martedì 13 maggio 2014

Carlo Ozzella e "Il lato sbagliato della strada"





Nuvole grigie e basse all'orizzonte, una strada ferrata che si perde nell'infinito e una desolazione che rimanda ai tempi che sta attraversando la nostra società. E' una visione in bianco e nero quella raffigurata sulla copertina di "Il lato sbagliato della strada", disco d'esordio di Carlo Ozzella & Barbablues. Una fotografia che solo la musica può colorare con le giuste sfumature e l'artista milanese e il suo gruppo lo fanno utilizzando i pennelli a tinte forti del rock sanguigno, intriso di sudore e fatica. Nelle tredici tracce del disco dimostrano di aver imparato bene la lezione. Una 'lezione' iniziata per Ozzella nel 1996 quando assiste in televisione all'esibizione di Bruce Springsteen al Festival di Sanremo. Quella "The Ghost of Tom Joad", cantata dall'artista del New Jersey con chitarra e armonica, avvicina Ozzella ai cantautori americani e il passo successivo, fatto di ascolti, concerti dal vivo, approfondimenti musical-letterari, chiude il cerchio.
"Il lato sbagliato della strada" è forse uno degli album più springsteeniani pubblicati negli ultimi anni in Italia. Non solo da un punto di vista musicale ma anche della poetica. Ozzella racconta le incertezze, la rabbia e le speranze del nostro tempo e lo fa con un minuzioso lavoro sui testi, carichi di istantanee e sequenze a tratti cinematografiche. Il fallimento della politica e il malaffare, la delusione per i sogni disattesi, le speculazioni finanziari che giocano con i destini delle persone sono alcuni dei temi affrontati ma nelle canzoni c'è anche la voglia di lasciare 'il lato sbagliato della strada', di cercare la via del riscatto, di trovare il coraggio per scrivere una nuova storia, senza arrendersi. Un disco brillante, fresco e ben suonato che merita di essere scoperto e riposto nello scaffale più in vista, sempre a portata di mano.
Nell'intervista che segue abbiamo approfondito la conoscenza di Carlo Ozzella e dei Barbablues.



Carlo, hai intitolato il  disco "Il lato sbagliato della strada" ma qual è per te il lato giusto da percorrere?

«Senz’altro quello dell’onestà, verso gli altri e verso sé stessi. Inseguire le proprie vocazioni, non accontentarsi, vivere tutto ciò che accade pienamente, fino in fondo, accettando anche la rabbia e la malinconia che spesso tutto ciò comporta, quando ci si sente sconfitti e senza più scelta. La società di oggi spesso ci delude, ci costringe a pensare che certe cose possano andare in un solo modo. Che tu non possa cambiare la tua vita, che sia meglio farsi furbo e scegliere la via più facile, che ci sarà sempre qualcuno che si arricchirà alle spalle di un altro, che il malaffare continuerà a dilagare. Che sia tu insomma ad essere sul "lato sbagliato". Il brano che dà il titolo all’album parla proprio di questo, di questo sentimento di frustrazione che però a un certo punto è capace di trasformarsi in forza, in nuova vita quando si realizza che non si è soli in realtà in questa condizione, che la vita che ci è data può essere ben spesa, che c’è una nuova giornata e una nuova storia sempre dietro l’angolo pronta a incominciare».

Nelle canzoni affronti i temi della quotidianità e della crisi dei giorni nostri con un piglio grintoso. Pensi che la musica sia più uno strumento di denuncia o di "consolazione"?

«Io credo che il bello della musica stia proprio nel fatto che è entrambe le cose! Ha il potere di veicolare certi messaggi e di farli arrivare con molta più forza rispetto a un semplice discorso perché carichi della forza emotiva che viene dalla melodia, dai suoni, dal ritmo, ma nello stesso tempo quegli elementi sono anche al servizio del piacere, delle belle sensazioni che un canzone deve suscitare all’orecchio e al cuore. Quando suoniamo dal vivo "Al momento della resa" stiamo senz’altro lanciando un messaggio molto forte, ma nello stesso tempo cerchiamo di coinvolgere il pubblico in un rito musicale collettivo, spensierato, dove tutti saltano e cantano con noi: l’essenza più pura del rock & roll! Tutto il mio approccio alla musica si muove lungo questi due estremi: da una parte la vivo come la cosa più importante al mondo, dall’altra cerco sempre di ricordarmi che... it’s only rock & roll!».

