giovedì 29 dicembre 2016

Mauro Pinzone, una "Foto sintesi" di emozioni




Tutte le volte che incontro Mauro Pinzone si finisce per parlare piacevolmente di musica e uno degli argomenti centrali degli ultimi mesi è stato il suo nuovo album. Pubblicato in questi giorni, "Foto sintesi" ha richiesto un lungo periodo di gestazione, tra accelerate, rallentamenti, cambi di direzione. Alla fine il prodotto è stato dato alle stampe e oggi abbiamo in mano, finalmente, un disco sincero, onesto, emozionante, con canzoni scritte ottimamente e suonate altrettanto bene che esprimono la visione del mondo e gli stati d'animo del cantautore ingauno. Un lavoro eterogeneo che abbraccia vari generi, dal jazz-rock alla progressive, dal classico cantautorale fino a qualche sentore new age. Il disco è composto da dieci canzoni inedite e due estratti di uno spettacolo di teatro canzone, "Punti di (s)vista", scritto e interpretato da Roberto Bani con le musiche di Pinzone.
Mauro Pinzone è personaggio noto nell'ambiente musicale ligure. Nel corso della sua carriera ha intrecciato la sua chitarra con molti colleghi. È stato impegnato in diversi progetti a partire dai Pensieri Compressi che hanno lasciato l'impronta con l'ottimo album d'esordio, fino ad arrivare alla band multietnica degli Afka'r. Alcuni di questi compagni di viaggio Pinzone li ha voluti al suo fianco anche nel suo ambizioso progetto solista. Hanno contribuito alla realizzazione di "Foto sintesi" alcuni dei musicisti più apprezzati della scena savonese: Maurizio De Palo alla batteria, Federico Fugassa al basso e contrabbasso, Mohamed Ben Hamouda alle percussioni, Claudio Bellato alle chitarre, Fabio Biale al violino, Davide Baglietto al flauto e alla cornamusa, Emanuele Gianeri alle tastiere, Giovanni Amelotti alle tastiere e all'oboe. Una citazione a parte la merita Alessandro Mazzitelli che ha registrato e mixato il disco, oltre ad aver suonato le tastiere e inserito effetti sonori.
Con Mauro abbiamo parlato del suo nuovo lavoro, del significato delle sue canzoni e della scena musicale savonese.



Mauro, iniziamo dal titolo del tuo nuovo disco "Foto sintesi". Qual è il suo significato?

«Quando scrivo una canzone cerco di descrivere delle sensazioni, mi piace pensare che un brano possa farti sentire dei profumi, evocare delle immagini. Mi piace pensare che chi ascolta personalizzi queste sensazioni, trasformandole in veloci fermo immagine, come se fossero delle fotografie. "Foto sintesi" è, appunto, la sintesi di questo pensiero».

Da dove arrivano queste dieci canzoni?

«Ovviamente ciascuna di esse ha una storia ben precisa ma sono tutte canzoni scritte nell'arco degli ultimi tre anni e quasi sempre nello spazio di qualche ora. Amo pensare che quando scrivo un testo ci sia una sorta di anima guida che mi ispiri. La musica viene sempre in un secondo tempo. Mi piacciono gli accordi "aperti" e i "rivolti". Alcune sono state scritte su "commissione", come "Donne soprappensiero" per una manifestazione sulla donna tenuta l'otto marzo, e "Stella", scritta per un concerto tenuto la notte di San Lorenzo (un modesto regalo ad Alberto "Il Cala" Calandriello), combinazione entrambi i concerti si tennero a Bardino. "Riflessi" e "Segreti" rappresentano più degli stati d'animo, delle visioni temporali e umorali in libertà…».

Quanto c'è di personale nei brani del tuo disco?

«Beh, c'è sempre il punto di vista di chi li scrive, anche se si tratta di argomenti che parlano di altri. C'è tutto di personale, è la personale visione di un artista, di quello che gli accade dentro e attorno. Ogni canzone rappresenta sicuramente lo stato d'animo di quel momento, ma c'è sempre qualcosa che fa scoccare la scintilla creativa. Se poi la domanda implicita è cosa significano per me queste canzoni, beh… ognuna è un pezzo della mia vita. Alcune sono scritte ispirate da donne con cui ho condiviso qualcosa, oppure con le quali avrei voluto condividere qualcosa».

E proprio l'universo femminile è ricorrente nelle liriche delle tue canzoni. Gioie e dolori che solo le donne sanno regalare…

«Non c'è dubbio che le donne siano esseri superiori agli uomini, e le loro contraddizioni, il loro essere fragili e forti allo stesso tempo ne fanno degli esseri speciali, unici. Sono convinto che se il mondo fosse guidato da donne sarebbe migliore. Dal punto di vista personale non ho difficoltà ad ammettere di avere più amiche donne che uomini, mi piace ascoltarle, mi piace discutere con loro. I discorsi degli uomini mi annoiano (ad eccezione ovviamente di chi fa musica e arte in genere), li trovo scontati, prevedibili, una linea retta che non ammette deviazioni. Una donna è sempre imprevedibile, e ti riserva sempre sorprese ed emozioni».

Nel disco troviamo anche due recitativi di Roberto Bani. Perché hai sentito l'esigenza di inserirli e quale funzione hanno nell'economia dell'album?

«Con questo cd ho voluto anche omaggiare la scena artistica del ponente ligure, sintetizzando la mia opera di questi anni. Con Roberto, una paio di anni fa, abbiamo creato uno spettacolo, "Punti di Svista", in cui lui giocava con le mie canzoni e io con i suoi monologhi: sono pertanto nati otto "quadri" composti da monologhi di Roberto e canzoni mie, una di queste è "Non sei originale", e mi è piaciuta l'idea di inserire nel cd il rispettivo monologo, che aveva peraltro ispirato la canzone».

Bardino '13: Mauro Pinzone (copyright Martin Cervelli)
Quale canzone rappresenta al meglio il tuo stato d'animo?

«Credo ce ne siano due che mi fanno sempre stare bene quando le suono ed esprimono al meglio gran parte del mio essere, e sono "Stella" e "Segreti". Confesso che quando le suono, a differenza di altre canzoni, mi sembra sempre che sia la prima volta che le eseguo. Credo, infatti, che per un artista ogni sua opera sia tale nel momento in cui la crea, dopo è come se avesse vita autonoma, e pertanto l'artista se ne stacca e pensa a crearne altre».

Come si sono svolte e quanto sono durate le sessioni di registrazione?

«Ahia, faresti meglio a porre questa domanda ad Alessandro Mazzitelli. Quando ho iniziato a registrare avevo l'idea di un disco totalmente acustico, iniziando con l'essenziale, voce e chitarra, e inserendo poche collaborazioni mirate a quello. Avevo anche l'intenzione di finire la registrazione (contrariamente a quella pronta ormai da più di dieci anni e che non mi decido a pubblicare) in pochi mesi. Strada facendo è cresciuto l'appetito, molti artisti si sono uniti e il progetto è nato a poco a poco. Ho lasciato ampi spazi ai musicisti, presenziando ben poco alle registrazioni, anche perché sapevo benissimo chi erano, che tipo di musicisti fossero e cosa avrebbero potuto apportare in creatività al disco. Alcune collaborazioni sono nate da un giorno all'altro, per esempio con Ben Hamouda: rivisto a cena a casa mia la sera e la sera dopo in sala di registrazione. Alcune sessioni si sono svolte a sorpresa, con Fabio Biale ed Emanuele Gianeri ad esempio, e ne sono venuto a conoscenza da fotografie su Facebook. I vari elementi si sono amalgamati, sotto la direzione attenta di Mazzitelli e la mia supervisione, anche in maniera disordinata ma con una loro precisa armonia. I tempi previsti si sono allungati in maniera esponenziale, vuoi per la mia pigrizia, vuoi per gli svariati impegni di Alessandro, vuoi perché inserivo nuovi artisti, insomma ci è voluta la telefonata di Davide Geddo che mi chiedeva a che punto ero per la partecipazione al festival "Su la Testa" di Albenga a farmi decidere di concludere la registrazione e pubblicare il disco. Nelle ultime settimane ho anche stressato la mia amica Angela Caprino perché si inventasse di sana pianta la grafica e direi che, nonostante il poco tempo, sia riuscita a fare un ottimo lavoro. Ti basti pensare che quando ho iniziato a registrare Alina, la compagna del "Mazzi", aveva il pancione a ora vedo una foto della piccola Ginevra che ha in mano il mio cd. La mia grande soddisfazione è quella di essere riuscito alla fine a coinvolgere alcuni tra gli artisti più significativi del ponente ligure, e ne sono orgoglioso».

Loano '15: Mauro Pinzone (copyright Martin Cervelli)
 Nel disco ti sei circondato di amici musicisti, da Giovanni Amelotti a Claudio Bellato, da Federico Fugassa a Maurizio De Palo. Come sono nati questi incontri e cosa hanno apportato al tuo disco?

«Sono musicisti con cui ho suonato e con cui avrei voluto suonare da una vita. Maurizio De Palo ed Emanuele Gianeri fecero parte dei Pensieri Compressi, entrambi hanno contribuito alla registrazione del cd del 1998, sono musicisti formidabili. Ben Hamouda e Giovanni Amelotti, invece, hanno suonato con me negli Afka'r, il primo dando un'anima afro al gruppo, il secondo dando un'anima jazz. Sia Giovanni che Emanuele, oltre ad essere dei raffinati musicisti, hanno il dono di saper rendere ogni brano su cui mettono le loro preziose mani, un caleidoscopio pirotecnico di suoni. Federico Fugassa è oggi uno dei migliori bassisti in circolazione da queste parti, con un gusto unico, che mi ha impressionato sin dal primo momento che l'ho sentito suonare e che ho voluto fortemente partecipasse a questo progetto. Claudio Bellato lo conosco da più di vent'anni, è un ottimo chitarrista, forse uno dei migliori in Liguria, un grande amico e una persona splendida che meriterebbe molta più visibilità di quella che ha e con il quale da sempre avrei avuto il piacere di suonare. Fabio Biale… che dire che non sia stato ancora detto? Sentirlo e vederlo suonare è una delizia per le orecchie e lo spirito. Quest'estate mi ha ricordato come nel 1999 fossi già rimasto impressionato da come giostrasse sulle quattro corde del suo strumento, e di come mi feci dare il suo numero di telefono con la promessa di chiamarlo per coinvolgerlo in qualche progetto… e di come invece non lo chiamai. In questi anni gli ho fatto una corte pressante e alla fine mi ha fatto la sorpresa di partecipare alla registrazione. Davide Baglietto lo conosco da diversi lustri, una persona di cui nutro un infinita stima, soprattutto per la sua poliedricità come musicista, per la capacità di sapersi infilare con una cornamusa o un flauto in maniera egregia ovunque, mi piaceva l'idea che si "infilasse" anche in un brano del cd. Senza parlare poi di Alessandro Mazzitelli, che conosco anch'egli da una vita, e che conosce perfettamente me, soprattutto, con il dono di saper infilare pennellate di colori musicali qua e là con gusto e raffinatezza. Cosa hanno apportato al mio disco? Spero quello che si sentivano dentro all'anima, dentro al cuore».

Devo dire che mi piace particolarmente la canzone intitolata "Sorriso che corre". Cosa mi puoi raccontare di questo brano?

