Venticinque anni di carriera, un disco uscito da pochi giorni. Les Trois Tetons sono tornate sulla breccia dell'onda con "Red scares me", il loro quinto cd. Il quartetto savonese guidato dal frontman Roberto "Zac" Giacchello ha decisamente cambiato direzione dopo il convincente "Songs about Lou". Lasciata da parte la tentazione di proseguire con un secondo concept album, il gruppo ha registrato dieci nuove tracce, scritte anche questa volta a sei mani. Quattro brani sono nati dalla penna di Giorgio "Barbon" Somà, altrettanti da quella di Alberto Bella e due canzoni portano la firma di Zac. Davide Incorvaia, oltre all'indispensabile apporto dietro ai rullanti, ha contribuito realizzando la grafica del disco. Un album che musicalmente si discosta dal precedente anche per i colori e per la grande eterogeneità. In "Red scares me" il gruppo spazia dal folk al funky, dal rock al blues ma gli insegnamenti degli Stones e dei Led Zeppelin sono sempre lì, in bella vista. Le radici e gli ascolti giovanili non si possono cancellare e orgogliosamente Les Trois Tetons lo rimarcano. Il nuovo album è una bella raccolta di novità. Un tocco decisivo alle sonorità del disco lo ha dato il musicista e produttore americano Mark Harris, già collaboratore di Fabrizio De André ed Edoardo Bennato, tanto per citarne due, che si è preso a cuore il progetto e ha suonato in sei brani. Si passa con grande disinvoltura dagli echi dylaneggianti di "Anna Viola" in cui il violino di Fabio Biale tratteggia efficacemente una bella cornice, a "Ten Years" che gode di una apertura "spaziale" e in cui le sovrapposizioni di chitarre e voci sono parte fondamentale, a "Lord, let your creatures" che strizza l'occhio a Nick Cave. E poi ci sono echi etnici del saz turco e del bouzouki suonati da Lorenzo Piccone, e per la prima volta in un disco de Les Trois Tetons, ai cori in due brani, troviamo una voce femminile, quella di Serena Sartori. Il tutto è stato registrato tra marzo e ottobre 2017 dal fonico Alessandro Mazzitelli al MazziFactory a Toirano.
Con Roberto "Zac" Giacchello è diventata ormai una consuetudine parlare dei nuovi progetti de Les Trois Tetons e questa volta il tema della conversazione è "Red scares me", disco che ci farà compagnia per lungo tempo.
Con Roberto "Zac" Giacchello è diventata ormai una consuetudine parlare dei nuovi progetti de Les Trois Tetons e questa volta il tema della conversazione è "Red scares me", disco che ci farà compagnia per lungo tempo.
Sono passati tre anni dal vostro precedente disco. Cosa avete combinato in tutto questo tempo?
«Abbiamo portato in giro la nostra musica, abbiamo pensato alle nuove canzoni. Io mi sono avvicinato a nuovi strumenti, ho suonato un po' di più il pianoforte. Ho cambiato un po' il mio modo di scrivere».
Il tempo giusto per mettere insieme le canzoni del vostro quinto disco in carriera…
«I brani di "Red scares me" sono nati a distanza di tempo. C'è un pezzo che è stato scritto per l'album precedente ma che non era stato sviluppato. I brani sono sempre lì, sospesi. Poi essendo in tre a scrivere non sempre abbiamo gli stessi ritmi. Io, per esempio, avevo questi due pezzi che avevo scritto da un po' di tempo e mi è venuta voglia di registrarli senza che ci fosse un album in piedi. Una volta entrati in sala di registrazione sono venute fuori le canzoni di Barbon e Alberto ed è nato l'album».
Questa volta avete un ospite speciale: Mark Harris, tastierista, compositore e arrangiatore statunitense che ha collaborato con Fabrizio De André, Edoardo Bennato, Giorgio Gaber, Mia Martini, Enzo Jannacci, Renato Zero, Pino Daniele e tanti altri. Adesso anche con Les Trois Tetons…
«Un amico comune ha fatto sentire a Mark i nostri dischi, gli sono piaciuti e si è interessato a noi. Quando mi è stato raccontato questo episodio sono impallidito e mi sono detto, figurati se Harris avrà mai voglia di suonare con noi. Invece, una sera in cui eravamo di scena a Milano ci è venuto a sentire e lo abbiamo coinvolto. Ci siamo divertiti un sacco, è una persona molto estroversa, al servizio della musica. Da quella sera, tutte le volte che c'è stata occasione abbiamo suonato insieme. Quando è stato il momento di incidere il nuovo disco è venuto spontaneo cercare di coinvolgerlo ed è stato entusiasta dal primo momento».
