lunedì 19 maggio 2014

Graziano Romani canta le avventure di Mister No





"Yes I'm Mister No" è l'ultimo capitolo della trilogia musicale che Graziano Romani ha dedicato ai personaggi dei fumetti creati da Sergio Bonelli. Dopo Zagor e Tex, il cantautore emiliano racconta le avventure e descrive la personalità di Jerry Drake in un disco (distribuzione Panini) pubblicato in questi giorni e acquistabile in tutte le edicole. Un lavoro che non esce dalle strade ben tracciate del rock che Romani conosce bene per averle percorse in più di trent'anni di onorata carriera, ma che si arricchisce con influenze che spaziano dal rhythm'n'blues al jazz. Il disco è composto da nove brani inediti che raccontano Mister No e quattro canzoni della tradizione americana degli anni Trenta che Romani canta con la sua inimitabile voce profonda e graffiante. A valorizzare ulteriormente l'album vi è la partecipazione di Carolyne Mas, una delle figure più importanti della scena newyorkese di fine anni Settanta e recentemente tornata in Italia per una serie di fortunati concerti. La Mas duetta a modo suo, toccando le corde dell'anima, sul classico "When the saints go marching in".
Il fondatore dei Rocking Chairs, gruppo che negli anni '80 ebbe un discreto successo con quattro album all'attivo, si avvale anche della collaborazione in studio di alcuni dei componenti della band di quegli anni quali il tastierista Franco Borghi, il chitarrista Mel Previte e il sassofonista Max "Grizzly" Marmiroli. Le percussioni sono state affidate invece al poliedrico Oscar Abelli, capace di aggiungere quelle sonorità latine che colorano le storie cantate da Romani.
Di seguito l'intervista di presentazione che ci ha gentilmente concesso Graziano Romani.




Graziano, il tuo nuovo disco ha come protagonista Mister No. In cosa ti assomiglia il personaggio creato da Sergio Bonelli?

«Innanzitutto credo che Mister No sia il personaggio bonelliano in assoluto più 'musicale' e quindi mi ci ritrovo in pieno. Con tutti i richiami agli anni '50 e al primo rock'n'roll, al rhythm'n'blues, al jazz, al gospel, al folk. Già all'inizio della mia carriera, quando fondai i Rocking Chairs, cercavo di rifarmi a quelle origini della musica popolare nordamericana amata in tutto il globo. Mi ritrovo anche nel carattere del personaggio: anticonformista, indipendente, cocciuto, determinato e perché no anche vulnerabile, umano, passionale e sincero».

Questo è il tuo terzo episodio discografico legato a un personaggio dei fumetti. Come e quando hai avuto l'idea di farti ispirare da queste storie?

«Tutto è iniziato con lo scrivere e concepire una canzone per Zagor, ovvero "Darkwood". Poi ci ho preso gusto e ho scritto anche tutti gli altri brani che sono andati a formare l'ossatura del disco "Zagor king of Darkwood", album che ho realizzato con il benestare e l'aiuto del grande e indimenticabile Sergio Bonelli. Poi la logica e inevitabile conseguenza è stata quella di realizzare un intero album dedicato a Tex, sempre con il grande Sergio a darmi consigli e a spronarmi. Un paio di anni fa ho poi deciso di chiudere questa trilogia bonelliana con il personaggio Mister No, e l'ho voluto come un vero e proprio tributo a Sergio 'Nolitta' Bonelli. L'ho creato non tanto ispirandomi alle sue storie, ma proprio cercando di sviscerare l'essenza dell'uomo e dell'eroe, anzi antieroe. E spero di esserci riuscito».

Quando è iniziata questa tua passione per i fumetti?

«Da molto piccolo. Avevo dei cugini e degli zii che mi passavano interi scatoloni di Topolino, Blek e Miki, Tiramolla, Geppo, Soldino e mille altri... E in quegli scatoloni ci giocavo e ci dormivo letteralmente dentro! Crescendo non ho mai abbandonato questa passione. Prima è toccato agli eroi di Bonelli e a quelli americani della Marvel, fino all'adolescenza con Linus ed Eureka, Metal Hurlant e i fumetti underground. Insomma il fumetto, insieme alla musica ovviamente, è la mia passione. Ma mi interessa tutto quello che riesce ad emozionarmi, ad appassionarmi».

Il tuo rapporto con i fumetti è a tutto campo, so che recentemente hai contribuito alla prima ristampa integrale del Prince Valiant di Hal Foster. Ce ne parli?

