi dieci anni, a partire dal brano più distante nel tempo, "No tu sês" ("Non ci sei", composto per un nonno nel 2002) fino alla canzone più recente, "Tal cîl des acuilis" che dà il titolo all’album. Filo conduttore di tutti i brani sono le emozioni profonde ed i momenti di vita vera vissuti da me in prima persona nella mia terra; in ognuno di loro richiamo elementi legati alle mie origini, alle mie radici, a tutti quegli affetti e a quelle immagini che rimarranno sempre impressi nel mio cuore e nella mia mente, come un tatuaggio indelebile sulla pelle. Non a caso, sulla copertina del disco ho voluto apparire di schiena mostrando, tatuata sull’epidermide, un’immagine che richiama, appunto, l’Aquila, simbolo del mio Friuli".

Cantare un disco in lingua locale è stato un episodio o pensi di proseguire su questa strada?

"Certamente proseguirò con piacere! Mi piace sempre sottolineare che il disco "Tal cîl des Acuilis" non va considerato come una semplice parentesi nel mio percorso artistico, in quanto le parentesi si aprono e si chiudono mentre qui si tratta di un progetto che ho sempre portato avanti – e continuerò a portare avanti - parallelamente a quello in italiano".

Il dialetto/lingua locale unisce o divide?

"Ciò che ti unisce e ti ricongiunge alle tue radici non può essere motivo di divisione ma semmai può diventare una preziosa occasione di arricchimento, sia per chi lo esprime sia per chi lo ascolta. Ogni lingua si fa portavoce di un bagaglio storico, culturale e umano unico. Perderlo vorrebbe dire perdere una parte importante della nostra storia. Non omologhiamoci a tutti i costi: scegliamo di ascoltare, aprire la mente, accogliere ciò che di nuovo e di bello può giungerci ogni giorno e in ogni contesto, sia nazionale sia appunto locale".

Cosa offre attualmente la scena musicale friulana?

"C’è molto fervore e stanno emergendo tante nuove e belle realtà musicali, soprattutto a livello cantautorale".

Come è nata la tua voglia di comunicare utilizzando la musica?

"Sebbene mi sia sempre piaciuto cantare, non mi sono mai "forzata" cantautrice. E’ stato un lento processo di autoconsapevolezza che ha fatto emergere sempre più l’esigenza di esprimere attraverso la musica le mie emozioni, il mondo interiore che pulsava dentro me e che io non riuscivo a trasmettere verbalmente. Sentivo che mi mancava qualcosa, e quel qualcosa l’ho trovato quando un giorno, ai tempi del liceo, ho preso in mano la chitarra e ho iniziato a comporre la mia prima canzone. Si chiamava "Nel cielo" ed esprimeva il mio desiderio di essere libera, libera di esprimermi andando, se necessario, anche controcorrente. Da quella prima volta sono passati ormai diversi anni: da allora non ho mai smesso di cantare, non ho mai smesso di scrivere, non ho mai smesso di viaggiare con la musica".

In una recente intervista Keith Jarrett ha dichiarato <la musica è qualcosa che viene da dentro, qualsiasi circostanza esterna, qualsiasi forzatura uccide la spontaneità>. Cosa ne pensi di questa affermazione? 

"Sono pienamente d’accordo. Ho sempre pensato anche io che la musica sia qualcosa di spontaneo, qualcosa che prima di tutto hai dentro e che, se la fai, la fai innanzitutto per "essere" (ovvero per portare fuori la parte più vera di te) e non per "apparire". La fai perché non ne puoi fare a meno e perché è una parte essenziale di te, a prescindere da risultati o ambizioni. Nemmeno a me piacciono i progetti studiati a tavolino, quelli "forzati" che nascono con il solo scopo di far leva facilmente sulle masse e raggiungere il così tanto agognato successo, ma che alla fine, a ben guardare, con la musica hanno davvero poco a che fare. A proposito di forzature, noto poi spesso come molte persone diano molto peso soltanto all’estensione vocale di un cantante, alla sua intonazione ed al suo saper cantare bene, come se fare la differenza fosse solo una questione di tecnica. Siamo circondati da voci bellissime e da cantanti dotati di una tecnica vocale ineccepibile. Saper cantare bene non è un pregio di pochi. Ma riuscire ad emozionare invece lo è. È il cuore che fa la differenza. Certo, è indubbio che lo studio, la tecnica o l’intonazione possano migliorare l’interpretazione di un brano e possano contribuire a trasmettere emozioni ma, a mio parere, da sole non possono fare molto. La tecnica vocale è un qualcosa che si può sempre acquisire nel tempo e migliorare. La sensibilità artistica - umana prima ancora che musicale - è invece, a mio parere, una dote innata, propria di chi sa aprire il proprio cuore e trasmetterlo agli altri".

