Dalla musica pop alla dance, per approdare infine alle canzoni in dialetto. Un bel viaggio artistico per Daniele Ronda, cantautore piacentino, che due anni fa ha deciso di interrompere la sua attività di autore e dedicarsi in prima persona alla carriera di musicista. Ronda ha iniziato, infatti, scrivendo canzoni per altri artisti. Intensa è stata la collaborazione con Nek che ha portato al successo brani scritti da Ronda come "Almeno stavolta" e "L'anno zero", inseriti nell'album "Nek the best of... L'anno zero" uscito nel 2003, o come "Una parte di me", "Notte bastarda", "Va bene così" e "Lascia che io sia", con cui Nek ha vinto l'edizione 2005 del Festivalbar. Tre brani di Daniele Ronda sono finiti anche nell'album "Nella stanza 26" e la canzone "Tira su il volume" è stata inserita da Nek nel disco del 2009 dal titolo "Un'altra direzione". L'autore piacentino ha collaborato anche con Massimo Di Cataldo, scrivendo per lui il brano "Amami", e insieme a Pasquale Panella ha composto per Mietta la canzone "Baciami adesso". Anche in ambito dance Daniele Ronda ha lasciato la sua impronta scrivendo successi di caratura internazionale come "Desire" per dj Molella.
La maturità artistica è arrivata una volta indossati i panni di cantautore. Nel 2011, a 27 anni, Ronda ha deciso di tornare a Piacenza e intraprendere un nuovo percorso artistico. Gli incontri con Sandro Allario, grande fisarmonicista bergamasco, e con il bassista cuneese Carlo Raviola hanno fatto il resto. Insieme hanno dato vita al gruppo Folklub, a cui si sono aggiunti Lorenzo Arese (batteria e cori) e Gianni Satta (tromba e tastiere), e nello stesso anno è stato pubblicato l'album in dialetto "Daparte in folk", premiato al Mei come "Miglior progetto musicale in dialetto dell'anno". Il disco è stato impreziosito dai duetti con Davide Van De Sfroos, campione del cantautorato dialettale, e l'ex cantante dei Nomadi, Danilo Sacco. A fine 2012 è arrivata la seconda fatica discografica di Daniele Ronda e Folklub dal titolo "La sirena del Po" e in questi giorni è partito il tour che lo porterà a suonare sabato 26 gennaio all'Osteria del Vino Cattivo a Cairo Montenotte.
Per presentare nel migliore dei modi l'evento valbormidese abbiamo fatto quattro chiacchiere con Daniele che in questa intervista si è raccontato e ha descritto la sua visione del mondo.
Daniele avresti potuto continuare a scrivere canzoni per altri, invece hai deciso diventare protagonista sul palco. Perché questa scelta?
«Fare il lavoro di autore per altri e fare il cantautore sono due cose diverse. Hanno molti aspetti in comune ma anche delle differenze sostanziali. Quando si scrive per un altro artista c'è dietro un grande lavoro di ricerca. Si vanno a toccare stili, generi, colori e suoni che se dovessi comporre per te stesso magari non affronteresti. In un certo senso sei una specie di sarto e di psicologo che deve prendere le misure su un altro artista, su un altro interprete. Quello che vuoi dire dovrà passare attraverso un'altra personalità, un altro modo di affrontare le cose e il tutto deve essere credibile. È un lavoro che non rinnego e che mi ha dato tanto, però c'è stato un momento in cui ho avuto bisogno di dire quello che sentivo in maniera diretta, con il mio linguaggio. Il vestito lo dovevo indossare io in quel momento, e doveva essere un vestito che convincesse me, che utilizzasse il mio modo di pormi, il mio modo di parlare alla gente, di comunicare».
È più facile scrivere canzoni o andare in tour ed esibirsi di fronte agli spettatori?
«L'importante è che qualsiasi cosa si faccia sia vera e naturale. Le difficoltà che si incontrano non hanno peso quando si seguono le proprie convinzioni. Sentivo di aver bisogno di salire sul palco, di suonare e cantare dal vivo. È una questione di esigenze, di quello che si vuole fare. Questa voglia di esprimermi mi ha fatto imboccare questa strada e sono veramente contento perché mi sta dando notevoli soddisfazioni».