«Differentemente da altre mie canzoni, questa è una storia, per questo credo piaccia molto. Durante i miei concerti prima di eseguirla racconto sempre come è nata: una sera piovosa, un autobus che mi passa davanti e dietro un ragazzo di colore che corre perché cerca di prenderlo alla fermata successiva e sorride, sorride in maniera splendente, da questa "visione" nasce la canzone "Sorriso che corre"».

Torniamo al recente festival "Su la Testa" di Albenga, durante il quale hai avuto l'occasione di far ascoltare in anteprima alcuni dei brani del tuo nuovo album. Che impressione ti ha fatto e quali sono state le difficoltà da superare?

«Gran bella situazione, gran bel gruppo di organizzatori, grande rispetto dei musicisti, elevato livello musicale. In questa occasione mi sembra di essere stato sintetico, no? A parte gli scherzi, è stato sicuramente un grande onore per me suonare sul palco del Teatro Ambra e credo che sia il pubblico che gli organizzatori abbiano gradito. Difficoltà? La chitarra non teneva l'accordatura».

Nel corso della tua vita quale è stato il cantante che ti ha maggiormente influenzato?

«Mah… bella domanda, ho passato diverse fasi, ma sicuramente i primi amori non si dimenticano mai. Sul versante italiano Eugenio Finardi, poi Claudio Rocchi e Claudio Lolli; sul versante straniero, David Crosby, Neil Young e Bruce Cockburn, quest'ultimo particolarmente, per la raffinatezza sia dei testi che della musica».

Come vedi la scena musicale savonese?

«Troppe vecchie cariatidi che si trascinano, facendo comunque ancora la loro porca figura, e pochi spazi per giovani con idee nuove. Credo che la scena musicale savonese rispecchi quella nazionale, dove si riesumano con reunion improbabili, personaggi che incominciano ad annusare la curva del declino e di contro salette con ragazzi che ancora sudano, si sbattono, si sforzano di creare, ma che poi si ritrovano a suonare per i parenti stretti e gli amici a qualche festa di compleanno o che, ancora peggio, coverizzano a qualche apericena, avendo ben poche possibilità di mettersi alla prova davanti a un pubblico vero, sempre che un pubblico "vero" esista ancora…».

Cosa chiedi al futuro?

«Di poter continuare a scrivere canzoni».


Titolo: Foto sintesi
Artista: Mauro Pinzone
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Mauro Pinzone, eccetto dove diversamente indicato)

01. Donne soprappensiero
02. Stella
03. Prestito
04. Smeraldo
05. La verità
06. Sensi amplificati
07. Riflessi
08. Segreti
09. Sorriso che corre
10. L'originale, parte I  [Roberto Bani; Roberto Bani e Mauro Pinzone]
11. Non sei originale
12. L'originale, parte II  [Roberto Bani; Roberto Bani e Mauro Pinzone]



lunedì 31 ottobre 2016

"Vizi, peccati e debolezze" del siciliano Luca Burgio





Le notti nei locali di Madrid e la tradizione folk siciliana. Un filo rosso che il cantautore Luca Burgio ha saputo annodare e tradurre in musica nel suo disco d'esordio "Vizi, peccati e debolezze", prodotto con il decisivo contributo della Maison Pigalle. Il cantautore agrigentino ha trascorso alcuni anni nella capitale iberica, lavorando e vivendo la movida. A Madrid l'artista siciliano ha gettato il seme della sua musica e una volta tornato in Sicilia la pianta è cresciuta vigorosa fino a dare ottimi frutti. L'esperienza di vita in Spagna si è tradotta in musica e le atmosfere gipsy jazz con chitarre manouche, fisarmoniche e fiati mariachi si sono fuse e intrecciate con il folk siciliano. Nove canzoni, dal ritmo incalzante, ambientate in locali aperti fino a tarda notte, dove i vapori dell'alcol e il fumo delle sigarette si mescolano a racconti di sognatori romantici, poeti che trovano conforto nella bottiglia, amanti in preda ai propri istinti. Atmosfere fumose e swingate si legano a testi espliciti, ironici e dissacranti che raccontano esperienze vissute in prima persona. Un disco suonato e arrangiato molto bene che mette in evidenza come Burgio e la Maison Pigalle abbiano metabolizzato alla perfezione le lezioni di Paolo Conte, De Andrè, Gaber, Fred Buscaglione, del Vinicio Capossela che racconta le notti milanesi. Niente di nuovo sotto il solo verrebbe da dire dopo un ascolto superficiale ma l'utilizzo di strumenti come il mandolino e la fisarmonica, in un contesto sonoro già ricco, regalano colori e sfumature tutte da scoprire e gustare.
La Maison Pigalle è composta da Andrea Scimè (contrabbasso), Armando Fiore (percussioni), Marco Macaluso (fisarmonica), Mauro Schembri (mandolino). Hanno partecipato Ettore Baiamonte (chitarra), Samuele Davì (tromba), Roberto Anelli (pianoforte).
Con Luca Burgio abbiamo parlato del suo disco che è stato inserito tra i 50 candidati al Premio Tenco 2016 nella categoria “Opera prima”.



Luca, vizi, peccati e debolezze sono ancora ammessi nella società di oggi?

«Certo! Chi dovrebbe vietarceli? Il nostro lato oscuro fa parte di noi da quando siamo nati. Fa parte del nostro essere. Non esiste nel genere umano una persona che non abbia mai familiarizzato con le proprie paure, le proprie voglie, il senso di colpa, tutto quello che ci rende così meravigliosamente umani! E oggi più che mai ci sentiamo ancora più liberi di vivere la nostra natura peccaminosa perché, ad esempio, la maggior parte di noi non ha più una fede religiosa tanto influente nella propria vita come lo era in passato, ma abbiamo accettato noi stessi per come siamo, non abbiamo più quella retorica moralista che per tanto tempo ci ha limitati nel fare e nel dire costringendo a castrare oppure nascondere le nostre più profonde pulsioni, non esiste più quell'immagine maschilista dell'uomo forte tutto d'un pezzo, io piango se sto male e bevo se ho un problema, urlo se mi incazzo, e divento un cretino se mi innamoro perché la mia debolezza mi fa sentire umano e io amo la mia natura volubile e vulnerabile». 

Raccontandoli ci hai fatto un disco, il primo della tua carriera. Quanto hai lavorato a questo progetto?

«Tralasciamo il tempo impiegato a scrivere le canzoni perché le scrivevo senza alcun progetto e soprattutto senza l'idea di incidere un disco un giorno. Sono tornato dalla Spagna nell'ottobre del 2013 con un progetto che avrebbe impegnato i miei prossimi tre anni, il tempo di mettere su quello che sarebbe stato l'embrione della Maison Pigalle, ed insieme a Mauro Schembri e Marco Macaluso iniziammo la prima fase, l'arrangiamento delle canzoni e la registrazione di una demo di due brani che coinvolse anche il resto della band. Nel secondo anno ci avviammo alla seconda fase, la quale ci vide alle prese con i primi concerti e la registrazione del disco, attraverso il quale ci potemmo proporre alle diverse etichette discografiche. L'inizio della collaborazione con la New Model Label segna la fine della terza fase esattamente nel terzo anno di attività. Il progetto che mi sono portato dalla Spagna si è compiuto quest'anno e ora quello che resta da fare è portare la mia musica il più lontano possibile, mettergli le ali e passare lo stretto, tanto per cominciare».

Le canzoni del tuo disco hanno una ambientazione notturna. È questo il momento migliore per vivere?

«Diciamo che è il momento migliore per scrivere, ognuno la vive come la sente ma la sera tutto prende un'altra forma, se la vivi fuori fra i locali, la musica, la gente che esce a fare festa, allora la notte ti seduce, ti coinvolge, distorce la giornata, le facciate dei palazzi e delle chiese tirano fuori le loro ombre e ogni vicolo o stradina diventa misteriosa, i basolati lucidi riflettono le luci gialle dei lampioni e i pub sembrano aspettare solo te, tu bevi qualcosa, stai con gli amici, magari conosci una niña che con un po' di fortuna ti porti a casa, allora metti in riproduzione casuale la discografia di Chet Baker, tiri fuori la tua bottiglia da 75 cl che conservi per queste occasioni, la bevete, a lei si socchiudono gli occhi, le si ammorbidisce la voce, e finite col passare la notte arrotolati alle lenzuola… poi l'indomani si alza e se ne va come se la lingua che aveva in bocca fino a qualche ora fa non era la tua… veloce, col trucco sbavato, e senza guardarti negli occhi si ripassa il rossetto e scappa a lavoro. E questo è più o meno l'effetto che mi fa il giorno! Poi la sera dopo magari resti a casa e scrivi quanto è successo e se sai prenderti alla leggera ti fai pure due risate».

Dove prendi ispirazione per scrivere canzoni?

«Vedi, il concetto di ispirazione a mio avviso è stato sempre frainteso, per come la vedo io, sono continuamente ispirato, l'ispirazione è quel valore aggiunto o condanna congenita in tutti i romantici. È appunto l'ispirazione che accende la tua immaginazione, che ti rende sensibile, ti dà la possibilità di vedere le cose oltre la forma e di apprezzarne l'essenza, è quella capacità che hai di organizzare le forme e i colori e scattare una bella foto, o mischiare insieme degli ingredienti e tirare fuori un piatto sorprendente, o, come nel mio caso, prendere tutta la gente che vedi e quello che succede a te e a loro e organizzarlo in versi in maniera elegante o brutale. L'ispirazione non va e viene ma è sempre dentro di noi, per me raggiunge picchi massimi nelle situazioni della vita e nelle interazioni della gente».

I brani che tu canti in questo album sono storie vissute?

«Per fortuna o purtroppo sì, in questo disco mi sono sputtanato, senza ritegno! Mi sono chiesto il perché qualcuno debba ascoltare le mie canzoni, e ho pensato che se avessi raccontato le situazioni quotidiane che vive chiunque o le avventure che più o meno il target a cui mi rivolgo ha vissuto, con i particolari ironici, tristi, stravaganti e calcando sempre la mano sul nostro "lato oscuro" su quei pensieri che tutti ci facciamo ma che mai portiamo alla luce, sulle nostre perversioni e insicurezze sarei potuto arrivare a quella semplicità che accomuna tutti. Insomma siamo tutti sporchi e quando ascolto qualcuno che mi propone delle storie mi piace pensare "cazzo quant'è vero!" e così, dal cuore pulsante della mia vergogna è venuto fuori "Vizi, peccati e debolezze"».

Quando sei entrato in studio avevi già le idee chiare riguardo al suono che il disco avrebbe dovuto avere?

«Più o meno sì, questa connotazione un po' noire, i suoni pesanti e cupi, l'esaltazione dei bassi, è il suono che meglio sposa il senso dei testi, è proprio il sound che cercavo e per questo mi sono affidato totalmente a Davide Terranova per il missaggio e alla Maison Pigalle e alla loro creatività per gli arrangiamenti. Ovviamente anch'io avevo le mie idee, ad esempio tutte le parti della tromba non le avevo mai sentite dal vivo ma le avevo in testa così per come sono nel disco, a parte l'assolo di "Buscavidas", lì Samuele Davì si è lasciato andare all'improvvisazione assoluta dando il dovuto carattere al brano, e la chitarra di Ettore Baiamonte che ha sostituito tutto quello che fino a quel momento erano soltanto semplici accordi, con accompagnamenti ben pensati e piazzati sapientemente all'interno del disco».

