Angelo Conto e Alessandra Patrucco (copyright Martin Cervelli) |
Li abbiamo visti esibirsi in occasione della decima edizione del Premio Città di Loano per la musica tradizionale italiana. Nella raccolta e calda sala della biblioteca loro, i DinDùn, hanno presentato le canzoni di "Majin", album che a sorpresa si classificato al quarto posto nella classifica dei dischi del 2013 più votati dalla giuria del Premio. Un riconoscimento inatteso che ha premiato la qualità e soprattutto la capacità di esplorazione e innovazione di questo trio piemontese che ha ampliato i confini della tradizione intrecciando più generi musicali. I DinDùn sono partiti dai canti della tradizione piemontese raccolti sul campo da Costantino Nigra, Leone Sinigaglia e Giuseppe Ferraro e li hanno colorati con tinte che posso essere rintracciate facilmente nel jazz e nell'avanguardia. Un progetto coraggioso che ha trovato la giusta espressione nella voce di Alessandra Patrucco, dotata di una ottima tecnica e capace di coprire senza cedimenti un'ampia estensione vocale, nel pianoforte di Angelo Conto, utilizzato in tutte le sue caratteristiche espressive, e nella ghironda elettrificata di Francesco Busso che nei concerti di quest'estate ha preso il posto di Marc Egea, presente invece sul disco. Questo disco è una piacevolissima sorpresa che ha saputo ridare freschezza a canti del patrimonio storico e culturale piemontese senza cadere nel puro revival. E così anche melodie semplici e per certi versi banali, come può essere quella conosciutissima de "Il mio castello", hanno trovato nuova collocazione e nuovo slancio.
Con Alessandra Patrucco e Angelo Conto, in questa intervista, abbiamo esplorato "Majin" e parlato di musica tradizionale.
Prima di parlare del disco, mi piacerebbe che uno di voi raccontasse il vostro approccio alla musica popolare...
Conto: «Il mio approccio alla musica popolare è lo stesso rispetto a qualunque altra musica alla quale mi avvicino. Cerco di delineare i contorni, le linee generali di quel mondo sonoro, di quel linguaggio, di quel contesto sociale e possibilmente di andare a fondo in alcuni aspetti. Su queste basi, suono, arrangio ed interpreto secondo il mio gusto e la mia sensibilità, adattate però al caso specifico. Mi spiego. Per la musica popolare piemontese non mi sono sentito di utilizzare armonie elaborate, mi sembrava di togliere un po' di quella essenzialità che caratterizza questa musica. In altri casi invece mi è successo di arrangiare musiche in maniera molto più incisiva, soprattutto armonicamente, introducendo degli elementi che non sono propri di quel linguaggio. Questo non mi è venuto da farlo nel caso della musica piemontese, e a dire il vero, finora non ci avevo pensato».
"Majin" si è piazzato al quarto posto nella classifica degli album del 2013 più votati dalla giuria del Premio nazionale Città di Loano per la musica tradizionale. Un risultato per molti inaspettato e per voi?
Conto: «Senz'altro anche per me, dal momento che è un Premio importante al quale concorrono musicisti esperti e conosciuti. Oltretutto il nostro lavoro è autoprodotto e autopromosso, quindi credo che sia la conferma del fatto che stiamo percorrendo una buona strada».
Patrucco: «Anche per me è stato un risultato del tutto inaspettato».
Qual è il filo conduttore di questo progetto?
Patrucco: «Il suono delle campane del paese e il suono delle voci dei vecchi - siccome ero piccola mi sembravano tutti vecchi - che mi raccontavano delle storie, di guerra o di lavoro in campagna, oppure dicevano cose che non capivo ma mi piaceva lo stesso starli ad ascoltare, era una musica bellissima il suono del dialetto. Alle volte a noi bambini gridavano dietro se giocavamo a pallone contro i muri delle case, che erano quattro in tutto sulla collina di Rolasco frazione di Casale Monferrato, ed era bello anche quello, non ci facevano paura e non so perché ma veniva da ridere un po' a tutti. Mi è venuta voglia di interpretare queste canzoni quando le ho sentite cantare da voci così, voci che non ci sono più».
Conto: «I canti, le storie che raccontano, che sono immagini, "cortometraggi" che parlano di molti tratti umani belli, interessanti e, a volte, commoventi. Dal punto di vista musicale, direi, il linguaggio che utilizziamo, che credo contribuisca a dare unitarietà al lavoro».
A Loano, complici le condizioni atmosferiche non proprio favorevoli, siete stati costretti ad esibirvi in uno spazio più raccolto e intimo rispetto a quello previsto. Come avete vissuto la serata e cosa avete portato a casa dai giorni trascorsi in Riviera?
Conto: «La pioggia, che poi quella sera non è caduta, è stata una coincidenza fortunata. La sua incombenza ha fatto sì che il concerto si svolgesse al chiuso e, nonostante il caldo, sono sicuro che la scelta abbia giovato a noi e alla musica, come molti ascoltatori poi ci hanno riferito. Ho portato a casa intanto un po' di aria ligure, un po' di profumo di mare che per me che vivo nell'interno è sempre una bella cosa, e poi la voglia di lavorare su questa musica, di suonarla e di rendere il progetto sempre più solido».