«Conoscevo l'eccelsa e recente ristampa americana della saga di Prince Valiant, e ho suggerito l'idea di realizzare una ristampa italiana all'editore Renoir/Nona Arte che ha accettato con entusiasmo. Sono il curatore e traduttore della collana, il terzo volume è in uscita e sto terminando il lavoro di traduzione del quarto che uscirà a ottobre, giusto in tempo per la kermesse di LuccaComics. Sono anche diventato una specie di 'saggista' del fumetto, inizialmente scrivendo dei volumi a quattro mani con il grande Moreno Burattini dedicati ai grandi del fumetto italiano come Gallieno Ferri, Giovanni Ticci e Guido Nolitta. Poi per Panini ho ideato la collana di artbooks che ho chiamato "L'Arte di", monografie dedicate ai maestri del fumetto. I primi due volumi sono stati dedicati ad Aurelio 'Galep' Galleppini, ovvero il creatore grafico di Tex, e a Gallieno Ferri, uno dei due papà di Zagor. Ora sto lavorando a un terzo volume, dedicato a un grande maestro americano di comics...».

Il fatto che esistano personaggi da raccontare già ben delineati rende più agevole la fase compositiva delle tue canzoni?

«Ovviamente questo fatto mi permette per certi versi di approcciarmi alla scrittura come se fosse destinata ad una soundtrack, alla colonna sonora di un film. Ma per contro c'è la difficoltà nel rendere bene il carattere e l'essenza del personaggio e fare stare tutto nel breve tempo di una canzone di quattro minuti. A me interessa emozionare con le mie canzoni, e non è fondamentale descrivere minuziosamente le storie, l'importante è che la canzone risulti evocativa ed efficace, e a giudicare dall'entusiasmo degli appassionati credo di esserci riuscito. Se non ami davvero il personaggio non ha senso scriverci delle canzoni, credo».

Martin Mystère, Dylan Dog, Nathan Never, Brendon… hai già pensato al prossimo capitolo?
 

«Per ora considero la trilogia bonelliana Zagor/Tex/Mister No un capitolo chiuso. Apprezzo anche i personaggi da te citati ma per ora mi fermo qui. Certo che di idee ne avrei, vedremo».

Nel disco hai inserito anche quattro classici degli anni Trenta. Come è avvenuta la scelta di questi episodi musicali e quali difficoltà hai incontrato per attualizzare queste canzoni?

«La scelta è avvenuta attingendo dalla 'top ten' dei brani preferiti di Sergio Bonelli che era un vero appassionato e cultore degli standard jazz. "Body and soul" era la sua preferita in assoluto, e poi era inevitabile citare Sinatra e quella "When the saints go marching in" che accompagna l'eroe in tante avventure. È stata una bella sfida, una cosa molto stimolante visto che questo genere di canzoni così classiche non l'avevo mai interpretato, non si smette mai di assimilare e di crescere, e questi brani mi hanno insegnato molto».

Carolyne Mas ha dato il suo brillante contributo in "When the saints go marching in". Come è nata questa collaborazione?

«Compravo i dischi in vinile di Carolyne da ragazzo alla fine degli anni '70, erano opere molto belle e sincere, lei era una 'chanteuse' del rock mainstream molto amata in Europa e spesso veniva definita una 'Springsteen in gonnella', mi piaceva molto. La conobbi nel 2006 quando facemmo una serie di concerti assieme in Italia. Poi siamo rimasti in contatto, e in occasione di un suo concerto a Casalgrande, il mio paese d'origine, l'ho invitata in studio di registrazione per duettare con me. Lei ha accettato con entusiasmo e ha cantato con l'anima».

"La vita è dura e so cosa è giusto e cosa è sbagliato, per sopravvivere devi essere tosto" canti nella title track e per fare il musicista per trent'anni che qualità bisogna possedere?

«Proprio quelle che ho scritto nel testo della canzone, e tante altre ancora. Devi imparare dagli errori, non smettere mai di creare ed evolverti. E devi stare sempre vicino al pubblico, cercare di emozionarlo con sincerità, condividere con lui la gioia che è fare musica e raccontare storie e idee tramite essa. La canzone non deve mai essere la stessa, e il fuoco non deve mai spegnersi, è importante stare sempre accesi».

In "Trust myself" parli di reciproca fiducia e di un rapporto che cammina su un terreno instabile. Qual è la tua ricetta per uscire da queste situazioni?

«Ognuno ha la sua ricetta. Forse l'onestà e il rispetto sono gli ingredienti fondamentali per la durata di un rapporto, ma ognuno queste cose le vive e le vede come vuole, e "Trust myself" credo sia una canzone in cui ci si ritrovano in tanti, non solo Jerry Drake alias Mister No!».

C'è anche una tua visione ecologista nell'album. In "Lost Paradise" canti "...Paradiso perduto, noi viviamo tu muori, i nostri peccati non saranno perdonati". Qual è la tua visione della società di oggi e quanta importanza può avere la musica nell'affrontare queste problematiche?

«Le problematiche del mondo di oggi purtroppo le conosciamo bene, sono sotto gli occhi di tutti. E, come spesso hanno detto, la musica o semplicemente una canzone non potrà cambiare il mondo ma può tenere accesi i nostri sogni, i nostri ideali, stimolarci verso un cambiamento. È quello in cui ho sempre creduto».