È un disco dalle sonorità molto ricche, come si sono svolte tecnicamente le sessions di registrazione?

«Ho cominciato io con una traccia guida di voce e chitarra sulla quale poi abbiamo dato il via  alle registrazioni della chitarra, a cui sono seguite contrabbasso e percussioni, subito dopo abbiamo inserito nell'ordine fisarmonica e mandolino e infine tromba, pianoforte e voce. La parte più impegnativa è stata quella del missaggio in cui abbiamo passato ore e ore in silenzio sullo stesso pezzo. Davide è stato davvero formidabile e devo dire che dopo la fase finale del master quello che ne è venuto fuori nel complesso è stato parecchio soddisfacente».

Mandolino e fisarmonica sono due strumenti non facili da trovare nei dischi dei cantautori. Perché li hai voluti nel tuo album?

«Quando ho cominciato questa avventura c'era una sola persona che ero sicuro di poter chiamare per iniziare un progetto così importante da farmi mollare tutto per ritornare in Italia, e quella era Mauro Schembri. Mauro nasce come chitarrista e poi polistrumentista, sapevo che qualcosa di interessante sarebbe potuto uscire anche da qualche altro strumento. Al mio arrivo mi sono reso conto che suonava il mandolino in maniera così tosta che solo anni di heavy metal avrebbero potuto formare, una specie di mitragliatrice di note che si univa perfettamente all'intenzione dei miei testi, così arrangiammo tutto con il mandolino che è comunque il suo strumento principale. Ma serviva qualcosa che ammorbidisse il tutto, che ci unisse e completasse il trio che avevo intenzione di mettere su per cominciare, che desse quel sound folk e bohemien che cercavo, e così trovammo le nostre risposte in Marco Macaluso e la sua fisarmonica. Con la completezza del suo strumento il trio era pronto a partire, destinato in seguito ad unirsi agli altri».

Quali sono i tuoi vizi e le tue debolezze?

«Vuoi che ti faccia un elenco? Ovviamente sto scherzando, sono un tipo abbastanza calmo, il mio è solo un personaggio creato per accompagnare il nome del disco mica viceversa! In realtà riesco a controllare al meglio le mie emozioni e spesso fra i miei amici passo per quello freddo e calcolatore, ma non è colpa mia, è che seguo la ragione sopra ogni cosa, ritengo sia l'unica cosa concreta e in quanto tale l'unica che abbia un senso. Sono il classico ragazzo da una donna sola, e sono anche abbastanza fedele, non ho mai tradito in vita mia e soprattutto non mi piace e non mi è mai piaciuto bere. Non mi masturbo e non ho alcuna perversione in testa che superi aggiungere il miele nel latte già zuccherato, anzi, proprio tutto quello che la gente chiama feticismo è la cosa che più aborro nella meravigliosa unione fra due persone che si amano e che vede la sua completezza nella sua stessa semplicità. Potrei anche quasi essere fiero di me se non fosse che molto spesso sono uno sfacciato bugiardo».

In questo disco quanto c'è della tua esperienza di vita a Madrid?

«Tanto per cominciare Madrid è il posto dove ho cominciato ad arrangiarmi e anche se il brano ha visto la luce al mio ritorno in Italia, diciamo che "Buscavidas" è stato concepito a Madrid. L'album porta i rumori della città, i bar con le tapas schierate e le cameriere tatuate. Ogni volta che cambiavo casa facevo un giro nel circondario cercando il bar con la cameriera più bella da guardare, se posso prendere una birra perché non farlo davanti a un bel panorama! Ma non solo questo anche il punto di vista del bancone era ricco di esperienze, i vecchi che venivano a bere birra alle dieci del mattino mentre altri prendevano il loro caffè latte e la notte tutti quelli che passavano, ognuno a fare festa e mentre io e i miei colleghi sfornavamo pizze per gente che non la masticava neanche, oppure quelli con camicia cravatta e valigetta, li guardavo consumare mentre parlavano al telefono e li invidiavo, non sapevo che lavoro facessero ma volevo farlo anche io. Un anno dopo vendevo pannelli fotovoltaici, contratti luce e altra roba ecosostenibile con tanto di camicia valigetta e tante cazzate da dire al telefono. Madrid più che testi veri e propri mi ha regalato stati d'animo così al lavoro come a casa, pensa che proprio li ho vissuto l'ebbrezza della convivenza di coppia con tutte le cose belle e brutte che ci girano attorno, quindi quanto d'amore e d'odio riesci e decifrare fra i testi più o meno sono anche il frutto di questa, parecchie storie comprese».

Il tuo disco d'esordio è stato inserito nel lotto dei cinquanta finalisti del Premio Tenco nella categoria "Opera prima". Cosa ti ha fatto capire questo riconoscimento?

«Sai quando sono tornato dalla Spagna, come ti dicevo avevo lasciato tutto, il lavoro, una ragazza che amavo, la casa che avevamo scelto insieme, incluso una città che adoravo, non avevo più niente alle spalle e non avevo ancora niente davanti a me, quello che avevo erano gli sguardi incerti della mia famiglia che mi stava vedendo fare solo un'enorme cazzata. Puoi immaginarti come mi sentivo, nel bel mezzo del nulla. Ovvio che i dubbi assalivano anche me, in tutto questo la relazione che si andava esaurendo non aiutava, e i risparmi che avevo guadagnato a Madrid andavano finendo. Insomma i primi sei mesi qui a Palermo sono stati terribili, ma non sarei mai potuto tornare indietro e non lo volevo nemmeno. Quando le cose hanno cominciato a prendere forma e si sono visti i primi risultati mi sono guardato alle spalle e ho visto che il progetto che avevo stabilito stava proseguendo tappa dopo tappa, ho continuato a spingere fino ad adesso, ogni volta che prendo una mazzata capita sempre qualcos'altro che mi aiuta a rialzarmi e quella si chiama vita, perché "non c'è vento favorevole per chi non sa dove andare", si vede che questa è la rotta giusta. Come mi sento adesso? Orgoglioso come sempre, sono fiero del lavoro che abbiamo fatto almeno fino ad ora con Andrea, Mauro, Marco, Armando ed Ettore ed ora ci aspetta il "Tenco ascolta", altra splendida opportunità firmata club Tenco. Per il resto, ad maiora semper!».

Come capisci che una canzone è buona abbastanza per essere incisa?

«Non lo capisco, ne discuto con la band e se effettivamente è coerente con il concetto dell'album e gli arrangiamenti li riconosciamo soddisfacenti allora si può pensare di inserirla nell'album, ma l'ultima parola resta sempre quella del pubblico. Di solito mi fisso sulla reazione che ha la gente alle nostre canzoni e quello è un ottimo metro di giudizio».

Ti ricordi come hai iniziato a suonare?

«Certo! Ho cominciato facendo punk in un gruppo di provincia, all'epoca cantavo solamente o meglio gridavo come un dannato, ma almeno gridavo canzoni mie, poi mio fratello mi mise in mano una chitarra acustica e praticamente non l'ho più mollata, non ho mai familiarizzato con l'elettrica. Dopo presi a fare country riarrangiando in chiave acustica gli stessi pezzi punk. Cominciai a divertirmi con i versi nell'ultimo progetto "I Bardi" dove i brani venivano da un libro di poesie che avevo scritto e che musicammo con una band di ben nove elementi in chiave prog rock. Poi sono partito ed è cominciato il progetto da solista».

Ti consideri un cantautore?

«Beh! Mi sono sempre considerato prima di tutto un estimatore della vita e i suoi piaceri, quello che vedo e sento lo metto in versi perché sento mia questa forma di espressione. Canto e scrivo le mie canzoni, ho scelto di fare questa vita con le delusioni e le soddisfazioni, con le difficoltà che comporta avere questo come obiettivo. Oggi come oggi è dura essere presi sul serio, specie se sei all'inizio. Ma che ti aspetti? È giusto che sia così! Se vuoi essere preso sul serio devi lavorare seriamente, non fermarti mai, anche quando il mondo ti crolla addosso, sono in tanti quelli che aspettano soltanto di vederti abbassare la guardia, ma tu devi avere solo una cosa in mente e deve essere vedere dove ti porta quello che hai cominciato, come va a finire la tua storia, ma con la dignità di voler vedere sempre la faccia che vuoi allo specchio, e difendere con amore quello che ti senti di essere! Ebbene io sono Luca Burgio e sì, sono un cantautore».

Un po' di De André, un pizzico di Gaber, qualche riflesso di Capossela e Paolo Conte, e poi?

«Guarda hai centrato in pieno e me li hai nominati proprio tutti! Aggiungerei soltanto Mannarino e l'immancabile Tom Waits, ho preso a piene mani da tutti loro! Ma più in particolare questo disco parte da sonorità manouche, che ho sempre amato, e si arricchisce principalmente delle influenze classiche e folk della Maison Pigalle che ha saputo trovare il giusto equilibrio tra quanto distingue questi artisti e la loro unicità di gusto che ha reso "Vizi, peccati e debolezze" un album al momento abbastanza apprezzato».


Titolo: Vizi, peccati e debolezze
Artisti: Luca Burgio e Maison Pigalle
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Luca Burgio)

01. 75 cl di brindisi
02. Satan's speech
03. La rondine e l'inverno
04. Il sordo
05. La sindrome di Dorian Gray
06. La cicala e la formica
07. Un bicchiere fra di noi
08. Un fegato in più
09. Buscavidas



mercoledì 26 ottobre 2016

"The Docks Dora Session" dei Fratelli Tabasco




Cinque ragazzi con una sfrenata passione per il blues, un locale dove il pubblico è in perfetta sintonia con la band e dove l’adrenalina scorre come le birre lungo il bancone, una manciata di canzoni originali che strizzano l’occhio ai vecchi classici. Ecco gli ingredienti che hanno dato vita a “The Docks Dora Session”, disco d’esordio dei Fratelli Tabasco, gruppo nato a Torino nel 2013. Dopo aver passato un intero anno in studio a produrre e perfezionare il repertorio, composto quasi esclusivamente da brani originali, i Fratelli Tabasco, gruppo di amici e non parenti come invece potrebbe far pensare il nome, hanno esordito live alla seconda edizione del Borgiallo Blues Festival. Gli impegni dal vivo sono proseguiti in modo incessante con partecipazioni a festival e rassegne in tutto il nord Italia e svariate apparizioni radiofoniche. Nel 2015 la svolta con il successo della settima edizione del concorso “Rock the Docks”, organizzato dalla Rainbow Music di Torino, che ha permesso al gruppo di registrare l'album “The Docks Dora Session”. La scelta di produrre un disco dal vivo calza a pennello con le caratteristiche del repertorio proposto dalla band: piccante e “peperonato”, come amano chiamarlo i Fratelli Tabasco. Chitarre, armonica, batteria e organo a creare una miscela che pesca nel repertorio dei grandi bluesmen del passato ed è arricchito da influenze rock, funky e soul. Le nove canzoni in scaletta non possono lasciare indifferente gli amanti del genere che si trovano di fronte ad un sound vigoroso, infuocato e travolgente. Chi è alla ricerca dell’originalità e della novità può passare oltre ma chi è amante del blues, dei Black Keys, del Ben Harper più sanguigno, dei Jon Spencer Blues Explosion e di R.L. Burnside può gustarsi questo piatto piccante e molto saporito. I Fratelli Tabasco sono Boris (voce e armonica), Joele (chitarra), Marco (basso), Simone (batteria), Lorenzo (tastiere) e quella che segue è l’intervista di presentazione del disco d’esordio.


