mercoledì 12 dicembre 2012

Cristiano Angelini, a un anno dalla Targa Tenco








È passato un anno da quando Cristiano Angelini è salito sul palco del teatro Ariston di Sanremo per ritirare la prestigiosa Targa Tenco, vinta nella categoria "opera prima" grazie al disco "L'ombra della mosca". Si è trattato del meritato riconoscimento dopo vent'anni di gavetta e centinaia di concerti in giro per mezza Italia. E soprattutto un premio per un album di grande qualità, impreziosito dalla collaborazione di Max Manfredi e dei musicisti de La Staffa (Marco Spiccio, Federico Bagnasco e Matteo Nahum). A un anno di distanza poco è però cambiato per il cantautore spezzino di nascita e genovese di adozione. Angelini, quarantacinquenne neurobiologo ricercatore all'Ospedale san Martino di Genova, frequenta ancora con immutato entusiasmo i piccoli palchi dei locali e delle osterie dove resiste la tradizione di offrire agli avventori spettacoli di musica dal vivo.
Incontrato a Sanremo in occasione del Premio Tenco 2012, Angelini non si è tirato indietro e si è sottoposto con pazienza al fuoco di fila delle domande di questa intervista in cui ha rivelato interessanti notizie sul suo nuovo album in uscita nei prossimi mesi.



Nel 2011 hai vino la Targa Tenco nella categoria "opera prima" con l'album "L'ombra della mosca". Come è cambiata la tua vita artistica dopo questo successo?

«La vita artistica non cambia con l'acquisizione di un premio o di un riconoscimento, per quanto prestigioso, come è appunto la Targa Tenco. Specie in questi tempi di disattenzione culturale in cui la canzone d'arte paga il prezzo forse più di altre forme musicali. Indiscutibilmente cambiano l'approccio del pubblico, l’aspetto professionale e la necessità di mantenere un livello espressivo adeguato, ma questo è comunque parte del gioco dei ruoli: c'è chi narra e chi ascolta ed il discernimento della qualità deve essere da entrambe le parti».

Che bilancio fai di questo anno che si avvia alla conclusione?

«Il bilancio è assolutamente positivo sia dal punto di vista dei concerti che sotto l'aspetto produttivo. E parlo di nuovi progetti e collaborazioni artistiche che proiettano ad un 2013 interessante, Maya permettendo».

È quindi ora di dare un seguito a questo tuo primo disco, non credi?
 

«Ahahahaha! Direi di sì! Altri 44 anni per l'opera seconda sarebbero un po' troppi dal punto di vista strettamente biologico. Nel corso di quest'anno ho composto molti inediti che stiamo già inserendo nei live, anche se con moderazione sennò diventano editi prima del tempo. Penso che nel 2013 avremo scelto la decina di canzoni che andrà a comporre il nuovo lavoro. Ci saranno brani scritti circa dieci anni fa che non hanno trovato spazio ne "L'ombra della mosca" ed alcuni che ho finito ieri».

Ti abbiamo visto tra il pubblico dell'edizione 2012 del Premio Tenco. Che impressione ti ha fatto?

«L'effetto di stare tra il pubblico è sempre piacevole. Frequento il Tenco da moltissimi anni e rivedo sempre volentieri molti amici storici, artisti e non. Inoltre, ascolto anche cose interessanti e questo condisce il piacere. Dal punto di vista della manifestazione credo che il Premio Tenco sia una istituzione di valore da difendere nel nostro territorio, visto che si tratta di canzone d'arte italiana, ma non solo. Quello che manca un po' a mio avviso al Tenco è la visibilità internazionale, cioè l'aspetto di "paladino" della canzone d'arte italiana all'estero. Artisticamente a volte vedo un po' di confusione nella considerazione di questa forma musicale nella rassegna. Penso che si dovrebbe andare un po' meno incontro al gusto del pubblico a favore di un indirizzamento del gusto del pubblico. Mi spigo meglio: il pubblico che segue la canzone d'arte è molto competente e ben informato su ciò che accade e sui "nuovi" artisti. Il pubblico meno attento segue molto più quello che i resti dell'industria discografica - che agonizza ben più dalla canzone d'arte - gli offre attraverso i media e l'ipnosi pubblicitaria dei prodotti in vendita. Se quello che gli si offre è questo lo riconosce come autorevole in quanto riconoscibile mediaticamente. Non importa se di valore artistico o meno. Ecco, in questo senso la rassegna dovrebbe essere punto di novità qualitativa. Indurre l'analisi che offre la capacità di discernere cosa è un prodotto e cosa è un altro».