Quale canzone senti più tua e perché?

«"Il vento quando passa". E’ quella che considero anche più personale e dolorosa, perché legata a un triste episodio, la morte di un carissimo amico con cui sono praticamente cresciuto. Ricordo che la sera stessa in cui tornai a casa mia, dopo essere stato a trovarlo e aver appreso della malattia che lo aveva colpito, presi il quaderno e scrissi di getto i versi di questo pezzo, praticamente già nella forma che hanno oggi. Di solito i miei quaderni sono pieni di pagine di riscritture, rimaneggiamenti, correzioni. Puoi vedere frasi sparse, parole che dopo alcune pagine iniziano a unirsi, ad avere una forma fino a che non si arriva molto tempo dopo alle liriche finali. In questo caso era come se ci fosse una mano invisibile a guidarmi, come se il pezzo in qualche modo già esistesse e chiedesse solo di essere scritto. Sapevo che lo stavo scrivendo per lui, per farglielo avere e dargli forza, dirgli di non mollare. Sono contento di essere riuscito a farglielo ascoltare e di aver dedicato a lui questo disco. Ma come abbiamo scritto nella dedica... "addio: vietato piangere"».

Quanto tempo hai dedicato a questo lavoro discografico?

«Il precedente EP "Dove comincia la notte" è uscito a maggio del 2011. Questo disco a luglio del 2013. Fanno quasi due anni. Purtroppo non facendo il musicista a tempo pieno nella vita (e lo stesso discorso vale anche per i ragazzi della band) bisogna far coincidere tanti impegni, di lavoro, familiari… Noi non andiamo in studio due settimane e usciamo con il disco finito. Procediamo a piccoli passi, man mano che le canzoni nascono, le registriamo in diversi momenti fino a che a un tratto non si delinea all’orizzonte un disco. A quel punto iniziamo a marciare un po’ più serrati, mettendo sempre più a fuoco cosa va e cosa non va. Per il futuro mi piacerebbe essere più veloce, riuscire a concentrare il momento creativo in un intervallo di tempo più breve, più compatto. Chissà, magari un giorno riuscirò a lasciare il mio lavoro e a dedicarmi totalmente alla musica».


Le influenze della produzione springsteeniana sono evidenti. Cosa avresti fatto nella vita se non avessi incontrato Springsteen sulla tua strada?

«Me lo sono chiesto spesso ed è un gioco divertente perché in realtà incontrare Springsteen per me ha significato molto di più che l’appassionarsi semplicemente a un autore. Ha voluto dire scoprire a 360 gradi il panorama del rock, entrare a pieno in una cultura che in fondo è anche un modo di vivere, che ti cambia la vita. Ha voluto dire conoscere persone che poi sono diventate fondamentali nella mia esistenza. Senza quella svolta, sono certo che non solo avrei fatto altro nella vita (probabilmente mi sarei dato alla letteratura), ma sarei anche stato una persona completamente diversa».

Ma non c’è solo Springsteen nella tua formazione musicale. Mi sbaglio?