Come sono proseguite le sessions in studio?
«Prima abbiamo mandato le canzoni a Mark. Ci ha lavorato, ha aggiunto le sue idee che ovviamente erano tutte fantastiche. Poi siamo andati a registrare da Alessandro Mazzitelli che ha tutta una serie di tastiere vintage nel suo studio. Harris si è calato a meraviglia nell'ambiente e per ogni pezzo ha cercato il suono adatto. È stato tutto molto divertente».
Qual è stato l'apporto di Mark Harris alle canzoni dell’album?
«Ogni brano ha una sua storia. C'è un pezzo come "All the way to Peking" in cui c'è molto spazio per il pianoforte e il contributo di Mark ha fatto cambiare marcia alla canzone. Altro brano a cui ha dato molto senso è "Wind of may" in cui c'è una parte pianistica molto bella. Poi su altri pezzi, magari già più completi, è rimasto più in disparte e ha creato qualche abbellimento più di sottofondo. Harris ha fatto come il sarto che veste una bella donna e la rende ancora più affascinante ma il discorso vale anche all'inverso. Harris farebbe diventare bella anche una ragazza così così, come potrebbero essere appunto le nostre canzoni».
Rispetto ai vostri dischi precedenti mi sembra che ci sia più varietà di generi. Mi sbaglio?
«Non ti sbagli, per la prima volta un nostro disco abbraccia più generi musicali. È un album molto vario, c'è del country, del folk ma anche del funky e un po' di blues che non può mancare. La presenza di Lorenzo Piccone, impegnato al saz turco e al bouzouki, ha dato anche un po' di sapore etnico al disco. Ma i Led Zeppelin e gli Stones sono sempre lì, quelle sono le nostre influenze».
Come già nel disco precedente avete mantenuto in copertina la divisione lato A e lato B. Perché questa scelta?
«In realtà volevamo fare il vinile, siamo in trattativa e magari questa volta ci riusciamo. A parte questo, siamo tutti abituati, fin da piccoli, ad ascoltare i dischi in vinile con un lato A e un lato B. Pensare alle due facciate aiuta inoltre a trovare un equilibrio nel disco. Si chiude il primo lato con un brano tranquillo e poi si riparte grintosi sul secondo».
Il precedente disco era una sorta di concept album. Questa volta non avete riproposto l'esperimento…
«Questa volta si tratta della classica raccolta di canzoni, non c'è un filo conduttore. Avevamo questi brani pronti e li abbiamo registrati. È un disco che è nato nella maniera più libera possibile».
Avete optato per testi molto essenziali…
«Personalmente volevo dare più spazio alla musica. Si sono allungati i pezzi ma i testi sono più asciutti e si limitano a trasmettere impressioni, fotografie, stati d'animo. "Wind of may", per esempio, è una canzone molto strutturata con vari cambi di ritmo, non è il classico brano strofa-ritornello, e racconta appunto di uno stato d'animo. "Lord, let your creatures" è nata da un sogno, sono immagini oniriche che ho messo insieme. Poi c'è un pezzo più tradizionale come "Anna Viola" che Barbon ha dedicato alla nipotina, dopo aver passato un pomeriggio a giocare con lei. È la fotografia di un momento».
Veniamo alla particolarità del testo di "All the way to Peking" che è in parte in cinese…
«È uno dei primi pezzi che ho scritto ed è anche la mia prima canzone su commissione. A suggerirmela è stata Luca Oddera, l'ex gestore del Beer Room a Pontinvrea che da un po' di tempo si è trasferito in Africa. Si scherzava e a un certo punto abbiamo fantasticato su un viaggio a Pechino a bordo di un vecchio maggiolone. Naturalmente avrebbero dovuto partecipare anche Freddy Krueger, uno dei personaggi più riusciti delle mitiche feste di Halloween del Beer Room, e il Capitano Kirk che in realtà è un cane. Mi sono messo lì e ho scritto questa canzone il cui testo, lo ammetto, è abbastanza demenziale. A tradurre e a leggere questo breve testo in cinese è stata Lisa Rizzo».