Perché hai scelto a 27 anni di tornare a casa nella tua Piacenza e cercare nei tuoi luoghi d'origine le fondamenta della tua musica?
«La musica nel mio caso va di pari passo con la mia vita e si condizionano vicendevolmente. In questo caso è accaduto che ho scoperto per la prima volta quanto fosse per me importante il legame con le radici, le origini, la mia terra. Ho scoperto quanto fosse importante avere un punto di riferimento in questo periodo in cui i valori sono un po' traballanti e tutto ciò mi ha portato anche a riscoprirmi dal punto di vista musicale. Io ho sempre amato il folk, però questa svolta mi ha avvicinato e legato ancora di più a questo genere che è il più genuino, il più semplice, il più diretto che esista, pur essendo ricchissimo di colori, di suoni, di sfaccettature. La scelta musicale è andata un po' di pari passo con quello che mi è successo nella vita, con quello che ho scoperto nel mio percorso e di quanto sia importante la storia delle persone».
Quindi non occorre andare lontano per trovare l'ispirazione, anche la provincia trasmette stimoli?
«Assolutamente sì, anche se io non faccio enormi distinzioni tra provincia e grandi metropoli. Io l'ho cercata la grande metropoli, nel senso che c'è stato un periodo in cui ho pensato che la provincia mi stesse stretta e così ho preso la strada verso la grande metropoli. Mi sono trasferito a Milano, la metropoli più vicina a casa mia, e poi mi sono reso conto che il giovedì e il venerdì sera non vedevo l'ora di tornare a casa, di rivedere le mie strade, i miei amici, gli ambienti, assaporare gli odori e i sapori, la nebbia di un certo tipo, perché quella Milano è molto diversa».
Ti è mancata la dimensione più umana della provincia?
«Ho vissuto per un periodo a Los Angeles perché sono un grande appassionato di cinema e di America. Mi piaceva molto l'atmosfera e ho scoperto che a Los Angeles si faceva una vita simile a quella della provincia perché, nonostante la città sia enorme, in realtà si vive nei quartieri. Nella zona dove vivevo incontravo la gente per strada, le persone frequentavano gli stesi posti, gli stessi locali, quindi in realtà non era poi così lontana dalla vita di provincia. Credo che abbiamo tutti bisogno di costruirci un mondo familiare, che si avvicini il più possibile all'essere una grande famiglia, perché ci dà sicurezza, ci fa stare più tranquilli e ci fa sentire più a casa».
Nel 2011 hai pubblicato "Daparte in folk", un album folk cantato in dialetto. Cosa ti ha spinto a utilizzare la lingua dei tuoi nonni?
«Il dialetto è una vera forma di comunicazione, diversa dalla lingua. Mia nonna quando mi sgridava lo faceva in dialetto e credo che se lo avesse fatto in italiano avrebbe avuto una resa diversa. Quando tu parli una lingua straniera c'è sempre una traduzione corrispondente in italiano, nel dialetto non è sempre così. La traduzione non è sempre così diretta perché dietro ogni parola, ogni frase, ogni modo di dire, dietro ogni detto c'è una storia, ci sono esperienze di generazioni».
Il dialetto unisce o separa?
«Unisce assolutamente. Qualcuno voleva farci credere che le differenze di dialetto, di tradizioni, di abitudini, di usi e costumi, di cui il nostro paese è forse uno dei più ricchi del mondo, fossero causa di divisioni. Invece io sono convinto che siano un potenziale che unisce e me ne rendo conto tutte le volte che viaggio, che vado a suonare nelle città perché c'è un punto di congiunzione che rende le differenze una ricchezza. Le differenze creano un legame e un interesse reciproco. Le persone che incontro durante i miei concerti mi dicono che le canzoni che preferiscono sono quelle cantate in dialetto».
Quanto ha influito sulla tua scelta artistica l'esperienza di Davide Van De Sfroos, musicista che ha il merito di aver riportato all'attenzione del grande pubblico l'uso del dialetto?