«Certo che no. Quando ho iniziato a suonare la chitarra a 11 anni mi sono avvicinato alla musica dei grandi cantautori italiani: De Gregori, Guccini, De Andrè. E’ stata una formazione fondamentale, mi ha insegnato l’importanza della parola, dei testi, che in alcuni casi nel rock americano sono relegati in secondo piano. Credo che tutti loro abbiano scritto pezzi memorabili, nel caso di Faber autentici capolavori che non esito a porre sullo stesso piano, se non superiore, delle cose migliori di Dylan, altro mio grande amore. Poi, dopo la scoperta di Springsteen e del rock, mi sono buttato a capofitto sulle origini di questo genere, sui capostipiti: Elvis, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry, Little Richard, Ray Charles. Non puoi pensare di fare lo scrittore e non conoscere Dante e Petrarca. E poi il blues, il rhythm and blues, il folk. Cerchi sempre di arricchire il tuo bagaglio culturale e musicale. Un genere che adoro e che non mi dispiacerebbe un giorno integrare con qualche influenza nella mia produzione è la musica celtica. Dalle ballate tradizionali irlandesi, suonate con fiddle e whistle, fino al celtic rock in stile Pogues o Dropkick Murphys, ho una vera e propria passione per questo genere di sonorità».

Il testo della canzone "L'ombra" parla di pallottole nel cuore, mani che stringono altre mani, di colpevoli e condanne. E' un atto d'accusa nei confronti di chi?

«Credo che tantissime persone come me vedano ormai con disgusto e delusione tutto ciò che ha a che fare con la politica: i partiti, gli esponenti, il governo… Senza distinzione di schieramento (anche perché spesso le distinzioni fanno fatica a vedersi). Con il forte rischio, è vero, che la generalizzazione e la semplificazione si facciano spazio. Ma la colpa non è nostra, è loro. La percezione che si ha è che la politica, che dovrebbe svolgere una altissima funzione, quella di governare e rendere migliori le condizioni di vita dei cittadini, svolga invece una funzione opposta: si occupa del benessere di pochi, agisce spesso nell’illegalità (lei che dovrebbe garantire la legalità), penalizza i cittadini. In questa canzone ho voluto raccontare la rabbia che tutto ciò suscita, il disprezzo anche violento verso questi personaggi viscidi, falsi. Con la speranza che se non sarà una condanna vera e propria a fermarli ci pensi almeno l’ultimo avanzo della loro coscienza imbruttita».

"Da che parte vuoi trovarti all'alba quando il cielo esploderà, al momento della resa dove andrai?". Questo è uno dei versi di "Al momento della resa". Ma Springsteen non ti ha insegnato che non bisogna arrendersi?

«Nessuna resa mai! Come canta il mio amico Massimo Priviero... E’ una lezione importante, cercando di affermarmi come musicista credo di averla imparata piuttosto bene, considerate le difficoltà che si devono affrontare. Ma la resa di cui parlo in quella canzone ha un senso più ampio, figurativo: è una sorta di giudizio finale, una resa dei conti. Che prima o poi dovrà pure arrivare. E in quel momento sarà davvero importante capire da che parte si è scelto di stare, quali decisioni hanno governato la tua vita. Insieme a "L’ombra", questo pezzo è tra i più duri e arrabbiati del disco, ancora una volta mi rivolgo a una casta, questa volta avevo davanti agli occhi i signori della finanza, quelli che muovono soldi ma sempre nella direzione dei più ricchi. Di nuovo la stessa storia, un gruppo ristretto di persone che ha il potere di decidere della vita di tante altre persone. Ho voluto immaginare uno scenario futuristico di guerriglia, di rivolta, cosa potrebbe succedere se davvero a un tratto le persone stanche ed esasperate decidessero di reagire e di rivoltarsi. Non sto offrendo questa soluzione violenta, se guardi bene noterai che le immagini che aprono la canzone non sono piacevoli, il fumo, la polvere da sparo, il respiro che manca... Volevo che suonasse più come un avvertimento».

Ci sono tante albe nelle tue canzoni. Come vivi il passaggio dalla notte al giorno?

«E’ un momento della giornata che mi piace. L’alba è l’inizio e per me rappresenta sempre una nuova possibilità, la chance che hai a disposizione per portare avanti il tuo sogno, per correggere ciò che hai sbagliato il giorno prima, per fare meglio. Più simbolicamente, è una nuova luce che arriva e in questo senso solitamente ha una valenza positiva, di rinascita».

Il disco si chiude con la canzone "Comunque vada". E' un invito ad andare avanti nonostante le inevitabili decisioni sbagliate e occasioni perse. In che direzione va la tua strada?