Cosa farai nei prossimi mesi?

«Sarò in studio di registrazione a seguire i mixaggi per la realizzazione di un disco dal vivo, un doppio live ufficiale che ancora manca nella mia discografia. È la testimonianza integrale di un mio concerto dell'agosto 2013, uno show molto intenso che in un certo modo fa il punto su una carriera iniziata nel lontano 1981, toccando i miei brani in inglese, in italiano e che comprende anche una manciata di covers di prim'ordine: degli Who, di Springsteen, di Chuck Berry e di Woody Guthrie. Uscirà nel 2015 e sarà il mio ventesimo album, un capitolo importante. E poi vedremo, di certo non mi fermerò, continuerò a cavalcare l'onda delle mie due grandi passioni, la musica e il fumetto, finché ne avrò le forze immagino. E resterò acceso».


Titolo: Yes I'm Mister No
Artista: Graziano Romani
Etichetta: Panini Comics
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(testi e musiche di Graziano Romani, eccetto dove indicato)

01. Yes I'm Mister No
02. Amazonas hotel
03. Esse-Esse
04. Cachaca girls
05. Body and soul [Edward Heyman/Robert Sour/Frank Eyton/Johnny Green, 1930]
06. You make my heart sing like Sinatra
07. I've got you under my skin [Cole Porter, 1936]
08. Trust myself
09. Lost paradise
10. When the saints go marching in [traditional, 1930s]
11. My funny Valentine [Richard Rodgers/Lorenz Hart, 1937]
12. Soul traveler (to Sergio)
13. Jerry's farewell


martedì 13 maggio 2014

Carlo Ozzella e "Il lato sbagliato della strada"





Nuvole grigie e basse all'orizzonte, una strada ferrata che si perde nell'infinito e una desolazione che rimanda ai tempi che sta attraversando la nostra società. E' una visione in bianco e nero quella raffigurata sulla copertina di "Il lato sbagliato della strada", disco d'esordio di Carlo Ozzella & Barbablues. Una fotografia che solo la musica può colorare con le giuste sfumature e l'artista milanese e il suo gruppo lo fanno utilizzando i pennelli a tinte forti del rock sanguigno, intriso di sudore e fatica. Nelle tredici tracce del disco dimostrano di aver imparato bene la lezione. Una 'lezione' iniziata per Ozzella nel 1996 quando assiste in televisione all'esibizione di Bruce Springsteen al Festival di Sanremo. Quella "The Ghost of Tom Joad", cantata dall'artista del New Jersey con chitarra e armonica, avvicina Ozzella ai cantautori americani e il passo successivo, fatto di ascolti, concerti dal vivo, approfondimenti musical-letterari, chiude il cerchio.
"Il lato sbagliato della strada" è forse uno degli album più springsteeniani pubblicati negli ultimi anni in Italia. Non solo da un punto di vista musicale ma anche della poetica. Ozzella racconta le incertezze, la rabbia e le speranze del nostro tempo e lo fa con un minuzioso lavoro sui testi, carichi di istantanee e sequenze a tratti cinematografiche. Il fallimento della politica e il malaffare, la delusione per i sogni disattesi, le speculazioni finanziari che giocano con i destini delle persone sono alcuni dei temi affrontati ma nelle canzoni c'è anche la voglia di lasciare 'il lato sbagliato della strada', di cercare la via del riscatto, di trovare il coraggio per scrivere una nuova storia, senza arrendersi. Un disco brillante, fresco e ben suonato che merita di essere scoperto e riposto nello scaffale più in vista, sempre a portata di mano.
Nell'intervista che segue abbiamo approfondito la conoscenza di Carlo Ozzella e dei Barbablues.



Carlo, hai intitolato il  disco "Il lato sbagliato della strada" ma qual è per te il lato giusto da percorrere?

«Senz’altro quello dell’onestà, verso gli altri e verso sé stessi. Inseguire le proprie vocazioni, non accontentarsi, vivere tutto ciò che accade pienamente, fino in fondo, accettando anche la rabbia e la malinconia che spesso tutto ciò comporta, quando ci si sente sconfitti e senza più scelta. La società di oggi spesso ci delude, ci costringe a pensare che certe cose possano andare in un solo modo. Che tu non possa cambiare la tua vita, che sia meglio farsi furbo e scegliere la via più facile, che ci sarà sempre qualcuno che si arricchirà alle spalle di un altro, che il malaffare continuerà a dilagare. Che sia tu insomma ad essere sul "lato sbagliato". Il brano che dà il titolo all’album parla proprio di questo, di questo sentimento di frustrazione che però a un certo punto è capace di trasformarsi in forza, in nuova vita quando si realizza che non si è soli in realtà in questa condizione, che la vita che ci è data può essere ben spesa, che c’è una nuova giornata e una nuova storia sempre dietro l’angolo pronta a incominciare».