«Davide è stato di grande aiuto, ha aperto parecchie strade, parecchie porte. Ho molta stima di Davide, sono un suo fan, ho tutti i suoi dischi e ho visto molti suoi concerti. Abbiamo avuto modo di conoscerci e siamo diventati amici. Ho anche tradotto in italiano una sua canzone dal titolo "40 pass". Non solo gli è piaciuta ma ha addirittura voluto cantarla e questa canzone, dal titolo "Tre corsari", è entrata nel mio primo album».
Quanto ha inciso sulle tue scelte artistiche la collaborazione con Sandro Allario e Carlo Raviola, anime del gruppo Folklub?
«Sandro e Carlo sono i pilastri portanti del Folklub che non è tanto una band quanto un laboratorio del folk, un laboratorio musicale. Il quartetto base è composto da Sandro, Carlo, Lorenzo alla batteria ed io, però il Folklub è un gruppo aperto. Per esempio, a Piacenza abbiamo dato vita a un grande evento e in quell'occasione sul palco c'era anche una orchestra d'archi. Poi a volte si unisce la tromba, il banjo, il mandolino. Sono musicisti che amano questa musica e vogliono suonare con noi ed è una cosa che mi piace molto. Queste collaborazioni ci hanno dato molti stimoli e ci hanno aperto molte strade sotto l'aspetto musicale e vorrei che continuasse così».
Per promuovere il tuo primo disco hai suonato molto in tutta Italia. Cosa ti ha dato questa esperienza?
«Tra il primo e il secondo disco abbiamo fatto più di cento concerti in un anno e questo ci ha unito molto, ha fatto sì che il gruppo diventasse proprio una grande famiglia, che ci fosse molto affiatamento, molta amalgama e questo ci fa divertire molto quando siamo sul palco. Credo che si sentano i chilometri fatti insieme, si sentano anche le litigate, le cose belle accadute, i posti belli che abbiamo visto, le persone che abbiamo incontrato, le città che abbiamo visitato. Credo che si senta anche nella registrazione del disco perché sono cose che ti porti dietro e questo spirito è avvertibile anche sul palco».
Il tuo ultimo disco si intitola "La sirena del Po". Perché questo titolo?
«È uno sprone al campanilismo, un invito ad amare quello che si ha, la propria terra, al credere che una sirena può vivere anche nel fiume della tua città. È la differenza tra il credere in se stessi e il non crederci, l'essere speranzosi soprattutto in un momento dove non si parla d'altro che di crisi: bisogna crederci per saltarne fuori. È anche la differenza tra un sognatore e quelli che invece lo definiscono semplicemente un pazzo e a volte il pazzo è una persona speciali a cui bisognerebbe dare retta. Magari così facendo scopriremmo delle cose inaspettate. La sirena è un po' tutte queste cose».
Cosa rappresenta per te il fiume Po?
«Credo che un corso d'acqua sia importante per una città. Io ci tenevo a parlarne perché ho visto che da un po' di tempo nella mia città si è lasciato in disparte questo grande fiume. È importante anche a livello simbolico; l'acqua è una risorsa, significa vita, e non bisogna mai dimenticarlo. Credo che una città che abbia la fortuna di avere un corso d'acqua, un lago o il mare dovrebbe valorizzarlo e nel mio piccoli ci tenevo a farlo anche io».
Il 26 gennaio suonerete a Cairo Montenotte. Perché le persone dovrebbero venire al vostro concerto?
«Perché è il momento in cui ci incontriamo, possiamo stare insieme, è un momento in cui interagiamo, possiamo divertirci, riflettere su un po' di cose. Si parlerà di terra, di origini, di storie che in qualche modo toccano tante persone. E poi per raccontarci e per riscoprire che possiamo stare bene e trovare quella serenità senza bisogno di cose che costano tanto, che vanno comprate solo per sentirci bene con noi stessi».
Titolo: La sirena del Po
Artista: Daniele Ronda & Folklub
Etichetta: JM Production
Anno di pubblicazione: 2012
Tracce
(testi e musiche di Daniele Ronda)
01. La sirena del Po
02. Al Rolex
03. Fidati di me
04. La me pell
05. Al pleiboi
06. Si strappano le nuvole
07. Brassam fort
08. La birra e la musica
09. L'ävucat dal diävul
10. Il pendolare
11. Alternati
12. L'Irlanda
13. L'errore
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