Come mai avete scelto di esordire con un album live? Di solito il disco dal vivo arriva dopo almeno un paio di album in studio…

Joele Tabasco: «Abbiamo cercato di ricreare il più fedelmente possibile quello che ci riesce meglio: l'esibizione dal vivo. Le registrazioni sono state molto brevi, ma in realtà quest'album è il frutto di quasi due anni di prove assidue per migliorare sempre gli arrangiamenti e i testi. Il nostro scopo con "The Docks Dora Session" è di far trasparire fedelmente come può essere un nostro concerto».

Dove avete registrato il disco e quale è stata l'occasione per farlo?

Marco Tabasco: «Abbiamo avuto l'occasione di registrare il nostro primo album dopo aver vinto l'anno scorso il concorso "Rock the Docks" che metteva in palio la possibilità di registrare presso la Rainbow Music ai Docks Dora, mitici magazzini industriali dismessi e ormai punto dove si concentrano molte sale prova e studi di registrazione. Ad ogni modo ci siamo ritrovati di punto in bianco con l'opportunità di incidere un disco e non ci siamo fatti cogliere impreparati: avevamo già sufficienti canzoni nostre e l'idea di creare il nostro primo album proprio in quel posto di Torino ci ha entusiasmato. Ai Docks Dora sono legatissimo... e proprio lì ho fatto le mie prime prove in sala, e proprio lì ho conosciuto musicisti che ora sono miei cari amici ed è proprio lì che ho conosciuto Simone, che poco dopo mi ha introdotto a Boris e Joele e sono nati i Fratelli Tabasco. Insomma i Docks Dora sono un po' la mia seconda casa».

Devo dire che il disco suona veramente molto bene. Quanto tempo è stato necessario per preparare l'esibizione e la contemporanea registrazione in presa diretta?

Joele Tabasco: «In realtà la maggior parte del lavoro è stata fatta in un week-end. Volevamo fare qualcosa che ci sarebbe venuto semplice e abbiamo subito pensato a ricreare le atmosfere degli anni '50. Abbiamo cercato di registrare utilizzando il più possibile la nostra strumentazione per il semplice fatto che sapevamo come suonava e come utilizzarla al meglio. Per il pubblico abbiamo chiamato qualche nostro amico (anche perché nella sala non ci stavano tutti) per rendere l'atmosfera più rilassata possibile e... voilà! Abbiamo passato il sabato a registrare tutte le canzoni in presa diretta come se fosse un piccolo live e domenica i piccoli ritocchi. Il mixaggio è stato fatto nelle sere successive per aggiustare il tutto senza stravolgere il nostro sound».

Ci sono state sovraincisioni o elaborazioni in studio?

Boris Tabasco: «Sì, sono state fatte alcune sovraincisioni ma solo dell'armonica per una questione prettamente pratica: durante la presa diretta ci veniva difficile registrare al meglio sia la voce che l'armonica, poiché i take di prova fatti non risaltavano a dovere né la voce né l'armonica. Quindi è venuto istintivo concentrarsi prima su una parte e poi sull'altra».

Quali sono le difficoltà maggiori che avete incontrato a registrare un disco alla "buona la prima"?

Marco Tabasco: «L'organizzazione è stata fondamentale: ci siamo prefissati una data di uscita dell'album cercando di rispettarla il più possibile... e la parte delle registrazioni è solo una fetta di tutta la fase organizzativa: abbiamo pensato alle foto, alla grafica dell'album, alla diffusione nei canali digitali come Spotify, Google Play, Amazon, iTunes e molti altri, alla stampa del cd, ai video, al concerto di presentazione e ovviamente alle date successive. Insomma una volta usciti dallo studio di registrazione con il master definitivo è cominciato il vero lavoro».

Per il momento non abbiamo la controprova ma la situazione live calza a pennello con la vostra musica. Ora inevitabilmente dovrete chiudervi tra le quattro mura di uno studio, ci avete già pensato e cosa dobbiamo aspettarci?

Simone Tabasco: «Il lavoro in sala è costante e continuamente ci troviamo a modificare le canzoni o addirittura accantonarle per un po' per poi riprenderle in mano dopo qualche tempo e stravolgerla in un'altra chiave ritmica. Possiamo certamente dire che le idee per nuovi pezzi non mancano e le influenze di altri generi non ci spaventano. Per quanto riguarda il nostro prossimo disco non sappiamo ancora nulla di certo ma abbiamo già qualche linea guida che stiamo seguendo per costruire quello che sarà il nostro primo album in studio».

Qual è la vostra storia musicale?

Simone Tabasco: «Suoniamo tutti insieme in questo progetto soltanto da due anni e mezzo, ma la sensazione è quella di averlo sempre fatto insieme. Joele e Boris strimpellavano insieme già dai tempi del liceo sotto le guide di Luigi Tempera e Andrea "Rooster" Scagliarini, che li hanno cresciuti a forza di jam sessions. Io dopo alcuni anni tra studi jazz e concerti ska e punk mi sono lasciato rapire dal blues e, successivamente a un lungo periodo di gavetta, ho incontrato Marco proprio tra gli studi musicali dei Docks Dora. Da qui è iniziato un incredibile percorso artistico pieno di soddisfazioni».

Perché amate descrivere la vostra musica con l'aggettivo "peperonata"?

Marco Tabasco: «Dobbiamo questo aggettivo a un nostro grandissimo amico: Jos Griffioen! Jos, grande musicista e appassionato di blues, ci ha incontrati quasi per caso circa un anno fa e fin da subito si è innamorato del nostro sound, presentandolo quasi sempre prima dei nostri live come "peperonato" con il suo inconfondibile accento olandese. Non abbiamo potuto che riconoscere la sua efficacia, rende assolutamente l'immagine delle nostre atmosfere».

I nove brani che presentate nel disco sono tutti originali. Come sono nati e chi di voi ha avuto maggiore peso nella fase creativa?

Boris Tabasco: «Diciamo che nella fase di nascita dei brani ho un po' più di peso io, ma che in definitiva per la parte musicale e compositiva ognuno gioca un ruolo fondamentale. Quando uno di noi ha un'idea per una nuova canzone non pensa mai soltanto a se stesso, ma è consapevole del fatto che la suoneranno con lui i suoi fratelli, quindi scriviamo testi che rappresentino esperienze vicine a tutti e di cui discutiamo. Questo perché mentre arrangiamo e poi suoniamo ognuno di noi deve potersi riconoscere ed esprimersi con onestà».

Di cosa parlano le vostre canzoni?

Joele Tabasco: «Le nostre canzoni sono i nostri blues. Tutti noi abbiamo necessità di raccontare il nostro tempo e di dare la nostra visione a chi ci ascolta, anche affrontando temi importanti. Trattandosi di blues è difficile dire di cosa non parliamo, perché di fatto il blues parla della vita nel suo complesso, con tutti i problemi, i bei momenti e le strane situazioni che capitano. Per adesso parliamo poco d'amore, preferiamo descrivere storie di personaggi improbabili e usarli per affrontare temi più o meno seri».

Quale canzone rappresenta al meglio l'essenza del gruppo?

Boris Tabasco: «Penso subito a "Blues On!". Non è il nostro cavallo di battaglia, ma a livello lirico potrebbe essere davvero stata scritta da chiunque di noi. È un po' il nostro biglietto da visita musicale perché parla dei nostri luoghi, della voglia di far viaggiare la nostra musica per il mondo e di condividerla con tutto l'entusiasmo possibile».

A questo punto ditemi, quali sono i musicisti che vi hanno maggiormente influenzato?

Joele Tabasco: «Per quanto riguarda la musica blues siamo partiti ascoltando i più famosi come Muddy Waters e Stevie Ray Vaughan e poi sempre di più andando a scovare quelli un po' più di nicchia. Abbiamo avuto anche maestri di blues al nostro fianco che ci hanno guidato ed insegnato il genere tra jam session, lezioni e concerti: come Luigi Tempera e Andrea Scagliarini. Ma ad oggi il nostro suono, quello che si può sentire nel nostro disco, è frutto di influenze di artisti come Black Keys, Ben Harper e R.L. Burnside».

Nella Torino postindustriale quanto blues si respira oggi?

Boris Tabasco: «La scena blues a Torino è molto vivace e piena di artisti affermati e anche qualche emergente. È ormai facile trovare molte serate dedicate a jam session, che è un po' la vera palestra per suonare blues: dove i più esperti condividono il palco con i giovani o i curiosi che si avvicinano al genere. Inoltre i locali continuano a promuovere gli artisti locali alternati a qualche ospite nazionale e non. La scena non si ferma solo a Torino ma si estende anche in provincia, dove in estate prendono piede festival dove è possibile incontrare artisti e scambiare quattro chiacchiere».


Titolo: The Docks Dora Session
Gruppo: Fratelli Tabasco
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Fratelli Tabasco)

01. Radioactive mama
02. Ask yourself
03. Up all night
04. Harmonic drive
05. Same damned shame
06. Jack knife
07. Blues on!
08. D.Q.T.H.L.
09. Boris' boogie




sabato 24 settembre 2016

Catalpa e "Il suono lontano" di un'altra Firenze





Sono passati un po' di mesi da quando ho approntato questa intervista. Complice la pausa estiva e i tanti concerti che per fortuna nel periodo più caldo dell'anno si susseguono a ritmo incessante, riprendo il discorso solo in questi giorni. Giusto in tempo per riascoltare con piacere "Il suono lontano", il primo album dei Catalpa, duo fiorentino composto dall'ex componente dei Barbed Wire Temple, Axel Pablo Lombardi (voce e chitarra), e da Giuseppe Feminò, batterista e percussionista tornato a suonare dopo aver chiuso l'esperienza con l'Orchestra de Felicitade. Il disco continue tredici brani ambientati per lo più a Firenze, ma non in quella che attira tutti gli anni milioni di turisti bensì in quella popolare, dei quartieri, della vita fatta di sacrifici e lavoro. Storie di vissuto quotidiano che hanno come sottofondo Piazza dell'Isolotto, il Ponte di Mezzo, Sorgane, San Niccolò ma che potrebbero essere ambientate benissimo in altre periferie, non solo italiane. Tredici fotografie in bianco e nero della vita di tutti i giorni.
Un disco d'esordio interessante, forse non in grado di entrare subito nella testa dell'ascoltatore ma in cui la passione e la voglia di esprimersi traspare in modo evidente. Registrate in presa diretta chitarra e batteria, sono state aggiunte successivamente voce, basso (Francesco Notarbartolo) e fiati (Simone Morgantini). Sul piano meramente musicale l'impostazione cantautorale si sposa con marcati accenni rock e blues. Ballate intime lasciano il posto a brani più tirati dove le chitarre sono protagoniste indiscusse come nella title track e in "Sorgane", canzone che chiude il cd.
A presentarci il loro disco d'esordio sono Axel Pablo Lombardi e Giuseppe Feminò.