Negli Stati Uniti, complice anche il film dei fratelli Coen "Fratello, dove sei?", si è assistito alla riscoperta del genere folk e alla nascita di decine di band molto valide. Potrà succedere mai una cosa del genere in Italia con la musica tradizionale?

"Anche in Italia le risorse non mancano ed anche qui da noi esistono già tante valide band che si dedicano con passione, oltre che con bravura, al genere folk e alla musica tradizionale. La qualità non manca. Manca semmai una maggiore visibilità ed una maggiore attenzione mediatica, ma questo è comunque un problema ormai generalizzato che colpisce anche la musica d’autore italiana, e soprattutto quella emergente. Ma, come si dice, mai disperare e mai perdere la speranza. D’altra parte, come diceva un noto film: non può piovere per sempre…".


Titolo: Tal cîl des Acuilis
Artista: Giulia Daici
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2012




mercoledì 11 dicembre 2013

The Traveller musica la tetralogia di Shakespeare






"Uncensored Kingdom" è il titolo dell'ambizioso progetto musicale di Massimiliano Forleo, in arte The Traveller. Il rocker milanese, fondatore con Dario Accardi dei The Lorean, ha pubblicato il 2 dicembre il primo di tre Ep che metteranno in musica la tetralogia minore di Shakespeare. Con l'Ep "The King" Forleo presenta la figura di Riccardo III. Cinque canzoni i cui testi sono scritti in prima persona come se fossero cantati dal protagonista della storia. Il disco inizia con "Richard III", brano in cui il Riccardo si presenta al pubblico. In "The Mirror" Riccardo espone i suoi progetti e ammette di voler imprigionare il fratello per potergli succedere al trono. In "Human clockwork" è Giorgio, fratello di Riccardo, a cantare. "York" è il momento in cui, dopo aver ricevuto nel sonno la visita dei fantasmi delle persone che ha ucciso, Riccardo implora l'aiuto divino. Infine "Bosworth field" è il capitolo finale in cui, sul campo di battaglia di Bosworth, Riccardo si rende conto di aver sbagliato e muore trafitto dalla spada del conte di Richmond.
Max Forleo ha intrapreso la carriera solista nel 2010 dopo lo scioglimento dei The Lorean. Con il nome The Traveller ha firmato due album: l'omonimo "The Traveller" nel 2011 e "Life" dell'anno successivo.
Con Massimiliano Forleo abbiamo parlato del suo nuovo ambizioso progetto.



Come è nata l'idea di dare vita a una trilogia musicale ispirata alla figura di Riccardo III?

"L'idea è nata dalla volontà di fare un musical. Ho sempre ammirato e ascoltato "Jesus Christ Superstar" e ho avuto il piacere di suonare il "Joseph and the amazing Technicolor Dreamcoat". Insomma, mi è sempre piaciuto legare il canto alla recitazione. La trilogia "Uncensored Kingdom" è pensata su tutta la tetralogia di Shakespeare. Verranno infatti cantate sia la figura di Enrico VI che quella di Riccardo III. Le quattro opere teatrali saranno riassunte in quindici canzoni. Sono partito dalla fine, perché in verità il "Riccardo III" che canto in questo primo Ep è il riassunto in musica dell'ultimo atto della tetralogia di Shakespeare".

William Shakespeare dipinge Riccardo Plantageneto come un re malvagio e crudele. Lo è anche nelle tue canzoni?