Il vostro approccio alla musica tradizionale è fortunatamente molto distante dal puro revival. Come vi è venuta l'idea di mischiare avanguardia, jazz e tradizione?
Conto: «È semplicemente il frutto di molteplici interessi. È il risultato delle strade percorse e delle esperienze fatte, ciascuna delle quali iniziata tempo fa e magari per motivi differenti, alcune volte per curiosità personale, altre volte su commissione o per l'incontro e la collaborazione con alcuni musicisti e che ad un certo punto, inevitabilmente, noi lasciamo che si mescolino, anziché tenere ciascuna dentro a compartimenti stagni, come farebbe un custode dell'ortodossia e della "purezza" dei linguaggi».
Patrucco: «A me non è venuta un'idea, direi che i canti hanno trovato me. Quando ho provato a cantarli ero piuttosto intimorita, poi ho preso confidenza cantandoli e ricantandoli a voce sola, sentendo ogni volta qualcosa in più e ho lasciato che le melodie si sciogliessero bene nel mio corpo, così a poco a poco anche le parole hanno cominciato a risuonare. Quando canto, canto così, con dentro tutta la musica che ho amato e che amo senza pensare a questo o a quel genere».
A tratti sembra che le canzoni raccolte da Costantino Nigra, Leone Sinigaglia, Giuseppe Ferraro e da voi riproposte siano state utilizzate come una tela bianca da colorare con grande fantasia. Sbaglio di molto?
Conto: «È una bella immagine che trovo appropriata. Io vedo però una tela non bianca ma che già contiene una traccia e dei colori».
Patrucco: «Qualsiasi canzone in un certo senso può essere una tela bianca da colorare e i colori mi piacciono molto. Ma non è mai completamente bianca, ci sono i colori di chi la canzone l'ha creata e su cui stendere i miei, come con gli acquerelli, velatura dopo velatura».
Scelta che ha convinto la maggioranza della critica e del pubblico. Dall'altro lato gli integralisti della tradizione potrebbero però storcere il naso di fronte a certe vostre interpretazioni a tratti cameristiche. Cosa ne pensate?
Conto: «Certo gli integralisti, di qualunque genere, di solito storcono il naso quando ci si allontana un po' troppo dal canone, questo è inevitabile. Ciò che però mi rassicura molto sul nostro lavoro sono i pareri positivi espressi dalla maggior parte dei musicisti di musica popolare che conosco, che senz'altro non sono degli integralisti, va detto, ma anche i più vicini alla tradizione hanno apprezzato la nostra musica e il nostro modo di trattare la musica popolare».
Patrucco: «È musica fatta di tanta altra musica senza pregiudizi estetici o pretese filologiche, quel che sentiamo suoniamo e cerchiamo di suonare e sentire meglio che possiamo».
Come sono stati scelti i brani e quale lavoro è stato fatto per adattarli alla vostra musica?
Patrucco: «In un primo tempo, più che scelti i brani li ho incontrati poco a poco facendo altri lavori, per esempio per il teatro. Alcune tematiche dei testi delle canzoni sono state funzionali agli spettacoli ma alle volte sono state le canzoni stesse a far virare gli spettacoli in questa o quella direzione. Per lo più mi sono interessata a storie di persone, spaccati di vita quotidiana, come quella di Pero, uomo timido che va a trovare la sua amata e che non osa neanche entrare in casa sua. Oppure la storia della bionda di Voghera: questa canzone l'ho imparato andando in giro d'estate per i campi col mio cane e immaginando la protagonista che, proprio come me, si sedeva all'ombra per il caldo e fantasticava dell'incontro con il bel giovane. Anche i paesaggi mi commuovono; per esempio in "Majin" e in "La soca" c’è la collina con dietro la montagna che è il paesaggio che ho visto dalle finestre ovunque abbia abitato in Piemonte. Un paesaggio che non mi stanco mai di guardare. Poi ogni canzone volendo è un film, ci puoi mettere i tuoi attori, i tuoi luoghi, lasciare che siano gli stessi ogni volta o cambiarli, io veramente mi affeziono agli stessi, col tempo mi sembra quasi di conoscerli… In un secondo momento con il trio abbiamo scelto quelle che venivano meglio, anzi forse sono le canzoni che hanno scelto di essere suonate. E siamo noi che ci siamo adattati ad esse e non viceversa, voglio dire che il lavoro più grande è stato quello di togliere, semplificare, lasciare spazio e mettere in luce quel che già c'era perché c'era già tutto».
Avete compiuto anche ricerche sul campo o vi siete affidati al materiale esistente?