«In questo momento mi sembra di camminare su due strade, non esattamente parallele: da una parte c’è la mia vita ordinaria, quella di un normale ragazzo che fa la sua vita, va tutte le mattine a lavorare, torna a casa dalla sua famiglia e nel weekend va a farsi un giro. Dall’altra c’è la mia vita artistica, i concerti, la scrittura delle canzoni, le prove, lo studio, i dischi, i contatti. Ogni tanto si incontrano, si scontrano, ogni tanto tutto non ci sta in 24 ore... Ma in questo momento non c’è alternativa e andrà avanti così per un po’, probabilmente per sempre, non mi ci vedo proprio a smettere di suonare. Spero che questo duro lavoro riesca a premiarmi un giorno, e che alla fine la vita artistica possa davvero prendere il sopravvento. Ma sono tempi duri per gli emergenti».

Perché nel disco canti anche alcune canzoni in inglese?

«Ci sono delle melodie che in qualche modo si sposano molto meglio con un testo in inglese, la metrica che la musica richiede non trova facile corrispondenza con quella offerta dai termini italiani e quando ciò è accaduto ho deciso di provare a scrivere in inglese. Mi è piaciuto e così sono venute fuori altre canzoni. Però sono stato abbastanza restio per un po’ all’idea di includerle nel disco, non ero certo che affiancare brani in italiano e brani in inglese nello stesso lavoro fosse la scelta giusta. E ancora non lo sono... (ride). Però erano buone canzoni e ho pensato che in fondo in un disco d'esordio era giusto offrire una visione completa di quello che ero, che anche altri artisti avevano optato per una scelta simile e soprattutto che cantare in inglese avrebbe permesso senz’altro alla mia musica di avere un target di pubblico più vasto».

Il suono, come dicevano, è molto americano, e per renderlo al meglio ti fai accompagnare dai Barbablues. Ce li presenti e come vi siete incontrati?

«Il prossimo settembre saranno 15 anni che questa band esiste. Ci siamo incontrati grazie ad un annuncio: c’era questa band, in cui suonavano già Max e Fede, che cercava un cantante. All’epoca avevo appena compiuto diciotto anni, loro erano già sulla trentina, mi hanno visto arrivare e... erano un po’ dubbiosi! Ma quando abbiamo iniziato a suonare... scintille! Con Federico Melzi, chitarrista, ci ha subito legato l’amore per Springsteen. Su quel terreno abbiamo costruito un’amicizia che si è poi trasformata in fratellanza. Ci sentiamo praticamente tutti i giorni, ci consultiamo in ogni scelta importante e sul palco è davvero la mia controparte scenica, il supporto su cui costruisco lo show, non solo quello musicale. Massimo Miglietta, il batterista, ha un background musicale diverso, ama il pop, il funky, ma anche il rock. Ha una grande sensibilità musicale, un ottimo orecchio, e mi dà spesso utili consigli nella stesura e nell’arrangiamento dei pezzi. Anche con lui c’è un rapporto speciale, quando c’è da organizzare un viaggio o una vacanza siamo sempre in contatto diretto, ci piace fare queste cose insieme. Qualche anno dopo quel primo incontro sono arrivati Andrea Marsili, al basso, Stefano Gilardoni al pianoforte e Claudio Lauria al sax. Andrea è uno degli uomini più divertenti che io conosca, ha un’ironia immediata che ti piega in due. Oltre a suonare il basso con note che non ti aspetteresti. Stefano è senz’altro il musicista più dotato di noi, suona il piano ma anche la chitarra, il violino, il flauto, il mandolino, studia il cinese, ha studiato il russo... è un vulcano! E abbiamo una passione in comune per l’Irlanda e la musica irish. Infine Claudio, virtuoso del sax. Può improvvisare su qualunque pezzo e ha un amore spropositato per la musica, suonerebbe sempre. Ha davvero un cuore grande e generoso».

Quali sono le tue letture preferite e che importanza hanno i libri per un cantautore?