"Assolutamente sì. Spietato e crudele. Nella canzone "The Mirror" racconto come prende le distanze dal fratello che con l'inganno viene rinchiuso nella torre. In "Richard III" descrivo inoltre la morte (da me romanzata) della moglie da lui stesso causata. La sua figura malvagia fa capolino anche nella copertina. Riccardo III, in combutta con la Chiesa, è rappresentato come un maiale in un atto di cannibalismo".

Se dovessi trarre una metafora di vita da questa storia?

"Come nel video del singolo in una visione dantesca: ad azione corrisponde poi il contrappasso. La smania di potere, l'ingordigia hanno portato il Re al tracollo".

Sei appassionato di storia?

"Non direi tantissimo, sono più appassionato di arte".

Torniamo a parlare della copertina. Raffigura un maiale seduto al tavolo da pranzo insieme a due porporati che hanno una croce bianca come testa...

"E' Riccardo a tavola insieme ai suoi alleati. Mangiano un uomo gomitolo, figura tipica delle mie copertine, che rappresenta l'uomo comune. E' proprio nella copertina raffiguro la smania di potere con l'ingordigia che rende il Re un maiale".

Perché hai deciso di chiamarti The Traveller?

"Perchè il viaggio è il segreto per portare in giro la propria musica. E anche perché da quando ho cominciato a suonare musica originale, nel 2003, sono sempre stato in viaggio".

Quando sei in viaggio che musica ascolti?

"Di solito dormo oppure guido. Non ascolto nulla!".

Dove ti porterà il viaggio?

"Spero ancora lontano. Il viaggio mi porterà quest'anno ancora in giro per l'Italia, nei mesi di  febbraio e marzo nell'est Europa e soprattutto ad aprile negli Stati Uniti. Il viaggio è in continuo mutamento a seconda dei nuovi input che la vita regala. Questo viaggio mi ha portato in mezzo alla gente e ha portato la mia musica negli stereo delle persone".

Perché hai scelto di abbandonare i The Lorean e intraprendere la carriera solista?

"Il progetto The Lorean l'ho iniziato nel 2003 insieme a Dario Accardi. Nel corso degli anni si è sviluppato e la line up è cambiata più volte. Ho sempre desiderato che la band fosse tale, invece non è mai stato un gruppo nella produzione, nella sponsorizzazione e negli investimenti. Al che, dato che ero solo nella parte produttiva e il 90% delle canzoni erano le mie, ho continuato da solo".

Rimpiangi di averlo fatto?

"No".

Ci sono musicisti che ti hanno influenzato?

"Direi su tutti Jeff Buckley, U2, Massive Attack e Coldplay".

Hai un disco favorito? Il favorito di sempre?

"Non posso che dire "Grace" di Jeff Buckley".

Come sono strutturati i tuoi concerti?

"La scaletta pesca nei tre album pubblicati ma cambia ogni sera in base alla risposta del pubblico e da come sento la serata. Spesso scatta il momento jam in cui improvvisiamo un po' di classici del rock internazionale per carpire l'attenzione anche dei più refrattari".

Suoni in acustico o ti accompagni con altri musicisti?

"Mi esibisco in entrambe le combinazioni. Quando suono da solo mi accompagno con una chitarra dodici corde, mentre con la band uso una sei corde Maton".

Nel corso della tua carriera hai suonato molto anche all'estero. Rispetto alla situazione italiana ci sono delle differenze che ti hanno colpito?

"La prima differenza è che nell'ambito underground bisogna sfatare un mito: i locali sono più attrezzati in Italia. La seconda è che l'attenzione del pubblico e la voglia di fare musica originale da parte dei locali è più alta all'estero".