Nelle canzoni affronti i temi della quotidianità e della crisi dei giorni nostri con un piglio grintoso. Pensi che la musica sia più uno strumento di denuncia o di "consolazione"?

«Io credo che il bello della musica stia proprio nel fatto che è entrambe le cose! Ha il potere di veicolare certi messaggi e di farli arrivare con molta più forza rispetto a un semplice discorso perché carichi della forza emotiva che viene dalla melodia, dai suoni, dal ritmo, ma nello stesso tempo quegli elementi sono anche al servizio del piacere, delle belle sensazioni che un canzone deve suscitare all’orecchio e al cuore. Quando suoniamo dal vivo "Al momento della resa" stiamo senz’altro lanciando un messaggio molto forte, ma nello stesso tempo cerchiamo di coinvolgere il pubblico in un rito musicale collettivo, spensierato, dove tutti saltano e cantano con noi: l’essenza più pura del rock & roll! Tutto il mio approccio alla musica si muove lungo questi due estremi: da una parte la vivo come la cosa più importante al mondo, dall’altra cerco sempre di ricordarmi che... it’s only rock & roll!».

Quale canzone senti più tua e perché?

«"Il vento quando passa". E’ quella che considero anche più personale e dolorosa, perché legata a un triste episodio, la morte di un carissimo amico con cui sono praticamente cresciuto. Ricordo che la sera stessa in cui tornai a casa mia, dopo essere stato a trovarlo e aver appreso della malattia che lo aveva colpito, presi il quaderno e scrissi di getto i versi di questo pezzo, praticamente già nella forma che hanno oggi. Di solito i miei quaderni sono pieni di pagine di riscritture, rimaneggiamenti, correzioni. Puoi vedere frasi sparse, parole che dopo alcune pagine iniziano a unirsi, ad avere una forma fino a che non si arriva molto tempo dopo alle liriche finali. In questo caso era come se ci fosse una mano invisibile a guidarmi, come se il pezzo in qualche modo già esistesse e chiedesse solo di essere scritto. Sapevo che lo stavo scrivendo per lui, per farglielo avere e dargli forza, dirgli di non mollare. Sono contento di essere riuscito a farglielo ascoltare e di aver dedicato a lui questo disco. Ma come abbiamo scritto nella dedica... "addio: vietato piangere"».

Quanto tempo hai dedicato a questo lavoro discografico?

«Il precedente EP "Dove comincia la notte" è uscito a maggio del 2011. Questo disco a luglio del 2013. Fanno quasi due anni. Purtroppo non facendo il musicista a tempo pieno nella vita (e lo stesso discorso vale anche per i ragazzi della band) bisogna far coincidere tanti impegni, di lavoro, familiari… Noi non andiamo in studio due settimane e usciamo con il disco finito. Procediamo a piccoli passi, man mano che le canzoni nascono, le registriamo in diversi momenti fino a che a un tratto non si delinea all’orizzonte un disco. A quel punto iniziamo a marciare un po’ più serrati, mettendo sempre più a fuoco cosa va e cosa non va. Per il futuro mi piacerebbe essere più veloce, riuscire a concentrare il momento creativo in un intervallo di tempo più breve, più compatto. Chissà, magari un giorno riuscirò a lasciare il mio lavoro e a dedicarmi totalmente alla musica».


Le influenze della produzione springsteeniana sono evidenti. Cosa avresti fatto nella vita se non avessi incontrato Springsteen sulla tua strada?

«Me lo sono chiesto spesso ed è un gioco divertente perché in realtà incontrare Springsteen per me ha significato molto di più che l’appassionarsi semplicemente a un autore. Ha voluto dire scoprire a 360 gradi il panorama del rock, entrare a pieno in una cultura che in fondo è anche un modo di vivere, che ti cambia la vita. Ha voluto dire conoscere persone che poi sono diventate fondamentali nella mia esistenza. Senza quella svolta, sono certo che non solo avrei fatto altro nella vita (probabilmente mi sarei dato alla letteratura), ma sarei anche stato una persona completamente diversa».

Ma non c’è solo Springsteen nella tua formazione musicale. Mi sbaglio?

«Certo che no. Quando ho iniziato a suonare la chitarra a 11 anni mi sono avvicinato alla musica dei grandi cantautori italiani: De Gregori, Guccini, De Andrè. E’ stata una formazione fondamentale, mi ha insegnato l’importanza della parola, dei testi, che in alcuni casi nel rock americano sono relegati in secondo piano. Credo che tutti loro abbiano scritto pezzi memorabili, nel caso di Faber autentici capolavori che non esito a porre sullo stesso piano, se non superiore, delle cose migliori di Dylan, altro mio grande amore. Poi, dopo la scoperta di Springsteen e del rock, mi sono buttato a capofitto sulle origini di questo genere, sui capostipiti: Elvis, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry, Little Richard, Ray Charles. Non puoi pensare di fare lo scrittore e non conoscere Dante e Petrarca. E poi il blues, il rhythm and blues, il folk. Cerchi sempre di arricchire il tuo bagaglio culturale e musicale. Un genere che adoro e che non mi dispiacerebbe un giorno integrare con qualche influenza nella mia produzione è la musica celtica. Dalle ballate tradizionali irlandesi, suonate con fiddle e whistle, fino al celtic rock in stile Pogues o Dropkick Murphys, ho una vera e propria passione per questo genere di sonorità».