Per la prima volta, correggimi se sbaglio, a cantare c'è anche una voce femminile...
«Quando abbiamo inciso "Wind of may" l'idea era di puntare su un testo scarno da ripetere più volte. Poi ho pensato, visto che sono pochi versi ripetuti sarebbe bello alternarli con una voce femminile. Come capita spesso l'occasione propizia non bisogna andarla a cercare ma arriva da sola. E così una sera, come gruppo di supporto avevamo i Keyser Söze di Rossiglione, band molto valida la cui cantante è appunto Serena Sartori. Mi è piaciuto il suo timbro di voce e le ho chiesto se le faceva piacere registrare un pezzo con noi. Ha accettato e si è preparata la canzone, è venuta in studio, l'ha incisa e poi Barbon le ha proposto di cantare anche in "Shelter in love" e così ne ha fatte due. Così come è successo con Fabio Biale che avrebbe dovuto suonare in due brani e alla fine ne ha fatti sei. È il bello di quando si è nelle condizioni giuste e tutto viene spontaneo».
Quanto avete lavorato in post produzione alle canzoni del vostro nuovo disco?
«Tendiamo sempre a partire con la registrazione della nostra formazione in presa diretta. Basso, batteria e due chitarre tutte insieme, tutti nella stessa stanza in modo che il pezzo abbia il suo corpo e la sua botta. Questa è la nostra forza. Poi ovviamente si sovraincidono le voci, gli altri strumenti e gli ospiti».
A curare la grafica del disco è stato Davide Incorvaia che è anche il vostro batterista...
«Quando si ha la fortuna di avere in squadra un ottimo grafico perché non approfittarne? La copertina se l'è inventata in una notte e siamo molto soddisfatti del lavoro fatto. Non sapevamo che titolo dare a questo nuovo disco, poi è venuta fuori questa frase ‹il rosso mi spaventa› e ci è piaciuta. Può avere molti significati, potete provare a immaginare quello che più vi piace».
Quale canzone di quelle comprese nel disco, escluse naturalmente quelle firmate da te, ti sarebbe piaciuto scrivere?
«"Ten years" è un pezzo che mi piace molto. Già dalla demo aveva tutto il suo carattere, la sua struttura, la sua personalità. È una canzone molto riuscita quella scritta da Alberto. Tra quelle di Barbon dico "Anna Viola". Devo dire che mi ha fatto un effetto contrario rispetto a "Ten years". All'inizio non mi ha entusiasmato molto, è un pezzo molto semplice, diretto, senza tanti cambi ma una volta suonata mi è piaciuta sempre di più e adesso è forse uno dei pezzi che preferisco».
Guardando alla scena musicale savonese non trovi che sia un periodo molto fecondo? Tanti gruppi e artisti della provincia hanno pubblicato dischi interessanti in queste settimane...
«Mi colpisce che ci sia così tanta gente che ha ancora voglia di creare, è rassicurante. Ci sono tanti giovani, hanno idee chiare, capacità. C'è qualche punto di riferimento come la Raindogs House dove c'è una programmazione di livello nazionale ed è importante sia per chi suona che per gli appassionati. E trovo che sia quasi riduttivo chiamarla scena savonese perché c'è gente che suona in tutta Italia e ha molto da dire».
Titolo: Red scares me
Gruppo: Les Trois Tetons
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2017
Tracce
01. Lord, let your creatures [Roberto Giacchello]
02. Wind of may [Alberto Bella]
03. My stolen money [Giorgio Somà]
04. When you lie [Giorgio Somà]
05. Anna Viola [Giorgio Somà]
06 All the way to Peking [Roberto Giacchello]
07. Ten years [Alberto Bella]
08. Shelter in love [Giorgio Somà]
09. Everything seemed [Alberto Bella]
10. Madeleine [Alberto Bella]
Il disco si può ascoltare in streaming su Spotify
https://open.spotify.com/