Titolo: Uncensored Kingdom - Part I (The King)
Artista: The Traveller
Etichetta: My Place Records
Anno di pubblicazione: 2013





mercoledì 4 dicembre 2013

I valdostani L'Orage cantano "L'Età dell'Oro"





Si chiamano L'Orage (temporale in francese) e sono il gruppo rivelazione valdostano che anche Francesco De Gregori ha voluto al suo fianco. Con il loro terzo album, "L'Età dell'Oro" uscito quest'anno sotto etichetta Sony, la band ha compiuto l'atteso salto di qualità conquistando critica e un'ampia schiera di appassionati. Il loro festoso "rock della montagna" è intriso di musica tradizionale, del folk delle valli delle Alpi Occidentali, dell'insegnamento dei cantautori italiani e francesi e di una spolverata di rock. Una musica che viene da lontano ma sempre moderna e attuale. Con l'ausilio di ghironde, organetto, violino ma anche di chitarre elettriche, basso e batteria, l'ensemble di sette elementi, capitanato dal cantante e autore Alberto Visconti, dà vita a un suono fresco e per certi versi innovativo. Anche i testi delle canzoni sono ricercati e la vena poetica di Visconti trova spunti nella migliore letteratura: da Rimbaud a Calvino e Pavese.
In attesa di ascoltarli dal vivo al Teatro Ambra di Albenga il 6 dicembre, in occasione della seconda serata della rassegna "Su La Testa" organizzata dall'Associazione Culturale ZOO, abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Alberto Visconti.




Alberto, ci racconti come è nato il progetto L'Orage?

"Nel 2006, appena tornato da un periodo trascorso in Sud America e dopo qualche anno di inattività artistica, ho ricominciato a esibirmi dal vivo ad Aosta e a Torino. Ero circondato da un mondo variegato e un po' fricchettone in cui si suonava molto... facevamo fuochi nei boschi e suonavano intere nottate. Durante l'estate ho coinvolto il polistrumentista Rémy Boniface, già molto conosciuto in Valle d'Aosta perché membro dei Trouveur Valdotén e in numerosi altri progetti, in alcune date e la risposta del pubblico è stata entusiasta. La commistione tra le mie canzoni e i suoni del violino e dell'organetto diatonico, condite dal martellare di una discretamente folta schiera di percussionisti intercambiabili di volta in volta creavano un sound che aveva qualcosa di speciale e la gente ha cominciato a seguirci. In pochi mesi ci siamo ritrovati a tenere concerti affollatissimi nei locali di San Salvario, a Torino. Erano esperienze piuttosto selvatiche durante le quali ci affidavamo molto all'improvvisazione. Suonavamo di tutto, dai Velvet Underground ai balli tradizionali passando attraverso i CCCP e i Noir Désir. Mi sono capitate di recente tra le mani delle registrazioni risalenti a quel periodo e le ho trovate molto emozionanti.

Il passo successivo?

"Si è compiuto durante uno di questi concerti al "Covo della Taranta", in occasione del quale si è unito a noi il fratello di Rémy, Vincent Boniface. Vincent è uno strepitoso polistrumentista e la sua esperienza insieme al suo affiatamento musicale col fratello ci hanno fatto compiere un primo salto di qualità. A quel punto però, per supportare degnamente la musica che stavamo immaginando, non potevamo più accontentarci di formazioni estemporanee, avevamo bisogno di una vera band. Diciamo che verso la fine del 2008 avevamo reclutato la formazione completa, che non è mai stata modificata: oltre a noi tre Florian Bua alla batteria, Stefano Trieste al basso, Ricky Murray alle percussioni e Memo Crestani al basso. La squadra ha funzionato bene dal punto di vista musicale ma sopratutto dal punto di vista umano. Ce la siamo veramente spassata!".

Da cantautore folk a leader di una band. Perché hai fatto questa scelta e cosa cambia nel tuo approccio compositivo?