Il testo della canzone "L'ombra" parla di pallottole nel cuore, mani che stringono altre mani, di colpevoli e condanne. E' un atto d'accusa nei confronti di chi?

«Credo che tantissime persone come me vedano ormai con disgusto e delusione tutto ciò che ha a che fare con la politica: i partiti, gli esponenti, il governo… Senza distinzione di schieramento (anche perché spesso le distinzioni fanno fatica a vedersi). Con il forte rischio, è vero, che la generalizzazione e la semplificazione si facciano spazio. Ma la colpa non è nostra, è loro. La percezione che si ha è che la politica, che dovrebbe svolgere una altissima funzione, quella di governare e rendere migliori le condizioni di vita dei cittadini, svolga invece una funzione opposta: si occupa del benessere di pochi, agisce spesso nell’illegalità (lei che dovrebbe garantire la legalità), penalizza i cittadini. In questa canzone ho voluto raccontare la rabbia che tutto ciò suscita, il disprezzo anche violento verso questi personaggi viscidi, falsi. Con la speranza che se non sarà una condanna vera e propria a fermarli ci pensi almeno l’ultimo avanzo della loro coscienza imbruttita».

"Da che parte vuoi trovarti all'alba quando il cielo esploderà, al momento della resa dove andrai?". Questo è uno dei versi di "Al momento della resa". Ma Springsteen non ti ha insegnato che non bisogna arrendersi?

«Nessuna resa mai! Come canta il mio amico Massimo Priviero... E’ una lezione importante, cercando di affermarmi come musicista credo di averla imparata piuttosto bene, considerate le difficoltà che si devono affrontare. Ma la resa di cui parlo in quella canzone ha un senso più ampio, figurativo: è una sorta di giudizio finale, una resa dei conti. Che prima o poi dovrà pure arrivare. E in quel momento sarà davvero importante capire da che parte si è scelto di stare, quali decisioni hanno governato la tua vita. Insieme a "L’ombra", questo pezzo è tra i più duri e arrabbiati del disco, ancora una volta mi rivolgo a una casta, questa volta avevo davanti agli occhi i signori della finanza, quelli che muovono soldi ma sempre nella direzione dei più ricchi. Di nuovo la stessa storia, un gruppo ristretto di persone che ha il potere di decidere della vita di tante altre persone. Ho voluto immaginare uno scenario futuristico di guerriglia, di rivolta, cosa potrebbe succedere se davvero a un tratto le persone stanche ed esasperate decidessero di reagire e di rivoltarsi. Non sto offrendo questa soluzione violenta, se guardi bene noterai che le immagini che aprono la canzone non sono piacevoli, il fumo, la polvere da sparo, il respiro che manca... Volevo che suonasse più come un avvertimento».

Ci sono tante albe nelle tue canzoni. Come vivi il passaggio dalla notte al giorno?

«E’ un momento della giornata che mi piace. L’alba è l’inizio e per me rappresenta sempre una nuova possibilità, la chance che hai a disposizione per portare avanti il tuo sogno, per correggere ciò che hai sbagliato il giorno prima, per fare meglio. Più simbolicamente, è una nuova luce che arriva e in questo senso solitamente ha una valenza positiva, di rinascita».

Il disco si chiude con la canzone "Comunque vada". E' un invito ad andare avanti nonostante le inevitabili decisioni sbagliate e occasioni perse. In che direzione va la tua strada?

«In questo momento mi sembra di camminare su due strade, non esattamente parallele: da una parte c’è la mia vita ordinaria, quella di un normale ragazzo che fa la sua vita, va tutte le mattine a lavorare, torna a casa dalla sua famiglia e nel weekend va a farsi un giro. Dall’altra c’è la mia vita artistica, i concerti, la scrittura delle canzoni, le prove, lo studio, i dischi, i contatti. Ogni tanto si incontrano, si scontrano, ogni tanto tutto non ci sta in 24 ore... Ma in questo momento non c’è alternativa e andrà avanti così per un po’, probabilmente per sempre, non mi ci vedo proprio a smettere di suonare. Spero che questo duro lavoro riesca a premiarmi un giorno, e che alla fine la vita artistica possa davvero prendere il sopravvento. Ma sono tempi duri per gli emergenti».

Perché nel disco canti anche alcune canzoni in inglese?