Iniziamo questa chiacchierata parlando del progetto Catalpa. Come è nato e soprattutto perché ha visto la luce?

Giuseppe Feminò: «Il progetto Catalpa (inizialmente Vagalume) nasce dall'incontro musicale di Axel, Giuseppe e Claudio a una festa di laurea di un amico in comune. Decidiamo di ritrovarci in sala e cominciamo a suonare dei brani di Axel, ostici al primo ascolto ma illuminanti col tempo. Claudio è costretto a lasciarci per dedicarsi al suo progetto preesistente e principale (Dangerego) e rimaniamo in due. Scherzosamente ci chiamiamo Eurithmics. Cerchiamo nel tempo elementi da inserire per ampliare le sonorità ma si rivelano tutti tentativi abbastanza deludenti. Le costanti prove ci portano a completare un numero di brani sufficiente per realizzare un disco, che è quello che vogliamo fare. Il vedere la luce ha un significato che non riesco ad accostare al nostro progetto, diciamo che costanza e applicazione portano a risultati più o meno importanti».

Quando penso alla parola catalpa mi vengono in mente due cose: l'album di debutto di Jolie Holland e l'albero tipico dell'America settentrionale. Voi che catalpa siete?

Axel Pablo Lombardi: «Siamo la catalpa che cresce nei giardini e nei parchi dalle nostre parti».

Nella vostra musica, seppur in qualche frangente venga fuori la vena punk blues di Axel, è predominante la matrice cantautorale di scuola italiana. Quanto siete legati a quel genere?

Axel Pablo Lombardi: «Sono cresciuto ascoltando altri generi musicali ma la musica italiana fa parte della mia cultura, mi circonda da sempre: le ninne nanne e le filastrocche dell'infanzia, le canzoni urlate con gli amici sul motorino, la radio, la televisione... videomusic! Quindi per fare qualche nome: Battisti, Dalla, Pino Daniele, Rino Gaetano e Piero Ciampi. Mi sono piaciuti molto i primi dischi di Moltheni anche perché non conosco i successivi, e poi gli Skiantos, i Flor e Pippo Pollina».

Giuseppe, dopo aver concluso l'esperienza con l'Orchestra de Felicitade, ti sei allontanato dalla musica per un po' di tempo. Cosa ti ha spinto a riprendere in mano le bacchette?

Giuseppe Feminò: «Premesso che con l'orchestra suonavo le percussioni e cantavo, ho ripreso le bacchette in mano perché i brani di Axel mi sono piaciuti, vivono una dimensione a mia misura. Suonare fa bene all'umore: la possibilità di essere creativo, le ore piccole, i vizi a ciascuno i suoi, fanno vivere meglio».

La scena musicale fiorentina, e più in generale toscana, è molto viva, ci sono tanti artisti di ottimo livello che stanno producendo musica di qualità. Da dove arriva tutto fervore artistico?

Giuseppe Feminò: «Abito in campagna e non conosco la scena musicale fiorentina o toscana, posso azzardare ad indovinare dicendo che a Firenze e in Toscana c'è dell'ottimo vino».

Le canzoni del vostro disco sono quasi tutte ambientate a Firenze e dipingono quadri di vita in quartieri che conoscete bene. Trovate che la quotidianità sia stimolante da cantare?

Axel Pablo Lombardi: «Bella domanda. Penso che la vita sia piena di cose belle, alcune molto piccole e semplici che si trovano proprio nella quotidianità, ed è un peccato lasciarsele scappare!».

Ma ci sono anche i ricordi delle estati in Versilia…

Axel Pablo Lombardi: «A Vittoria Apuana c'è la casa della nonna di mia moglie, dove, oltre ad andarci d'estate con la famiglia, mi capita di stare qualche giorno da solo d'inverno quando faccio dei lavori in Versilia. La sera quando ho finito di lavorare faccio notte a suonare e scrivere canzoni, faccio anche delle belle passeggiate sulla spiaggia, e in una di quelle ho ascoltato il messaggio di mio figlio in segreteria che mi ha fatto venire la voglia di scrivere quella canzone».

"Hotels & homeless" è ambienta invece a Genova con i suoi ‹palazzi molto alti appiccicati l'un l'altro, vicoli strettissimi marchiati a fuoco dall'umidità›…

Axel Pablo Lombardi: «Altro viaggio di lavoro. Dovevo imbiancare l'appartamento di un amico a Genova, siamo arrivati con la sua macchina, poi un imprevisto non mi ha permesso di poter lavorare e per tornare a casa ho dovuto prendere il treno, che tra l'altro era stato soppresso per la neve. Quindi per passare il tempo ho fatto una lunga passeggiata intorno alla stazione, faceva molto freddo però è stata molto piacevole».

San Niccolò, il quartiere dell'Isolotto, il lungarno… Ci volete stimolare a visitare Firenze?

Axel Pablo Lombardi: «Diciamo che racconto questi quartieri da visitatore, ci arrivo molto presto la mattina, faccio spesso una salutare passeggiata prima di andare a lavoro, mi dà la stessa sensazione di libertà di quando facevo "forca" a scuola e vagabondavo per Firenze».

Quartieri in cui non è raro assistere agli ‹umani sforzi di risorgere›…

Axel Pablo Lombardi: «Guardandosi intorno si può vedere tanta brava gente, ognuna di quelle persone compie ogni giorno enormi e umani sforzi per risorgere…».

In "Ponte di mezzo" regalate un bel quadro di integrazione razziale cantando ‹cinque bambini giocano alla fontana, bianchi neri e uno viene dal Perù evviva voi, insegnateci il futuro lentamente›. I bambini sono degli ottimi insegnanti...

Axel Pablo Lombardi: «I bambini ci riportano alla vera essenza della vita. Quei bambini che giocano insieme alla fontana provengono da varie parti del mondo e condividono la loro gioia sopra ogni pregiudizio, se potessero crescere in modo naturale, come meriterebbero, liberi da ogni sovrastruttura sociale o culturale, potrebbero veramente insegnarci un futuro migliore».

La vostra Firenze è la stessa di quella del Presidente del Consiglio?

Axel Pablo Lombardi: «Firenze è Firenze, ci contiene tutti, ognuno ha la sua dimensione e il suo piccolo grande universo, è la mia, quella di Giuseppe, del Presidente del Consiglio, di chi tira il pane ai piccioni in piazza e di chi scippa le borse, di chi non ha i soldi per mangiare e di chi va al Grand Hotel».

La copertina ritrae un particolare del ponte all'Indiano, cosa rappresenta per voi quell'immagine?

Giuseppe Feminò: «Se tornassimo indietro nel tempo e volessi andare a casa di Axel potrei passare solo dal ponte all'Indiano. Isolotto e Campi Bisenzio sono i nostri luoghi di origine, il ponte all'Indiano li collega».

Come suonerà "Il suono lontano" dal vivo?

Axel Pablo Lombardi e Giuseppe Feminò: «Speriamo bene».



Titolo: Il suono lontano
Gruppo: Catalpa
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Axel Pablo Lombardi)

01. Cercis Siliquastrum
02. Hotels & homeless
03. Catalpa
04. Il biglietto del '66
05. Un panino al pollo
06. Baia verde
07. Piazza dell'Isolotto
08. San Niccolò
09. Vittoria Apuana
10. Ponte di mezzo
11. Il suono lontano
12. Bella luna
13. Sorgane


giovedì 16 giugno 2016

"Anche se non sembra", gli Edgar sono tornati






Ci sono voluti sette anni ma alla fine gli Edgar sono tornati. "Anche se non sembra" è il nuovo album del gruppo ligure che arriva dopo il disco d'esordio, "Alcuni fattori marginali", prodotto e arrangiato da Piero Milesi e pubblicato nel 2008. Il gruppo vede la luce sul finire degli anni '90 come laboratorio di improvvisazione e nel 2003, con il nome di Edgar Cafè, rappresenta la Liguria e vince l'annuale edizione di Arezzo Wave. Cinque anni dopo arriva il primo disco di cui Milesi, scomparso nel 2011, è il vero deus ex machina. La sua morte interrompe i piani e l'attività degli Edgar e solo nel 2013 la band "rinasce" riannodando i fili spezzati e perdendo parte del nome. L'anno dopo gli Edgar si occupano delle musiche e suonano dal vivo nello spettacolo teatrale "The wedding singers" prodotto dal Teatro della Tosse di Genova con Angela Baraldi e la regia di Emanuele Conte. Poi finalmente il ritorno in studio per il nuovo disco, "Anche se non sembra", composto insieme a Daniela Bianchi e Antonio Melvavi, prodotto dalla OrangeHome Records di Raffaele Abbate e registrato negli studi di Leivi.
Undici tracce che creano un vorticoso magma musicale, a volte ipnotico e certamente onirico in cui mancano volutamente i punti di riferimento rappresentati da facili ritornelli. Difficile anche voler prendere parte al sempre vivo gioco della catalogazione artistica, che troppo spesso porta a cieche classificazioni come se la musica fosse una collezione di insetti. Il nuovo disco degli Edgar è un tentativo coraggioso che dimostra la vitalità di pensiero e di espressione di questo gruppo ora formato da Stefano Bolchi, Daniele Ferrari, Osvaldo Loi e dal bolognese Federico Fantuz. La dimensione acustica va a braccetto con sonorità energiche di indie rock e con la poesia di testi ambiziosi e studiati che parlano di lavoro giovanile, di rapporti interpersonali, di quotidianità e il lento scorrere del tempo. Il disco si chiude con "Già", dovuto e commosso ricordo di Piero Milesi.
Con Stefano Bolchi abbiamo parlato del ritorno degli Edgar.



Siete sulla scena dalla fine degli anni '90, quando ancora vi chiamavate Edgar Cafè, e in tutti questi anni avete pubblicato solo due dischi. Perché avete prodotto così poco?

«Quello che si trova nei due dischi è una parte del materiale sonoro e testuale prodotto in questo arco di tempo. Il tempo trascorso è relativo, e questo è un "credo". Tempo relativo rispetto alle istanze creative che ci hanno mosso, che ci hanno spinto a suonare, parlare e costruire rispettando i tempi di ciascuno di noi, valorizzandone l'autenticità non forzata, non veloce, non pubblicabile a tutti i costi».

Il vostro primo disco vide la luce nel 2008 e nacque dalla collaborazione con il produttore Piero Milesi. Poi sono passati sette anni, fino all'incontro con Raffaele Abbate che ha curato la produzione del vostro nuovo disco. Che differenze nel modo di lavorare avete riscontrato tra Milesi e Abbate?

«Il ruolo che hanno avuto Piero Milesi in "Alcuni fattori marginali" e Raffaele Abbate in "Anche se non sembra" è proprio diverso. Milesi si è occupato della direzione artistica del progetto. Piero ha composto delle parti, arrangiato insieme a noi i brani, suonato in alcune canzoni, supervisionato missaggio e mastering. Era un produttore d'altri tempi, di quelli che si innamoravano e davano anima e corpo per un progetto sconosciuto, facendo un vero e proprio investimento a rischio. Un ruolo di quel tipo si dice che oggigiorno sia estinto. In "Anche se non sembra" Raffaele non ha preso parte alla produzione artistica ma si è concentrato sulla costruzione del sound del disco in sinergia con il gruppo».