"Sono stato cantautore più per necessità che per vocazione. Sono uno spirito libero e fin da ragazzo mi è piaciuto viaggiare con la chitarra. Poi ho buona memoria e ricordo un sacco di canzoni, quindi, nel piccolo mondo valdostano ho animato centinaia di feste, mi piace suonare. Però, quando si è trattato di registrare le mie canzoni ho sempre cercato la collaborazione con i musicisti. Se è vero che i miei maestri sono stati Cohen, Dylan, Brel e Brassens è infatti altrettanto vero che in materia di dischi ho sempre idealizzato molto la pulizia del suono degli album dei Beatles. Non amo la trascuratezza in musica e trovo biasimevole proporre al pubblico una bella canzone suonandola in maniera approssimativa. La collaborazione con questa band è stata per me un'esperienza molto appagante. Inoltre suonare con un gruppo è molto meno faticoso di tenere un intero concerto da solo. Credo di essere cresciuto molto come musicista e come interprete grazie al confronto e al lavoro con i miei compagni de L'Orage. Dal punto di vista compositivo il fatto di scrivere per un gruppo ha significato sopratutto disinteressarsi un po' all'aspetto chitarristico delle canzoni lavorando invece maggiormente su quelli ritmico e armonico. Inoltre il confronto costante con i fratelli Boniface, che firmano insieme a me la musica delle canzoni, mi ha portato a imparare a mettermi molto in discussione".

Quanto incide la cultura francofona sulla vostra musica?

"Direi parecchio. Intanto perché si tratta di un "altrove" musicale diverso dal solito anglosassone che  per noi è molto accessibile grazie al fattore linguistico. In secondo luogo perché si tratta di un mondo musicale ricchissimo che influenza la musica de L'Orage da due fronti. Da un lato, il mio, risentiamo dell'influenza dei grandi cantautori d'oltralpe: Brassens, da una canzone del quale prendiamo il nome, Brel, e Gainsbourg del quale abbiamo anche inciso una cover. Dall'altro lato, quello dei fratelli Boniface, la musica tradizionale, il Trad francese è, per molti versi, la nostra musica tradizionale, quella che suoniamo e che balliamo. La famiglia Boniface, i Trouveur Valdotén, hanno svolto un ruolo cruciale nella riscoperta del repertorio tradizionale nella nostra regione che è una regione in cui si parla il francoprovenzale. Come puoi immaginare si tratta di un intero universo di influenze che arrivano dalla Francia".

"L'Età dell'Oro", il vostro terzo album, ha ricevuto ottime critiche ed stato pubblicato per l'etichetta Sony. Un bel risultato, ve lo aspettavate?

""L'Età dell'Oro" segue "Come una festa" del 2010 e "La bella estate" del 2012. In buona misura è una raccolta del meglio dei due album precedenti che non avevano avuto una distribuzione al di fuori dei nostri concerti (arrivando comunque a superare le 6.000 copie vendute). Quando la Sony ci ha contattato proponendoci la pubblicazione di un album abbiamo pensato che avremmo dovuto creare qualcosa che, da un lato, accontentasse chi già ci seguiva e per questo abbiamo inserito tre inediti di studio e tre live e, dall'altro, permettesse a chi ci scopriva tramite questo primo album distribuito di entrare subito nel cuore dei nostri spettacoli. Abbiamo così selezionato le canzoni più amate dal nostro pubblico. Devo dire che un po' ce lo aspettavamo o perlomeno ci speravamo. Fin dalle prime incisioni ci siamo imposti standard qualitativi molto alti, lavorando da e con i professionisti. Troviamo molto stimolante lo studio d'incisione e abbiamo speso molto tempo ed energie, insieme ai nostri fonici, per ottenere il sound che desideravamo".

Qual è la vostra età dell'oro?

"Attualmente il nostro obiettivo è quello di incrementare il live. Vorremmo girare la penisola più ancora di quanto stiamo facendo; ci sentiamo pronti per i grandi festival. È sui palchi grossi che L'Orage esprime il suo meglio. Ah, poi vorremmo la pace nel mondo, la tolleranza, le autostrade gratis, la legalizzazione della cannabis, un governo composto da persone oneste e laboriose, un endorsement con la Lamborghini e altre cosucce".

Cosa volete comunicare con la vostra musica?

"Vogliamo comunicare che è possibile fare una musica diversa senza rinunciare a fare festa, al ritmo. Vogliamo comunicare che gli strumenti acustici suonati e dei testi un po' più ricercati rendono un concerto più entusiasmante rispetto alla monotonia dello standard commerciale. Vogliamo comunicare che è ora in Italia di liberarci dalla soggezione per tutto ciò che arriva dall'estero perché è ora di finirla di entusiasmarsi per i Mumford and Sons per poi produrre Marco Carta (povero, è simpatico, non me ne voglia, lo invito a cantare con noi!). Vogliamo comunicare la nostra maniera di stare al mondo, di amare la natura, l'amicizia, la musica... Esagero?".