«Ci sono delle melodie che in qualche modo si sposano molto meglio con un testo in inglese, la metrica che la musica richiede non trova facile corrispondenza con quella offerta dai termini italiani e quando ciò è accaduto ho deciso di provare a scrivere in inglese. Mi è piaciuto e così sono venute fuori altre canzoni. Però sono stato abbastanza restio per un po’ all’idea di includerle nel disco, non ero certo che affiancare brani in italiano e brani in inglese nello stesso lavoro fosse la scelta giusta. E ancora non lo sono... (ride). Però erano buone canzoni e ho pensato che in fondo in un disco d'esordio era giusto offrire una visione completa di quello che ero, che anche altri artisti avevano optato per una scelta simile e soprattutto che cantare in inglese avrebbe permesso senz’altro alla mia musica di avere un target di pubblico più vasto».

Il suono, come dicevano, è molto americano, e per renderlo al meglio ti fai accompagnare dai Barbablues. Ce li presenti e come vi siete incontrati?

«Il prossimo settembre saranno 15 anni che questa band esiste. Ci siamo incontrati grazie ad un annuncio: c’era questa band, in cui suonavano già Max e Fede, che cercava un cantante. All’epoca avevo appena compiuto diciotto anni, loro erano già sulla trentina, mi hanno visto arrivare e... erano un po’ dubbiosi! Ma quando abbiamo iniziato a suonare... scintille! Con Federico Melzi, chitarrista, ci ha subito legato l’amore per Springsteen. Su quel terreno abbiamo costruito un’amicizia che si è poi trasformata in fratellanza. Ci sentiamo praticamente tutti i giorni, ci consultiamo in ogni scelta importante e sul palco è davvero la mia controparte scenica, il supporto su cui costruisco lo show, non solo quello musicale. Massimo Miglietta, il batterista, ha un background musicale diverso, ama il pop, il funky, ma anche il rock. Ha una grande sensibilità musicale, un ottimo orecchio, e mi dà spesso utili consigli nella stesura e nell’arrangiamento dei pezzi. Anche con lui c’è un rapporto speciale, quando c’è da organizzare un viaggio o una vacanza siamo sempre in contatto diretto, ci piace fare queste cose insieme. Qualche anno dopo quel primo incontro sono arrivati Andrea Marsili, al basso, Stefano Gilardoni al pianoforte e Claudio Lauria al sax. Andrea è uno degli uomini più divertenti che io conosca, ha un’ironia immediata che ti piega in due. Oltre a suonare il basso con note che non ti aspetteresti. Stefano è senz’altro il musicista più dotato di noi, suona il piano ma anche la chitarra, il violino, il flauto, il mandolino, studia il cinese, ha studiato il russo... è un vulcano! E abbiamo una passione in comune per l’Irlanda e la musica irish. Infine Claudio, virtuoso del sax. Può improvvisare su qualunque pezzo e ha un amore spropositato per la musica, suonerebbe sempre. Ha davvero un cuore grande e generoso».

Quali sono le tue letture preferite e che importanza hanno i libri per un cantautore?

«Sono un vero e proprio amante dei libri. Come tutti gli appassionati per uno che ne leggo ne compro altri tre. Ma mi piace pensare che una libreria sia come la dispensa di casa, non è che ogni giorno si compra solo ciò che si mangerà la sera! Amo un sacco i gialli, i thriller, soprattutto quelli storici. Ho una grande passione per il Medioevo e quindi leggo con piacere tutto ciò che vi è ambientato. Ho letto tanto anche gli autori francesi, da Sarte a Camus. Ultimamente sto leggendo anche qualche noir, in particolare Izzo tra gli stranieri e Carlotto tra gli autori italiani. Ho un debito nei loro confronti contenuto in questo disco. Una frase di "Disillusion Town" è la traduzione del titolo di un capitolo di "Casino totale" di Izzo, "even to lose you gotta know how to fight", mentre l’immagine della pallottola "solenne come una sentenza" la devo a Carlotto e al suo "Arrivederci amore, ciao". Ma la letteratura, i libri, non danno solo spunti diretti come in questo caso. Mi aiutano anche a costruire certe immagini con le parole, a rendere certe canzoni dei racconti. C’è un nesso molto forte tra musica e libri, e infatti quando sono in giro nel mio zaino le cose che non mancano mai sono il quaderno degli appunti e un libro».

So che porti avanti anche un progetto musicale parallelo. Ce ne parli?