Patrucco: «Tutte e due le cose. Le ricerche sul campo sono iniziate nel 2006 in occasione del primo disco "Varda la luna", registrato con il gruppo Sasà. A quel tempo ho avuto la fortuna di collaborare con Franco Castelli, etnomusicologo e ricercatore dell’ISRAL di Alessandria, collaborazione che è continuata fino ad oggi. Grazie a lui ho conosciuto testimoni e portatori di cultura orale dell’alessandrino che mi hanno trasmesso conoscenze, musica e canti, ho avuto l'opportunità di raccogliere materiale nuovo e già esistente e di rielaborarlo sotto la guida della sua esperienza insieme alla mia sensibilità. Questo è in parte accaduto anche per il disco di DinDùn. Una bellissima esperienza che ha dato la possibilità al mio lavoro di crescere e continua a farlo».
Secondo voi è possibile trasmettere alle nuove generazioni l'amore per la musica tradizionale?
Conto: «Sì certo, secondo me è possibile trasmettere agli altri l'amore e la passione per le cose che si fanno, indipendentemente dall'età e da fattori generazionali. Ho l'impressione che però si tratti di fenomeni che riguardano ciascun individuo, più che le categorie come per esempio "i giovani" che, come tutti, sono soggetti, purtroppo, a una massiccia dose di propaganda a favore di cose che con la musica e con l'amore non hanno molto a che vedere».
Patrucco: «Penso che sarebbe bello poter suscitare amore per la musica in generale. Sarebbe bellissimo se anche la musica tradizionale emozionasse oggi come nel momento in cui a qualcuno, in un tempo lontano, è venuta la fortunata urgenza di inventarsi una canzone. Con cura e con amore è possibile che si possa suscitare il desiderio di provare a fare lo stesso. La fortuna è anche che quel canto sia sopravvissuto fino ad oggi e quando questo viene reinterpretato è come se si instaurasse un dialogo tra persone che non si sono mai conosciute, che sentono in momenti diversi e lontani emozioni che fanno ridere o piangere, e tutte quelle altre meravigliose sfumature che stanno tra i due opposti».
I canti della tradizione sono tanti, ci possiamo aspettare un secondo capitolo targato DinDùn?
Conto: «Spero in una lunga serie di capitoli dei DinDùn, ma ancora non ho chiaro quali potrebbero essere i titoli né i contenuti neanche del prossimo. Staremo a vedere».
Patrucco: «Sì, ci sono già alcuni canti che mi stanno girando intorno come "Cantè bergera", "Il potere del canto", "Leva su bela", "E mi chantu". Ma ci vorrà ancora un po' di tempo per mettere a fuoco il nuovo disco».
Concludendo, quali sono al giorno d'oggi i problemi a proporre musica tradizionale?
Conto: «Frequento relativamente da poco l'ambiente della musica tradizionale, ti posso però dire che credo esistano in generale dei problemi a proporre musica un po' al di fuori degli schemi consueti; credo sia costante nelle programmazioni la ricerca del grande nome, del musicista famoso con il quale il pubblico possa essere rassicurato di ascoltare, spesso, la stessa musica. Un po' "stessa spiaggia, stesso mare", che alla musica secondo me non fa un granché bene. Una nostra caratteristica, con la quale dovremo fare i conti, è che proponiamo una musica che è tradizionale ma non da ballo, è soprattutto una musica da ascolto, caratterizzata dal miscelarsi di diversi ingredienti, che credo possa interessare ad un tipo di programmazione aperta, di qualunque matrice. Ti sapremo dire in futuro».
Patrucco: «I problemi nascono quando proponi qualcosa che non è facilmente riconducibile a un modello riconosciuto, insomma qualcosa di non identificabile con un termine preciso. Per esempio, una volta un signore dopo un concerto di DinDùn mi ha detto <bello, mi è piaciuto molto perché io ci ho sentito anche musica africana in queste canzoni tradizionali> e sembrava sentirsi un po' in colpa mentre lo diceva <e anche musica… e anche…> e più elencava generi e più gliene venivano in mente e alla fine esausto ha detto <sì, ma se io volessi dire a un mio amico cosa ho sentito, che musica ho ascoltato, che genere, cosa gli dico?>. Ero davvero dispiaciuta di non poterlo aiutare perché naturalmente non lo sapevo e non lo so neanche adesso, così gli ho detto che se gli fosse venuta voglia forse sarebbe stato interessante inventarsene uno. Ecco, non so se ci siano problemi a proporre la musica tradizionale, la questione importante è aver la possibilità di fare musica».
Titolo: Majin
Gruppo: DinDùn
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2013
Tracce
01. La bionda di Voghera [trad.]
02. Il mio castello [trad.]
03. Majin (lutto leggero) [trad. / adattamento Alessandra Patrucco]
04. Cucù [trad. / adattamento Alessandra Patrucco]
05. La soca [trad. / adattamento Alessandra Patrucco]
06. La crava l'à mangià 'l muri [trad.]
07. Tuca Cicìn / Fa la nana [trad. / adattamento Alessandra Patrucco]
08. 'L me marì [trad.]
09. Pero (timidezza) [trad.]
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