«Sono un vero e proprio amante dei libri. Come tutti gli appassionati per uno che ne leggo ne compro altri tre. Ma mi piace pensare che una libreria sia come la dispensa di casa, non è che ogni giorno si compra solo ciò che si mangerà la sera! Amo un sacco i gialli, i thriller, soprattutto quelli storici. Ho una grande passione per il Medioevo e quindi leggo con piacere tutto ciò che vi è ambientato. Ho letto tanto anche gli autori francesi, da Sarte a Camus. Ultimamente sto leggendo anche qualche noir, in particolare Izzo tra gli stranieri e Carlotto tra gli autori italiani. Ho un debito nei loro confronti contenuto in questo disco. Una frase di "Disillusion Town" è la traduzione del titolo di un capitolo di "Casino totale" di Izzo, "even to lose you gotta know how to fight", mentre l’immagine della pallottola "solenne come una sentenza" la devo a Carlotto e al suo "Arrivederci amore, ciao". Ma la letteratura, i libri, non danno solo spunti diretti come in questo caso. Mi aiutano anche a costruire certe immagini con le parole, a rendere certe canzoni dei racconti. C’è un nesso molto forte tra musica e libri, e infatti quando sono in giro nel mio zaino le cose che non mancano mai sono il quaderno degli appunti e un libro».

So che porti avanti anche un progetto musicale parallelo. Ce ne parli?

«Nel 2005 con alcuni amici musicisti abbiamo messo su una tribute band dedicata al Boss. Non poteva che essere così, tanto grande è la passione per la sua musica. Si chiama The 57th Street Band e con me ci sono anche Stefano e Claudio dei Barbablues. E’ una band di sette elementi che ricalca la E Street Band del periodo 1978-1985. Un bel sound grintoso, con due distinti musicisti a suonare piano ed hammond e il sax di Claudio che ricalca alla grande le note di Clarence. Abbiamo un repertorio piuttosto vasto, circa settanta canzoni e facciamo un sacco di serate, sia in elettrico che in acustico. Devo dire che inizialmente mi ero posto dei dubbi sul fatto di andare in giro con una cover band di Bruce. Non sai mai se devi presentarti là fuori cercando di replicare uno show di Springsteen (cosa peraltro scientificamente provato essere impossibile) o semplicemente cantare le sue canzoni, rischiando però a quel punto di creare un’eccessiva distanza, una personalizzazione non richiesta. Abbiamo deciso di collocarci un po’ nel mezzo, restiamo fedeli alle canzoni, alla grinta, con il sorriso ammicchiamo ad alcune gag che fanno parte dello spettacolo di Bruce... e poi ci mettiamo tutta la passione che abbiamo! Finora mi sembra funzioni».

Quali sono attualmente le prospettive per un artista che vuole vivere di musica?

«Hai presente la canzone dei Creedence? "Bad moon rising"... Purtroppo la situazione del mondo della discografia è ben nota, nessuno compra i dischi, nessuno investe sugli emergenti, sono pochi gli spazi dove si fa musica dal vivo originale, molto più sicuro far suonare l’ennesima cover o tribute band. Bisogna darsi da fare in proprio, investire tempo e qualche soldino, anche se bisogna ammettere che oggi è molto più semplice ed economico registrare un EP o un disco e farlo conoscere grazie alla rete. Arrivare a viverci... beh, sto scoprendo come si fa. Appena ci sono riuscito ti chiamo, ok?».



Titolo: Il lato sbagliato della strada
Artista: Carlo Ozzella & Barbablues
Etichetta: Avakian Productions
Anno di pubblicazione: 2013


Tracce
(testi e musiche di Carlo Ozzella, eccetto dove indicato)

01. La tua ultima occasione
02. Full grace
03. Notturno
04. Il vento quando passa
05. L'ombra
06. Alla periferia della città
07. Weary and proud [Massimo Miglietta e Carlo Ozzella]
08. Trough the storm
09. Il lato sbagliato della strada
10. Disillusion town
11. Vite in gioco
12. Al momento della resa
13. Comunque vada




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