«Nel 2005 con alcuni amici musicisti abbiamo messo su una tribute band dedicata al Boss. Non poteva che essere così, tanto grande è la passione per la sua musica. Si chiama The 57th Street Band e con me ci sono anche Stefano e Claudio dei Barbablues. E’ una band di sette elementi che ricalca la E Street Band del periodo 1978-1985. Un bel sound grintoso, con due distinti musicisti a suonare piano ed hammond e il sax di Claudio che ricalca alla grande le note di Clarence. Abbiamo un repertorio piuttosto vasto, circa settanta canzoni e facciamo un sacco di serate, sia in elettrico che in acustico. Devo dire che inizialmente mi ero posto dei dubbi sul fatto di andare in giro con una cover band di Bruce. Non sai mai se devi presentarti là fuori cercando di replicare uno show di Springsteen (cosa peraltro scientificamente provato essere impossibile) o semplicemente cantare le sue canzoni, rischiando però a quel punto di creare un’eccessiva distanza, una personalizzazione non richiesta. Abbiamo deciso di collocarci un po’ nel mezzo, restiamo fedeli alle canzoni, alla grinta, con il sorriso ammicchiamo ad alcune gag che fanno parte dello spettacolo di Bruce... e poi ci mettiamo tutta la passione che abbiamo! Finora mi sembra funzioni».

Quali sono attualmente le prospettive per un artista che vuole vivere di musica?

«Hai presente la canzone dei Creedence? "Bad moon rising"... Purtroppo la situazione del mondo della discografia è ben nota, nessuno compra i dischi, nessuno investe sugli emergenti, sono pochi gli spazi dove si fa musica dal vivo originale, molto più sicuro far suonare l’ennesima cover o tribute band. Bisogna darsi da fare in proprio, investire tempo e qualche soldino, anche se bisogna ammettere che oggi è molto più semplice ed economico registrare un EP o un disco e farlo conoscere grazie alla rete. Arrivare a viverci... beh, sto scoprendo come si fa. Appena ci sono riuscito ti chiamo, ok?».



Titolo: Il lato sbagliato della strada
Artista: Carlo Ozzella & Barbablues
Etichetta: Avakian Productions
Anno di pubblicazione: 2013


Tracce
(testi e musiche di Carlo Ozzella, eccetto dove indicato)

01. La tua ultima occasione
02. Full grace
03. Notturno
04. Il vento quando passa
05. L'ombra
06. Alla periferia della città
07. Weary and proud [Massimo Miglietta e Carlo Ozzella]
08. Trough the storm
09. Il lato sbagliato della strada
10. Disillusion town
11. Vite in gioco
12. Al momento della resa
13. Comunque vada




giovedì 8 maggio 2014

"Masca vola via": la tradizione di Simona Colonna





Voce, violoncello e una manciata di canzoni che raccontano storie della tradizione del Piemonte rurale e contadino hanno convinto la giuria ad assegnare a Simona Colonna il primo posto nella selezione nord-ovest di "Suonare a Folkest - Premio Alberto Cesa". A Loano, nella Riviera ligure di ponente, la bravura, la simpatia e la capacità di interagire con il pubblico, l'energia della performance e la carica teatrale, oltre a una esibizione tecnica mai fine a se stessa, hanno consentito a Simona Colonna di precedere nella speciale classifica di merito il Laboratorio Permanente Figurelle e i Folkamiseria. Nel corso della serata loanese l'artista piemontese ha presentato le canzoni che fanno parte del cd "Masca vola via", pubblicato due anni fa, e alcuni inediti. Brani che dipingono un quadro sonoro minimale arricchito da storie cantate in lingua piemontese capaci di sedurre e incuriosire l'ascoltatore. Un lavoro innovativo e coinvolgente che ha visto la luce dopo quasi vent'anni di carriera al servizio di tantissimi musicisti, in formazioni e generi musicali molto diversi, e al termine di un percorso esplorativo e di ricerca nell'uso del violoncello e della voce.
La serata di Loano ha permesso ai molti appassionati presenti di conoscere e apprezzare Simona Colonna e a noi di gettare le basi per questa intervista.




Simona, a Loano hai vinto le selezioni di "Suonare a Folkest" contro avversari molto motivati e di qualità. Ti aspettavi questo riconoscimento da parte della giuria?

«Sinceramente no. Speravo in un secondo posto che mi avrebbe comunque spalancato le porte del festival di Spilimbergo ma non pensavo di poter vincere. Ne sono stata felicemente sorpresa».

Nel corso della serata hai presentato i brani del cd "Masca vola via". Come è nato questo disco?

«Dopo vent'anni di carriera passati in giro per il mondo a cantare e suonare, quattro anni fa ho deciso di fermarmi un po' in Italia, a casa mia a Baldissero D'Alba, un piccolo paese del Roero, e dedicare un po' di tempo e attenzione alle mie radici. Così è nato il desiderio di cantare in lingua piemontese alcuni dei profili del mio territorio, tra cui le masche, le storie di emigranti di contadini e altri. Con la canzone "Masca vola via" ho vinto il Biella Festival nel 2011 e il premio prevedeva, oltre a un contratto per un anno con un ufficio stampa di Roma, l'"Alfa Prom", anche una piccola partecipazione economica per un progetto in corso ed ecco che il mio cd si è materializzato. Ho unito le mie forze artistiche e finanziarie a questo fortunato concorso ed eccomi qua con "Masca vola via", cd che sto proponendo ormai da due anni in giro per il mondo».