Quali sono gli stimoli che vi hanno portato nuovamente in sala di registrazione?

«Non ci sono stati stimoli esterni a portarci in sala di registrazione. Ci ha mosso il desiderio di far ascoltare queste canzoni tramite un disco pubblicato».

Il titolo del disco è "Anche se non sembra", spiegatemi allora qual è la verità…

«Pare che attualmente occorra apparire per esserci e di conseguenza se qualcosa o qualcuno non appare sembra non esistere. Per quanto riguarda la verità non so proprio che dire, anzi credo che con la verità l'uomo abbia un rapporto impossibile».

Considerate le undici canzoni del disco come se fossero parte di una storia o sono fotografie indipendenti?

«Le sonorità degli undici brani sono molto diverse tra di loro. Non è stato costruito un filo narrativo in sequenza ma sono evocati legami di senso. Ci piace lasciare all'ascoltatore la libertà di interpretare».

Leggendo i testi delle canzoni si capisce che è stata fatta molta ricerca. Usate soluzioni interessanti e non comuni tra cui rielaborazioni di modi di dire e paronomasie. Sembra che l'elaborazione dei testi rivesta un ruolo di primo piano nella vostra fase creativa…

«Anche se non sembra, i testi non rivestono questo ruolo principale. Certe trovate testuali sono nate non da un lavoro di ricerca linguistica ma da un approccio ludico, improvvisato, comunque elaborato poi criticamente insieme. Il lavoro sulla musica ha pari importanza. Si parte sempre da un inconsapevole improvvisazione».

In "L'astronave" c'è una strofa che mi ha fatto pensare: «È quando non resta più niente che l'orizzonte comincia a cambiare». Io adatterei questa frase all'esistenza umana: solo toccando il fondo si può dar vita a un cambiamento radicale. Cosa ne pensate?

«Che è un interpretazione possibile, anche se non siamo dell'idea che esista un fondo, piuttosto siamo dell'idea che partire dal vuoto faccia ben sperare. È grazie al vuoto che si muovono le cose se no ci sarebbe l'immobilità. Ho scritto quella frase partendo da un immagine visiva: la linea dell'orizzonte, priva di qualsiasi riferimento attorno, che inizia a prendere forma, un po' come il fenomeno del miraggio. Ho riportato questa visione letteralmente».

Se non sbaglio avete una visione critica della società attuale. In "Luogo comune" cantate «…la nostra mente è presa da tutto non sa fermarsi davanti a niente». Neanche la musica riesce a fermare questa corsa generata dal bombardamento continuo di stimoli e notizie, vere o false che siano?

«È una visione decisamente critica della società in cui ci sentiamo immersi, e siamo in crisi pure noi. Sì, siamo bombardati, e il rischio è di essere fagocitati. Si consumano stimoli vuoti che a loro volta consumano. La musica non c'entra niente e non può fermare nessun bombardamento. È soltanto uno strumento, di chi la produce e di chi la ascolta. È sicuramente difficile fermarsi rispetto a questo tritatutto, ma sta al soggetto scegliere di farlo».

In "Vivo" l'uomo subisce la superiorità dell'universo: «bipede astuto inventi le ore ma il tempo passa come gli pare»… È il nostro destino?

«L'uomo è descritto come fragile di fronte alla mancanza, alla vita, sebbene abbia fatto di tutto per controllarla, persino il tempo. Ma in "Vivo" l'uomo non è inerme, anzi: la vitalità è una scelta di resistenza, scelta indelegabile».

E i sentimenti e l'amore? Sono solo «un bicchiere vuoto sul banco del bar»?

«Sì, se non si riempiono di un buono e genuino vino».

Nel disco, quasi fosse la chiusura di un cerchio, avete dedicato la canzone "Già" proprio a Piero Milesi, scomparso alcuni anni dopo aver prodotto il vostro primo disco "Alcuni fattori marginali"…

«Piero si è dedicato al progetto profondamente e intensamente, si è molto coinvolto affettivamente, era il primo lavoro professionale in cui ci imbattevamo, eravamo tutti molto emozionati. Il ricordo che ho impresso è quello di una forte intensità. Dopo l'uscita del disco ci fu un periodo di giusta distanza, ma l'amicizia nata ci riportò a condividere serate e discorsi insieme. Si parlava anche di un secondo disco. Il brano "Già" era abbozzato in un provino che a Piero piacque particolarmente. Ci è venuto spontaneo dedicargli il brano in "Anche se non sembra"».

"Anche se non sembra" ha un suono molto particolare, tutto sembra racchiuso in un vortice privo di un centro di gravità. Quali sono i musicisti che vi hanno maggiormente ispirato?

«La musicalità del subcomandante Marcos».

In un periodo in cui la musica si ascolta su Youtube o simili un album come il vostro, difficile se non impossibile da etichettare, non temete che possa perdersi?

«In realtà crediamo nella distinzione. Partiamo prima di tutto da quello che noi vorremmo trovare intorno: differenza, diversità. Il non rientrare in pieno in un genere ci sembra inevitabile quando si è aderenti a se stessi. Trovo preoccupante pensare che sia necessario etichettare qualcosa per riconoscere che esista. Certo è che c'è un sacco di musica in giro ed il web è un territorio caotico dove si combatte con le armi dell'autopromozione e dell'autoaffermazione. È già perso in questo mare. È un prodotto come tantissimi altri che fanno fatica ad essere diffusi».

Toglietemi una curiosità, perché vi chiamate Edgar?

«Non c'è un senso preciso o un riferimento a qualcosa. La storia precedente a Edgar era Edgar Cafè. Abbiamo tolto il caffè: ce l'ha detto il cardiologo».


Titolo: Anche se non sembra
Gruppo: Edgar
Etichetta: OrangeHome Records
Data di pubblicazione: 2015

Tracce
(testi e musiche di Stefano Bolchi, eccetto dove diversamente indicato)

01. Vivo  [Antonio Melvavi, Stefano Bolchi]
02. L'astronave
03. Sembra semplice  [Antonio Melvavi, Stefano Bolchi]
04. Gli asini
05. D'istinti saluti  [Stefano Bolchi, Federico Fantuz]
06. Lettera  [Antonio Melvavi, Stefano Bolchi]
07. (esse barrato)  [Antonio Melvavi, Stefano Bolchi]
08. Luogo comune
09. Tappetino part-time   [Antonio Melvavi, Stefano Bolchi]
10. La penultima pagina
11 Già


mercoledì 18 maggio 2016

I Del Sangre celebrano "Il ritorno dell'Indiano"





Sono tornati e il piglio, questa volta, è decisamente rock. I Del Sangre, dopo sei anni di assenza, sono nuovamente sulla scena con "Il ritorno dell'Indiano", disco di pregevole fattura che rilancia le ambizioni del duo toscano. Dopo due album pubblicati solo su internet, come "Vox Populi" (2008) che contiene antichi canti popolari riarrangiati e riadattati secondo uno stile a metà tra tradizione italiana e folk americano ed "El Rey" (2010) dalle atmosfere introspettive, il duo Luca Mirti e Marco "Schuster" Lastrucci ha deciso di puntare in alto e di voltare lo sguardo oltre oceano. Il disco è stato finalmente stampato in formato fisico e i Del Sangre hanno potuto contare su una produzione con i fiocchi, affidata al sempre fedele collaboratore Gianfilippo Boni (anche in veste di musicista al pianoforte e al Wurlitzer), una sicurezza nella cura del suono. I Del Sangre per questa nuova avventura discografica non hanno badato a spese e si sono avvalsi della collaborazione del batterista Fabrizio Morganti, già al fianco di Irene Grandi e Biagio Antonacci, del chitarrista Giuseppe Scarpato, già con Edoardo Bennato, di Claudio Giovagnoli al sax e di Paolo "Pee Wee" Durante all'organo Hammond. 
L'album, dalle marcate sonorità rock, è composto da dieci brani e una cover in cui si rintracciano influenze della produzione di Bruce Springsteen (l'intro chitarristico di "Alza le mani" rende omaggio a "Lucky Town" mentre "Successe domani" riprende ritmica e l'incedere di "Part man, part monkey) fino a quella dei Clash. Il tutto è stato rivisitato in chiave personale e con l'aggiunta di un pizzico di modernità. Una occhiata verso gli anni '70 i Del Sangre l'hanno data con la cover. Mirti e Lastrucci hanno omaggiato Ivan Della Mea, uno dei più importanti cantautori di protesta di quegli anni, ripescando la canzone "Sebastiano", qui presentata in una bella versione rock. Una scelta che ha regalato ulteriore spessore artistico a questa ottima prova discografica del duo. Il disco in generale ha un bel "tiro" e i testi, a metà tra l'autobiografico e l'impegno sociale, sono conditi da una ironia pungente nei confronti del potere e di uno Stato lontano dalle esigenze dei cittadini. 
Luca Mirti (voce e chitarra) e Marco Lastrucci (basso) presentano, nell'intervista che segue, il sesto album della loro carriera, iniziata nel 2002 con "Ad un passo dal cielo" e proseguita due anni dopo con "Terra di nessuno" che contiene il singolo "Radio aut", vincitore del Premio Ciampi.




Ci sono voluti sei lunghi anni per poter ascoltare un vostro nuovo disco. Cosa avete fatto dal 2010, anno dell'uscita di "El Rey", ad oggi? 

Luca Mirti: «Ci siamo presi il nostro tempo per riflettere su dove stavamo andando. Io ho continuato a suonare, ho una cover band messa su da svariati anni con amici. Ci divertiamo a riproporre dal vivo pezzi di buon rock anni '70 coi quali sono cresciuto e mi serve per allentare un po' la pressione che può portare un impegno come quello coi Del Sangre». 
Marco "Schuster" Lastrucci: «Dal 2010 al 2014, data di inizio della pre-produzione di "Il ritorno dell'Indiano", sono stati anni di pensieri e ricerca, non ricordavo dove avevo seppellito l'ascia di guerra, ho scavato molto... poi è venuta lei da me, un po' come l'uroboro che può sembrare immobile ma in realtà è in eterno movimento».

Il vostro è un ritorno in grande stile dal momento che avete deciso di stampare il disco in cd, cosa che non era successa nei due precedenti episodi, e vi siete affidati all'etichetta Latlantide. Lo considerate il disco del "dentro o fuori"? 

Luca Mirti: «In un certo modo sì perché ci abbiamo investito molto in termini di tempo e di denaro, quindi la riuscita positiva o meno di questo lavoro determinerà in modo pesante quello che saranno i nostri passi futuri».

Quanto avete investito in questo lavoro?

Luca Mirti: «Molto, appunto. Sia in termini emotivi, perché rimettersi in gioco dopo diversi anni e alla nostra età non è mai semplice, sia in termini di tempo sottratto alle famiglie e al lavoro, e anche dal punto di vista economici. Questo disco è stato realizzato solo in minima parte con l'ausilio del crowdfunding - che è una formula che paradossalmente si rivela vincente solo se hai un "nome" e un conseguente appeal - ragion per cui ci siamo indebitati con un finanziamento che pagheremo ancora per due anni».