Direi proprio di no! Nel vostro ultimo album avete come ospite Francesco De Gregori, caso più unico che raro. Come è stato lavorare con lui e come è nata questa collaborazione?

"Abbiamo conosciuto Francesco a Musicultura 2012, dove lui era ospite e noi siamo stati i vincitori assoluti. Io volevo semplicemente stringergli la mano, un po' intimidito e invece abbiamo fatto amicizia. Pochi mesi dopo ci siamo incontrati nuovamente ad Aosta e io gli ho proposto questa collaborazione un po' pazza. Lui ha accettato immediatamente! Insieme abbiamo realizzato un intero spettacolo riarrangiando alla nostra maniera una dozzina di suoi pezzi. Come ciliegina sulla torta finale lui ha cantato una mia canzone, "La teoria del veggente", che ora trovate ne "L'età dell'oro". Lavorare con lui è stato facile, divertente, stimolante e terribilmente istruttivo. In prova è sempre impeccabile, si potrebbero pubblicare le registrazioni delle prove vista la qualità costante del suo cantato. Quando, dopo tutto quel lavoro, siamo usciti sul palco insieme, davanti a tutto quel pubblico... beh... è stato uno dei momenti più emozionanti della nostra vita".

Non pensi che l'aver inserito tre brani dal vivo - "La teoria del veggente" cantata da De Gregori, la strumentale "Laridé de la Principesse" e "Satura" - faccia perdere omogeneità al disco?

"Come dicevo "L'Età dell'Oro" è un disco costruito per essere una specie di compendio del nostro mondo e non è quindi pensato come un album. Ciononostante io ho l'impressione che fili liscio e che i tre live finali aggiungano una nota di calore che non guasta affatto a fine ascolto. Inoltre, se De Gregori avesse cantato una tua canzone tu non la inseriresti in un disco? Anche le versioni di "Satura" e "Laridé" le volevamo inserire perché ci piacevano più delle registrazioni di studio. Ad ogni modo speriamo di pubblicare presto un intero album live, cosa che stranamente i nuovi gruppi non fanno mai".

"Come una festa", il vostro primo disco, presenta dodici canzoni che girano intorno alla figura e all'opera del poeta Arthur Rimbaud. Quanto hanno in comune poesia e musica?

"Musica e poesia sono nate insieme e, nel corso della storia si sono respinte e di nuovo attratte come la coppia dei "vecchi amanti" cantata da Brel. Il nostro primo strumento musicale è stata la voce, quindi non c'è cosa più naturale del cantar parole. Sono due linguaggi dell'anima, capaci di penetrare sotto la scorza degli anni e della quotidianità".

Quanto la parola scritta, che siano poesie o narrazioni, influenzano la vostra musica e i vostri testi?

"I riferimenti letterari che spesso inseriamo nei nostri testi hanno la funzione di espandere lo spazio narrativo della canzone, un po' come se si trattasse di link che uno, se vuole, clicca. Però cerchiamo di non essere pesanti o eccessivamente "professorali" e spero che se uno non coglie il riferimento a Rimbaud ne "La teoria del veggente" possa ugualmente godersi la canzone. Più in generale credo che l'unica maniera per godere realmente di un'opera d'arte sia quella di leggerla alla luce della storia dell'arte. È quindi abbastanza naturale cercare un dialogo, e anche ispirazione in quanto è stato scritto prima. Ti faccio notare che lo stesso processo di "citazione mascherata" che adoperiamo nei testi lo applichiamo anche alla musica. Nei nostri dischi trovi parecchie citazioni musicali, le hai scovate?".

Qualche citazione l'ho trovata. L'Orage è composto da sette elementi. Come vi dividete i compiti quando si tratta di lavorare a un nuovo disco?