Il tuo approccio alla musica tradizionale non è certo convenzionale. Come mai hai scelto di utilizzare violoncello e voce per presentare le tue canzoni?

«La voce è l'emanazione diretta dell'essere umano e del mondo. E il violoncello assume la stessa funzione tra gli strumenti. Ecco qua la risposta: due cose vere in un unico risultato sonoro».

Nei cinque brani del disco racconti un Piemonte del passato fatto di leggende, personaggi bizzarri della tradizione contadina, briganti. Chi o che cosa è stata la tua fonte di ispirazione?

«La mia fonte sono i ricordi. I miei nonni che mi raccontavano le loro tradizioni, un sacco di aneddoti interessanti e al tempo stesso divertenti, insoliti ma veri. Poi, la lingua piemontese che continuo a parlare con chi ancora la parla. E poi mi piace raccontare e attraverso la musica e le parole dei brani lo si può fare in modo così coinvolgente e interessante».
Simona Colonna a Loano. Foto di Martin Cervelli

Se da una parte i testi e le storie richiamano la tradizione non altrettanto si può dire della musica che abbraccia il classico contemporaneo e anche il jazz…

«È vero. Credo sia indispensabile guardare avanti, senza dimenticare però il passato e le radici. E allora perché non mischiare generi contemporanei, armonie moderne che possiamo trovare nei generi pop e jazz con ricordi e parole del passato? Io credo che funzioni, ne sono fermamente convinta! Per me la cosa è geniale. Quindi, credo che possa piacere questo mix di tante variegate sfumature se proposte in modo elegante e divertente».

Al giorno d'oggi pensi che in Italia sia ancora possibile tramandare le tradizioni popolari fuori dai centri di provincia? Mi spiego meglio con un esempio: le storie che racconti troverebbero terreno fertile in una metropoli come Torino?

«Penso di sì. Penso che sia solo il modo e le persone che fanno la differenza. Non è semplice attrarre l'attenzione del pubblico, delle persone, specialmente al giorno d'oggi dove tutto è veloce e superficiale, ma se proponi in maniera accattivante e genuino e, specialmente, in modo competente il pubblico ascolta. È più faticoso per l'artista arrivare a questo risultato ma sicuramente anche più interessante e appagante, non trovi? È così in tutte le cose della vita».

Trovo che sia molto interessante la scelta fatta di presentare nel libretto allegato al cd i testi delle canzoni tradotti in italiano e inglese. Ma non pensi che cantare in piemontese possa a lungo andare essere un limite?

«A mio avviso non è assolutamente un limite, anzi penso sia un punto in più a favore di chi lo fa. Basta trovare la formula giusta. Per come la penso io, la lingua, che come la musica è comunicazione, ha solo bisogno di bravi propositori e interlocutori. Io non faccio solo musica in piemontese ma anche! Quindi racconto cantando di quello che so attraverso i miei linguaggi».

Quando si parla di musica tradizionale del Piemonte si pensa subito alla scuola Occitana. La tua musica però non si colloca in tale ambito a dimostrazione di una cultura molto più variegata di quello che si possa immaginare. Quali sono le tante anime che compongono la tradizione musicale della regione e con quale ti senti più in sintonia?

«Mi definisco un'anima camaleontica perché amo stare in mezzo a persone che hanno differenze di cultura, di formazione e nelle vita stessa quindi non mi sento più in sintonia con un parte o l'altra. Sto bene perché sono curiosa e quindi abbraccio più generi, più linguaggi e più suoni possibili. Anzi, se posso cambio, cambio ma le radici sono profondamente legate alla mia terra e mai lo rinnego. Il risultato è il mio modo di essere artista».

Quali sono i tuoi prossimi progetti artistici?

«Difficilissima domanda. Vorrei incontrare Peter Gabriel e cantargli "Masca vola via" e sono seria, ma più concretamente sto scrivendo, scrivendo e scrivendo nuova musica. Sto finendo una collaborazione importante con Rai World per un programma dal titolo "Community" che mi ha dato modo di reinterpretare le più belle canzoni italiane del nostro patrimonio per voce e cello. Chissà, magari pubblicare un nuovo lavoro discografico che unisca qualche brano di questi e qualche cosa di mio, ancora non so… Ma i progetti che mi stanno più a cuore sono i concerti. Il live offre a tutti emozioni da pelle d'oca che vanno assolutamente provate, non pensi? Cerco di propormi per cantare e suonare la mia opinione sulla musica e che il linguaggio sia bianco, nero, jazz classico o folk non ha importanza. Importante è l'anima attraverso i suoni».



Titolo: Masca vola via
Artista: Simona Colonna
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2012

Tracce
(testi e musiche di Simona Colonna)

1. Bacialè
2. Masca vola via
3. Ninnaoh
4. Portme via da si
5. Brigante Stella