Per realizzare questo lavoro vi siete affidati a musicisti di grande qualità artistica: su tutti Giuseppe Scarpato e Fabrizio Morganti. Come sono avvenuti questi e gli altri incontri?

Luca Mirti: «Collaboriamo da anni con Gianfilippo Boni che è sempre stato il coproduttore di tutti i nostri lavori e nel suo studio di registrazione abbiamo realizzato i nostri dischi, da "Terra Di Nessuno" del 2004 in poi. Gianfilippo, oltre ad essere un apprezzato fonico e cantautore, è  sempre stato il nostro trait d'union coi vari musicisti che gravitano nella scena musicale toscana, per cui Fabrizio Morganti è stata una sua geniale idea, oltretutto i trascorsi e il presente di un musicista come Morganti, parlano per lui e così è stato per altri musicisti che sono andati a comporre il puzzle. Un discorso a parte è quello di Giuseppe Scarpato del quale mi innamorai, artisticamente parlando, vedendo un video di Edoardo Bennato (Giuseppe è il suo chitarrista produttore da ormai venticinque anni) e fortuna vuole che, pur essendo lui napoletano, risieda a Firenze ormai da anni. È stato semplice contattarlo, proporgli il materiale e imbarcare anche lui in questa avventura. Scelta che si è rivelata vincente in termini di suono, ma questo era scontato data la portata del musicista».

Avete sempre differenziato molto le sonorità da un disco all'altro ma questa volta il taglio rock lo ritengo particolarmente indovinato…

Luca Mirti: «Sì. Quello che abbiamo sempre cercato di fare, nel nostro piccolo, è stato quello di non ripetersi e ogni nostro lavoro presenta colori differenti. Siamo passati dal folk più tradizionale al country, fino a un folk più oscuro e visionario ma non avevamo mai fatto il disco rock come volevamo, per tutta una serie di ragioni. Stavolta ce l'abbiamo fatta. Abbiamo messo in campo "l'artiglieria pesante" e questo disco è un forte richiamo a quelle tradizioni rock americane che hanno sempre contraddistinto i nostri ascolti».

Tra le canzoni del disco ce ne sono due dedicate ad altrettanti personaggi ribelli della storia italiana. La prima riguarda "Gaetano Bresci", anarchico che uccise re Umberto I e che in questa canzone confessa il proprio reato. Qual è il messaggio di questo brano?

Luca Mirti: «Fondamentalmente che nessuna istituzione, per quanto potente possa essere, può sentirsi al sicuro. Prima o poi passano tutti sotto la lente del giudizio, sia esso divino o popolare. La storia è fatta di corsi e ricorsi».

L'altra canzone in questione è "Argo Secondari", brano legato alla figura dell'anarchico che diede vita al movimento degli Arditi del Popolo, organizzazione paramilitare nata in opposizione allo squadrismo fascista. Cosa rappresenta per voi?

Luca Mirti: «Non è propriamente la storia di colui che dà il nome alla canzone. Argo Secondari è solo l'eminenza grigia, il punto finale dove vanno a confluire una gran parte di personaggi storici passati ed attuali che, a loro modo, hanno incarnato la figura del ribelle. Figure che passano da Che Guevara a Gesù Cristo fino anche a John Belushi e Billy Bragg per citarne alcuni. Diciamo che è un sogno nel quale l'anima della ribellione si desta e prende per mano un popolo marciando fino alla vittoria finale».

Non mancano le canzoni di denuncia come appunto "Sacra corona unita". Il rock militante trovate che sia ancora attuale?

Luca Mirti: «La parola militante presuppone lo schierarsi in maniera netta e decisa da una parte della barricata. Io ho sempre pensato al nostro come a un rock sì di protesta, ma anche di libertà. Cosa questa che certi steccati ideologici non ti permettono di avere, nella maniera più assoluta. Non so se sia o meno attuale, so solo che è l'unico modo attraverso il quale riesco a esprimere al meglio i miei pensieri su ciò che mi circonda che non è tutto merda ma neanche tutto rose e fiori. È la vita…».

Con "Gli occhi di Geronimo" tornate all'attualità. Alla disperazione di chi perde il lavoro e che decide di farsi giustizia da solo. Una storia alla "Johnny 99" di springsteeniana memoria… 

Luca Mirti: «Sì. Questa è una canzone portata in dote da "Johnny 99" e da "Billy Austin" (canzone di Steve Earle, ndr), ma anche da una situazione che è impossibile da non vedere, se proprio non si vuol mettere la testa sotto la sabbia. Quando i sogni e gli ideali di un uomo crollano sotto i colpi di una società che pensa solo a distruggere anziché aiutare chi è in difficoltà e si arriva alle conseguenze estreme, le strade sono due. O ci si punta una pistola alla testa, o si cambia prospettiva e la pistola la si gira verso un altro bersaglio. Sia ben chiaro che questa non è esaltazione dell'omicidio, ma una mera constatazione della parte più oscura della realtà che stiamo vivendo e che ci tengono nascosta».

Avete un occhio particolarmente critico anche verso la società occidentale governata da soldi, potere e lobbies. Il vostro messaggio è chiaro in "Successe domani". Stiamo correndo verso il precipizio o c'è ancora tempo per sterzare?

Luca Mirti: «Allo stato attuale vedo una implosione della società occidentale, derivante maggiormente dalla perdita dei propri valori e del non senso di appartenenza alle proprie radici storico culturali. Diciamo che siamo entrati in un lungo tunnel buio dove la luce in fondo non è altro che un treno che sta arrivando in contromano e, a meno di brusche sterzate, finiremo investiti».

Si colloca alla perfezione in questo album la cover che avete scelto di cantare. Si tratta di "Sebastiano" di Ivan Della Mea, una delle figure più importanti della canzone di protesta degli anni '70. Perché avete fatto questa scelta?

Luca Mirti: «Perché volenti o nolenti Ivan Della Mea è stata una figura di rilievo del cantautorato di protesta degli anni '70 e la nostra attenzione è sempre andata verso quella che io amo definire "musica di sostanza". Oltretutto conoscevamo Ivan e ci è sembrato doveroso rendergli omaggio con questa cover che a mio parere ci veste abbastanza bene. Mettici anche che se quei pochi, fra i quali noi, non riportassero all'attenzione certi lavori che hanno dato qualcosa di concreto alla musica italiana, queste canzoni sarebbero destinate all'oblio. Perché ai ragazzi d'oggi - se non in minima parte - non importa molto di capire da dove sono venuti, ma solo dove stanno andando. Ma se non hai delle radici solide, sei solo un gigante con le gambe d'argilla, ti addentri nel buio del bosco senza quella lanterna in mano che altro non è che il tuo passato, le tue origini. È importante».

Nel corso della vostra carriera avete avuto occasione di dividere il palco con Della Mea?

Luca Mirti: «Abbiamo calcato lo stesso palcoscenico nel 2004 a Livorno al Teatro La Gran Guardia in occasione del Premio Ciampi che vincemmo come gruppo emergente. Quella stessa sera si esibirono artisti di grosso calibro che ottennero il premio alla carriera fra i quali Ivan Della Mea, appunto, ma anche Nicola Arigliano, Ricky Gianco, Giovanni Lindo Ferretti con Ambrogio Sparagna, Ligabue. Fu una serata indimenticabile».

Secondo voi per scrivere testi credibili è necessario che l'autore viva queste esperienze sulla propria pelle?

Luca Mirti: «Sì e no. Se fosse così, De André non sarebbe mai esistito essendo venuto da famiglia borghese agiata. Diciamo che l'artista, e io non mi definisco tale, deve avere una certa sensibilità. Una spiccata ricettività verso ciò che lo circonda e quando le antenne captano qualcosa, una parte nascosta di lui che viene fuori in quel preciso istante, butta tutto su carta. È però auspicabile che l'artista debba - nei limiti del possibile - vivere non in controtendenza (e questo spesso accade...) con quanto va predicando perché comunque ha la responsabilità di parlare alla gente e deve essere sincero e credibile».

"Scarpe strette" e "L'Indiano" mi sembra siano canzoni più autobiografiche rispetto alle altre. Qual è il loro significato?

Luca Mirti: «A volte capita che scrivi e lo fai di getto. A cose fatte, ti rendi conto che la canzone sta parlando di te. È un processo tanto curioso quanto affascinante. "L'Indiano" è un brano che parla di un ritorno dopo anni di vicissitudini personali e finisce con l'essere la metafora degli ultimi anni del mio vissuto. Capita che a un certo punto della tua vita in cui non hai più vent'anni e ti affacci ai cinquanta, come nel mio caso, fai due conti e metti tutto sulla bilancia; credo sia fisiologico. E allora guardi a quello che è stato, a quello che poteva essere e a quello che è al netto delle sconfitte che ti hanno portato dall'essere incendiario fino a diventare pompiere e in tutto questo rivedi anche un po' di quella che è stata la vita di tuo padre che resta un faro indispensabile. Almeno per me».

Chi sono gli indiani ai giorni nostri?

Luca Mirti: «Chiunque tira avanti per sopravvivere con mille euro al mese. E lo fa combattendo una battaglia che sa già essere perduta in partenza».



Titolo: Il ritorno dell'Indiano
Gruppo: Del Sangre
Etichetta: Latlantide/Edel
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Luca Mirti eccetto dove diversamente indicato)

01. L'Indiano
02. Alza le mani
03. Successe domani
04. Gaetano Bresci
05. Fuori dal ghetto
06. Una chitarra per la rivoluzione
07. Sacra corona unita
08. Scarpe strette
09. Argo Secondari
10. Gli occhi di Geronimo
11. Sebastiano  [Ivan Della Mea]



martedì 26 aprile 2016

Emily Sporting Club cantano Pier Vittorio Tondelli





Emily Sporting Club debutta con un omaggio a Pier Vittorio Tondelli, scrittore di culto per i giovani
degli anni '80 che con il romanzo "Altri libertini" ha rappresentato una importante voce fuori dal coro. L'influenza dello scrittore e giornalista di Correggio è evidente nelle liriche e nelle atmosfere delle canzoni del disco d'esordio del gruppo nato nel 2013 dall'incontro tra Elisa Minari, il cantante e l'autore dei testi Nicola Pulvirenti, il chitarrista Silvio Valli e il batterista Alfredo De Vincentiis. Non si tratta però di una mera riduzione in musica degli scritti di Tondelli quanto di un'opera che prende spunto e subisce l'influenza di "Altri libertini" ma ne elabora un pensiero proprio e al passo con i tempi. "Altri libertini" racconta un'età di passaggio, di fuga dei giovani alle prese con tramontate rivendicazioni sessantottine. E proprio il contesto di insoddisfazione descritto così efficacemente nel libro da Tondelli è un sentimento che Emily Sporting Club riprende e attualizza.
Il romanzo di Tondelli, così come Emilia Paranoica, sono quindi il punto di partenza di questo album in cui si alternano varie sonorità che confermano quanto i componenti del gruppo abbiano metabolizzato la musica che li ha preceduti e siano stati in grado di svilupparne di propria, attuale, vibrante e dalla spiccata sensibilità. I riferimenti sono eterogenei e si possono trovare nel rock degli U2, nella new wave ma anche nel progressive italiano degli Area e nel post punk di gruppi come Joy Division e Cure. 
Di "Emily Sporting Club" abbiamo parlato con Elisa Minari e Nicola Pulvirenti. Il tutto nell'intervista che segue. 