"Generalmente io mi presento in sala prove con gli scheletri delle nuove canzoni, giusto voce e armonia. A quel punto, guidati da Vincent, proviamo a esplorare le possibilità del nuovo brano, suonando con strumenti diversi, o sperimentando differenti ritmi e tonalità. Siamo molto esigenti con noi stessi, ci sono pezzi che stiamo lavorando da tre anni e che ancora non ci sembra abbiano trovato la loro giusta veste. Una volta trovato il giusto mood ogni musicista rifinisce le sue parti. Stiamo dedicando un'attenzione crescente alle parti vocali degli arrangiamenti, visto che siamo in tre a cantare".

Qual è la vostra visione della musica tradizionale?

"La musica tradizionale è il nostro principale nutrimento, è l'acqua sulla quale navighiamo. Inoltre, oggi, è la musica più attuale che ci sia. Il progresso tecnologico, a differenza di quanto creduto dai pionieri di certa musica elettronica, non ha portato tanto alla creazione di nuovi suoni strabilianti quanto piuttosto alla creazione di apparecchi estremamente fedeli nel catturare e riprodurre il suono degli strumenti acustici. Portare una ghironda su un grande palco da rock trent'anni fa era impensabile non tanto per ragioni artistiche quanto per ragioni tecniche. È il motivo per cui i Beatles hanno smesso di suonare dal vivo quando hanno cominciato a inserire archi, trombe e sitar nei loro dischi. Il famigerato ritmo "forsennato" del rock'n'roll alle orecchie di oggi risulta abbastanza monotono nel suo ostinato quattro quarti, anche un ragazzino in discoteca troverebbe più trascinanti (e in effetti avviene) certi ritmi balcanici. Voglio dire che non è che prima la gente non avesse il senso del ritmo! Inoltre non esiste al mondo suono sintetico capace di toccare certe corde emotive al pari del timbro di uno strumento acustico, di un violino, di un organetto, di una chitarra. Credo che qualche secolo di ricerca, dedizione ed esperimenti sul ritmo compiuti da generazioni di anonimi musicisti popolari siano un patrimonio la cui riscoperta ha dell'entusiasmante e di cui dobbiamo essere grati alla generazione che ci ha preceduto: ai Malicorne, ai Fairport Convention, o, più vicini nel tempo, ai Lou Dalfin. Inoltre la musica tradizionale è per sua natura molto aperta e coniugabile con infinite influenze, perché non quindi con il rock o la canzone d'autore?".

Qual è lo stato di salute della musica in Valle d'Aosta?

"Direi ottimo. Ho l'impressione che si tratti - tenendo conto delle dimensioni - di una delle regioni più frizzanti d'Italia dal punto di vista musicale. E te lo dimostro: oltre a L'Orage sono valdostani la cantautrice Naif, il gruppo teen rock de I Dari, Francesco C che ha scalato le classifiche negli anni novanta, I Kina che sono stati forse, insieme ai CCCP, il principale gruppi punk in Italia, i Kymera che hanno sbancato a X-Factor, il primo violoncello dell'orchestra della Rai Stefano Blanc, i Nanda super gruppo blues appena tornato da una tournée negli Stati Uniti e tanti tanti altri. Voglio inoltre sottolineare che esistono anche importanti realtà produttive. Lo studio con cui collaboriamo per esempio, il MeatBeat di Sarre, registra e produce progetti provenienti da tutta Italia".

"Questa musica ci porterà lontano", è una affermazione che si sente al termine della canzone "Satura". E' un sogno o ne siete convinti?

"Mi fa piacere questa domanda: dimostra che hai sentito il disco proprio fino in fondo. Ad ogni modo crediamo a quell'affermazione fermamente se riferita alla musica contenuta in tutto il disco, forse un po' meno se riferita alla sola ghost track!".

Dove volete andare e quali sono i progetti futuri?

"Tra pochi giorni presenteremo il nostro nuovo videoclip al Festival del Cinema Noir di Courmayeur. Più sul lungo periodo stiamo pensando a un album per il mercato europeo. In ogni caso la priorità rimane il live: l'ho detto e lo ripeto, vogliamo i palchi dei grandi festival".


Titolo: L'Età dell'Oro
Artista: L'Orage
Etichetta: Sony Classical
Anno di pubblicazione: 2013