La tua carriera di musicista è iniziata a metà anni Ottanta nel gruppo rock-prog Tuya di Rapallo. Dopo questa esperienza da buon ligure hai scelto la strada del cantautorato…
 

«La mia esperienza con il rock-prog mi ha insegnato che la parola ha la sua musicalità intrinseca anche cantata, non solo recitata. In quegli anni si riteneva che l'italiano avesse moltissima difficoltà musicale nel genere rock e che la lingua inglese fosse più adatta malgrado autorevoli e geniali presenze come gli Area, che di inglesismi non volevano saperne, o il Banco, la PFM ed affini. Ad un certo punto, però, ho sentito la necessità di legare maggiormente la sonorità della parola alla narrazione della nota e la canzone d'arte fa esattamente questo mestiere: rende unico e strettamente legato ciò che è composto da due entità separate che dipendono l'una dall'altra a formare l'unico corpo che emotivamente evoca immagine».

Fin dalle tue prime esperienza compositive hai sempre scelto la lingua italiana andando un po' contro la moda del tempo. Hai cambiato idea in questi anni?

«Assolutamente no. Continuo a ritenere che l’italiano sia una lingua musicale. Tocca saperla bene però».

Nel 2012 si può ancora parlare di scuola genovese o sono ricordi di un tempo passato?
 

«Mi pare che sia più che altro una necessità dei giornalisti e dei critici musicali. Come ho avuto modo più volte di dire, per me la scuola genovese esiste non nel senso di maniera, ma nel senso della collaborazione tra autori e musicisti. A Genova esiste un'ottima integrazione tra gli artisti caratterizzata principalmente dall'amicizia che si consacra in molto tempo di frequentazione comune al di fuori della musica. I progetti e le collaborazioni nascono a tavola, passano attraverso gli studi di registrazione e finiscono sui palchi. Non c'è rivalità o invidia, ma partecipazione comune e comune senso di soddisfazione al successo dell'altro. In questo senso sì, esiste la scuola genovese perché mi pare una realtà che non vedo in altre parti d'Italia. Poi, che a Genova ci possa essere un genius loci, beh, può essere…».

Quali artisti o movimenti hanno influenzato il tuo stile musicale?

«Il mio ascolto preferenziale è sempre stato il jazz, anche in età adolescenziale. Ho avuto i miei ascolti rock, blues e folk, ma il jazz resta la mia musica. Della musica italiana ho sempre amato De Andrè, Lolli, Fossati, Ciampi, per un certo periodo mi è piaciuto anche Dalla. E i francesi con Brel, Brassens e Léo Ferré su tutti e una passione del tutto personale per Aznavour. Dei contemporanei è per me mostro sacro Max Manfredi a cui mi lega oltre a una stretta amicizia anche una manifesta ammirazione per la sua opera, proprio come un fan».

In questa epoca di musica jingle che si consuma come hamburger al fast food ha ancora senso impegnarsi a registrare un cd?

«Per me sì. Mantiene la magia della creatività. Sebbene la discografia sia abbastanza agonizzante e incapace nelle scelte, per me vale la pena. È come andare a cercare i dischi che ti piacciono nelle bancarelle: puoi scaricare tutto dalla rete, è vero, ma è difficile scaricare le emozioni».

Si parla molto dei nuovi talenti, di quelli "cresciuti" in format come X-Factor. Tu cosa ne pensi?

«Non ne penso. Se non come format. È quello che dicevo più sopra: la riconoscibilità mediatica. Se si facessero format legati alla qualità il pubblico avrebbe strumenti per discernere. Ma non è così, mi pare».

In tempi di crisi economica e culturale si sentono dichiarazione che lasciano interdetti. Nelle scorse settimane il ministro Lorenzo Ornaghi ha dichiarato di voler tagliare i fondi a Umbria Jazz Winter perché "il jazz non è espressione diretta della cultura italiana". Qual è la tua posizione?

«È scellerato! A parte la blasfemia, perché artisti come Natalino Otto, Gil Cuppini, Enrico Rava o Stefano Bollani non mi risulta essere dell'Arkansas, poi qualcuno mi deve spiegare se le basi NATO sono cultura italiana».

Sono assolutamente d'accordo con te. Per finire ti ho riservato le dieci domande secche che sono diventate un must del blog.

- Spaghetti o rigatoni? Spaghetti! Perché con pollo e insalatina e una tazzina di caffè stanno bene (a Detroit).
- Sigaro o pipa? Sigarette. Ce lo vedi un nevrastenico con la pipa. Io il sigaro? No, roba da gente calma quella.
- Vino bianco o rosso? Rosso in genere, ma anche bianco.
- Penna o piuma? Sempre penna. Piuma solo col calamaio.
- Chiesa o castello? Castello! In chiesa non mi pare ci siano castellane…
- Genoa o Sampdoria? Che domanda, Genoa!! A Genova non ci sono altre squadre di calcio, a parte quelle di delegazione…
- Blu o viola? Blu. Se unito al rosso meglio. Il rossoblù mi è sempre piaciuto.
- Jeff Buckley o John Prine? Entrambi direi, perché limitarsi? Quando le cose sono buone meglio averle tutte, no?
- Romanzi o saggi? Entrambi, dipende dallo stato d'animo. Purché ben scritti. Anche una argomento accattivante quando è mal scritto diventa innervosente, forse anche di più.
- Utilitaria o fuoristrada? Non ho la patente. Taxi direi.





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