Nella presentazione del vostro disco si legge che è ispirato al romanzo "Altri libertini" dello scrittore Pier Vittorio Tondelli. Sono passati più di trentacinque anni dalla pubblicazione di questo libro, lo ritenete ancora attuale? 

Nicola Pulvirenti: «Certo. È proprio uno dei motivi per cui lo abbiamo scelto. I personaggi descritti si trovano in un contesto di insoddisfazione verso il quotidiano, uno "spleen", un'apatia e, allo stesso tempo, il bisogno di trovare se stessi, di fare sbocciare la propria vita magari andandosene dalla provincia. È il loro mondo, lo amano ma purtroppo sta stretto. Sia per ciò che offre, sia per la necessità tutta personale di trovare la propria strada, il proprio "odore". Suona piuttosto familiare, no?».

Lo avete letto tutti questo libro? 

Nicola Pulvirenti: «Qualcuno anche più volte. Tondelli è stato uno degli autori della mia adolescenza. Non è stato l'unico dei suoi romanzi che abbiamo apprezzato: Tondelli ci piace perché ha uno stile che arriva subito e storie riconoscibili. Chi non ha avuto la propria Annacarla? Chi può dire di non essere mai partito per cercarsi?».

Elisa, quando è stato pubblicato il romanzo avevi sette anni. Chi te lo ha fatto scoprire? 

Elisa Minari: «Se non ricordo male fu alle superiori, la professoressa d'italiano lo aveva inserito in una lista di libri consigliati come letture estive. Ovviamente lo "divorai". Erano gli anni della scoperta di Jim Morrison, David Bowie, Lou Reed, Hendrix e tutto quel mondo musicale che è stato fondamentale per me. "Altri libertini" era decisamente sulla stessa lunghezza d'onda, sia per lo stile che per il sentire racchiuso nelle sue storie».

Qual è il messaggio che più vi ha colpito del romanzo che tanto scandalo suscitò quando fu pubblicato? 

Nicola Pulvirenti: «Appunto questa necessità di imparare a viversi anche passando per esperienze in qualche modo difficili, dolorose, a volte rischiose. Ed è un bisogno che alberga in tanti: il fatto che ne siano protagonisti dei ragazzi di tutti i giorni rende questa familiarità. Questi personaggi svelano, tra le pagine, anche gli aspetti che sono cautamente celati a una società che non è pronta ad accoglierli: come un organo trapiantato e rigettato ma, tante volte, migliore di quello che ha sostituito».

Perché avete deciso di ispirarvi al romanzo? 

Nicola Pulvirenti: «Lo abbiamo sentito vicino sia geograficamente, per i luoghi che abbiamo riconosciuto e vissuto in prima persona e per i personaggi dall'aria familiare, sia stilisticamente. Quante volte abbiamo scorrazzato per la piazza di Reggio Emilia o siamo passati al bar della Stazione Centrale? Magari ascoltando i Gong o Lou Reed. "Altri libertini" ha aggiunto ai nostri ricordi, personaggi che, a pensarci bene, potevano essere Giusy, Salvino, Miro… Fa parte del nostro bagaglio e ci siamo divertiti ad "aggiungere" altri episodi».

I giovani degli anni Ottanta, che accolsero entusiasticamente "Altri libertini", cosa hanno in comune con i giovani di oggi?

Nicola Pulvirenti: «Proprio le affinità a cui ci siamo ispirati. Certo, i tempi sono cambiati, ma il linguaggio esplicito, quotidiano è quello che si trova spesso nelle espressioni culturali di oggi. Basti pensare a un qualsiasi pezzo rap. Potremmo azzardare e definire "Altri libertini" un romanzo hip-hop».

Come Pier Vittorio Tondelli avete deciso di usare nei testi delle vostre canzoni un linguaggio diretto, abrasivo, crudo in alcune episodi e lontano dal perbenismo. Lo ritenete necessario per esprimere le vostre "idee contro" e lo stato di disillusione? 

Nicola Pulvirenti: «Non credo. Lo stesso messaggio può essere espresso in forme diverse. Lo stile certo permea più facilmente chi è pronto ad ascoltarlo. Non riteniamo che le nostre idee siano contro tout-court. C'è una necessaria presa di coscienza di una situazione che non soddisfa ma poi ne devono seguire un confronto e una reazione».

Cantate la mancanza di prospettive di una generazione, la disperazione di chi deve ricominciare e le storture della società attuale. Quali sono i vostri antidoti a tutto ciò?

Nicola Pulvirenti: «Come si diceva, ognuno ha i propri momenti "neri" e può capitare di percepire la sindrome locked-in: da solo e senza speranze nei confronti del mondo esterno. Bisogna ripensare a forme di condivisione e partecipazione. Sentirsi meno soli e creare reti di persone potrebbe permettere di invadere il campo della società da cui ci si sente esclusi per diventare noi stessi quella società che vorremmo. Saremmo cittadini più consapevoli, compassionevoli (nel significato etimologico). L'antidoto funziona se è condiviso». 
Elisa Minari: «In questo senso un antidoto efficace è la creatività, l'arte e l'interazione tra le sue diverse forme. L'unione di letteratura, musica e teatro, ad esempio, permette un notevole scambio di energie e idee atte alla realizzazione di un'opera che sarà unica e "plurale"».

La letteratura si conferma fonte primaria di ispirazione per i musicisti. Perché è così difficile invece che una canzone o un album ispiri un romanzo? 

Nicola Pulvirenti: «…o forse, semplicemente, non ce ne accorgiamo perché non è esplicitato. Lo stesso Tondelli srotola elenchi di musicisti, attori, ballerini. Non sarei certo del fatto che non si sia lasciato trasportare. La creazione/generazione culturale non esiste di per sé. È sempre un'evoluzione di ciò che è il nostro vissuto. Dante non ha creato la sua Commedia dal nulla e Miles Davis non avrebbe raggiunto le sue "rivoluzioni" se non avesse iniziato dagli standard. Poi capita, e di frequente, che l'influenza arrivi da forme espressive differenti e allora un Pollock o una scena di Tarantino potrebbero riconoscere un tributo a qualche canzone».

Da dove deriva il nome Emily Sporting Club? 

Nicola Pulvirenti: «Anche in questo caso, ci siamo lasciati coinvolgere da uno dei racconti in cui è descritto un luogo di ritrovo dei ragazzi della provincia, sotto la tenso-struttura di uno Sporting Club. Un luogo da cui si dipanano le singole storie e in cui si torna per condividerle, in cui si trovano i soliti amici e si incontrano quelli che lo saranno per un giorno o due. Ci è piaciuto e lo abbiamo preso in prestito ma giuro che lo trattiamo bene».

Gli E.S.C. sono nati nel 2013 ma le vostre esperienze in ambito musicale sono svariate. Me le descrivete?

Nicola Pulvirenti: «Alcune sono state condivise come Akràsia in cui eravamo Elisa, Silvio ed io. Poi ci sono stati i Nomadi, Freak Antoni, …».
Elisa Minari: «Sì, diciamo che dopo le esperienze reggiane di Akràsia e altre band dell'hinterland, ho semplicemente continuato a suonare. Dal '98 in poi in particolare ho imparato tantissimo dalle esperienze live e in studio. Ci sono stati ingaggi per nomi famosi e non, ma la cosa che ho preferito maggiormente è sempre stato fare parte di un gruppo che propone il proprio suono, la propria personalità, che si tratti di inediti o cover».

Quali sono state le motivazioni che vi hanno spinti a dar vita a questo progetto e come funziona la collaborazione tra di voi? 

Nicola Pulvirenti: «Ci conosciamo da anni; in alcuni casi, abbiamo mosso le prime esperienze musicali assieme. Ci frequentiamo al di là della band e, condividendo questa aspirazione, ci è sembrato naturale realizzarla in un contesto in cui ci fosse sintonia». 
Elisa Minari: «Esattamente. Riallacciandomi al discorso delle esperienze musicali di ognuno, personalmente avevo necessità di poter creare musica inedita in un contesto che conosco, che mi assomiglia per i motivi indicati da Nicola. Infatti l'idea di "Altri libertini" come testo di partenza è nata una sera in compagnia davanti a un bicchiere di vino, si era tornati a suonare insieme dopo diversi anni, e conoscendo le potenzialità e i gusti della band si è deciso di provare a dare forma a quest'idea che tanto ci piaceva».

Quali sono per voi le qualità di maggior pregio del vostro disco? 

Nicola Pulvirenti: «Credo che abbiamo avuto la fortuna di creare un'amalgama sonoro che ci ha soddisfatti potendo attingere un po' dai suggerimenti contenuti nel libro, un po' dai nostri gusti personali senza vincoli particolari. Personalmente mi sono divertito a giocare con uno stile di scrittura diretto e a fondere gli spazi del libro con i nostri».

Dal punto di vista musicale, le vostre canzoni suonano attuali e contemporanee. Come avete lavorato sugli arrangiamenti? 

Elisa Minari: «Amalgamando le nostre sonorità e idee. Pare scontata come risposta, in realtà non lo è.  Se si ascolta il disco per intero si noterà che il vestito dato a "Boy" non c'entra nulla con "Piedi inversi", che a sua volta pare molto distante da "Autobahn". In effetti uno arriva da una struttura armonica che suona anni '90, l'altro da una base elettronica a loop, l'altro da un giro più chitarristico. Musicalmente l'apporto di ognuno è stato diretto al fine di rispettare la natura originaria dei brani proposti dai musicisti, senza cercarne una produzione omogenea. Questa libertà d'azione è risultata ottimale se pensiamo al linguaggio tondelliano e alla struttura ad episodi del libro stesso».

Una curiosità: perché non avete riportato i testi nel booklet a corredo del cd? 

Nicola Pulvirenti: «Abbiamo voluto dare più spazio alle immagini lasciando la libertà di vivere i brani con l'ulteriore dimensione visiva. Lasciamo che chi ascolta possa marcare l'accento sui passaggi che sente più vicini, li faccia propri e dipinga il proprio viaggio durante l'ascolto: chissà, magari si tratta di uno sceneggiatore…».

In che forma si sviluppano i vostri live? 

Elisa Minari: «Lo spettacolo Emily Sporting Club prevede diversi allestimenti. Uno è quello che ci ha visto esordire sul palco del teatro Asioli di Correggio, un concept diretto dal regista Gabriele Tesauri che ci vede immersi in un continuo raggio di videoproiezioni, la musica è alternata a letture e performance di attori. La stessa idea la manteniamo nella formula per i live nei locali, adattandola ovviamente agli spazi a disposizione, concependo lo spettacolo come un flusso ininterrotto di canzoni, immagini e testi recitati. Stiamo preparando anche il set acustico che ci stimola a guardare i pezzi da un nuovo punto di vista».



Titolo: Emily Sporting Club
Gruppo: Emily Sporting Club
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi di Nicola Pulvirenti e musiche di Emily Sporting Club, eccetto dove diversamente indicato)

01. Postoristoro
02. Emily Sporting Club
03. Piedi inversi
04. Boy
05. Del lavoro
06. Hangover
07. 2Mars
08. Autobahn
09. Più di così (non se ne può)  [testo di Pier Vittorio Tondelli]